DONATELLO “POLIMATERICO”

A cura di Silvia Faranna

 

Donatello: il maestro del Rinascimento tra legno, terracotta, bronzo e marmo

Donato di Niccolò di Betto (1386 circa – 1466), conosciuto come Donatello, può essere considerato il padre del nuovo linguaggio artistico rinascimentale, come ha evidenziato Luisa Becherucci: ‹‹Con l’opera di Donatello […] la tradizione scultorea […] appare in tutta la sua matura pienezza››[1]. Una ‹‹matura pienezza›› che si evince dal naturalismo e dalla ‹‹caratterizzazione psicologica››[2] fiorite nelle opere di Donatello, realizzate attraverso tecniche e con materiali differenti, ‹‹et con il porre, et con il levare››[3], riportando le parole di Leon Battisti Alberti. Infatti, il corpus artistico donatelliano è molto vasto e variegato: se ne riconoscono le opere in legno, stucco, terracotta, bronzo e ovviamente marmo.

 

Il Crocifisso in legno di Santa Croce di Donatello 

Tra le opere giovanili del maestro, esemplare è il Crocifisso realizzato intorno al 1408, destinato in origine alla Cappella del Beato Gherardo da Villamagna e dal 1571 posizionato nella Cappella Bardi di Vernio in Santa Croce (fig. 1).

 

La storia del crocifisso ligneo non può che essere ricondotta all’aneddoto vasariano che vide coinvolti i due amici, Donatello e Brunelleschi; al di là della veridicità della storia, il testo lascia comprendere le differenze stilistiche dei due maestri, e contestualmente testimonia la loro vicinanza. Maestoso il Crocifisso di Brunelleschi, stanco e sofferente quello di Donatello; una differenza fondamentale che avrebbe portato Donatello, secondo il Vasari, ad affermare che a Brunelleschi ‹‹è conceduto fare Cristi et a me i contadini››[4] (fig. 2).

 

Il Crocifisso donatelliano è un crocifisso ligneo policromo, scavato in legno di pero, in cui si riconoscono gli strascichi della formazione ghibertiana nella resa del perizoma.

 

La sofferenza del Cristo non è dimostrata solo dal sangue che percorre gli arti (mani, braccia, costato e piedi), ma anche dalla muscolatura: il suo corpo è affaticato come il suo volto, dove le labbra carnose e schiuse, gli occhi semiaperti e i capelli bruni divisi in ciocche si mostrano all’opposto dell’eleganza del Crocifisso di Brunelleschi (fig. 4).

 

 

La Madonna col Bambino del Museo Bardini: alla scoperta della terracotta

Il contributo dello storico dell’arte Luciano Bellosi fu fondamentale per ampliare il corpus donatelliano con le opere in terracotta, cosicché negli ultimi trent’anni sono state individuate diverse opere realizzate in coroplastica; tra queste, la Madonna Bardini (conosciuta anche come Madonna della mela) è una delle più rappresentative (fig. 5).

 

Databile intorno al 1420-1423 circa, alla fine del XX secolo fu trovata in un edificio nel Mugello e fu poi acquistata dall’antiquario Stefano Bardini. Si tratta di un altorilievo scontornato, realizzato in terracotta policroma, dipinto e dorato, di cui colpisce la resa graduale dell’aggetto delle figure: partendo dal basso lo spessore è minore, per poi aumentare progressivamente (fig. 6).

 

La sensazione che si percepisce è quella di essere guardati dalle due figure; un aspetto voluto dall’artista che aiuta a comprendere che in origine il rilievo fosse collocato in alto. Infatti, Maria si sporge verso il basso, mentre il piccolo e vivace Gesù si contorce e tira via il velo alla madre, la quale riesce a frenare il figlio con una mano, e con l’altra mano invece cerca di intrattenerlo con un melagrana dorata (fig. 7).

 

Fortunatamente i colori e le dorature sono in gran parte originali e tutt’oggi coprono il rossastro della terracotta.

 

Gli Spiritelli “parigini” in bronzo del Musée Jacquemart-André

Se c’è un soggetto che Donatello ha amato rappresentare con qualsiasi materiale, quello è certamente lo “Spiritello”. Di origine antica, gli Spiritelli sono bambini nudi e alati, allegri e sorridenti, danzanti, musicanti, protagonisti di molte opere del maestro. Tra gli Spiritelli realizzati in bronzo spiccano gli Spiritelli portacero (1436-1438) del Musée Jacquemart-André di Parigi, in origine posizionati sulla Cantoria realizzata da Luca della Robbia su commissione dell’Opera del Duomo di Firenze (fig. 8,9).

 

La loro originaria posizione ha indotto in errore Giorgio Vasari che nelle Vite ricondusse i due Spiritelli bronzei a Luca della Robbia, ma dai documenti si evince che fu Donatello l’artista pagato per realizzare i due Spiritelli, che ad oggi si mostrano appollaiati su dei supporti marmorei non originali; bisogna però immaginarli disposti sul pergamo, intenti a illuminare l’organista attraverso le candele, in modo da garantirgli la lettura dello spartito (fig. 10).

