VILLA DELLA REGINA A TORINO II PARTE

A cura di Francesco Surfaro

INTRODUZIONE PARTE SECONDA

Dopo aver delineato il contesto storico che ha visto l'edificazione di Villa della Regina e ricostruito le trasformazioni che essa ha subito nel corso dei secoli, in questo nuovo articolo si tratterà degli appartamenti reali e delle architetture del giardino interno rivolto verso la collina.

VILLA DELLA REGINA: L'APPARTAMENTO DEL RE

L'appartamento di Sua Maestà è suddiviso in stanze private affacciate verso la città e sale preposte all'intrattenimento che si aprono verso i giardini e la collina. A partire dal 1868, le sue favolose camere accolsero le allieve più diligenti dell'Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari e furono riconvertite in aule scolastiche.

In foto: Daniel Seiter, “Il Trionfo di Davide”, ultimo quinquennio del XVII secolo, olio su tela. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Così denominata per la presenza in antico di un tavolo da biliardo per la pratica di un gioco simile a quello delle boccette, il "trucco" per l'appunto, la Camera verso Levante detta "del Trucco" è la prima delle sale dell'appartamento regio che dà sulla collina. Al centro del soffitto campeggia un dipinto ad olio di forma ovale collocato entro una cornice in stucco bianco intitolato "Il Trionfo di Davide", opera del Primo Pittore di Sua Maestà Claudio Francesco Beaumont, riferita in passato a Daniel Seiter. La scena veterotestamentaria, costruita con un'ardita prospettiva da sottinsu e giocata sui toni drammatici del rosso, mostra il giovane Davide trionfante che, mentre viene acclamato dagli israeliti, ostenta con fierezza il suo macabro trofeo: la testa mozzata, ancora sanguinante, del gigante Golia. La scelta di questo tema è verosimilmente tutt'altro che casuale: vi si può leggere una neanche tanto velata celebrazione encomiastica di Vittorio Amedeo II il quale, nel 1706, dopo aver respinto le truppe franco-spagnole che avevano assediato Torino per centodiciassette giorni, assunse il titolo regio nel 1713 con la firma del Trattato di Utrecht. Il sovrano, secondo le interpretazioni formulate dagli studiosi, verrebbe qui paragonato al patriarca biblico, divenuto re d'Israele dopo aver sconfitto il temuto comandante dell'esercito filisteo.

In foto: Interno della Camera del Trucco - All'estrema sinistra: Étienne Allegrain (attribuito a), Veduta del Castello di Saint-Cloud, 1675-77, olio su tela. A destra: Paolo Emilio Morgari: “Ritratto di Sua Maestà Vittorio Emanuele II di Savoia, re d'Italia”, 1874, olio su tela. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Sulla parete ovest è collocata una tela ad olio di grandi dimensioni raffigurante una veduta del Castello di Saint-Cloud, residenza non lontana da Parigi dove la regina Anna Maria di Borbone-Orléans, figlia del Duca d'Orléans e nipote di Luigi XIV, era nata e cresciuta. Attribuita ad Étienne Allegrain e databile tra il 1675 e il 1677, è una replica desunta da un originale custodito a Versailles che, con molta probabilità, era parte del corredo matrimoniale della prima monarca sabauda, come dimostrato dalla rappresentazione di un corteo nuziale in primo piano assente nel prototipo. La parete est ospita i ritratti di Maurizio di Savoia, della già citata Anna Maria d'Orléans e di Vittorio Amedeo III. Sulle pareti nord e sud sono appesi, uno difronte all'altro, due quadri del 1874 di Paolo Emilio Morgari, ritraenti Vittorio
Emanuele II, primo re d'Italia, che reca in mano l'atto di cessione di Villa della Regina all'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari, e la sua consorte scomparsa anzitempo, Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena. Della mano di Giovanni Battista Crosato sono le sovrapporte e le soprafinestre decorate con scene tratte dalle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone, due delle quali sono state oggetto di furto nel 1979. Risalgono agli interventi juvarriani le consolles e le specchiere in stile rocaille, dorate a foglia ed ornate con girali di foglie d'acanto e chinoiserie.

La Regina Adelaide, Villa della Regina

ANTICAMERA VERSO LEVANTE

In foto: Anticamera verso Levante – interno.

L'Anticamera verso Levante, adibita nel Settecento a sala giochi, custodisce una nutrita raccolta di ritratti familiari e tre nature morte floreali di ambito fiammingo. Tra le personalità sabaude effigiate è possibile riconoscere Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, seconda moglie di Carlo Emanuele III, Vittorio Amedeo III e Maria Clotilde di Borbone-Francia, sposa di Carlo Emanuele IV e sorella di Luigi XVI. Primeggia fra tutti per le sue imponenti dimensioni il ritratto di Umberto I, realizzato da Costantino Sereno nel 1878. Si segnala in questa sala la presenza di una targa bronzea commemorativa, su cui è inciso il bollettino militare con cui il generale italiano Armando Diaz annunciò, nel 1918, il termine della Grande Guerra. Un tempo, al centro della volta ornata con stucchi di maestranze luganesi, era collocato un olio su tela di argomento biblico realizzato da Claudio Francesco Beaumont, "Il Sacrificio di Jefte", che oggi risulta disperso. Uniche superstiti dei trafugamenti del 1979, durante i quali furono portate via tutte le sovrapporte di questo ambiente, sono le due soprafinestre di Giovanni Battista Crosato raffiguranti burle e giochi di putti.

GABINETTO VERSO LEVANTE "ALLA CHINA"

L'inventario del 1755 descrive questo raffinatissimo cabinet come interamente rivestito da tappezzerie in taffetas chiné à la branche, tacendo sulla presenza della pregevole boiserie impreziosita da pannelli simulanti carte cinesi, realizzata - forse non per questo ambiente - da Pietro Massa in collaborazione con la sua bottega tra 1732 e 1735. Nel 1868 la boiserie venne smontata dalla sede per cui era stata concepita nei progetti juvarriani e messa in deposito al Castello di Moncalieri. Nel 1888 i vari pannelli furono inviati al Quirinale ed installati nell'appartamento destinato ad ospitare il kaiser Guglielmo II. Il soffitto presenta motivi ispirati alle porcellane cinesi e la pavimentazione si compone di pregiate tarsie lignee. L'originale rivestimento con papiers-peint delle pareti è oggi riproposto grazie a sottili teli ignifughi in garza stampata.

BIBLIOTECA DEL PIFFETTI

In foto: Pietro Piffetti, Biblioteca, 1735-40, legno di pioppo con intarsi in palissandro, ulivo, bosso, tasso, avorio, tartaruga e inserì in foglia d'oro. Roma, Palazzo del Quirinale – Presidenza della Repubblica Italiana (già a Villa della Regina). Copyright fotografico: Archivio della Presidenza della Repubblica Italiana.

Ultima stanza rivolta verso la collina, nel XVIII secolo la biblioteca detta "del Piffetti" era, a dispetto delle sue esigue dimensioni, una delle sale più sfarzose di tutto l'appartamento di Sua Maestà. Risalente agli anni 1735-40, questo fulgido esempio di ebanistica rococò venne trasferito, nel 1879, alla Presidenza del Quirinale - dove si trova tutt'oggi - per ornare una delle camere dell'appartamento della regina Margherita di Savoia, moglie di Umberto I. L'autore di questo prezioso ambiente fu Pietro Piffetti, "ebanista del re e re degli ebanisti" attivo alla corte sabauda dal 1731 all'anno della sua morte, avvenuta nel 1777. La biblioteca presenta un corpo in legno di pioppo con alta zoccolatura e scansie per contenere i libri, rivestito nella sua interezza in palissandro, ulivo, bosso e tasso. La struttura è arricchita da elaborati intarsi in avorio. Le scaffalature sono coronate da otto vasi in maiolica all'orientale e da quattro sculture lignee dorate a foglia raffiguranti le quattro stagioni. Accompagnano l'arredo fisso due piccole consolles foderate in testuggine con tarsie eburnee a trompe-l'oeil simulanti fogli e stampe. Sopra uno di questi fogli d'avorio Piffetti volle apporre la propria firma. In origine, erano parte dell'arredo anche sei sgabelli e due sputacchiere alla cinese. In loco sono rimasti soltanto lo splendido pavimento ligneo piffettiano con decorazioni floreali e gli affreschi sommitali. Sulla volta, sono riferibili a Giovanni Francesco Fariano (attivo anche a Rivoli e a Stupinigi) le grottesche blu e oro su fondo bianco avorio che emulano i motivi delle porcellane cinesi, riprese dal Piffetti sullo zoccolo della libreria e sulla fascia di raccordo fra gli scaffali e il soffitto. Il medaglione centrale vede come protagonista Atena-Minerva, dea della Sapienza nel pantheon greco-romano, colta nell'atto di scacciare i Giganti dall'Olimpo, allegoria facilmente interpretabile come il trionfo della cultura sulla violenza e sull'istinto bruto. Il capolavoro dell'ebanista torinese è rievocato sulle nude pareti della saletta grazie ad una scenografica ricostruzione virtuale voluta dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.

CAMERA DA LETTO

In foto: Camera da letto di Sua Maestà – interno. Fonte: consultaditorino.it

In affaccio sulla città, la camera da letto del re di Villa della Regina si distingue da tutte le altre sale per il suo strepitoso apparato decorativo realizzato in più fasi. Sul soffitto, la grande tela da plafond (1718-1719), posizionata al centro di un'elaborata cornice in stucco di maestranze luganesi, è opera di Claudio Francesco Beaumont ma, fino a tempi recenti, è stata impropriamente attribuita a Daniel Seiter. In essa il protagonista è Apollo che, alla guida del carro solare trainato da due cavalli bianchi, solca la volta celeste introdotto da Aurora, raffigurata mentre sparge delle rose aiutata da un putto in volo (allusione erudita al celebre verso formulare omerico "ῥοδοδάκτυλος Ἠώς", ossia "Aurora (Eos) dita di rosa"). Nella sezione inferiore, in primo piano, si trova - accanto a figure dormienti - un simpatico puttino sorpreso nell'atto di sbadigliare. Secondo uno schema molto caro ai monarchi europei, in questa composizione pittorica Vittorio Amedeo II viene accostato ad Apollo, divinità inscindibilmente legata al disco solare. Nella concezione assolutistica dell'Ancien Régime, infatti, il sovrano - al pari del Sole con i pianeti - veniva considerato il centro nevralgico dello Stato attorno a cui ruotano tutti i poteri, siano essi legislativo, esecutivo o giudiziario.

In foto: Volta della Camera da letto di Sua Maestà, pitture murali di Daniel Seiter e Claudio Francesco Beaumont, stucchi e dorature di maestranze luganesi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Le quattro specchiature laterali, dipinte ad olio sull'intonaco secco, ospitano le rappresentazioni allegoriche delle Stagioni sia dell'anno solare che della vita umana, dovute anch'esse al Beaumont, e le figure di Bacco, Cerere e dell'Allegoria dei Venti eseguite, tra 1694 e 1695, da Daniel Seiter nell'ambito di una precedente impresa pittorica. Agli angoli, entro quattro scudi dorati sostenuti da putti in candido stucco, vi sono le personificazioni delle quattro Virtù Cardinali con i rispettivi attributi iconografici: la Fortezza abbracciata ad una colonna, la Giustizia appoggiata ad una spada, la Prudenza che si guarda allo specchio e la Temperanza intenta a versare dell'acqua in un bacile.

Le soprafinestre e le sovrapporte (queste ultime sono presenti solo in copia fotografica dal momento che, nel tardo Ottocento, le originali furono installate al Quirinale), attribuibili a Corrado Giaquinto o alla sua scuola e databili attorno al 1735, raffigurano con rara grazia le vicende del pius Enea, rese celebri presso la corte torinese dal dramma di Pietro Metastasio intitolato "Didone Abbandonata", accolto con grande successo e replicato per ben quattro volte al Teatro Regio nel 1727. A ridosso della parete, dove ora è presente il ritratto giovanile di una pensosa regina Margherita di Savoia fasciata da un abito rosa, realizzato da Luigi Biagi nel 1879, era collocato, con ogni probabilità, il letto a baldacchino. La stanza presenta attualmente un rivestimento in taffetas chiné à la branche che differisce da quello descritto nell'inventario del 1755. L'originaria tappezzeria in seta bianca bordata di verde presentava dei paesaggi cinesi idealizzati con palmizi, sinuosi corsi d'acqua solcati da imbarcazioni in giunco e padiglioni popolati da personaggi indaffarati nelle proprie attività quotidiane.

GABINETTO DEL RE VERSO MEZZANOTTE E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto del Re verso Mezzanotte e Ponente – interno. Copyright: Beppe - vbs50.com

Tutti gli inventari settecenteschi non riportano alcuna informazione riguardante gli ornamenti parietali di questo splendido salottino privato. La prima menzione della boiserie, evidentemente non destinata in origine a tale ambiente, risale al 1812, anno in cui all'interno della villa venne fatta una ricognizione e stilato un catalogo dei vari complementi d'arredo mobile e fisso. Sia in questa data che nel 1845 furono qui censite tre consolles oggi mancanti, descritte come «finemente intagliate e dorate col piano superiore dipinto alla Chinese a colori diversi avente caduna di esse un piccolo tiratojo con serratura e chiave (...) e medaglioni al centro». Il rivestimento ligneo della parete, che porta le iniziali di Pietro Massa, è composto da otto pannelli a fondo giallo inseriti all'interno di montanti bianco avorio con ramages blu e da tre specchiere. Il tutto è impreziosito con delicate cornici dorate. I vari riquadri sono arricchiti da rilievi variopinti raffiguranti soggetti molto cari alla produzione artistica cinese, quali paesaggi idealizzati con abitazioni, alberi, animali esotici, uccelli e cortei di improbabili figure orientali dai fantasiosi abiti multicolore. Sullo zoccolo sono dipinte diverse specie di volatili acquatici e fiori esotici. I motivi della boiserie sono puntualmente riproposti negli stucchi sulla volta, riferiti negli inventari ottocenteschi ad un tale Pierre Wartz ed attualmente attribuiti al maestro luganese Giovanni Maria Andreoli.

In foto: particolare della boiserie di Pietro Massa e bottega. Copyright: Beppe - vbs50.com

IL GUARDAROBA

Il guardaroba del re è un ambiente di servizio dalle dimensioni piuttosto esigue attiguo al gabinetto cinese. Custodisce degli armadi in legno di noce impiallacciato con radica di olmo, destinati a contenere gli abiti del sovrano. A causa di infiltrazioni d'acqua gli affreschi a "grotteschi" che decoravano la volta sono completamente andati perduti.

ANTICAMERA VERSO PONENTE

Gli inventari stilati nel XVIII secolo attestano sulle pareti di questa anticamera, prima stanza a sinistra rispetto al Salone d’Onore, la presenza di oltre ottanta dipinti tra scene di genere, nature morte, ritratti, tele storiche e mitologiche, oggi quasi totalmente perduti. Fino al 1943 sulla volta, ornata da cornici in stucco bianco su fondo azzurro dell'atelier di Pietro Somasso, campeggiava una tela da plafond raffigurante Diana ed Endimione, andata distrutta nel corso dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale. Si ammirano tuttora in loco le sovrapporte di ambito del Giaquinto, apprezzabili per il modellato delle figure associato ad una ricca varietà di vibranti cromie; e la pregevole tappezzeria settecentesca in taffetas chiné à la branche di manifattura francese.

VILLA DELLA REGINA: L'APPARTAMENTO DELLA REGINA

Speculare a quello regio, l'appartamento di Sua Maestà la Regina è diviso in camere private affacciate su Torino e stanze rivolte verso la collina dedicate a momenti di intrattenimento e convivialità. Le sue sale, trasformate – come quelle dell'appartamento del re - nella seconda metà dell'Ottocento in aule scolastiche o in ambienti al servizio della direttrice dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, furono quelle che sortirono maggiormente i devastanti effetti dei bombardamenti aerei del Secondo Conflitto Mondiale.