 

La posizione delle gambe pingui, abbellite con nastri e ghirlande, non passò inosservata all’epoca: rievocazioni dei due Spiritelli si ritrovano sia nel Gesù bambino nella Madonna col Bambino (1438-1440 circa) di Paolo Uccello (fig. 11), che nella Madonna di Tarquinia (1437) di Filippo Lippi (fig. 12).

 

Sottilissimo e leggerissimo marmo: la Madonna del Pugliese-Dudley 

Grande quanto la copertina di un libro, questo piccolo marmo è stato per molto tempo attribuito a Desiderio da Settignano, ma solo recentemente è stato ricondotto da Francesco Caglioti a Donatello[5] (fig. 13).

 

Vasari stesso, nella vita di Fra Bartolomeo, relazionò il marmo alla mano dell’artista: ‹‹Aveva Pier del Pugliese avuto una Nostra Donna piccola di marmo, di bassissimo rilievo, di mano di Donatello, cosa rarissima››[6]. Sebbene non sia nota la committenza del rilievo marmoreo, si conosce invece Piero del Pugliese, il committente degli sportellini dipinti da Fra Bartolomeo, raffiguranti l’Annunciazione, la Natività e la Presentazione al Tempio per costruire un piccolo tabernacolo (fig. 14).

 

In questo marmo “in miniatura” Maria, seduta di profilo, è tutta rivolta al figlio, il quale, sempre attivo, si attacca alla veste fatta di panneggi leggeri, sottilmente intagliati ma comunque palpabili, a cui si unisce il velo che copre il capo della Madonna. Ma è ‹‹l’effetto sentimentale addirittura terebrante››[7] che Donatello seppe far risaltare attraverso il suo stiacciato così sottile – quasi in competizione con la pittura – che si staglia su uno sfondo neutro (fig. 15).

 

Artisti da Leonardo (fig. 16) a fra Bartolomeo, dal Bronzino (fig. 17) fino ai Gentileschi (fig. 18), seppero acquisire la lezione donatelliana, continuando a dimostrare come Donatello fosse stato così grande da lasciare la sua scia fino al Seicento e oltre.

 

La maestria e il virtuosismo di Donatello si riconoscono nel modo in cui seppe agevolmente modellare materiali diversi, con i quali creò opere innovative, per cui Vasari lo riconobbe come: ‹‹[…] non pure scultore rarissimo e statuario maraviglioso, ma pratico negli stucchi, valente nella prospettiva […] Et ebbono l'opere sue tanta grazia, disegno e bontà, ch'oltre furono tenute più simili all'eccellenti opere degl'antichi Greci e Romani, che quelle di qualunche altro fusse già mai››[8].

 

 

 

 

 

Note

[1] L. BECHERUCCI, Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, 2 voll., Milano 1969-1970, p. 26.

[2] A. GALLI, «Pressoché persone vive, e non più statue», in La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400- 1460, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo - 18 agosto 2013; Parigi, Musée du Louvre, 26 settembre 2013 - 6 gennaio 2014), a cura di B. Paolozzi Strozzi, M. Bormand, Firenze 2013, p. 89.

[3] L.B. ALBERTI, Della architettura della pittura e della statua, traduzione di Cosimo Bartoli, Bologna 1782, p. 323.

[4] G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 697.

[5] Per approfondire lo studio di Francesco Caglioti a riguardo: Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo (Firenze, Casa Buonarroti, 30.6-19.10.1992), a cura di P. Barocchi, Milano 1992, pp. 72-78 n. 14.

[6] G. VASARI, Le vite…cit., p. 1176.

[7] F. CAGLIOTI, I secoli della Madonna Dudley, in Donatello, il Rinascimento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi-Museo Nazionale del Bargello, 19 marzo-31 luglio 2022), a cura di F. Caglioti, Firenze 2022, p. 398.

[8] G. VASARI, Le vite…cit., pp. 694-695.

 

 

 

Bibliografia

L.B. Alberti, Della architettura della pittura e della statua, traduzione di Cosimo Bartoli, Bologna 1782.

Becherucci, G. Brunetti, Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, 2 voll., Milano 1969-1970.

Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo (Firenze, Casa Buonarroti, 30.6-19.10.1992), a cura di P. Barocchi, Milano 1992, pp. 72-78 n. 14.

G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.

Caglioti, Tra dispersioni e ricomparse: gli “Spiritelli” bronzei di Donatello sul pergamo di Luca della Robbia, in Santa Maria del Fiore: the Cathedral and its Sculpture, atti del convegno (Firenze, Villa I Tatti, 5-6 giugno 1997), a cura di M. Haines, Fiesole 2001, pp. 263-287.

Lalli, P. Moioli, M. Rizzi, C. Seccaroni, L. Speranza, P. Stiberc, Il Crocifisso di Donatello nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Osservazioni dopo il restauro, in “OPD Restauro”, 2006, 18, pp. 13-38.