In foto: Anticamera verso Ponente – interno. Copyright: Beppe - vbs50.com

L'assetto ornamentale dell'Anticamera verso Ponente fu realizzato in più fasi e per diversi committenti. Risalgono al primo ciclo di lavori voluti, tra 1694 e 1698, da Anna Maria di Borbone-Orléans le variopinte grottesche “alla Bérain” con inserti dorati del soffitto, riprese negli anni ’30 del Settecento da Minei o, più probabilmente, da Giovanni Francesco Fariano, e la tela centrale di Daniel Seiter, sulla quale è effigiato un tema allegorico molto caro ai sovrani assoluti d'Europa: “Il Tempo e la Fama”. Sono frutto dei progetti juvarriani per Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg la zoccolatura lignea, il copricamino, le specchiere con le cornici intagliate e dorate in stile rocaille e le sovrapporte ovali di Giovanni Domenico Gambone rappresentanti fantasiose rovine architettoniche. Infine, sono di epoca napoleonica le pitture parietali con «arabesques, et figures uniformes à la peinture de la voute y existante sur le gout d'Erculan, et chinois», eseguite a tempera sull'intonaco secco dal pittore genovese Carlo Pagani nell'agosto del 1811. Così come nell'omonima stanza dell'appartamento del re, anche in questa anticamera nel Settecento risultavano censiti alle pareti oltre ottanta dipinti di vario soggetto e formato, ora mancanti.

In foto: Daniel Seiter, “Il Tempo e la Fama”, ultimo quinquennio del secolo XVII secolo, olio su tela. Copyright: Beppe - vbs50.com

CAMERA DA LETTO

In foto: Camera da letto della regina – interni. Copyright: Beppe - vbs50.com

Nel corso del bombardamento alleato che funestò quest’area del piano nobile l'8 agosto del 1943, andò distrutta la quasi totalità degli arredi mobili e fissi posti all'interno della camera da letto della regina. Originariamente la volta era dominata da un grande affresco di Corrado Giaquinto, “il Trionfo degli dei”, dipinto tra 1736 e 1737; e alle pareti era posizionata una tappezzeria di manifattura francese in seta blu con ramages e motivi floreali. Buona parte dell'arredamento fisso progettato da Juvarra negli anni '30 del XVIII secolo è oggi riproposto da copie degli anni '50 del Novecento, che si distinguono dai complementi originali superstiti per l'assenza di dorature. Quando la villa ospitava la sezione umanistica per le alunne meritevoli dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, la stanza fu adibita ad aula di musica, come testimoniato dalla presenza del pianoforte verticale tardo-ottocentesco.

In foto: Camera da letto della regina – interni. A destra: pianoforte verticale della fine del XIX secolo. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

GABINETTO VERSO MEZZOGIORNO E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China” – interno con boiserie e specchiera.

Differente per il suo arredamento fisso dagli altri cabinet “alla China” presenti alla villa, il Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente presenta una bassa zoccolatura con scene di genere orientaleggianti e porte con medaglione centrale istoriato sul modello degli acquerelli cinesi, eseguite dall’atelier di Pietro Massa su progetto di Filippo Juvarra e Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano nel terzo decennio del Settecento. Agli angoli, tra le porte e nelle sovrapporte, sono inseriti, entro elaborate cornici lignee dorate a foglia con i monogrammi di Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, degli specchi di varie forme e dimensioni. Inquadrato da un fregio in stucco dorato a volute e ghirlande, il soffitto è caratterizzato da lacerti di pitture a fresco - risultanti perdute in gran parte già dagli anni '30 del XX secolo - con grottesche, ornati vegetali, uccelli, scimmie e figure maschili in foggia orientale, che rispondono allo stile di Filippo Minei. Del raffinato mobilio (tavolini, sgabelli e una consolle in stile rocaille) e delle preziose suppellettili (porcellane cinesi, argenteria e servizi da tè, caffè e cioccolata) storicamente documentati in questo salottino privato di gusto spiccatamente esotico, rimane soltanto un piccolo doppio corpo ligneo in “lacca povera”, ornato ad imitazione delle costose lacche orientali con una tecnica non dissimile dal découpage. Le bombe sganciate su quest’ala della villa nel 1942 non diedero alcuno scampo al rivestimento parietale settecentesco in taffetà, che rimase carbonizzato. Quest'ultimo è attualmente riproposto in copia.

IL GUARDAROBA

Gli inventari redatti nel Settecento documentano all'interno del guardaroba della regina due armadiate in radica di olmo con tarsie in noce, dietro le quali erano celati – fra le altre cose – una “cadrega di servizio” e un montavivande che consentiva di trasportare le pietanze dalle cucine al piano nobile. “Botti” in maiolica con decori blu e bianchi in armonia con i variopinti arabeschi sulla volta impreziositi da venature dorate fungevano da coronamento per i mobili. In un vano nascosto dietro le ante di un armadio sono ancora visibili le tracce dell'impianto idraulico realizzato per trasformare questo luogo nella toilette della direttrice dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari.

ANTICAMERA VERSO LEVANTE

In foto: Anticamera verso Levante – interni. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Ripetutamente danneggiata fino alla quasi totale distruzione durante le incursioni aeree avvenute tra l'8 e il 9 dicembre del 1942 e l'8 agosto del 1943, l’Anticamera verso Levante è – per come possiamo ammirarla oggi – quasi interamente frutto del ripristino architettonico del secondo dopoguerra posto in essere nel 1952. Anticamente, prima che nella seconda metà del XIX secolo fosse trasferita al Quirinale nel Salone d'Onore dell’Appartamento Imperiale, era possibile ammirare al centro del soffitto una tela di un anonimo pittore di scuola bolognese del Seicento raffigurante Re Salomone che riceve la Regina di Saba. Sia le pareti che le superfici concave della volta erano state completamente affrescate probabilmente da Filippo Minei in stile pompeiano con colori vivaci impreziositi da tocchi di foglia d'oro. Un documento datato luglio 1811 attesta che il pittore Giovanni Battista Pozzo fu pagato 1200 franchi dal governo francese per aver ridecorato «les murs [...] en figures, animaux, fleurs, et autres ornemens sur le gout de Raphael uniformes a la peinture de la Voute y existante». I dipinti novecenteschi che attualmente decorano la sala, compiuti imitando in maniera fedele gli originali, si devono a Francesco Chiapasco. La sovrapporta in carta dipinta a fiori e uccelli attribuita a Francesco Rebaudengo, unica superstite di una serie che fu oggetto di furto nel 1979, costituisce una preziosa testimonianza della fase tardo-settecentesca di Villa della Regina, quando era la dimora settembrina di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna. Le poltrone, le sedie e il divano in stile Impero furono realizzate appositamente per questo palazzo dall'ebanista Francesco Bolgi nel 1812. L'inventario del 1755 attesta in questa stanza la presenza di ben 43 ritratti di esponenti delle famiglie Savoia, Borbone-Francia, Asburgo-Lorena, Stuart e Assia-Rheinfels-Rotenburg.

GABINETTO VERSO LEVANTE DETTO "DELLE VENTAGLYNE"

In foto: Volta del Gabinetto delle Ventaglyne. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Passaggio obbligato fra l'Anticamera verso Levante affacciata sul giardino e il Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China”, il Gabinetto detto “delle Ventaglyne” deve il suo nome all'antica presenza di una ricca collezione di preziosi ventagli in carta dipinta montati sui tavolati della boiserie e inquadrati da cornici intagliate e dorate secondo un preciso progetto ornamentale, ancora intuibile grazie alle impronte dei riquadri rinvenute sulle pareti nel corso dei restauri. Alle sopracitate “ventaglyne”, si alternavano 26 piccole effigi di personalità di stirpe regale legate ai Savoia da vincoli di parentela. La volta, rifatta in gesso nella sua parte plastica e ridipinta ad olio nel 1952, riproduce fedelmente gli articolati partiti in stucco dorato e avorio nonché i fortunati motivi bianchi e blu “a graticcio” che circondano padiglioni abitati da figurine prese in prestito dai repertori della grottesca e della commedia dell'arte; presenti nell’originario progetto realizzato sotto la regia juvarriana. Mancante è il tondo centrale con “Amore che suona la cetra”.

In foto: Gabinetto delle Ventaglyne – interni. Fonte: rocaille.it

GABINETTO VERSO MEZZOGIORNO E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China” – interni.

Tra gli ambienti più raffinati e fastosi dell'appartamento della regina, se non addirittura dell'intera villa, questo gabinetto cinese è lo strepitoso risultato di un progetto unitario per la boiserie e la volta, disegnato probabilmente da Baroni di Tavigliano (anche se non si possono escludere degli accorgimenti apportati da Juvarra) ed eseguito materialmente da Pietro Massa e dai suoi collaboratori tra 1733 e 1736. All'interno di un'articolata struttura in legno di pioppo massello a fondo nero, ornata da decori policromi ad olio con vasi di fiori, fenici e figure in vesti esotiche, sono inserite delle tavolette a fondo rosso e arancio in materiali preziosi (argento, ottone, stagno, legno di melo) di varia natura e provenienza lavorati con tecniche differenti, che mostrano motivi floreali, paesaggi fluviali puntellati di casette e popolati da pescatori indaffarati in attività ittiche o in ozioso colloquio, uccelli, personaggi stanti o seduti comodamente su cuscini con ventagli e aquiloni. Fra queste numerose figurine all'orientale una, posizionata sulla parete sud, mostra una ventaglina ricamata con le iniziali “PM”, interpretabili come uno sfraghís di Pietro Massa. Arricchiscono ulteriormente la boiserie tre grandi specchiere. Agli angoli sono collocate, al di sopra di mensole, quattro figure femminili chiné con teste e mani separabili dal corpo rivestito con un lungo abito pieghettato, scolpite in scagliola da maestranze piemontesi del XVIII secolo e dipinte in modo tale da riprodurre perfettamente la lucentezza della porcellana cinese. L'effetto ottenuto è tanto credibile che nell'inventario del 1755, dove vengono definite «grosse pagode bianche con berretta negra in capo», le si considera realmente in porcellana. Sotto queste curiose statue trovano posto quattro piccole consolles angolari terminanti a zoccolo di capra. Il repertorio iconografico delle specchiature a fondo rosso sulle pareti è ripreso pari pari nelle variopinte pitture del soffitto. Il grave furto che si registrò alla villa nel 1979 fu la causa della perdita di alcune preziose tavolette rosse e nere.

IL GIARDINO VERSO LA COLLINA E IL TEATRO D'ACQUE

In foto: Il Teatro d'Acque. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

La creazione dello scenografico impianto del Teatro d'Acque comportò laboriose e costanti operazioni di sbancamento, rimodellazione e contenimento della bassa collina su cui sorge la villa, protrattesi per buona parte del Seicento e per tutto il Settecento. Sul retro del palazzo, uscendo dal Salone d'Onore, si estende un giardino ad anfiteatro impostato su tre livelli scanditi da filari di siepi di bosso e coronato dal Bosco dei Camillini. Il primo livello è costituito dal Cortile d'Onore in forma di esedra, caratterizzato al centro da una piccola vasca marmorea quadrilobata animata da piccolo gioco d'acqua e delimitato da due pareti concave segnate da una successione di 20 nicchie con piedistalli ora orfani, ora sovrastati da sculture. Per mezzo di una scalinata introdotta da due obelischi laterali, una volta superato il Giardino dei Fiori - collegato alla villa tramite terrazze con sottarchi - si raggiunge un’ulteriore vasca di dimensioni maggiori in confronto a quella precedentemente descritta, collocata in posizione frontale rispetto alla Grotta del Re Selvaggio.

Grotta del Re Selvaggio — particolare della nicchia centrale. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Questa finta spelonca - che deve la sua denominazione alla singolare scultura posta entro la nicchia centrale - altro non è che un parallelepipedo marmoreo tripartito, rivestito all'interno da specchiature e rilievi musivi in ciottoli di fiume, conchiglie e mursi. Salendo al livello successivo, tre terrazze emicicliche concentriche delineano il profilo del Giardino en forme de théâtre, cuore pulsante del Teatro d’Acque. In mezzo ad esso scorre la Cascatella della Naiade, una cascata a dodici gradoni paralleli in pietra dominata da un gruppo scultoreo in marmo raffigurante una naiade (ninfa d’acqua dolce) e un fauno distesi.

Cinta lateralmente da una scala a tenaglia che conduce al punto più alto della villa, la Vasca del Mascherone alimenta, grazie alle acque di una sorgente che sgorga dalla collina, tutte le fontane e i giochi d'acqua sottostanti con l'ausilio di un complesso sistema di canalizzazioni. Il Belvedere superiore juvarriano, quinta scenografica e culmine dell'intero complesso, presenta una facciata curvilinea definita da un'elegante bicromia giocata sul contrasto tra il grigio tenue della finitura degli intonaci e il colore naturale dei rustici bugnati in pietra calcarea. Nella fascia inferiore si aprono tre nicchie abitate da statue in marmo bianco dovute allo scalpello del regio scultore Giovanni Battista Bernero. All'estrema sinistra e all'estrema destra trovano posto aperture ovali foderate in murso nobilitate dalla presenza di mezzibusti. Sul fastigio, coronato da balaustre scandite da urne, troneggia lo stemma di Anna Maria di Borbone-Orléans.

IL PADIGLIONE DEI SOLINGHI

In asse con il corpo centrale della dimora, alla destra del giardino per chi guarda la collina e in posizione laterale rispetto al Teatro d'Acque sorge il Padiglione dei Solinghi, un edificio alto e stretto ripartito in due livelli architettonici, frutto dei disegni di Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano. Nella sezione inferiore è situata una terrazza semicircolare concava decorata da balaustre in marmo all'apice, specchiature in murso e una grande nicchia centrale contenente una scultura marmorea del dio Bacco attribuibile al Bernero. Percorrendo una scalinata laterale affiancata da un fondale leggermente curvo rivestito in pietra calcarea si raggiunge il secondo livello, un costruito a due piani i cui prospetti principale e laterali ripropongono il gioco cromatico a fasce orizzontali visibile nelle testate del Belvedere. Fungono da inusuali capitelli per le lesene laterali due mascheroni, ricostruiti nel 1836 ad opera di Giuseppe Corsaro. All'interno del padiglione – detto “dei Solinghi” in memoria dell'accademia di dotti fondata dal Cardinal Maurizio di Savoia, primo possessore del compendio, nel Seicento – il frammentario impianto idraulico, vittima delle pesanti manomissioni postume subite dal fabbricato, suggerisce la presenza di giochi d'acqua interni di cui, attualmente, rimane solo una conchiglia bivalve in stucco inserita nell'elaborato repertorio ornamentale musivo della nicchia centrale, articolato in tre ripartizioni separate da cornici ad ovuli, nastri intrecciati e lacunari con fiori molto aggettanti.

In foto: Il Padiglione dei Solinghi – esterno. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

LA ROTONDA

In foto: La Rotonda vista dal Cortile d'Onore in forma di esedra.

Agli antipodi del Padiglione dei Solinghi (di cui peraltro riprende le fattezze), la Rotonda è figlia di un progetto rimasto incompiuto difficile da ricondurre ad una piena autografia juvarriana. Questa terrazza offre un punto di vista privilegiato sulla città di Torino e sulle aree produttive dell'area DOC del Freisa di Chieri.

 

Bibliografia:
Paolo Coneglia, Andrea Merlotti, Costanza Roggero: Filippo Juvarra, architetto dei Savoia, architetto in Europa. Vol.1, Roma, Campisano Editore, 2014.
Cristina Mossetti: Villa della Regina, Torino, Allemandi, 2007.
Lucia Caterina, Villa della Regina: il riflesso dell'Oriente nel Piemonte del Settecento, Torino, Allemandi, 2005.
Cristina Mossetti, Paola Manchinu, Maria Carla Visconti: Juvarra a Villa della Regina, Roma, Campisano Editore, 2014.

Sitografia:
http://www.cultorweb.com/VR/VilladellaRegina.html
https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-grottesche-con-figure-uccelli-e-architetture-pozzo-giovanni-battista-notizie-dal-1811-01-00206489/316489
https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-ritratto-di-cristina-polissena-d-assia-rheinfels--01-00197787/316739
https://www.academia.edu/42720796/Juvarra_a_Villa_della_Regina
http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_28007
http://www.amicidivilladellaregina.com/la-villa/
http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_28008
http://palazzo.quirinale.it/luoghi/pdf/it/piffetti.pdf


VILLA DELLA REGINA A TORINO

A cura di Francesco Surfaro
Veduta dall'alto di Villa della Regina. Copyright fotografico: Stefano Geraci - Torino Storia.

Arroccata sulla collina torinese, alle spalle della Gran Madre di Dio, Villa della Regina è il degno fondale scenografico della città subalpina. Questa incantevole maison de plaisance fa parte della "Corona di delizie", un sistema di dimore extraurbane preposte al loisir della corte, fatte erigere dai Savoia attorno alla capitale secondo una peculiare disposizione "a raggiera". Dal 1997, assieme a tutte le altre Residenze Reali Sabaude, è Patrimonio dell'Umanità tutelato dall'UNESCO. Villa della Regina sarà oggetto di un doppio elaborato: nel seguente articolo, il primo dei due, si porrà l'attenzione sul contesto storico che ha visto l'edificazione della dimora e le trasformazioni che essa ha subito nel corso del tempo.

Il contesto storico: "principisti" e "madamisti"

Philibert Torret detto "Narciso", Ritratto di Maria Cristina di Borbone-Francia in abiti vedovili (particolare), 1638-1640, olio su tela. Collezione Intesa Sanpaolo.

In piena Guerra dei Trent'anni, mentre stava conducendo al fianco dei francesi una campagna militare contro la Lombardia spagnola, il duca Vittorio Amedeo I di Savoia morì inaspettatamente nell'ottobre del 1637, dopo soli sette anni di governo, stroncato forse da febbri malariche. Dietro di sé lasciava due eredi maschi ancora infanti, Francesco Giacinto di cinque anni e Carlo Emanuele di tre. A Torino, nei giorni immediatamente successivi al tragico evento, il Senato di Piemonte dichiarò la vedova Maria Cristina di Borbone-Francia tutrice legittima di Francesco Giacinto (prematuramente scomparso l'anno successivo) e reggente. L'assunzione della reggenza da parte della Madama Reale fu subito contestata dai due fratelli del duca estinto, il cardinale Maurizio e il Principe di Carignano Tommaso, ambedue filo-spagnoli e ostili alla cognata che, in quanto sorella del re Luigi XIII, era ovviamente filo.francese. Già messo a dura prova dalla Guerra di Monferrato e dalla violenta epidemia di peste del 1630-31, il Ducato di Savoia veniva ora travolto da una guerra civile dove si fronteggiavano da una parte i "principisti", avversi alla Francia e sostenitori dei due principi, e dall'altra i "madamisti", animati da un sentimento anti-spagnolo e leali nei confronti della duchessa madre. Alle lotte intestine si sommavano i sotterfugi del cardinale Richelieu che, approfittando del momento di grave instabilità politica, era intenzionato a ridurre le autonomie del Piemonte e della Savoia e a trasformarne i territori in province francesi. Appoggiati dal popolo e dall'élite piemontese, Maurizio e Tommaso registrarono un iniziale vantaggio grazie anche all'appoggio militare della Spagna. Se il primo sottomise Nizza e diverse località del Piemonte meridionale senza troppi sforzi, il secondo assediò la capitale il 27 agosto del 1639, costringendo alla fuga la Madama Reale e il piccolo Carlo Emanuele, portato in salvo presso il forte di Montmélian. Cristina si ritirò in Savoia, mentre Richelieu, dopo varie negoziazioni, riuscì a strappare al generale spagnolo don Diego Mexía Felipez de Guzmán, Governatore del Ducato di Milano, una tregua d'armi stipulata il 14 agosto 1639, rivelatasi in seguito fatale per i principi. A tregua finita l'esercito francese, mirabilmente guidato dal conte d'Harcourt, liberò Casale e Torino mettendo alle strette Tommaso, il quale si vide obbligato a ritirarsi ad Ivrea. Maurizio si barricò a Cuneo ma, dopo aver resistito strenuamente, fu costretto anch'egli alla resa. Ormai abbandonati al proprio destino dagli alleati spagnoli, i principi bon gré mal gré  (volenti o nolenti ) dovettero prendere parte alle trattative di pace col cardinale Mazzarino. Finalmente, il 14 giugno del 1642 venne siglato l'accordo definitivo, in base al quale Madama Cristina sarebbe stata riconfermata tutrice e reggente, a Tommaso sarebbe stata accordata la luogotenenza generale di Ivrea e Biella, mentre il quarantanovenne Maurizio, lasciata la porpora cardinalizia e ricevuto l'imprimatur da Urbano VIII per le nozze consanguinee, avrebbe sposato la nipote di tredici anni Ludovica, nonché ottenuto la luogotenenza di Nizza. Entrambi i fratelli avrebbero fatto parte del consiglio di reggenza.

Anonimo pittore di ambito piemontese, Ritratto del Principe-Cardinale Maurizio di Savoia, 1642-60, olio su tela. Torino, Villa della Regina. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Il matrimonio tra Maurizio e Ludovica fu celebrato per procura nell'agosto del 1642. Con esso potevano dirsi nullificata ogni pretesa sulla corona ducale, in quanto i diritti di successione si univano nei coniugi. Abbandonata definitivamente la politica, l'ormai ex cardinale si ritirò a vita privata presso la sontuosa villa che, in precedenza, si era fatto costruire sulla collina torinese. Lì trascorse i restanti anni della sua esistenza dedito all'otium letterario.

Da Vigna del Cardinale a Villa della Regina

Nel 1615 Maurizio di Savoia commissionò all'architetto orvietano Ascanio Vitozzi la trasformazione di una preesistente vigna, sita sulla bassa collina poco oltre il Po, in una dimora signorile dotata di un giardino all'italiana, un teatro d'acque, peschiere, orti, vigneti e persino di un bosco. A seguito dell'improvvisa morte del Vitozzi, avvenuta nello stesso anno della commissione, furono posti a capo del cantiere Carlo e Amedeo Cognengo di Castellamonte, padre e figlio, già impegnati in altre importanti fabbriche per la corte ducale. Lo stretto legame della committenza con gli ambienti romani e la corte pontificia influenzò notevolmente le scelte per l'assetto architettonico e quello paesaggistico, dove si possono ravvisare diverse analogie con le ville suburbane laziali, specie con Villa d'Este a Tivoli e Villa Aldobrandini a Frascati. Il cuore pulsante della struttura era un grande loggiato centrale che divideva due appartamenti con sale affacciate verso la città e verso la collina. Il palazzo, immerso nel verde lussureggiante degli attigui giardini a parterre ed "en forme de théâtre", venne scelto dal porporato come degna sede dell'Accademia dei Solinghi o dei Desiosi, da lui fondata. In questa istituzione culturale confluivano vari artisti e intellettuali che, nel corso dei loro raduni, alternavano alla recita di drammi teatrali, sonetti e madrigali, discussioni di natura scientifica, filosofica, politica e persino esercitazioni militari o battute di caccia. Il fatto che i membri di tale consesso di dotti amassero radunarsi in questo locus amoenus appartato valse loro il soprannome di "solinghi", ovvero "solitari". Fra queste menti eccelse rifulgeva più di tutte quella di Emanuele Tesauro, letterato, retore, storico e drammaturgo, che godette di grande prestigio non soltanto presso la corte sabauda, dove fu attivo per oltre quattro decenni, ma anche a livello europeo.

Charles Dauphin, Ritratto di Emanuele Tesauro, 1670, olio su tela. Torino, Galleria Sabauda. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Alla morte di Maurizio, avvenuta nel 1657, la villa - nota ai più come "Vigna del Cardinale"- venne ereditata, assieme ad una ricchissima collezione di opere d'arte, dalla sua giovane vedova, la principessa Ludovica. Sotto la nuova proprietaria l'edificio, ormai rinominato Villa Ludovica, fu ampliato con l'edificazione di quattro padiglioni angolari, e ridecorato nelle sale del piano nobile e del secondo piano con l'aggiunta di soffitti cassettonati e grandi fregi con soggetti storici, mitologici e venatori. Morta senza eredi nel 1692, la principessa lasciò per disposizione testamentaria la sua dimora di delizie alla moglie dell'allora duca Vittorio Amedeo II, Anna Maria di Borbone-Orléans.

Louis-Ferdinand Elle, Ritratto di Anna Maria di Borbone-Orléans, 1684, olio su tela. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Con la firma dei Trattati di Utrecht nel 1713, Vittorio Amedeo II otteneva il tanto ambito titolo regio e il Ducato di Savoia si trasformava in Regno di Sicilia (permutato col Regno di Sardegna nel 1718). Fu proprio in onore di Anna d'Orléans, prima regina della dinastia sabauda, che la splendida delitia collinare venne ribattezzata "Villa della Regina".

La sovrana, tra 1694 e 1698, affidò alla direzione di Carlo Emanuele Lanfranchi alcuni cospicui interventi di manutenzione e rimaneggiamento sia degli interni del fabbricato, dove vennero ribassati gli alti soffitti seicenteschi, sia dei giardini. I contratti di pagamento riportano che, nel 1695, l'appartamento dell'ala meridionale, scelto per sé da Anna, fu decorato con partiti in stucco a tema perlopiù floreale dall'éntourage del luganese Pietro Somasso e con dipinti su tela del pittore viennese Daniel Seiter. All'esterno, dove - già all'epoca - risulta attestata  la presenza di un belvedere superiore e due "piate forme" laterali quali fulcri di un emiciclo terrazzato; vennero sostituite le balaustre in cotto dipinte di bianco poste lungo tutti i percorsi terrazzati e le scalinate con delle altre marmoree. Furono inoltre oggetto di reintegrazione gli ornamenti musivi costituiti da ciottoli di fiume, conchiglie e mursi, i quali ricoprivano interamente le superfici dello scalone centrale, dell'emiciclo e della gradinata che conduceva alla fontana di Apollo (l'attuale Grotta del Re Selvaggio), all'epoca decorata con statue di animali, festoni floreali e delle non meglio specificate "altre fatture".

Con l'arrivo del Settecento la regina maturò la decisione di aggiornare la propria "Vigna" secondo le nuove tendenze e di adeguare gli ambienti aulici alle varie esigenze del consorte e dei figli, creando ambienti intimi preposti a momenti di svago e convivialità. Documentata era pure l'intenzione di attuare una radicale trasformazione dei giardini su disegno del Primo Architetto di Luigi XIV, Jules Hardouin-Mansart, progetto non andato mai oltre la carta e la china.

Juvarra e Baroni di Tavigliano

Filippo Juvarra: Pensiero per il Salone d'Onore di Villa della Regina, 1733 circa. Montréal, Centre Canadienne d'Architecture. Fonte: cultorweb.com.

Arrivato a Torino nel 1714, fu il messinese Filippo Juvarra, affiancato dal suo allievo Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano, a porre in essere una serie di importanti lavori alla Villa della Regina su richiesta prima di Anna Maria e poi di sua nuora Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg, seconda moglie di Carlo Emanuele III, durante i quali furono ripensati, secondo la moda settecentesca, gli spazi e i rapporti col paesaggio esterno nonché i preziosi arredi e le decorazioni di gusto esotico degli interni.

Maria Giovanna Clementi, Ritratto di Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg, 1728-30, olio su tela. Stupinigi, Palazzina di Caccia di Stupinigi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Il Primo Architetto di Sua Maestà chiuse i loggiati disposti nei cantieri seicenteschi riconvertendoli in vestiboli illuminati da finestroni, e ricavò lo spazio utile per la creazione del grande Salone d'Onore a doppia altezza, il quale funge da punto di raccordo tra l'Appartamento del Re nell'ala settentrionale e l'Appartamento della Regina nell'ala meridionale. Inoltre collegò il secondo piano del palazzo al giardino superiore edificando due terrazze. Per la realizzazione dell'aggiornato apparato ornamentale delle sale l'architetto coordinò alcuni dei migliori pittori (Claudio Francesco Beaumont, Giovanni Battista Crosato, Corrado Giaquinto, Giuseppe Dallamano, Giuseppe Valeriani, Filippo Minei e Michele Antonio Milocco), scultori, stuccatori e artigiani (Pietro Massa, Pietro Piffetti e Giuseppe Maria Bonzanigo) attivi nei cantieri regi e le loro rispettive botteghe. All'esterno Juvarra e Baroni di Tavigliano scelsero di non travisare l'essenza dell'impianto originario dei giardini, quanto piuttosto di sostituire le arzigogolature di matrice tipicamente barocca con scomparti geometrici regolari e bicromi in murso. Il Belvedere superiore fu riplasmato e alle preesistenti architetture decorative vennero aggiunti il Padiglione dei Solinghi e la Rotonda, mai portata a compimento. Quando il messinese, chiamato dal re di Spagna Filippo V, dovette recarsi alla volta di Madrid nel 1735 per progettare il Palazzo Reale, i cantieri di Villa della Regina furono affidati a Baroni di Tavigliano il quale, a partire dal 1750, fu a servizio della duchessa (regina dal 1773) Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna, consorte del principe ereditario Vittorio Amedeo III.

Jacopo Amigoni, Ritratto di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna, 1750 circa, olio su tela. Madrid, Museo Nacional del Prado. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Tra gli anni 1760-80 furono innalzati il Corpo di Guardia, le Scuderie e il Palazzo Chiablese, quest'ultimo edificato per ospitare il Duca del Chiablese.

La Villa della Regina nell'Ottocento

Durante l'occupazione napoleonica di Torino (1798) e con l'insediamento del Governo Provvisorio nominato dal generale Grouchy, Villa della Regina fu iscritta nel Patrimonio Imperiale, e, nel 1805, Napoleone in persona vi soggiornò per un breve periodo. Tornata in mani sabaude dopo la Restaurazione e persa l'originaria funzione a causa del trasferimento della corte dei Savoia a Palazzo Pitti (la capitale del Regno d'Italia era stata spostata da Torino a Firenze nel 1865 e la situazione rimase tale fino al 1871), per volere di Vittorio Emanuele II fu destinata, nel 1868, come sede dell'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari, ente che si prodigava per fornire assistenza ed educazione alle fanciulle orfane dei caduti delle Guerre d'Indipendenza. Tra 1876 e 1888 la residenza venne spogliata di alcuni mobili, preziosi complementi d'arredo fisso (tra i quali la sfarzosissima Biblioteca del Piffetti e le boiseries del Gabinetto della libreria verso Mezzanotte) come pure di un cospicuo numero di sovrapporte, soprafinestre e tele da plafond. Il tutto, dopo una breve permanenza nei depositi di Palazzo Reale e del Castello di Moncalieri, fu inviato a Roma per ornare gli ambienti del Palazzo del Quirinale, sede del Re nella nuova e definitiva capitale italiana.

Grand Rondeau con le allieve dell'Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari Italiani. Fotografia di J. David, 1895-1896. © Archivio di Stato di Torino. Fonte: MuseoTorino.

Dal Novecento ai giorni nostri

Il XX secolo fu, in assoluto, il periodo di maggiore decadenza di tutta la storia della villa. Nel corso del Secondo Conflitto Mondiale i bombardamenti aerei degli anni 1942 e 1943 causarono danni ingentissimi all'ala destra dell'edificio e rasero al suolo Palazzo Chiablese. Dopo impropri e maldestri interventi postbellici di ricostruzione, con la soppressione dell'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari l'ex residenza sabauda fu abbandonata al degrado più totale, facile preda di furti e razzie. Nel 1994, quando la provincia di Torino la cedette alla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte, le condizioni in cui versavano la struttura e i giardini erano drammatiche a tal segno da far temere imminenti collassi. Lunghe e complesse operazioni di restauro, finanziate con fondi stanziati dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, dalla Regione Piemonte, dalla Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione CRT e dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, hanno restituito - per quanto possibile - all'ex dimora preferita di principesse, duchesse e regine l'originario splendore, consentendo la sua prima riapertura al pubblico nel 2006. Mentre si procedeva col ripristino architettonico di interni ed esterni del complesso, il vigneto storico è stato ripiantato per circa metà della propria originaria estensione. Preso in affido dall'Azienda Balbiano, è tornato produttivo nel 2008. In Italia si tratta dell'unica vigna localizzata all'interno di una grande città, in Europa è invece accompagnata da altri due esemplari: il Vigneto di Montmartre a Parigi e a quello di Grinzing a Vienna. Dal 2011, la Vigna della Regina rientra all’interno dell’area DOC del vino Freisa di Chieri. Nel 2016 i giardini della villa si sono posizionati nella top ten dei parchi e giardini più belli d'Italia.