Galli, «Pressoché persone vive, e non più statue», in La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400- 1460, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo - 18 agosto 2013; Parigi, Musée du Louvre, 26 settembre 2013 - 6 gennaio 2014), a cura di B. Paolozzi Strozzi, M. Bormand, Firenze 2013.

Caglioti, L. Cavazzini, A. Galli, N. Rowley, Reconsidering the young Donatello, in «Jahrbuch der Berliner Museen», LVII, 2015.

Donatello, il Rinascimento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi-Museo Nazionale del Bargello, 19 marzo-31 luglio 2022), a cura di F. Caglioti, Firenze 2022.


I DELLA ROBBIA E LA TERRACOTTA INVETRIATA

A cura di Luisa Generali

La scultura dei della Robbia: alcuni esempi

È di qualche mese fa l’accordo per la restituzione da parte dell’Italia alla Germania della Maddalena attribuita ad Andrea della Robbia (fig. 1-2), opera sottratta a una famiglia ebrea tedesca che ne era proprietaria durante il secondo conflitto mondiale. Finita in Italia erroneamente e qui rimasta a lungo, l’opera rappresenta una giovane Maddalena, dai tratti acerbi e l’espressione innocente, secondo un’interpretazione del tutto contraria allo stereotipo del suo personaggio di peccatrice penitente, peraltro inesatto; nella rappresentazione di della Robbia completamente smaltata di bianco, Maria di Magdala è restituita, infatti, secondo le sembianze di una fedele seguace di Gesù, dall'aspetto esile e il volto luminoso, scoperto dai lunghi capelli mossi, particolare iconografico che caratterizza le immagini della Santa a cui si uniscono anche gli attributi dell’ampolla contente l’unguento profumato e il libro, simbolo di conoscenza. L’opera in questione offre anche l’occasione per ripercorrere le vicende della bottega che l’ha realizzata, iniziando dal maestro della terracotta invetriata, Luca della Robbia (1399-1482), a cui andò il merito di aver perfezionato questa tecnica secondo gli ideali rinascimentali che si andavano definendo in Toscana.

Nel panorama dei grandi scultori del Rinascimento fiorentino Luca della Robbia si formò come scultore sull’esempio classicista di Nanni di Banco (1380/1390 c.-1421), grazie al quale divenne uno dei maggiori esponenti della tradizione antica, a paragone del più rivoluzionario Donatello (1386-1466): un confronto di stili che la storia dell’arte ha riconosciuto come paradigma nelle famose Cantorie per il duomo di Firenze.

Negli anni ‘40 del Quattrocento Luca della Robbia iniziò a sperimentare la tecnica della terracotta invetriata, creando rilievi in creta rivestiti di smalto colorato e cotti, dall’effetto finale sorprendentemente luminoso. I benefici portati dalla smaltatura erano su più fronti vantaggiosi, in quanto la superficie impermeabile acquisiva una resistenza maggiore agli agenti atmosferici e manteneva inalterato lo splendore dei colori, oltre al lato economico che vedeva la ceramica molto meno dispendiosa rispetto ad altri materiali. Anche Vasari nelle sue Vite non manca di ricordare l’invenzione di Luca come un “ghiribizzo” geniale, sottolineando i vantaggi pratici di questa tecnica, insieme alla sua grande diffusione: “Et avendo una maravigliosa pratica nella terra, la quale diligentissimamente lavorava, trovò il modo di invetriare essa terra co’l fuoco, in una maniera che e’ non la potesse offendere né acqua né vento. E riuscitoli tale invenzione, lasciò dopo sé eredi e figliuoli di tal secreto. E così fino al tempo nostro, i suoi descendenti hanno lavorato di tal mestiero, e non solo ripiena di ciò tutta la Italia, ma e mandatone ancora in diverse parti del mondo. “[…] Onde Luca della Robbia merita somma lode, avendo alla scultura questa parte aggiunta, potendosi con bellezza e con non molta spesa ogni luogo acquatico et umido abbellire”.

La tecnica dell’invetriatura rappresentava la rinascita di un’abilità già conosciuta dagli antichi, che Luca della Robbia seppe reimpiegare nelle forme del linguaggio rinascimentale, portando la terracotta al pari delle altre arti maestre, secondo una tavolozza standardizzata sulle cromie dell'azzurro e del bianco, rispettivamente adottate per gli sfondi e le figure. Altre tonalità (come il giallo, il verde, il bruno, il nero) vengono progressivamente inserite nelle opere robbiane per la colorazione di dettagli decorativi quali ghirlande, fregi vegetali e di frutta, mattonelle a motivi tessili, decori a grottesche e candelabra, costituendo un insieme di elementi esornativi che sanciranno il marchio di fabbrica della bottega.

La prima applicazione dell’invetriatura risalente al 1442 è documentata nel Tabernacolo del Sacramento originariamente realizzato per la Cappella di San Luca dello Spedale di Santa Maria Nuova, oggi nella chiesa di Santa Maria a Peretola (fig.3). L’artista per il tabernacolo murario crea una struttura in marmo a forma di edicola, definita da lesene scanalate con capitelli corinzi e culminante in un timpano al cui interno è raffigurato Dio Padre benedicente. Alla lavorazione della pietra utilizzata per definire la struttura e i rilievi figurativi, si affianca per la prima volta l’uso della ceramica invetriata: l’azzurro fa da fondale alla Deposizione nella lunetta, mentre un festone vegetale inframezzato da tre teste di cherubini corre sull’architrave. Sono preziosissimi i particolari decorativi sperimentati in questa prima opera, che saranno ampliamente sviluppati dalla bottega dei della Robbia nel corso del tempo: qui già compare il tema esornativo dei fiori modellati a rilievo in diverse qualità e colori in mezzo alle ghirlande, mentre nella base si stende un fregio a nastro con motivi a rosette blu, arricchito da “pattern” erbacei su sfondo nero che si ritrovano anche nei pennacchi della lunetta (fig.4).

La tecnica della terracotta invetriata fu eseguita non solo per opere in rilievo ma anche per gruppi statuari a tutto tondo come nel caso della Visitazione compiuta intorno al 1445 per la chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, dove ancora oggi è esposta (fig.5). L’opera è uno fra i primi lavori di grandi dimensioni attribuiti a Luca della Robbia, che per la scena dell’abbraccio fra Elisabetta e Maria scelse di rappresentare entrambe con un avvolgente colore bianco. L’armonia dei corpi e la loro gestualità passano attraverso la formazione classica dell’artista, che per la Vergine modella un ovale perfetto, ideale di pura bellezza. Tratti più naturalistici segnano invece il volto anziano di Sant’Elisabetta, inginocchiata di fronte a Maria e immersa con questa in una comunione empatica di sguardi.

Fig.5 - Attr. Luca della Robbia, Visitazione, San Giovanni fuori Civitas, Pistoia.

Ma senz’altro sono le innumerevoli immagini devozionali raffiguranti la Madonna col Bambino conservate nei principali musei del mondo a sancire il successo della bottega dei della Robbia attraverso il canone ormai fissato nell’immaginario collettivo delle terrecotte smaltate a figure bianche su fondale azzurro. Questa formula visiva sarà una costante della bottega come dimostrano gli esempi dalla Madonna della mela (fig.6) e la Madonna del Roseto (fig.7), entrambe conservate al Bargello. Se nella prima opera la figura di Maria è rappresentata a tre quarti in un’ambientazione astratta, nella Madonna del roseto madre e figlio sono invece collocati a figura intera in un giardino di cespugli verdeggianti e rose bianche, chiuso da uno spicchio di cielo. In entrambi i rilievi risalta la magnificenza rigorosa della Vergine, velata e assorta nella contemplazione malinconica del suo stato di madre, mentre Gesù tiene in mano un frutto rotondeggiante, identificato con la mela, simbolo legato alla redenzione dal peccato originale tramite il suo sacrificio.

Intorno alla metà del secolo la bottega si arricchì del talento del giovane Andrea della Robbia (1435-1525), nipote di Luca, dal quale apprese i segreti dell’invetriatura e ne ereditò le formule compositive di successo: fra queste il tema della Madonna col Bambino fu una delle tipologie maggiormente sviluppate dallo scultore, che seppe conferire al rapporto fra madre e figlio una più tenera affettuosità. Un esempio è rappresentato dalla pala centinata per lo Spedale di Santa Maria Nuova (fig.8), databile intorno al 1470-75, in cui Andrea addolcì la classica maniera austera dello zio, a favore di un maggior naturalismo delle figure: nell’opera anche il fondale azzurro viene privato quella sua componente astratta divenendo un cielo atmosferico, solcato da filiformi nuvole.

Fig. 8 - Andrea della Robbia, Madonna col Bambino, Arcispedale di Santa Maria Nuova.

Queste celebri opere votive hanno conosciuto una fortuna tale che sono entrate a tutti gli effetti nella tradizione figurativa italiana, continuando ancora oggi ad essere riprodotte in diverse varianti come oggetti di devozione domestica specialmente nella forma di tondi e medaglioni.

La compresenza nella bottega di Luca e Andrea della Robbia fino al 1482, anno in cui il nipote ne ereditò la bottega, solleva qualche dubbio attributivo in merito a certe opere, come nel caso del Busto di Santa al Bargello, databile negli anni 1465-70 (fig.9). Impostata sul modello dei busti reliquari per cui non si esclude un’originaria funzione, la Santa presenta il classico nitore robbiano del volto, accompagnato da una spiccata colorazione dei dettagli, fra cui risalta la deliziosa spilla a forma di fiore che allaccia la mantella.

Fig.9 - Attr. Andrea della Robbia, Busto di Santa, Bargello.