Il Giardino verso la città e la facciata

Il Grand Rondeau. Copyright fotografico: sguardisutorino.blogspot.com.

Risalendo un viale costeggiato da filari di olmi e platani si accede, attraverso una cancellata, al Grand Rondeau (o, secondo la forma italianizzata, Gran Rondò), un grande piazzale di forma circolare con una vasca centrale di 20 metri di diametro, scandita lungo tutta la bordatura da dodici sculture in gran parte acefale raffiguranti divinità fluviali. Al centro della fontana si erge la statua del dio Nettuno che, seduto su uno scoglio, sembra sfidare frontalmente a colpi di gettiti d'acqua un putto sul dorso di un delfino. Per mezzo di uno scalone semicircolare a duplice rampa si sale su una terrazza rettangolare, attraversando la quale ci si ritrova difronte alla Fontana della Sirena. Di minori dimensioni rispetto alla precedente, deve il suo nome alla statua marmorea di una sirena posizionata all'interno di una vasca ellittica a ridosso della facciata. Trattandosi di una peschiera, era un tempo popolata da un piccolo allevamento di trote e carpe. Grazie ad essa sulla tavola della corte regale - soprattutto nei mesi di magra - veniva sempre garantito del pesce fresco.

Fontana della Sirena. Copyright fotografico: Associazione Amici di Villa della Regina.

Il fronte settecentesco, attribuito a Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano, è costituito da un corpo centrale avanzato verso Torino segnato da ampio ordine di finestre e coronato da una balaustra sormontata da quattro sculture allegoriche in marmo bianco. Da questo si diramano simmetricamente due maniche laterali, ciascuna delle quali è affiancata da un torrione. Speculare alla facciata verso la città, quella rivolta verso la collina si differenzia dalla prima per il tetto a falde ribassate.

Facciata verso la collina. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

Gli interni - il Salone d'Onore

Il Salone d'Onore. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

Fulcro del piano nobile di Villa della Regina, il Salone d'Onore a doppia altezza raccorda l'appartamento del re a settentrione con quello della regina a meridione. Questo ampio spazio viene illuminato diffusamente da un gran numero di finestroni. La luce che filtra da queste aperture esalta, al pari di un riflettore, le strepitose tonalità impiegate dal pittore modenese Giuseppe Dallamano nelle quadrature dipinte a fresco sulla quasi totalità della superficie muraria, databili al 1733. Architettura dipinta e architettura reale si confondono in un insieme armonico contrastando, attraverso la dinamica alternanza di sporgenze e rientranze che le caratterizza, il rigido disegno geometrico delle piastrelle bianche e nere del pavimento. Sono scampati ai bombardamenti del 1942 i due riquadri della parete nord e sud, opera di Corrado Giaquinto, raffiguranti rispettivamente "Apollo e Dafne" e "Venere che scopre il corpo senza vita di Adone", ambedue datati 1733. Purtroppo non si può dire lo stesso per "Il Carro di Aurora", l'affresco di Giuseppe Valeriani che decorava la parte centrale della volta il quale, invece, è andato completamente distrutto. Ai lati, i vestiboli verso la città e verso la collina sono ornati con le Allegorie delle Quattro Stagioni dipinte da Giovanni Battista Crosato, in cui dei vivaci puttini sono colti in atteggiamenti goliardici e dispettosi. In un piccolo spazio adiacente, oggi adibito a tribuna, si trovava la cappella di corte, successivamente abbandonata in favore di un'altra più grande nel vicino Palazzo Chiablese. Sulla volta di questo ambiente si conserva un affresco di Michele Antonio Milocco, "la Trinità con angeli" (verso il 1730).

Soffitto del Salone d'Onore. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

FINE PRIMA PARTE

 

Bibliografia 

Paolo Conaglia, Andrea Merlotti, Costanza Roggero: Filippo Juvarra 1678-36, architetto dei Savoia, architetto in Europa. vol.1, Roma, Campisano Editore, 2014.

Cristina Mossetti: La Villa della Regina, Torino, Allemandi, 2007.

 

Sitografia: 

https://www.academia.edu/42720796/Juvarra_a_Villa_della_Regina

http://www.treccani.it/enciclopedia/savoia-maurizio-di-cardinale_%28Enciclopedia- I taliana%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/maurizio-di-savoia_%28Dizionario-Biografico% 2 9/

http://www.treccani.it/enciclopedia/savoia-maurizio-di-cardinale_%28Enciclopedia- I taliana%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/cristina-di-francia-duchessa-di-savoia_% 2 8Dizionario-Biografico%29/

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http://www.museotorino.it/view/s/7b675269506e4015b01fe92556e94943

http://www.museotorino.it/view/s/e162639ab29941bc9e441393c638720f

https://books.google.it/books?id=Gigp17tBCm4C&pg=PA23&lpg=PA23&dq=accademia+dei+solinghi&source=bl&ots=o9YRftjFz1&sig=ACfU3U265Gj0h3tWP-c 30iTgZoIY5xs6vQ&hl=it&sa=X&ved=2 ahUKEwjOqsLP_JPqAhWb6aYKHSmNDT04HhDoATAJegQICBAB#v=onepage&q=accademia%20dei%20solinghi&f=false

https://books.google.it/books?id=SWq3GDdhl8cC&pg=PA25&lpg=PA25&dq=villa+della+regina+torino&source=bl&ots=DwO5LcQmJB&sig=ACfU3U11n4Xs-4agY-GIc7rBxugJ6otxDA&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwjJz_emtInqAhUM8KYKHQijBDc4ggEQ6AEwB3oECAkQAQ#v=onepage&q=villa%20della%20regina%20torino&f=true

https://webthesis.biblio.polito.it/1932/

http://www.residenzereali.it/index.php/it/residenze-reali-del-piemonte/villa-della-regina

http://polomusealepiemonte.beniculturali.it/index.php/musei-e-luoghi-della-cultura/villa-della-regina/

http://www.amicidivilladellaregina.com/la-villa/


LA CAPPELLA DELLA SACRA SINDONE

A cura di Francesco Surfaro
Cappella della Sacra Sindone. Copyright fotografico: Daniele Bottallo.

Sublime parto dell'estro anticonvenzionale di Guarino Guarini, la Cappella della Sacra Sindone è un unicum all'interno del panorama architettonico europeo. Dopo il disastroso incendio che, nel 1997, ha rischiato di distruggerla per sempre, è rinata dalle proprie ceneri grazie ad una lunga e complessa opera di restauro.

La storia

Tra 1576 e 1577 una violenta epidemia di peste imperversava a Milano e in diversi altri centri dell'Italia settentrionale e della Sicilia. Al fine di impetrare la liberazione della città dal terribile morbo, il cardinale-arcivescovo metropolita del capoluogo lombardo, Carlo Borromeo, pronunziò solennemente il voto di compiere un pellegrinaggio penitenziale a piedi fino alla Sainte-Chapelle di Chambéry, per venerare la Sacra Sindone ivi custodita. Secondo la tradizione cattolica, tale reliquia - un lenzuolo di lino intriso del sangue di un uomo flagellato e crocifisso - sarebbe il sudario entro il quale, dopo la morte e la deposizione dalla croce, venne avvolto il corpo di Cristo prima di essere sepolto. Il sacro cimelio era di proprietà dei Savoia sin dal 1453, data in cui la nobile francese Marguerite de Charny lo cedette a Ludovico di Savoia. Venuto a conoscenza del voto di Borromeo, Emanuele Filiberto di Savoia detto il "Testa di Ferro", abile diplomatico e scaltro stratega, incaricò il canonico Neyton di traslare definitivamente il Santissimo Sudario dall'ex capitale transalpina del ducato sabaudo alla nuova capitale, Torino. In questo modo il duca intendeva ingraziarsi l'illustre porporato milanese (uno dei principali fautori della Controriforma), che così facendo si sarebbe risparmiato diversi chilometri, e portare più vicino a sé quello che era considerato come una sorta di palladio dinastico. Nel 1578, al termine della pestilenza, la Sindone venne trasferita ed accolta in pompa magna alle porte di Torino con un solenne corteo processionale, che la scortò fino al Palazzo Ducale. Il viaggio verso la capitale fu tutt'altro che facile: era infatti divenuto indispensabile percorrere sentieri meno diretti che fossero fuori dal raggio d'azione degli ugonotti, i quali, appresa la notizia della traslazione, avevano manifestato la volontà di impadronirsi della Sindone per distruggerla. L'undici ottobre dello stesso anno, nella cornice del coro della Cattedrale di San Giovanni Battista, si tenne l'evento epocale dell'ostensione della sacra reliquia alla presenza del cardinale Borromeo che, il giorno precedente, appena arrivato in città, aveva sciolto in forma privata il proprio voto presso la chiesa romanica di Sancta Maria ad Praesepe (la futura Real Chiesa di San Lorenzo).

Giovanni Francesco Testa - Prima solenne ostensione della Sacra Sindone a Torino alla presenza di Carlo Borromeo (al centro), 1578, acquaforte e bulino su carta. Racconigi, Castello di Racconigi. Copyright fotografico: Vatican News.

 

Interni della Sainte- Chapelle a Chambéry. Copyright fotografico: Christian Pourre - www.hautesavoiephotos.com.

Morto nel 1580, Emanuele Filiberto ordinò per disposizione testamentaria che fosse edificato un luogo di culto in cui il sacro lino potesse "con degna pompa venerarsi" e lì voleva che fosse preparata la propria sepoltura. Lasciò inoltre scritto che la costruzione dell'edificio doveva essere finanziata interamente con le elemosine raccolte nel corso dei suoi funerali. In attesa dell'inizio dei lavori, la Sindone rimase all'interno del duomo presso la cappella dei santi Stefano e Caterina, nella navata sinistra. Due a questo punto erano le soluzioni possibili che si prospettavano per la custodia del sacro vestigio: innalzare un grande spazio liturgico indipendente dalla cattedrale e con un convento annesso per la cura dei sacri uffizi, che fosse collocato in una posizione eminente all'interno della città, oppure erigere un altare sotto la crociera della cattedrale, la cui imponenza doveva essere direttamente proporzionale all'importanza della reliquia. Per ovviare alla questione venne interpellato l'architetto e pittore Pellegrino Tibaldi detto Pellegrino de' Pellegrini, personaggio chiave per l'arte lombarda post-tridentina molto vicino a Carlo Borromeo. Tibaldi, incaricato dall'Eccellenza milanese di fare pressioni sul nuovo duca Carlo Emanuele I, affinché non custodisse il sacro telo all'interno di una cappella palatina accessibile a pochi, ma in un luogo dove potesse essere oggetto di venerazione da parte di tutti i fedeli, progettò un altare provvisorio da collocarsi nel presbiterio del duomo, in attesa dell'avvio del cantiere per la costruzione di una grande chiesa in Piazza Castello. Tuttavia, nel 1584, con la dipartita di Borromeo, il Pellegrini, sentendosi sollevato dai propri oneri nei confronti del duca, non diede più notizie di sé a Torino. Fu così che il Santissimo Sudario venne posto all'apice di un apparato effimero collocato un poco innanzi all'altare maestro della cattedrale, descritto dalle fonti come un'edicola sorretta da quattro colonne in legno tinte d'azzurro ed ornata con angeli dorati che sostenevano un baldacchino. Quella che doveva costituire una soluzione provvisoria, a ragione delle continue lotte intestine scatenate dal forte accentramento dei poteri voluto da Emanuele Filiberto prima, e proseguito dal figlio poi, divenne stabile per i successivi ottantatré anni. Si rese perciò necessario sostituire la scenografia lignea con un imponente altare aulico caratterizzato da un basamento lapideo, quattro mastodontiche colonne in marmo nero di Frabosa (poi riutilizzate per ornare uno dei due portali d'accesso all'attuale cappella) ed un'elaborata struttura lignea apicale.

La Cappella della Sacra Sindone: l'Ellissoide di Vitozzi e Castellamonte padre

Ascanio Vitozzi e Carlo di Castellamonte - Pianta del progetto per la Cappella della Sacra Sindone, 1611 circa. Dall'Album Valperga.

Risoluto a rispettare le ultime volontà paterne, Carlo Emanuele I si rivolse all'ingegnere ducale Ascanio Vitozzi (o Vittozzi) e al suo collaboratore, Carlo Cognengo di Castellamonte, i quali, accantonati i progetti del loro predecessore, tra il 1610 e il 1611 iniziarono a valutare la realizzazione di una cappella a pianta ellittica incastonata tra il Palazzo Ducale e il duomo, accessibile tramite un vano di collegamento ricavato nel coro. Con chiare implicazioni simboliche, l'ambiente fu pensato perfettamente in asse con la dimora di rappresentanza del reggente e rialzato rispetto a San Giovanni. Questo espediente architettonico rimarcava anzitutto la dicotomia tra le due sedi del potere spirituale e temporale, ribadiva il fatto che si era difronte ad una committenza squisitamente ducale e non religiosa e, non in ultimo, costituiva una forte dichiarazione propagandistica atta a dimostrare che la casata aveva la piena approvazione divina in quanto custode della (presunta) prova tangibile della risurrezione di Cristo. Il progetto doveva essere grandioso, non soltanto nell'apparato ornamentale interno, previsto in pregiatissimo marmo nero e bronzo dorato, ma anche nella struttura, che doveva sconfinare di molto nello spazio destinato al cortile palatino. La facciata dell'oratorio sarebbe stata ricavata nell'abside tramite l'abbattimento dell'esedra semicircolare. Nel 1624 erano state soltanto gettate le fondamenta quando i lavori subirono un arresto e non progredirono né nel corso della breve amministrazione di Vittorio Amedeo I, né durante i turbolenti anni di reggenza della sua vedova, la Madama Reale Maria Cristina di Borbone-Francia.

Un nuovo progetto: Quadri e Castellamonte figlio

Si dovette attendere la piena assunzione del potere da parte del loro erede, Carlo Emanuele II, per lo sblocco del cantiere, avvenuto nel 1657 dopo le varie pressioni dello zio, il cardinale Maurizio, il quale, memore del terribile incendio scoppiato il 4 dicembre del 1532 all'interno della Sainte-Chapelle di Chambéry, che causò danni irreparabili alla reliquia, aveva espresso il proprio legittimo timore di continuare a custodirla sopra un altare incessantemente illuminato da lanterne che, nella sua parte apicale - dove era collocato lo scrigno del sacro lino - era interamente in legno. La direzione della fabbrica venne affidata al ticinese Bernardino Quadri, più abile come scultore e stuccatore che come architetto, e perciò sottoposto alla supervisione dell'ingegnere ducale Amedeo Cognengo di Castellamonte, figlio del già citato Carlo di Castellamonte. Ritenendo ormai superata la pianta ellissoidale, i due optarono per un'aula liturgica a pianta circolare rialzata di parecchi metri (è bene ricordare che nel precedente progetto si parlava di una sopraelevazione di 1 o 2 metri, qui si trattava invece di ben 6-7 metri) rispetto al piano di calpestio di San Giovanni, che fosse contenuta all'interno di uno spazio quadrato nella manica ovest del Palazzo Ducale. Il notevole innalzamento della cappella rispetto al duomo avrebbe permesso una vista privilegiata sull'altare-reliquiario anche dall'interno della basilica al piano inferiore, grazie ad un monumentale finestrone ricavato nel coro con l'abbattimento dell'abside. I fedeli potevano avere accesso all'oratorio tramite due scaloni introdotti da enormi portali in marmo nero posti in fondo alle navate minori, uno per salire e l'altro per scendere, perfetti per evitare resse e assembramenti in caso di grandi afflussi di pellegrini; i Savoia, invece, potevano accedere all'ambiente sacro per mezzo di un portale posizionato al primo piano del loro palazzo. In ossequio alle richieste di Carlo Emanuele II, i progettisti pensarono ad una cupola che per altezza, imponenza e bellezza doveva superare quella più spartana della cattedrale rinascimentale. Dopo la demolizione delle fondamenta dell'ellissoide, i lavori di edificazione procedettero spediti nei nove anni successivi fin quando, arrivati alla trabeazione del primo livello, ci si rese conto che la struttura aveva delle forti criticità statiche. Non essendo in grado di porre rimedio a queste, Quadri fu sollevato dall'incarico nel 1666. Proprio in quest'anno le ricevute di pagamento documentano l'ultima retribuzione dovuta all'autore del progetto fallimentare. A lui subentrò, nel 1668, il padre teatino modenese Guarino Guarini, giunto a Torino due anni prima, su invito del suo ordine, per portare a termine la Real Chiesa di San Lorenzo.

All'improvviso, il genio

In foto: Ritratto di Guarino Guarini dal frontespizio dell'Architettura Civile, pubblicazione postuma del 1737. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Visto lo stato estremamente avanzato in cui versavano i lavori, Guarini non poté fare altro che mantenere l'assetto planimetrico del fabbricato, di cui però stravolse completamente il linguaggio. Prima di tutto si occupò di rafforzare e reintegrare la fragile struttura ideata dal predecessore, e riplasmò radicalmente lo scalone di destra, che risultava già ultimato. Per le lesene di ispirazione corinzia, questi pensò ad una nuova interpretazione simbolico figurativa legata alla Passione di Cristo del tradizionale capitello ornato con foglie d'acanto e volute, inserendo al loro posto elementi dalla forte carica allusiva, quali i rami d'ulivo (che rimandano all'agonia di Cristo nell'Orto del Getsemani), una corona di spine e un fiore di passiflora da cui emergono tre chiodi e il Titulus Crucis (il cartiglio con la motivazione della condanna di Cristo, appeso all'altezza del suo capo durante la crocifissione). Riprendendo i pennacchi della croce greca prevista dal progetto di Quadri, li ridusse da quattro a tre, inscrivendo all'interno della pianta circolare un triangolo, nei vertici del quale collocò dei vestiboli circolari, uno in corrispondenza dell'ingresso da Palazzo Ducale e gli altri due a conclusione degli scaloni monumentali. In luogo dei piedritti che avrebbero dovuto sostenere la basica cupola emisferica voluta da Castellamonte, andò a posizionare dei grandi fastigi ornamentali, sui quali svettano delle valve di conchiglia. Oltre il primo ordine, l'architetto dimostrò immediatamente di volersi distaccare, nella maniera più netta possibile, dai progetti a lui antecedenti, impostando una vertiginosa struttura a torre che andasse ad evocare nell'osservatore l'idea di un'ascesa vorticosa verso l'Infinito. Nel bacino tronco, al fine di snellire il più possibile il peso del costruito, aggiunse tre poderosi arconi, mentre nei pennacchi e nelle lunette aprì sei finestroni circolari, dai quali i raggi solari filtrano attenuati da apposite camere di luce, create per assolvere al duplice compito di direzionare i fasci luminosi in modo indiretto e soffuso sulle superfici lapidee interne, e di celare alla vista i contrafforti e i tiranti di rinfianco. L'adozione di questa serie di accorgimenti gli permise di ridurre di 1/4 l'ampiezza del diametro di imposta del tamburo, e gli consentì di dare piena soddisfazione alla richiesta ducale dell'edificazione di una cupola che fosse maggiore in altezza di quella del duomo. Abbondanti sono gli elementi simbolici, frutto di una mente erudita e raffinata: nelle ghiere dei tre grandi archi, i chiodi alternati a foglie d'ulivo stilizzate alludono alle sofferenze fisiche e spirituali di Gesù Cristo; nei tre pennacchi le croci greche e ierosolimitane rimandano al mistero dell'Umana Redenzione e allo stemma di Casa Savoia; nei lunettoni, infine, gli esagoni e le stelle a sei punte simboleggiano la Creazione e l'Empireo, il più alto dei nove cieli. Salendo nel tamburo, al livello successivo, Guarini alleggerì ulteriormente la struttura introducendo un camminamento anulare interno e sei enormi finestroni ad arco, dai quali la luce penetra in quantità evocando suggestivi effetti teatrali. Lo spazio tra un finestrone e l'altro venne ricolmato dal posizionamento di sei nicchie a tabernacolo. Nei pennacchi della cupola, la presenza della figura geometrica del pentagono assume ancora una volta una valenza simbolica: rievoca infatti le cinque piaghe, ovvero le ferite delle mani, dei piedi e del costato inferte al Nazareno durante il supplizio della crocifissione.

Una cupola per la  Cappella della Sacra Sindone

Cappella della Sacra Sindone. L'intradosso della cupola guariniana.

Perfetto connubio tra razionalismo e misticismo matematico, la cupola, o meglio, la pseudocupola della Cappella della Sacra Sindone si configura come una delle architetture più ardite e complesse dell'intera stagione barocca europea. Grazie allo studio sulle tecniche costruttive del gotico francese e delle strabilianti architetture stereotomiche del mondo islamico, Guarini pose in essere una struttura a scheletro, portante e ornamentale al tempo stesso, formata da una fitta rete di "cellule spaziali indipendenti" (Gianfranco Gritella - "Il Contributo italiano alla storia del Pensiero" - Tecnica, 2013) che si intersecano e ruotano attorno ad un unico fulcro che ha per base un poligono regolare, l'esagono, simbolo biblico della Creazione (svoltasi, secondo la Genesi, in sei giorni). In questo progetto trova la sua piena esemplificazione la concezione guariniana - mutuata in parte dal Borromini - di architettura, vista come un organismo vivo e pulsante, in perenne movimento, generato dall'incontro di spazi indipendenti e di forme pure che, concatenandosi, si influenzano reciprocamente dando vita alla struttura. Quella dimensione unificata ed armoniosa dei vari elementi architettonici autonomi che caratterizza le creazioni di Borromini è totalmente assente in Guarini, che anzi, provava gusto nel proporre soluzioni eterogenee e bruschi mutamenti di forma privi di qualsiasi elemento di transizione.

Cappella della Sacra Sindone, il cestello della pseudocupola. Fonte: ilfattoquotidiano.it

Per realizzare il cestello della pseudocupola diafana, l'architetto giustappose sei livelli di sei piccoli archi a sesto ribassato digradanti verso l'alto, che in pianta corrispondono ad altrettanti sei ordini di esagoni che via via si restringono posando gli angoli degli uni sui lati degli altri. Questo moto continuo trova il suo apice nella stella-sole a dodici punte minori e dodici raggi maggiori, posta a conclusione del climax ascendente dei multipli di tre che si snoda lungo tutto l'impianto della cappella. Al centro del cupolino-lanterna, che appare inondato di luce grazie a dodici finestrelle ovoidali molto ravvicinate fra loro, si libra in volo la colomba dello Spirito Santo pendente da una complessa raggiera a base cilindrica, costituita da 240 bacchette in legno d'abete dorato a foglia di diverse dimensioni, poste in gruppi da 7 o da 12 su tre piani sovrapposti e con inclinazioni differenti. Fa da sfondo a questa geniale macchina scenografica un cielo tempestoso, grigio, quasi monocromatico, popolato da sei coppie di cherubini, che fu affrescato nel 1680 da Carlo Giuseppe Cortella.

Cappella della Sacra Sindone, pseudocupola. Fonte: torino.repubblica.it

Benché dall'esterno la cupola non appaia particolarmente alta, dall'interno il visitatore avrà l'impressione che questa sia molto più estesa di quello che effettivamente è. Questo avviene perché Guarini studiò accuratamente un gioco prospettico al fine di donare un'altezza fallace alla propria creatura, e per fare ciò tenne conto di tre importanti fattori:

  • la geometria: diminuendo l'ampiezza degli archetti depressi al crescere dell'altezza l'architetto mise a punto una struttura "a cannocchiale";
  • la luce: più la fonte luminosa è intensa meno l'occhio umano avrà la capacità di distinguere i contorni dell'oggetto illuminato, il quale verrà percepito più lontano. Proprio per questo Guarini fece in modo che la luce filtrasse abbondantemente dalle svariate aperture del tamburo e della cupola e che divenisse sempre più rarefatta scendendo verso il basso. Con lo scopo di catturare più luce possibile, i marmi dell'intradosso non vennero rifiniti con la lucidatura ma soltanto levigati;
  • il colore: in piena adesione ai canoni della prospettiva aerea di leonardesca memoria, secondo cui un colore appare più scuro quando è vicino mentre diviene più chiaro man mano che ci si allontana, nelle due scalinate e alla base dell'aula cultuale fu impiegato largamente il marmo nero di Frabosa, dal bacino tronco in poi si adoperò il marmo bigio.

In assenza della calotta emisferica, tradizionale simbolo della dimensione celeste dove la divinità ha la propria sede, sono gli stessi raggi del sole che trafiggono in ogni dove la cupola a simboleggiare la manifestazione del divino. Questo era molto più evidente in origine, quando il fedele veniva invitato a percorrere una delle due scalinate ripide e anguste, incupite dal marmo nero e formate da trentatré gradini ciascuna (uno per ogni anno della vita terrena di Gesù Cristo), al termine delle quali era ubicato un vestibolo circolare, aggiunto allo scopo di incutere un senso di inquietudine e vago mistero. Più avanti, la penombra, accentuata ulteriormente dal materiale lapideo scurissimo che riveste tutto il primo ordine della cappella, risultava gradualmente attenuata da una luce sempre meno fioca, fino a che lo sguardo non veniva inaspettatamente rapito dalla sbalorditiva visione estatica della cupola. Questo percorso ascensionale era densissimo di significato: tutti coloro che intendevano accostarsi a venerare la Sacra Sindone, difatti, dovevano prima ripercorrere il cammino tortuoso della Via Dolorosa per mezzo della gradinata scoscesa, attraversare le tenebre della morte e del peccato simboleggiate dal nero dei marmi, ed infine rigenerarsi nella teatralissima visione della luce filtrante dal cestello guariniano. In breve, entrare nella Cappella della Sacra Sindone significava rivivere spiritualmente i misteri pasquali della Passione, morte e resurrezione del Redentore attraverso un articolato sistema di simbologie.

Il bizzarro estradosso della cupola si palesa con una foggia piuttosto orientaleggiante, tanto da assomigliare più ad una pagoda che alla copertura di una chiesa. Le sei serliane del tamburo in laterizio donano alla struttura un caratteristico profilo sinusoidale. I candidi capitelli delle lesene di ispirazione corinzia presentano un motivo ornamentale formato da petali di iris. Nel livello successivo i dodici costoloni sono coronati da urne. In alto, il pinnacolo, ispirato alla lanterna del Sant'Ivo alla Sapienza borrominiano, è puntellato da numerose finestrelle ovoidali vere alla base e fittizie sopra, che si diradano in numero e in ampiezza man mano che si avvicinano all'apice. Sulla sommità svetta un globo dorato sovrastato da una croce, tre chiodi, una corona di spine e uno stendardo con lo stemma sabaudo, forgiato nel 1683 dal serragliere Pietro Tarino.

L'altare-reliquiario

Il 15 maggio del 1680 i lavori non erano del tutto terminati quando, con una Messa solenne officiata su un altare ligneo provvisorio, Guarini stesso (divenuto nel frattempo predicatore e teologo del Principe di Carignano) consacrava al culto divino la Cappella della Sacra Sindone, e da questo si evince che all'epoca fosse già agibile. Tre anni dopo, un 6 di marzo, il padre teatino si spegneva, lasciando incompiuti i pavimenti, una scalinata e, soprattutto, l'altare-reliquiario che avrebbe dovuto custodire il Santo Sudario. Come suo successore alla direzione dei cantieri fu nominato, nel 1685, il grande matematico livornese Donato Rossetti (che in passato si era platealmente scontrato con un fraterno amico di Guarini, Montanari, riservando critiche asperrime anche nei confronti dei progetti dell'architetto) giunto a Torino nel 1674 e prescelto, appena un anno dopo, come professore di Scienze Matematiche presso l'Accademia di Piemonte, nonché come precettore del futuro re di Sicilia Vittorio Amedeo II. L'esperienza di Rossetti all'interno del cantiere fu brevissima, passò infatti a miglior vita nel 1686. Lo sostituì un suo allievo degli anni piemontesi, il muzzanese Antonio Bertola (illustre predecessore di Filippo Juvarra e primo in assoluto ad essere fregiato con il titolo di "Primo Architetto di S. A. S."), che si occupò di portare a compimento le parti lacunose e di realizzare il disegno della scintillante custodia della Sindone.

La Cappella della Sacra Sindone. Copyright fotografico: Daniele Bottallo.

Tenendo conto della forma circolare dell'aula, Bertola realizzò al centro geometrico della stessa un altare bifronte a due mense - una rivolta verso la Cattedrale di San Giovanni Battista l'altra verso Palazzo Ducale - che risultava rialzato dal piano di calpestio per mezzo di sei scalini. La sua centralità era sottolineata dal complesso disegno del pavimento realizzato ad intarsio, composto da cerchi concentrici tempestati da una miriade di stelle in ottone dorato posizionate a loro volta entro croci greche in marmo bigio, che convergendo verso il centro, si restringevano sempre di più. Il corpo dell'altare fu realizzato in marmo nero ed arricchito da inserti, ornamenti e sculture in legno o metallo dorato, affinché questo, illuminato dalle quattro lanterne pendenti dal fastigio, risplendesse nella penombra del primo livello della cappella. Nella parte centrale, in una teca di cristallo, oltre una grata in ferro dorato, era custodito il prezioso scrigno cinquecentesco in argento e pietre dure contenente la Sindone. Sopra la balaustra erano posizionati otto putti lignei in atteggiamento orante o con espressione affranta, alcuni dei quali recanti i chiodi della crocifissione; ai lati della teca, invece, si trovavano quattro angeli con i simboli della Passione, tutti scolpiti tra 1692 e 1694 dai mastri intagliatori Cesare Neurone e Francesco Borello, cui vanno ascritti anche i simmetrici puttini reggi- lanterna e la splendida raggiera con cherubini e angeli adoranti sul fastigio. Nel 1694, finalmente, si poté mettere la parola fine sull'ormai centenario cantiere della Cappella della Sacra Sindone con la collocazione della reliquia all'interno del suo fulgido altare.

Altri interventi

Nel 1825 il re Carlo Felice, ultimo esponente del ramo principale dei Savoia, diede l'incarico al Regio Primo Architetto Carlo Randoni di realizzare in corrispondenza della monumentale balconata ad arco sghembo di affaccio sul duomo il Grande Chiassilone, un finestrone vetrato in legno di noce e ferro d'Aosta alto circa 12 metri, avente la funzione di isolare la cappella dal freddo, dalle correnti d'aria e dai rumori provenienti dalla Cattedrale al piano inferiore. Il successore di Carlo Felice, Carlo Alberto, primo re appartenente al ramo collaterale dei Savoia-Carignano, volle trasformare la Cappella della sacra Sindone in una sorta di mausoleo della propria dinastia, commissionando quattro monumenti funebri marmorei in stile neoclassico dedicati ad alcuni dei più illustri esponenti della casata, i cui resti furono riesumati per essere tumulati all'interno delle nuove sepolture.