L’intensità degli smalti e il repertorio figurativo che caratterizzava le terrecotte dei dell Robbia ne fecero anche un’arte decorativa molto apprezzata proprio per lo spiccato senso ornamentale, andando quindi a interfacciarsi con diverse tipologie di opere impiegate in contesti architettonici, quali stemmi, fregi, cornicioni, lunette ecc. Fra gli apporti ornamentali che la bottega intraprese in importanti edifici ricordiamo i famosissimi Tondi raffiguranti bambini in fasce, realizzati nel 1487 da Andrea della Robbia per il loggiato esterno dell’Ospedale degli Innocenti (fig.10). Ognuno dei dieci medaglioni raffiguranti bambini in terracotta bianca su fondo blu mostra particolari diversificati nella gestualità e nelle caratteristiche tipicamente puerili degli infanti, restituite dall’artista con attenta verosimiglianza.

Fig.10 - Andrea della Robbia, Bambino in fasce, Spedale degli Innocenti.

Il tema della puerizia è affrontato anche nel Busto di fanciullo al Bargello (fig.11), che la critica riferisce ad Andrea della Robbia negli anni tra il 1465 e 1470: la scultura si inserisce nel prolifico filone rinascimentale dedicato ai ritratti di bambini, spesso ricollegato alla devozione per Gesù Bambino e San Giovannino. L’artista sceglie una colorazione monocroma per il volto e i capelli del fanciullo, mentre dispone le uniche note di colore nell'abito e nelle iridi, in modo da enfatizzarne il vivace sguardo: la verosimiglianza naturalistica e l’inclinazione sentimentale che caratterizza l’aspetto del bambino riconducono allo stile di Andrea, sensibile alle novità della pittura coeva.

Fig. 11 - Andrea della Robbia, Busto di fanciullo, Bargello.

La sobria armonia che caratterizza la prima linea di produzione della bottega dei della Robbia mutò con l’arrivo del nuovo secolo verso un linguaggio molto più narrativo, vicino all’intenso coinvolgimento che sapeva suscitare l’odierna pittura. Fra i discendenti della famiglia della Robbia fu Giovanni (1469-1529/30), figlio di Andrea, uno degli esponenti più attivi nella ridefinizione dello stile dei della Robbia, incentrato sulla messa in opera di grandi pale d’altare ricolme di personaggi e dettagli ornamentali dai colori sgargianti.

La Pietà (fig.12) realizzata da Giovanni della Robbia nel 1514 e conservata al Bargello costituisce un esempio del lessico artistico adottato dalla bottega nel XVI secolo, all’insegna di un abbondante decorativismo che, come in questo caso, spesso muta in un vero e proprio horror vacui. L’opera, raffigurante la pietà fra Santa Maria Maddalena e San Giovanni, riduce la consistenza plastica dei rilievi e insiste molto sul dato pittorico nella descrizione esuberante del paesaggio, aperto sullo sfondo verso la città di Gerusalemme: nel mezzo un cielo surreale, striato da inquiete nuvole gialle, partecipa metaforicamente al dramma della morte di Cristo.

Fig. 12 - Giovanni della Robbia, Pietà, Bargello.

 

Bibliografia

Petrucci, Luca della Robbia e la sua bottega: Andrea della Robbia, Benedetto Buglioni, Marco della Robbia (Fra’ Mattia), Giovanni della Robbia, Luca della Robbia il "Giovane", Francesco della Robbia (Fra’ Ambrogio), Girolamo della Robbia, Santi di Michele Buglioni, Firenze 2008.

Ciseri, “Scultura del Quattrocento a Firenze”, in Art e dossier, Dossier; 297.2013, Firenze 2013.

Tardelli, "La Visitazione", Luca della Robbia: nella chiesa di San Leone, Pistoia 2017.

Fonti

Vasari (ed. 1550), Vita di Luca della Robbia scultore, in Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue a’ tempi nostri, Ed. a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Vol. I, pag. 232-235, Torino 2015.


IL CASTELLO DI FUMONE SULLA VIA LATINA

Storia ed importanza della rocca di Fumone

Il castello sorge nell'omonimo comune, in provincia di Frosinone: collocato ad un'altezza di 800 metri, si trova in una posizione di straordinaria importanza strategica, una posizione geografica a dominio sull'intera valle del Sacco e della strada maestra che collegava Roma e Napoli: la via Latina.

Il nome di Fumone nasce dall'antica forma di  comunicazione effettuata con i segnali di fumo, che annunciavano le invasioni di nemici provenienti da sud e diretti a Roma.

La città di Fumone ed il suo castello hanno avuto un ruolo chiave durante l'invasione di Annibale: i Romani se ne servirono infatti quando il generale cartaginese, stabilitosi a Capua (area visibile dal castello), decise improvvisamente di puntare su Roma marciando attraverso la via Latina.

L’ importanza militare di Fumone continuò anche durante il corso delle guerre civili tra Mario e Silla, e tra Cesare e Pompeo. Successivamente la Rocca di Fumone fu usata dai Papi per oltre 500 anni per sorvegliare il Mezzogiorno, e come prigione pontificia per prigionieri politici.

I tentativi di conquistare la fortezza di Fumone con la forza risultarono vani a chiunque, compresi gli imperatori Federico Barbarossa ed Enrico VI, che falliti gli assedi della Rocca, sfogarono la loro rabbia devastando città e campagne a sud di Roma.

Solo papa Gregorio IX nel tredicesimo secolo riuscì, dopo mesi di assedio, a farsi aprire le porte, ma pacificamente e sotto pagamento di un grande riscatto.

L’episodio sicuramente più importante che riguarda il castello di Fumone avvenne nel 1295 quando vi fu rinchiuso il santo Papa Celestino V, che vi morì dopo dieci mesi di dura prigionia. Nel corso del 1500 il castello di Fumone perse la sua importanza militare e senza più lavori di manutenzione andò decadendo. Fu così che nel 1584 papa Sisto V decise che, essendovi morto Celestino V, il castello andava conservato come memoria storica, e lo affidò ad una famiglia aristocratica romana: i marchesi Longhi.

 

Il castello di Fumone: il Santuario di Celestino V

Senza dubbio è  il luogo più importante del Castello. La prigione ove venne recluso Celestino V venne costruita in una intercapedine tra due torri collocate all'altezza del piano nobile del castello, affinché fosse assicurata continuativamente la sorveglianza da parte del custode.

L'attuale cappella, ricavata da una delle due torri adiacenti alla prigione, era anticamente il luogo ove i carcerieri di Celestino V e i monaci celestini gli furono vicini negli ultimi dieci mesi della sua vita. Sopra l'altare, all'interno della sua prigione, vi è un'immagine del santo in marmo con sopra il capo la tiara. Alla sinistra dell'altare una piccola finestrella murata dove, secondo la leggenda, riceveva la visita di un angelo che gli forniva cibo e conforto.

La cappella è ornata da 4 stemmi in stucco sotto i quali vi sono altrettante epigrafi che riassumono le storie connesse a Celestino V e alla famiglia Longhi.

Sopra l'altare della cappella vi è un' immagine del santo in bassorilievo in cotto del XVIII sec.

 

L'archivio del castello di Fumone e il mistero del Marchesino

Vicino al Santuario vi è un piccolo cortile medievale  che conduce nell’Archivio del castello di Fumone.

In questo luogo sono conservati importanti manoscritti che vanno dal XVI al XIX secolo (quelli più antichi andarono persi durante  un incendio del 1700), ma l’archivio conserva anche, da oltre duecento anni, il corpo imbalsamato di un bambino, Francesco Longhi- Caetani ( erede della famiglia ) morto all'età di 5 anni, in circostanze misteriose e oggetto di molte leggende.

Il corpo del Marchesino si trova all’interno di una teca di vetro, chiusa a sua volta dentro un armadio ligneo. Il bambino è vestito con gli abiti dell’epoca e con il volto completamente ricoperto di cera, è circondato dai suoi giocattoli preferiti e sembra dormire sereno e tranquillo.

 

Le sale degli Antenati, dei Cesari e degli Stemmi

La sala degli Antenati, un ambiente fortemente suggestivo: i ritratti dei membri della famiglia Longhi de Paolis sono collocati sulle pareti di damasco rosso.

Busti di epoca romana, e altre importanti opere d’arte completano la splendida cornice della sala. Proseguendo si incontra la sala dei Cesari, così denominata per gli originali grandi busti di epoca romana che vi sono esposti:  sculture in marmo rappresentanti gli Imperatori Augusto, Vitellio, Marco Aurelio, Diocleziano e quello del dittatore Lucio Cornelio Silla.

Nella stessa sala si ammirano una  gigantesca urna cineraria romana in marmo pavonazzetto di grande valore e importanza, e  altre pregevoli sculture di epoca romana oltre a una serie di pitture di importanti artisti del XVI secolo.

Nell’ala Est si trova l’antica Sala degli Stemmi, un grande ambiente dal soffitto con volte a botte, da secoli utilizzata come camera da pranzo.

Un enorme camino delimita la parete sud, sulle altre pareti trovano spazio gli stemmi dei Longhi e delle più importanti famiglie aristocratiche con questi imparentate.

Di notevole importanza è l’enorme  lavabo in pietra, usato nei secoli per scuoiare e lavare gli animali destinati ad essere cucinati sulla brace del grande camino.

 

Il pozzo delle Vergini

All’ingresso del Piano Nobile si trova il  “ Pozzo delle vergini “, il crudele strumento che a volte veniva utilizzato dai Feudatari di Fumone quando decidevano di esercitare il diritto dello "IUS PRIMAE NOCTIS" ( in uso in tutti i feudi europei).

Prima di autorizzare matrimoni tra gli abitanti del suo territorio il “Signore” di Fumone  aveva la facoltà di poter trascorrere una  notte con le future spose, ma se le sventurate non arrivavano vergini al suo cospetto questi le faceva inesorabilmente precipitare nel pozzo.

 

Giardini pensili

Uno spazio verde, i Giardini Pensili all’italiana, fatti realizzare dalla famiglia nel seicento, uno spazio unico ed incantevole dal quale è possibile ammirare tutto il paesaggio ciociaro.