Il carrarese Benedetto Cacciatori eseguì il sepolcro di Amedeo VIII, primo duca di Savoia, promulgatore degli Statuta Sabaudiae (1430) e papa scismatico sotto il nome di Felice V; Innocenzo Fraccaroli scolpì invece il monumento a Carlo Emanuele II, colui che aveva riaperto i cantieri della cappella affidando l'incarico della direzione di questi prima a Bernardino Quadri e poi a Guarino Guarini; il genovese Giuseppe Gaggini si occupò del gruppo dedicato al Principe Tommaso, capostipite del ramo cadetto dei Savoia-Carignano; ed infine, il lombardo Pompeo Marchesi lavorò al monumento sepolcrale di Emanuele Filiberto il "Testa di Ferro", valoroso e caparbio condottiero che spostò la capitale del ducato sabaudo da Chambéry a Torino (1563), fece traslare la Sindone nella nuova capitale (1578) e fu il primo a volere l'edificazione di un luogo di culto adatto a custodire in maniera più che decorosa la sacra reliquia.

Sempre nel corso degli interventi ottocenteschi, alle estremità della balaustra dell'altare furono aggiunti a quelli barocchi altri due angeli oranti in marmo bianco.

L'incendio e il restauro

Cappella della Sacra Sindone, fotogramma del drammatico incendio del 1997. Fonte: mole24.it

Il 4 maggio del 1990, proprio nel giorno che il calendario liturgico dedica alla festa del Santissimo Sudario, delle infiltrazioni d'acqua portarono al distacco di un frammento marmoreo dal cornicione della cupola, che cadde rovinosamente sulla pavimentazione danneggiandola. Fortunatamente non ci furono vittime o feriti. L'accesso ai fedeli venne interdetto tempestivamente e tre anni dopo partirono i lavori di restauro. Proprio quando quegli interventi di conservazione si stavano avviando verso la conclusione, nella notte fra l'11 e il 12 aprile del 1997, a causa di un cortocircuito presero fuoco le tavole di legno dei ponteggi in fase di smontaggio e, in poco tempo, all'interno della struttura divampò un terribile incendio che creò cedimenti strutturali e crolli. Gli ingenti danni generati dalla furia devastatrice delle fiamme furono paradossalmente corroborati dalle operazioni di spegnimento: i potenti getti d'acqua gelida, riversandosi sui marmi incandescenti, diedero origine ad uno shock termico che fu cagione di alcune gravi alterazioni dei materiali lapidei. Si registrarono difatti fratturazioni, rigonfiamenti, esfoliazioni e distacchi. Alla sola leggera pressione della mano i marmi si disgregavano. Per scongiurare il collasso, l'edificio venne immediatamente messo in sicurezza con il posizionamento di cerchiature e catene metalliche provvisorie. Si aprì un lungo e complesso "cantiere della conoscenza" per approfondire le tecniche costruttive impiegate da Guarini (mai indagate prima di allora), indispensabile vista l'assenza dei disegni originali dell'architetto e la lacunosità dei documenti d'archivio.

Al termine dei dovuti studi preliminari, nei primi anni 2000, dopo la rimozione dei detriti, la constatazione dei danni (l'80% delle superfici in pietra era da ripristinare) e il monitoraggio della stabilità, si entrava nel vivo del ripristino architettonico, atto a restituire al monumento la stabilità e la propria immagine. Si è scelto di perseguire una linea di approccio al restauro rigidamente conservatrice, pertanto, al fine di mantenere quanta più materia lapidea originaria possibile, gli elementi marmorei sono stati sostituiti solo se irreversibilmente compromessi. Per reperire il marmo funzionale alle reintegrazioni, nel 2007 sono state riaperte le cave - quasi del tutto esaurite già nel Seicento - di marmo nero e bigio di Frabosa Soprana, nel cuneese. Le quantità materiche (27 blocchi in tutto) ricavate da queste si sono rivelate insufficienti per coprire l'intero fabbisogno del cantiere, perciò è stato necessario optare per l'utilizzo anche di altre varietà esteticamente simili a quelle impiegate in antico: un marmo nero proveniente dalle Alpi Orobie e uno grigio dalle Alpi Apuane. Dove non è stato possibile ricomporre ed assemblare i frammenti originali, con l'ausilio della modellazione 3D sono state ricostruite le porzioni mancanti. Per consolidarla strutturalmente e ridonare alla pietra di cui è costituita valore portante, la cupola è stata sottoposta ad una delicata operazione di smontaggio e rimontaggio integrale, sospendendo la struttura temporaneamente al di sopra di impalcati per sostituire gli elementi danneggiati. Sono stati inoltre rifatti i tetti e le coperture in piombo, cambiate le catene e le cerchiature metalliche, posizionati nuovi serramenti. Si è poi provveduto al risanamento della lesione formatasi all'altezza del tamburo. Gli interventi di pulitura del cupolino hanno restituito nuova luce alle pitture del Cortella, la cui lettura risultava negata da una scialbatura postuma color ocra. Infine, il Chiassilone e la raggiera con la colomba dello Spirito Santo, andati distrutti durante l'incendio, sono stati ricostruiti in maniera filologica.

Dopo 28 anni di chiusura al pubblico e a 21 anni dall'incendio, la Cappella della Sacra Sindone è stata restituita alla città di Torino e alla collettività il 28 settembre 2018. Persa la propria originaria funzione di custodire il Santissimo Sudario (ora conservato in condizioni particolari all'interno di una teca collocata sotto la Tribuna Reale del duomo, presso il transetto sinistro) è stata inserita all'interno del percorso dei Musei Reali. Con la musealizzazione l'accesso dalla cattedrale è stato interdetto.

Il restauro, uno dei più complicati che siano mai stati realizzati, è risultato tra i vincitori degli European Heritage Awards 2019 per la categoria Conservazione. Il suo costo, ammontato a circa 30 milioni di euro, è stato finanziato grazie al contributo di diversi enti:

- Ministero dei beni, delle attività culturali e del turismo: 28 milioni;

- Compagnia di San Paolo: 2,7 milioni;

- Fondazione Specchio dei Tempi di "La Stampa": 645.000 euro;

- Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali: 150.000 euro;

- Iren – Performance in Lighiting: 125.000 euro.

 

Bibliografia

Maurizio Momo, Il Duomo di Torino, trasformazioni e restauri, Ed. Celid, Torino 1997;

Giuseppe Dardanello, Guarino Guarini, Allemandi, Torino 2006;

Carlotta Venegoni, Il Duomo di Torino: Fede, arte e storia. La Santa Sindone, Effatà Editrice, Torino 2015;

Luca Caneparo, Fabbricazione digitale dell'architettura. Il divenire della cultura tecnologica

del progettare e del costruire, Francoangeli s.r.l., Milano 2012;

Gian Maria Zacconi, La Sindone, una storia nella storia, Effatà Editrice, Torino 2015;

 

Sitografia

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https://www.museireali.beniculturali.it/cantierireali-il-restauro-dellaltare-della-sindone/

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https://www.finestresullarte.info/flash-news/5095n_premiazione-parigi-restauro-cappellasindone.php


IL PARCO DEI LAGONI DI MERCURAGO

A cura di Marco Roversi

L’Insediamento Palafitticolo dell’Età del Bronzo tra XVIII e XIII a.C. e Le Ruote di Mercurago

L’area protetta del Parco dei Lagoni di Mercurago (No) fu istituita nel 1980 su iniziativa popolare, ed è tutt’oggi gestita dall’Ente Parchi del Lago Maggiore, assieme ai Canneti di Dormelletto (NO) e alle Riserve di Fondotoce (VB). Dotato di un’intricata rete interna di sentieri, che consentono ai visitatori di addentrarvisi e di percorrerlo nella sua interezza, il territorio del parco si compone geologicamente di un terrazzo di origine morenica affacciato sul Lago Verbano, con due serie di collinette poco estese ed elevate (comunemente denominati motti). Ricca in ogni stagione di spettacoli naturali unici e suggestivi la Riserva Naturale racchiude, in una superficie relativamente limitata (473 ettari circa), una serie interessante e assai eterogenea di ecosistemi: lo stagno, la palude, il bosco, la brughiera e il coltivo, nonché una zona di torbiera e pascoli dedicati all’allevamento di cavalli purosangue. Sentieri tematici sono appositamente segnalati per consentire ai visitatori di apprezzare le ricchezze naturali, e non solo, offerte da questo parco, dai percorsi per i boschi e le zone umide (segnati in pinta rispettivamente con i colori rosso e azzurro), ai percorsi dedicati alle attività produttive e all’archeologia del luogo (ovvero i percorsi arancione e viola). Di recente realizzazione è, invece, l’allestimento di itinerari storici che collegano l’area protetta con i Comuni circostanti (Arona, Dormelletto, Comignago e Oleggio Castello), alcuni dei quali corredati di pannelli e bacheche illustrative degli aspetti storici di maggior rilevanza.

Fig. 1 - Fotografia ritraente il Lagone, il più grande dei due laghi presenti nel Parco. Si ringrazia Donatella Basaglia per la gentile concessione della fotografia. © Donatella Basaglia / Flickr - https://flic.kr/p/UD972Z.

 

Nel giugno del 2011 il Parco dei Lagoni di Mercurago è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO, rientrando tra i 111 Siti Palafitticoli Preistorici dell’Arco Alpino. La riserva presenta, infatti, interessanti presenze archeologiche, testimoni di una lunghissima occupazione che va dall’Età del Bronzo sino all’occupazione romana, ma la documentazione archeologica relativa all’antico villaggio palafitticolo è certamente la più nota e la più rilevante. Le primissime presenze umane in situ risalgono alla fase del passaggio tra il Bronzo Antico e il Bronzo Medio (BA II/ BM I), tra 1600 e 1500 a.C. (secondo la periodizzazione cronologica dell’Età del Bronzo relativa all’Area Padana e Sud-Alpina). La cosiddetta Cultura di Mercurago, assimilabile per cultura materiale e modalità di insediamento alla cultura del vicino Lago di Monate (VA), presenta tracce di insediamenti palafitticoli, in parte oggi poco conservati e molto erosi. Di conseguenza non possediamo più strati con presenze archeologiche, e tutte le documentazioni proseguono per indagine tipologica sui materiali rinvenuti, specialmente sui reperti bronzei, i quali hanno permesso di stabilire che i suddetti abitati furono attivi per un lungo periodo dell’Età del Bronzo, almeno per tre secoli, con la fase più intensa di abitato e di presenza umana ascrivibile al periodo finale del Bronzo Antico.

Fig. 2 - Mappa del parco con i relativi sentieri.

Il complesso dei ritrovamenti e l’abbondanza dei reperti che vennero alla luce immersi nei giacimenti ricchi di torba, fanno dei Lagoni una fra le più importanti stazioni preistoriche d’Italia. Le torbiere del Parco si sono, infatti, rivelate ottimi luoghi per la conservazione del passato e dei suoi tesori: torba e limo creano un ambiente anaerobico, ossia privo di ossigeno, il che impedisce l’ossidazione delle sostanze e dei materiali organici e l’azione decomponente di batteri e altri microrganismi. Ne consegue che i resti biologici di un antico insediamento, che l’acidità del terreno in certi casi può cancellare anche molto velocemente, in ambiente di torbiera vengono conservati presso che intatti anche per moltissimi secoli. Ecco che la particolarità ambientale del sito ha permesso di portare alla luce materiali in ottime condizioni di conservazione, dai reperti metalli in bronzo rinvenuti nel più piccolo dei due laghi del Parco, a manufatti in legno, fibre, corde, resti di cibo e cuoio. E si deve proprio a questa particolare condizione ambientale il ritrovamento più importante dell’area dei Lagoni: quelle delle celebri ruote da carro in legno.

Fig. 3 - Incisione anonima riproducente una delle palafitte costruite sul Lagone.

L’iniziatore degli studi in situ fu il geologo torinese Bartolomeo Gastaldi, che nel 1860 per primo condusse operazioni di scavo e ricerca su ciò che rimaneva di un’antichissima palafitta, una delle più antiche di tutta l’Europa, rinvenuta all’estremità settentrionale della conca del più grande dei due specchi d’acqua che si estendono nel Parco, denominato Lagone. Il Gastaldi studiò a fondo quanto rimaneva di tale antica struttura, e realizzò anche calchi in gesso sui reperti lignei deperibili portati alla luce, continuando i suoi studio fino al 1866. La struttura si inseriva in un contesto insediativo di notevole estensione, composto da più settori abitativi aventi come fulcro centrale proprio il Lagone, un’area abitativa documentata dall’Antica alla Tarda Età del Bronzo, tra XVIII e XIII a.C., della quale non si conoscono ancora le annesse aree di necropoli. Gli antichi abitanti dei Lagoni costruirono un intero villaggio adottando criteri di urbanistica che, per l’epoca, potevano dirsi assai all’avanguardia: si può, infatti, pensare ad un complesso di capanne disposte su due file e divise da un canale centrale; le costruzioni, che poggiavano su quattro pali perfettamente arrotondati lunghi all’incirca 3 m e con un diametro di 20 cm circa, erano interamente in legno e terriccio, con coperture straminee, ossia in paglia, a doppia falda.  La presenza umana, tuttavia, non fu continua, in quanto tra il 1550 e il 1450 a.C., nella fase centrale della Media Età del Bronzo, si può presumere un abbandono temporaneo del sito, forse in occasione di un impaludamento dello specchio d’acqua. Successivamente il sito del Lagone venne nuovamente occupato in modo stabile.

L’insediamento era sede di una comunità dedita alla pesca, alla caccia, all’agricoltura, all’allevamento del bestiame, alla lavorazione tessile e anche ben sviluppata nella produzione e nello scambio a lunga di stanza di merci e beni, anche di prestigio (come i bottoni in pasta vitrea di ispirazione mediterranea), attraverso il controllo dell’accesso a vie commerciali fluviali e di terra in diretto collegamento con gli abitati che, lungo gli alti terrazzamenti naturali del Ticino, tracciavano un asse commerciale nord-sud da Mercurago a Marano Ticino e Bellinzago Novarese (NO), e poi verso la Lomellina e la bassa pianura. Gli abitanti di tale comunità producevano ed impiegavano piroghe intagliate nei tronchi degli alberi, di cui ne sono state portate alla luce due esemplari, e di cui si conservano tutt’oggi due calchi presso il Museo Archeologico di Torino. I prodotti fittili, invece, erano forgiati a mano, cotti a fuoco libero e caratterizzati da un’argilla di colore quasi nerastro, con ornamentazione semplice a lineette oblique tracciate a stecca oppure disposte a fasce orizzontali parallele. Poco si conserva degli utensili impiegati per la caccia e delle armi, queste ultime rappresentate perlopiù da cuspidi di selce scheggiata e da coltelli in rame.

Fig. 4 - Calco di una delle due piroghe monoxili rinvenute in sito, oggi conservato presso il Museo Archeologico di Torino.

Ma sopra ad ognuna di tali testimonianze materiali spiccano le sopracitate ruote che senza alcun dubbio costituiscono il materiale più vivo di tale civiltà: tali ruote, rinvenute in numero di quattro (di cui solo di due furono realizzati i calchi in gesso, mentre le altre due non furono riprodotte), presentano alcune peculiari caratteristiche che le distinguono dalle più antiche ruote a disco pieno e di notevole pesantezza cronologicamente riferibili al 1650/1550 a.C. Le ruote di Mercurago, le cui dimensioni variano su diametri tra gli 82 e i 92 cm, sono costruite in tre sezioni, e hanno la caratteristica sostanziale di essere “folli” sull’asse, ossia che ne viene eliminata la sollecitazione facilitando, così, l’uso di un asse carraio più leggero e quindi più pratico. Dotate, inoltre, di raggi non convergenti, di bandelle di rame per assicurare stabilità e resistenza le ruote mercuraghesi costituiscono un evidente espressione di quelle genti nel creare e perfezionare tramite un’intelligenza tecnologica estremamente avanzata. Sono note principalmente due diverse tipologie: la prima tipologia era probabilmente impiegata per la realizzazione di carri pesanti da traporto, la seconda era forse adatta a carri più leggeri, destinati forse ad un uso bellico o cerimoniale. La ruota più massiccia pare essere stata impiegata in ambito rurale e appartiene probabilmente ad un carro pesante a traino bovino, mentre quella più leggera potrebbe essere riferita, per ovvi limiti di carico, ad un carro leggero a due ruote a traino equino, una tipologia ben comune agli scenari di guerra e anche simbolo di prestigio dei membri socialmente più elevati del tempo. Appare comunque singolare la presenza nello stesso sito di ben quattro ruote in realtà tutte differenti tra loro, riferibili a quattro diverse tipologie di carri, tanto da rafforzare l’ipotesi che non si trattassero di veicoli legati ad un uso quotidiano, ma alla vicinanza o alla presenza nel sito di un’officina specializzata per la riparazione o per la fabbricazione dei carri, dato anche il legno di noce impiegato per fabbricarle, che non proviene dall’area del Parco, e data anche l’incongruità dell’utilizzo di carri da guerra nell’area della Torbiera. Al di là delle diversità tipologiche, le ruote sono invece accomunate da tecniche realizzative presso che simili, impiegando tenoni (giunture) lignei interni e archi di rinforzo, “manicotti” in legno più tenero per prevenire il consumo dell’assale, l’ovalizzazione del foro della ruota e l’assenza di cerchiatura (sono cosi prive di battistrada in metallo solitamente impiegato per prevenirne l’usura).