Le terrazze a balzo che contengono i giardini sono ricavate dalle antiche torri, dai camminamenti di ronda e dai fossati  uniti tra loro da enormi volte ricoperte di terra di castagno.

I suoi  tremilacinquecento metri quadrati di perimetro, circondati da alberi secolari, ne fanno il giardino pensile più alto d’Europa, un'oasi verde sospesa a 800 metri nell’aria.

La vista spazia su di un territorio immenso, oltre quaranta paesi, valli, fiumi, montagne, castelli, strade,  un osservatorio che domina metà del territorio della Ciociaria.

Un'opera titanica, realizzata in pochi anni, che suscitata da sempre lo stupore e la meraviglia non solo per la sua vista, ma anche per la perfezione armonica della costruzione, tipica delle ville principesche del Rinascimento.

Tra le curiosità custodite nei giardini pensili, di notevole interesse un' importante colonna romana in marmo di Luni, istoriata da un bassorilievo rappresentante l'albero della vita; inoltre la vetta della montagna, situata nel centro del giardino superiore, con i suoi 783 mt rappresenta il punto più alto di monte Fumone, la leggenda tramanda che  toccare quel cucuzzolo sia portatore di buona fortuna; tra le altre particolarità vi è il pozzo dei desideri, una cavità ricoperta da un grosso blocco di pietra, si trova lì da centinaia di anni ed infine l'albero dell'amore, un gigantesco cipressus funebris, frutto dell'unificazione di due alberi.

 

Galleria d'arte contemporanea

La Galleria d'Arte Contemporanea del Castello è stata inaugurata nell'anno 2014 ed è dedicata al Conte Giovanni de Paolis, colui che per oltre quarant'anni si dedicò alla conservazione e valorizzazione del castello di Fumone, iniziando altresì a collezionare opere d'arte contemporanea.

Dalla pittura, alla scultura, dalla fotografia alla ceramica ad elementi di design sono presenti nella galleria del castello di Fumone, opere d'arte realizzate da numerosi autori tra cui: Ignazio Schifano, Marco Stefanucci, Luciano Ventrone, Mario Schifano, Bruno D'Arcevia, Tommaso Gismondi, Pino Musi, Carlo Cecchi, Piero Pizzi Cannella, Claudio Marini, Fausto Roma, Massimo Lippi, Ugo Attardi, Rocco Iannelli, Giovanni Tommasi Ferroni, Claudio Bogino, Vincenzo Pizzorusso, Carla Viparelli, Elena Braccialini, Luigi Frappi, Riccardo Tommasi Ferroni, Jack Finnerty.

Le opere d'arte esposte nella Galleria del Conte Giovanni sono in massima parte frutto di acquisti, ma anche di donazioni e di prestiti concessi per esposizioni temporanee.

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IL RINASCIMENTO NEL DUCATO PARMENSE

Come si evince dal titolo, parlerò degli artisti che hanno giocato un ruolo chiave nel Rinascimento del ducato parmense prima del 1545 . Perché proprio questa data? Fino al 1513 i territori di Parma erano sotto il controllo del ducato di Milano, poi successivamente fu soggetta ad un’alternanza di governi Pontifici e Francesi. Questi ultimi vennero cacciati nel 1521 in seguito all'assedio di Parma da parte dell’esercito papale unito a quello spagnolo, portando la città e i territori limitrofi sotto il controllo della chiesa. Dal 1545 Alessandro Farnese, meglio noto come Papa Paolo III, creò il Ducato di Parma e Piacenza cedendolo al figlio Pier Luigi Farnese. Nel 1556 Ottavio Farnese restituì Piacenza al Ducato di Milano.

Il Rinascimento nel ducato parmense: Alessandro Araldi

Nasce nel 1460 a Parma. Non si sa nulla sulla sua formazione ma si può notare nelle prime opere giovanili l’influenza della scuola forlivese di Melozzo da Forlì, di quella veneta di Mantegna e di quella emiliana di Lorenzo Costa, come si nota nell'affresco del 1496 della Madonna con Bambino1. Dal 1500 l’Araldi lavorò maggiormente presso il monastero di San Paolo, portando a termine nel 1514 la Camera delle grottesche2 dove non mancano i riferimenti alla maniera di Pinturicchio e di Francesco Francia, mentre quella di Leonardo è individuabile nella Pala Centoni3 del 1516 e nello Sposalizio della Vergine4 del 1519 collocati nella Cattedrale di Santa Maria Assunta di Parma.Ricordiamo il Ritratto per Barbara Pallavicino5 del 1510 inizialmente attributo a Piero della Francesca.

Il pittore morì nel 1528 a Parma.

 

Opere Araldi

 

Fig. 1 - Madonna con Bambino, 1496, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 2 - Camera delle grottesche, 1514, Monastero San Paolo, Parma.
Fig. 3 - Pala Centoni, 1516, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 4 - Sposalizio della Vergine, 1519, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 5 - Ritratto di Barbara Pallavicino, 1510, Palazzo degli Uffizi, Firenze.