Scoperte nel XIX secolo, quando ancora non si conoscevano le tecniche per la conservazione del legno antico estratto da ambienti umidi, se ne conserva solo il calco, prontamente effettuato dallo stesso Gastaldi nella torba al momento del rinvenimento. In un primo tempo le ruote furono attribuite all’Antica Età del Bronzo (XXI-XVII a.C.), ma una più attenta rilettura della serie stratigrafica ed un confronto con rinvenimenti analoghi in area elvetica sembrano portare ad una cronologia più tardiva, nell’ambito della Media-Tarda Età del Bronzo (XIV-XIII a.C.), vale a dire nell’ultima fase di occupazione della torbiera. I calchi originali delle ruote sono oggi conservati al Museo Archeologico di Torino, mentre una copia di uno di essi è oggi conservato e ed esposto presso il Museo Archeologico di Arona (NO). Inaugurato nel 1977, e sito nell’ala sinistra dell’ottocentesco mercato coperto di Piazza San Graziano, esso raccoglie alcuni dei rinvenimenti archeologici provenienti dalla città di Arona e dall’area del Basso Verbano e nelle prime vetrine del percorso espositivo si possono ammirare anche alcuni dei reperti dell’Età del Bronzo rinvenuti nella stazione palafitticola del Parco dei Lagoni di Mercurago.

Fig. 7 - La ruota di Mercurago a raggi non concentrici in un’incisione anonima.

 

 

Bibliografia:

- “La Storia di Arona”, a cura di Peppino Tosi e Mario Bonazzi, Editrice Evoluzione, Milano, aprile 1964.

- “Arona nella Storia”, a cura di Carlo Manni, Edizione promossa dal Comune di Arona, Interlinea Edizioni, Novara, 2001.

 

Sitografia:

- www.archeocarta.org

- www.marcotessarto.it

- www.comune.arona.no.it

- www.archeomuseo.it


IL CASTELLO DEL VALENTINO A TORINO

Antica e prestigiosa dimora ubicata sulla riva sinistra del Po, il Castello del Valentino, situato nell'omonimo Parco del Valentino, è un edificio storico di grande pregio.

Il Castello del Valentino: storia

Dopo aver trionfato nella Battaglia di San Quintino (10 agosto 1557) alla testa dell’esercito asburgico con la firma della Pace di Cateau-Cambrésis (1559), il duca Emanuele Filiberto di Savoia (il "Testa di ferro") riottenne dalla Francia i territori della Savoia e del Piemonte, che erano stati occupati militarmente dai francesi nel 1536. Nel 1563 il duca decise di trasferire la capitale del proprio ducato dalla storica sede di Chambéry a Torino, avviando un’opera di riorganizzazione territoriale che aveva il fine di celebrare e, al contempo, riaffermare il prestigio e il potere assoluto dell'antica casata. Questo programma venne poi portato a compimento dai suoi successori tra i secoli XVII e XVIII, i quali organizzarono nel centro nevralgico di Torino la  cosiddetta “Zona di Comando” con edifici preposti all'agire politico, e, attorno alla capitale crearono, secondo una singolare disposizione a raggiera, un sistema di residenze extraurbane dedicate al loisir detto "Corona di Delizie"; ristrutturando dimore già esistenti o facendosi edificare ex novo delle altre. Si parla in tutto di 22 edifici, 11 dei quali sono situati intra moenia. Tra le maisons de plaisance facenti parte della "Corona di Delizie" vi è sicuramente il Castello del Valentino.

La storia di questa dimora collocata sul lato sinistro del Po (più precisamente nella zona anticamente denominata "Vallantinum" a causa della propria conformazione geomorfologica resa irregolare da un corso d'acqua che oggi scorre interrato) iniziò nel 1564, quando il duca Testa di Ferro la acquistò, su suggerimento di Andrea Palladio, dal cardinale di origini lombarde René de Birague, colui che durante l'occupazione francese del Piemonte aveva svolto la mansione di Presidente del Parlamento di Torino. Doveva trattarsi di una villa non particolarmente grande con il prospetto principale rivolto verso il Po, strutturata a manica semplice ed articolata su quattro piani, ciascuno dei quali parallelo al fiume; delimitata a sud da una torre con scalinata interna, e a nord da un volume sporgente. Tra 1576 e 1578 si svolsero dei lavori di abbellimento che interessarono i soli interni. Non ci sono pervenuti dati sufficientemente certi sull'apparato decorativo realizzato in quegli anni, ma dai documenti relativi ai pagamenti sappiamo che a lavorare in quei cantieri vi era il pittore faentino Alessandro Ardenti detto "l'Ardente". Di quegli interventi si sono conservati soltanto alcuni frammenti di affreschi con grottesche ed un'iscrizione riportante la data del 1578, rinvenuti presso la Sala delle Colonne nel corso dei restauri novecenteschi.

Nel 1619, in occasione delle nozze tra il figlio trentunenne Vittorio Amedeo e la quattordicenne Maria Cristina di Borbone-Francia, Carlo Amedeo I donò alla nuora la dimora fluviale. Fu proprio Maria Cristina, figlia del sovrano francese Enrico IV, sorella di Luigi XIII e, alla morte del marito, prima Madama Reale, a decidere importanti lavori di ampliamento su progetto dell'architetto Carlo Cognengo conte di Castellamonte e del figlio di quest'ultimo, Amedeo, suo collaboratore e poi successore nella direzione del cantiere. La giovanissima duchessa era avvezza ai fasti della corte francese e volle ricrearli in quella che scelse come propria sede di rappresentanza, non soltanto nello stile architettonico ma anche nelle sontuose feste che in essa organizzava. Carlo di Castellamonte, sul modello transalpino del pavillion-système, raddoppiò la preesistente struttura cinquecentesca realizzando, tra 1620 e 1621, il corpo parallelo al fiume, delimitato ai lati da due torri con una caratteristica copertura a falde fortemente inclinate. A partire dal 1645, Amedeo di Castellamonte fece edificare due padiglioni più bassi rivolti verso la città, collegati alla manica principale tramite due gallerie porticate a forma di esedra semicircolare che andavano a formare un cortile d'onore detto "en forme de théâtre". Ai lati era prevista la presenza di giardini, uno nell'ala sinistra, l'attuale orto botanico dell'Università degli Studi di Torino, l'altro nell'ala destra, mai portato a compimento. Fungeva da prospetto principale la facciata che guardava al fiume Po, un tempo navigabile e suggestiva cornice di scenografici ricevimenti a bordo di bucintori veneziani. Questa tra le due facciate è quella che ha mantenuto praticamente intatto l'originale assetto castellamontiano, ispirato, seppur in maniera estremamente semplificata, a quello dello Château-Neuf a Saint-Germain-en-Laye, voluto da Enrico IV di Borbone-Francia ed oggi quasi totalmente scomparso.  Mentre procedevano i lavori di ampliamento e ridefinizione architettonica sotto la supervisione degli ingegneri ducali, la reggente dispose l'allestimento di due appartamenti perfettamente simmetrici (5 stanze ed un cabinet ciascuno), uno per sé e l'altro per il figlio Carlo Emanuele II, e li fece decorare, dal 1633 al 1646, in maniera particolarmente elaborata secondo un preciso progetto iconografico ideato dal grande retore di corte Emanuele Tesauro e dal conte Filippo di San Martino d'Agliè, raffinato uomo di lettere e favorito di Maria Cristina. L'appartamento meridionale che guarda verso Moncalieri, appartenuto alla duchessa madre, venne affrescato dal pittore Isidoro Bianchi da Campione d'Italia con temi floreali e scene mitologiche tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, ed impreziosito da sontuose cornici in stucco dorato dai due figli di Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi. Sul lato opposto, l'appartamento destinato al futuro duca venne ornato con pitture a fresco dei fratelli Giovanni Antonio e Giovanni Paolo Recchi, incorniciate dai candidi stucchi di Alessandro Casella e del suo éntourage familiare. Qui per gli affreschi vennero pensate tematiche tradizionalmente ritenute virili, come la caccia o la guerra. Fino alla morte della Madama Reale, avvenuta nel 1663, la delitia fluviale del Valentino, all'epoca immersa nel verde lussureggiante della campagna torinese, fu spazio scenografico per la vita di corte.

Fig. 6 -Charles Dauphin: "Ritratto equestre di Maria Cristina di Borbone-Francia in veste dI Minerva, 1663 circa, olio su tela. Racconigi, Castello di Racconigi. Copyright fotografico: iltorinese.it.

Seppur ormai soppiantato da altre residenze più alla moda, nel XVIII secolo il castello mantenne ancora intatto il suo status di maison de plaisance. Negli anni dell'Occupazione Napoleonica di Torino venne dichiarato "Casa Nazionale" e adibito a sede della Scuola di Veterinaria. Dopo la Restaurazione, tornato in mano alla Corona e persa definitivamente l'originaria funzione divenne, nel 1824, il quartier generale del Corpo Reale di Artiglieria fino alla cessione demaniale, avvenuta nel 1850. Con il progetto di espansione della città verso sud e la creazione del Parco pubblico del Valentino l'ormai ex residenza sabauda venne inurbata. In occasione della VI Esposizione Nazionale dei prodotti dell'industria, voluta da Camillo Benso conte di Cavour, fra 1857 e 1858 la struttura subì dei significativi interventi di restauro ed ampliamento su progetto di Domenico Ferri e Luigi Tonta, i quali stravolsero completamente la primitiva organizzazione compositiva, prevedendo non più l'affaccio verso il fiume, ma verso la città. Demoliti i portici terrazzati castellamontiani, vennero innalzate due gallerie laterali che, nella scansione delle aperture, riprendevano l'apparato decorativo della facciata seicentesca. Nel 1859, con la Legge Casati, veniva istituita la Regia Scuola di Applicazione degli Ingegneri con sede proprio presso il castello. Una nuova serie di importanti lavori, tra 1866 e 1899, comportarono l'abbattimento dell'emiciclo che costituiva il cortile "en forme de théâtre", e, in luogo di questo, l'edificazione di due basse maniche terrazzate unite da una cancellata. Vennero in seguito aggiunti l'Edificio degli esperimenti idraulici (manica sud) e le maniche a pettine ad ovest. Nel 1906 nacque dall'unione fra la Regia Scuola di Applicazione degli Ingegneri e il Regio Museo Industriale il Politecnico di Torino. Tutt'ora l'edificio ospita i dipartimenti di Architettura e Design di quest'ultima istituzione universitaria. Dal 1997, assieme a tutte le altre residenze della Real Casa di Savoia, è patrimonio dell'Umanità tutelato dall'Unesco.

Il Castello del Valentino. Gli interni - Il piano terra

Fig. 7 - Interno della Sala delle Colonne. Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Al pian terreno, il primo ambiente in cui si imbatte il visitatore è la Sala delle Colonne.  Si tratta dell'atrio di collegamento tra la facciata verso il fiume e il cortile d'onore rivolto verso Torino. Al centro, sei robuste colonne doriche in breccia del tipo "vecchia macchia svizzera", del tutto simili a quelle del portico esterno, sostengono volte a crociera. Nella parte alta delle pareti, entro nicchie ovali incorniciate da stucchi del Corbellino, sono collocati busti di imperatori romani, già appartenuti alle collezioni sabaude di scultura antica.

Fig. 8 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Nel corso di un restauro decennale curato dalla Fondazione Crt e dal Politecnico di Torino, è stata riscoperta una cappella dotata di sacrestia, aperta al pubblico nel febbraio del 2018. Localizzata presso il padiglione nord-ovest, era stata murata all'inizio del XX secolo e se ne erano perse completamente le tracce. Il piccolo spazio sacro, costruito negli anni '40 del Seicento da Amedeo di Castellamonte, si presenta riccamente ornato da pregevoli stucchi bianchi, riferibili non agli anni in cui il Castello del Valentino era dimora di Maria Cristina, ma quando lo era di sua nuora, la Madama Reale Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, come dimostrato dalla presenza dei monogrammi di quest'ultima iscritti fra gli elementi decorativi.

Fig. 9 - Volta della cappella castellamontiana. Copyright: Corriere.it.

Il Piano Nobile

Tramite lo scalone monumentale a doppia rampa si accede al primo piano, ove sono collocati gli ambienti aulici. Fulcro del piano nobile è il Salone d'Onore, che serve da nodo di congiunzione tra l'appartamento della reggente e quello del futuro duca.

Il Salone d'Onore

Fig. 10 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il Salone d'Onore o Gran Sala offre un punto di vista privilegiato sulla collina prospiciente il Castello del Valentino, sulla riva opposta del Po, ove Madama Cristina aveva fatto trasformare un modesto villino collocato al centro di una vigna in un vero e proprio palazzo a pianta centrale, all'esterno del quale si estendeva un giardino dotato di peschiere, viali alberati e pergolati, l'attuale Villa Abegg. La complessa decorazione pittorica del salone, più estesa e ardita rispetto a quella delle altre stanze, venne realizzata da Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi nella prima metà degli anni '40 del Seicento per poi essere ritoccata, circa trent'anni dopo, da Giovan Battista Cortella e dai fratelli Recchi, i quali intervennero probabilmente sulle quadrature. Negli affreschi a trompe-l'oeil delle colossali colonne salomoniche sorrette da telamoni di michelangiolesca memoria, sostengono a loro volta una sontuosa balconata aperta verso il cielo, popolata da sculture in bronzo dorato e ornata da balaustre simili a quelle dello scalone d'onore. Tra le quadrature, scene di battaglia corredate di targhe esplicative in versi celebrano le virtù e il valore militare dei duchi di Savoia, ponendo fortemente l'accento sui buoni rapporti intrattenuti in passato con la Francia, in chiaro omaggio alla duchessa. Sul registro inferiore della decorazione due iscrizioni disegnate da Ludovico Pogliaghi e realizzate da Gerolamo Poloni, aggiunte negli anni '20 del Novecento, commemorano tutti gli studenti del Regio Politecnico caduti nel corso della Grande Guerra. Al centro del soffitto, in origine completamente affrescato con una visione da sottinsù che risultava in parte perduta già nel XIX secolo, campeggia un lampadario a bracci in vetro di Murano, alto ben 5 metri, realizzato da Ettore Stampini nell'Ottocento.

L'appartamento della duchessa

La Stanza verde

Fig. 13 - Copyright fotografico: MuseoTorino.it.

Tra tutte le sale del piano nobile, la Stanza verde è l'unica ad essere titolata, già negli inventari seicenteschi, per il colore della propria tapisserie anziché per il tema portante degli affreschi. Il verde sulla volta non svolge soltanto la mera funzione di "corame" per gli stucchi dorati, ma si carica di valenza simbolica ricorrendo, in diverse nuances, nelle vesti dei personaggi che popolano gli affreschi dei vari riquadri: dove è più cupo allude alla morte dell'eroe, deve è invece più brillante indica la speranza di rinascita. In esso si legge un riferimento alla dipartita di Vittorio Amedeo I, avvenuta nel 1637, quando ancora il legittimo erede Francesco Giacinto (morto nel 1638) aveva solo 5 anni. L'evento scatenò una lotta per la contesa della reggenza tra i due fratelli dell'estinto - il cardinale Maurizio e il principe Tommaso - e la vedova Maria Cristina. Agli scontri intestini si univano le mire espansionistiche verso il Piemonte del cardinale Richelieu. La guerra civile si concluse quando la duchessa, tutrice del futuro duca Carlo Emanuele II, venne dichiarata reggente, divenendo così la prima Madama Reale di Casa Savoia. Le pretese dei cognati erano tutt'altro che dissolte, e i dissapori terminarono una volta per tutte soltanto quando, contro le aspettative di tutti, Maria Cristina dichiarò maggiorenne il figlio a soli quattordici anni facendogli assumere, almeno dal punto di vista formale, il comando. Nell'affresco posto al centro della volta, la Madama Reale viene ritratta in atteggiamento mesto nelle vesti di Flora, con indosso abiti che riprendono i colori dinastici franco-sabaudi. Ai piedi della dea, alla quale delle ancelle stanno per offrire un toro in olocausto, si trovano vasi semivuoti con fiori appassiti. Il toro simboleggia Vittorio Amedeo, nato proprio sotto il segno zodiacale omonimo, che morendo viene accolto dalla divinità per rinascere a nuova vita. In alto a sinistra, infatti, è raffigurata l'apoteosi dell'animale. Il tema della morte e della rinascita viene affrontato, tramite un raffinato gioco di ambivalenze e rimandi, anche nelle scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio disposte sulle estremità della ricca cornice e nella fascia di raccordo tra il soffitto e le pareti.

La Stanza delle rose

Fig. 17 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il nome di questo ambiente deriva dal motivo ornamentale della rosa, ripetuto quasi ossessivamente negli stucchi e nelle pitture. La regina dei fiori era l'emblema araldico legato al titolo, puramente onorifico, di Re di Cipro e Gerusalemme con cui Vittorio Amedeo I venne fregiato, tramite l'imposizione del collare, nel dicembre del 1632. La volta a calotta, strutturata in più fasce decorative, poggia su un tamburo circolare scandito da putti reggifestoni su mensole. Agli angoli svolgono la funzione di pennacchi coppie di putti che, librandosi in volo, sorreggono gli stemmi della Madama Reale. Sulla fascia che raccorda la volta alle pareti si alternano, ancora una volta, gruppi di putti dipinti su fondo dorato, ora con mazzolini di rose, ora col collare della Rosa Sabauda di Cipro e Gerusalemme. Poiché l'affresco originale di Isidoro Bianchi che rappresentava "Venere e Marte" era estremamente degradato, nel corso dei lavori ottocenteschi si decise di posizionare al centro della calotta una tela raffigurante "La Fama che regge lo stemma della Madama Reale", opera di un allievo di Gaetano Ferri. Sempre durante quegli interventi, le originali porte del Casella vennero sostituite con delle altre, ornate da stucchi realizzati su disegno di Domenico Ferri dallo scultore Pietro Isella, cui vanno riferiti anche i busti di Emanuele Filiberto collocato sulla porta sud, quello di Margherita di Valois sulla porta nord e quello di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours sulla porta ovest. Proprio in questa stanza era documentata la presenza dei quattro tondi dell'Albani, oggi alla Galleria Sabauda.

La Stanza dei Pianeti o dello Zodiaco

Fig. 20 - Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Prima stanza dell'appartamento meridionale rivolta verso il fiume, la Sala dei Pianeti o dello Zodiaco, presenta anch'essa ornamenti dell'éntourage dei Bianchi. Nel riquadro centrale della volta è presente una personificazione dell'Eridano (antico nome del Po) incoronata alla presenza del Tempo dal Giorno e dalla Notte. Anche stavolta l'ispirazione è fornita dalle Metamorfosi ovidiane. Tutt'intorno, entro pregevoli cornici polilobate collocate perfettamente nei punti cardinali, si trovano affrescate le allegorie dell'Aurora, del Sole, dell'Iride e della Notte. Più in basso, all'interno di cornici cuoriformi, sono raffigurate simbolicamente le quattro stagioni. Il fregio di raccordo, riplasmato da Gaetano Ferri nell'Ottocento, mostra nei riquadri i ritratti a mezza figura delle coppie ducali legate alla storia del palazzo (Emanuele Filiberto e Margherita di Valois, Maria Cristina di Francia e Vittorio Amedeo I, Carlo Emanuele II e Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours), che vengono alternati a stucchi con i segni zodiacali. Sempre nel corso del secolo XIX vennero modificate le originali cromie degli stucchi, prima su campo azzurro con stelle d'oro e figure bianche.

La Stanza della Nascita dei Fiori o del "Vallantino"

Fig. 23 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Prima delle stanze ad essere decorata dai Bianchi, la Stanza della Nascita dei Fiori racchiude nella cornice in stucco del soffitto tutti gli elementi decorativi presenti nelle sale sopra descritte (girali di foglie d'acanto, teste di putto che sostengono festoni, meandri, rose sabaude di Cipro e Gerusalemme, gigli di Francia, mensole scandite da ghirlande, protomi leonine e putti reggimensola con terminazione giraliforme). L'unico affresco centrale celebra, tramite una complessa scena allegorica, l'inizio di un'età d'oro con il matrimonio tra Maria Cristina e Vittorio Amedeo. Al centro geometrico della composizione la duchessa, figurata nei panni di Flora, raccoglie e distribuisce a dei putti fiori variopinti di diverse specie, contenuti all'interno di vasi e canestri posizionati ai suoi piedi. Alle sue spalle si trova il centauro Chirone, il precettore di Achille, nel cui volto si riconoscono le fattezze di Carlo Emanuele I, padre di Vittorio Amedeo. Egli infatti aveva come proprio simbolo araldico il centauro, ed in vita fu protettore delle Lettere e delle Arti (probabilmente per questo viene indicato da Apollo, divinità che nella mitologia classica è preposta, oltre che al traino del carro del Sole e alla profezia, anche alla custodia di tutte le Arti). Chirone viene inoltre scelto come espressione dell'ineludibile necessità di formare il giovane principe ereditario, affinché possa un giorno governare con rettitudine. In secondo piano, a sinistra del dipinto, sono collocate le nove Muse, ciascuna con il proprio attributo iconografico. Sullo sfondo si staglia il Castello del Valentino così come era stato concepito nei progetti dei Castellamonte e, in particolare, si notano degli elementi mai realizzati: i giardini verso il fiume e le due ali laterali (quella di sinistra non venne mai edificata e quella di destra fu solo parzialmente completata durante i lavori di rimaneggiamento di Ferri e Tonta). Il fregio collocato nella sezione apicale della parete sembra mostrare l'atto successivo della scena descritta sul soffitto: i putti, infatti, dopo aver preso i fiori raccolti da Cristina e dalle sue ancelle, li stanno utilizzando per distillare essenze profumate.

La Stanza dei gigli

Fig. 26 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

L'assetto attuale della Stanza dei gigli è quasi totalmente frutto dei restauri del 1858 e di quelli che seguirono i bombardamenti del Secondo Conflitto Mondiale. Degli affreschi seicenteschi realizzati dai maestri campionesi rimane solo il fregio che intercorre lungo tutta la parte alta delle pareti, nel quale si scorge una serie ininterrotta di puttini intenti a giocare con degli steli di giglio, simbolo araldico della committente, e con dei cartigli recanti motti in italiano e francese. Tramite i disegni tardo-settecenteschi di Leonardo Marini, architetto e decoratore dei Regi Palazzi, conosciamo l'originale conformazione degli stucchi della volta. Purtroppo non abbiamo avuto la stessa fortuna con l'affresco centrale, che gli inventari antichi descrivono in maniera estremamente sommaria. La tappezzeria dipinta su carta risale al 1924 ed è opera di Giovanni Vacchetta.

Fig. 27 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Gabinetto dei Fiori indorato

Fig. 28 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il Gabinetto dei Fiori indorato era in origine un boudoir dedicato alla toeletta della Madama Reale, come testimoniato dalla presenza di "otto specchi inseriti nella muraglia" incorniciati da nastri e girali d'acanto in stucco. Questi erano già documentati negli inventari del 1644 e sono stati ricollocati durante i restauri degli ultimi anni del Novecento. Lo studiolo, privo di affreschi, presenta stucchi dal raffinato disegno unitario, composto da elaborati intrecci vegetali, rose e gigli di Francia, che nullificano la separazione tra il soffitto e le pareti. Poiché il piccolo ambiente dava verso l'esterno e collegava il padiglione lato Po a quello lato Torino, sulla porzione inferiore delle pareti est ed ovest venne dipinta a trompe-l'oeil una porzione di pavimento in prospettiva, che riproduceva quello a riquadri in cotto presente in tutto il piano nobile, allo scopo di dilatare gli spazi e dare una sensazione di continuità.

Fig. 29 - Copyright fotografico: www.Camper.it.

L'appartamento del principe ereditario

La Stanza della Guerra

Fig. 30 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza della Guerra è il primo dei cinque ambienti che compongono l'appartamento destinato al futuro duca Carlo Emanuele II, nonché l'ultimo ad essere decorato dall'éntourage dei Bianchi, cui subentrarono i pittori e stuccatori Giovanni Paolo e Giovanni Antonio Recchi. Come in tutte le sale di questo appartamento, contraddistinto dalla presenza di stucchi bianchi, anche qui il tema selezionato per l'apparato ornamentale ha un preciso intento paideutico nei confronti del giovane principe. Gli affreschi celebrano infatti l'arte di fare guerra, all'epoca fondamentale per accrescere e\o proteggere i confini di uno Stato. Come exemplum di questa virtù viene proposto il defunto Vittorio Amedeo I, le cui gesta militari vengono esaltate non soltanto negli affreschi dei riquadri secondari del fregio e del soffitto, opera dei Recchi, ma anche nell'ottagono centrale; dove l'allegoria della Vittoria viene incoronata dalla Fama alla presenza della Guerra, mentre il Genio della Storia scrive su un clipeo le imprese compiute dal duca estinto. A coronamento della composizione si trova un cartiglio svolazzante sul quale è scritta la frase latina: "VICTORIS VICTORI VICTORIA", paronomasia che allude con ogni evidenza a Vittorio Amedeo, qui decantato in maniera elegiaca come 'vincitore'. All'apice delle due porte in stucco di Alessandro Casella, il restauro degli ultimi decenni del Novecento ha restituito i ritratti a mezzo busto dei genitori del principe, affrescati entro degli ovali.

Fig. 31 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza del Negozio

Fig. 32 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Nella Stanza del Negozio le pitture indirizzano all'arte della diplomazia, essenziale per il mantenimento degli equilibri fra Stati. In mezzo al soffitto, un'allegoria esalta la Pace quale portatrice di fertilità, abbondanza ed armonia, nonché come conditio sine qua non per la felicità dei cittadini, fine ultimo di ogni Stato. La presenza in alto del motto "CAELESTIS (A)EMULA MOTUS" e del simbolo araldico dell'uccello del Paradiso, appartenuti a Vittorio Amedeo I, si leggono come un'esortazione rivolta al futuro reggente ad emulare le virtù diplomatiche paterne. Scene di negoziazioni e stipulazioni di alleanze fra legati sabaudi ed illustri sovrani europei ed orientali sono incorniciate da un intricato motivo ornamentale fatto di telamoni, putti e angeli a coda fitomorfa. Nella scelta figurativa degli episodi si legge l'intento di magnificare un ducato che, pur non essendo particolarmente esteso, fu capace di imporsi nella scena politica europea contribuendo a definirne le sorti.

Fig. 33 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza della Magnificenza

Fig. 34 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

All'interno della Stanza della Magnificenza viene ribadita l'importanza per un regnante di far realizzare grandi opere pubbliche e private. Nel centrovolta la Potestà sovrana, seduta su un trono di nuvole con scettro e corona, viene magnificata dalle committenze di fabbriche regie. Le pitture dei riquadri, attribuite ai Recchi, si presentano come una vera e propria raccolta enciclopedica delle architetture ducali legate alla committenza di Carlo Emanuele I, Vittorio Amedeo I e Maria Cristina, tra le quali si riconoscono il Palazzo Ducale (già Palazzo Arcivescovile ed attuale Palazzo Reale), Santa Maria al Monte dei Cappuccini, Contrada di Po prima della costruzione dei portici, Porta Nuova e la Residenza di Mirafiori. La fascia di raccordo è risolta con una serie di paesaggi non ancora identificati in maniera certa ed unanime. Il tutto è incorniciato dagli ornamenti in stucco, caratterizzati da coppie di putti che sostengono cariatidi con terminazioni fitomorfe e da mascheroni da cui si dipartono festoni di primizie. Tra le più eleganti dell'appartamento, le porte sono sorrette da colonnine ritorte e coronate da un fastigio che presenta mensole e putti laterali reggispecchio.

La Stanza della Caccia

Fig. 37 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

L'affresco con Diana e le Ninfe dopo una battuta di caccia che domina la volta rivela il tema iconografico di questa nuova stanza: la caccia. La dichiarazione "BELLICA FACTA PARANT" che si legge iscritta al di sopra di un nastro, ricorda come l'ars venatoria in età moderna fosse fondamentale nella vita di corte in tempi di pace, poiché veniva ritenuta alla stregua di una forma di allenamento per gli eventi bellici. Veri protagonisti della volta sono però gli stucchi, che mostrano un corteo di animali selvatici scanditi da putti reggifestoni. Sulla fascia che corre lungo la parte alta delle pareti, dipinta dai fratelli Recchi, putti con selvaggina e cani (che richiamano i putti profumieri della Stanza della Nascita dei fiori, perfettamente simmetrica a questa) si alternano a scene di caccia al cerbiatto, all'orso, al cinghiale e al cervo.

La Stanza delle Feste e dei Fasti

Fig.41 - Giovanni Paolo Recchi: "La Magnificenza sovrana riceve la fama eterna dalle Arti e dalle Scienze", 1665, affresco. Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Dal momento che sono leggibili soltanto due affreschi, anche in questa stanza la raffinata decorazione in candido stucco di Alessandro Casella domina scevra da ogni vincolo architettonico. Sul soffitto campeggia il grande ovale di Giovanni Paolo Recchi, raffigurante l'esaltazione della Magnificenza sovrana a cui Arti e Scienze donano fama eterna. Della stessa mano è l'unico riquadro superstite del nastro di raccordo, dove si può vedere una scena con festeggiamenti pubblici in Piazza Castello, più precisamente nello spazio da parata fatto ricavare appositamente nell'area prospiciente Palazzo Madama.

Gabinetto d'Ercole

Fig. 42 - Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Corrispondente in maniera simmetrica al Gabinetto dei Fiori indorato, questo piccolo studiolo completamente rivestito di stucchi, deve il suo nome alle rappresentazioni di quattro delle dodici fatiche di Ercole, poste all'interno di una fitta rete di riquadrature geometriche presenti sulla volta. Lo spazio, punto di raccordo originario tra l'appartamento e la terrazza che si affacciava sulla corte d'onore e sull'area settentrionale del castello - poi adibita ad orto botanico nel Settecento - subì alcune modifiche alla struttura muraria che comportarono anche la chiusura di una porta.

Bibliografia:

Il Castello del Valentino, a cura di Costanza Roggero e Annalisa Dameri. Torino, Allemandi, 2007.

 

Sitografia:

https://castellodelvalentino.polito.it/

https://www.unesco.beniculturali.it/projects/residenze-sabaude/

http://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-filiberto-duca-di-savoia_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/cristina-di-francia-duchessa-di-savoia_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/isidoro-bianchi_res-1292b8c2-87e8-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-di-castellamonte_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/amedeo-di-castellamonte_(Dizionario-Biografico)/

https://torino.repubblica.it/cronaca/2018/02/07/news/castello_del_valentino_scoperta_una_stupenda_cappella_seicentesca_del_castellamonte-188288469/

http://www.torinotoday.it/eventi/cultura/cappella-castellamonte-valentino.html

http://www.museotorino.it/view/s/f987e76510294fa9852817e2e715da5a