 

Correggio

Nome d’arte di Antonio Allegri, nacque nell'omonimo paese di Correggio in provincia di Reggio Emilia nel 1489. Sappiamo poco della sua formazione artistica, ma ci è giunto che tra il 1503 e 1505 si trovasse a Modena presso Francesco Bianchi Ferrari da cui apprenderà il linguaggio figurativo di Lorenzo Costa e Francesco Francia, mentre nel 1506 sarà a Mantova dove ebbe modo di studiare gli spazi pittorici di Mantegna e dipingere nella cappella funeraria di Sant'Andrea dedicata al pittore da poco defunto (prima opera giovanile di Correggio). Tornato nella sua città natale nel 1514 realizzò per la chiesa di San Francesco la pala con Madonna e Santi6.

Il pittore emiliano, dopo un viaggio a Roma, ebbe modo di ammirare la maniera di Michelangelo e Raffaello, formulando in seguito un linguaggio che avrebbe influito sulla pittura del Seicento, barocca e classica. Un esempio di questo nuovo stile lo troviamo nel Ritratto di dama7 del 1518-19.

Iniziò così una nuova fase della vita di Correggio. Nel 1519 si trasferì a Parma dove nello stesso anno gli venne commissionata la decorazione della Camera della Badessa8 nel monastero di San Paolo. Questa decorazione portò al pittore un enorme successo, nonché numerose commissioni come la decorazione della Cupola di San Giovanni Evangelista tra il 1520-24 di cui oggi rimane solo la cupola con la Visione di San Giovanni9 e un frammento dell’Incoronazione della Vergine10 dell’abside, ora alla Galleria Nazionale di Parma. Sempre all'interno della chiesa ma nella cappella Del Bono, Correggio dipinse due pale: Martirio di quattro Santi11 e Compianto sul Cristo Morto12.

Dal 1526 al 1530 circa il Correggio passò alla realizzazione della cupola del Duomo di Parma dove venne rappresentata l’Assunzione della Vergine13. Verso la fine degli anni 30 del 500 il pittore portò a compimento due pale d’altare; la Madonna di San Girolamo14per la chiesa di Sant'Antonio e la Madonna della Scodella15 per la chiesa del Santo Sepolcro.

Prima della sua morte il pittore ebbe modo di lavorare nuovamente per Isabella d’Este a Mantova realizzando quattro opere dei cosiddetti Amori di Giove, morendo poi nel 1534 nella sua città natale e venendo sepolto nella chiesa di San Francesco.

 

Opere Correggio

 

Fig. 6 - Madonna di San Francesco, 1514, Gemäldegalerie, Dresda.
Fig. 7 - Ritratto di Donna, 1518-19, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
Fig. 8a - Camera della Badessa, 1519, monastero di San Paolo, Parma.
Fig. 8b - Camera della Badessa [dettagli], 1519, monastero di San Paolo, Parma.
Fig. 9 - Visione di San Giovanni, 1520-24, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 10 - Incoronazione della Vergine (frammento), 1520-24, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 11 - Martirio di quattro Santi, 1524, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 12 - Compianto sul Cristo morto, 1524, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 13 - Assunzione della Vergine, 1526-30, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 14 - Madonna di San Girolamo, 1528, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 15 - Madonna della Scodella, 1528-30, Galleria Nazionale, Parma.

 

Parmigianino

Nome d’arte di Girolamo Francesco Maria Mazzola, nacque a Parma nel 1503. Soprannominato in tale modo per le origini e l’aspetto fisico minuto. Si formò nella bottega del padre e verrà influenzato da Correggio, Dosso Dossi e dai pittori attivi nel Duomo di Cremona. Ciò che diede il via alla carriera del pittore furono le opere per la chiesa di San Giovanni Evangelista.Nel 1519 dipinse il Battesimo di Cristo16 e affrescò la prima e la seconda cappella della navata sinistra nel 1523 con le raffigurazioni di Sant’Agata e il  Carnefice17, Santa Lucia e Apollonia18 (prima cappella), Santi Stefano e Lorenzo19, San Vitale a Cavallo20(seconda cappella). Altre commissioni avvennero a Fontanellato presso la corte dei Sanvitale nel 1524 e successivamente con la fine della peste partì con lo zio per Roma, dove lavorò per il cardinale Lorenzo Cybo. Nella città eterna avrà modo di legare con Rosso Fiorentino e studiare le opere di Michelangelo, Raffaello e Giulio Romano. Prima di tornare a Parma, il pittore passò quattro anni a Bologna. Col rientro nella città natale datato 1530, l’anno successivo gli venne commissionato l’affresco del presbiterio della Basilica di Santa Maria della Steccata, scegliendo il tema delle vergini sagge e vergini stolte21. Dal rientro a Parma, Parmigianino tronca i rapporti con i famigliari, non sappiamo se dovuto ad uno “scandalo” legato alla pratica dell’alchimia come riportato dal Vasari, oppure alla scoperta della sua omosessualità.

In questo ultimo decennio della sua vita ebbe problemi con la Confraternita della Steccata, subendo poi l’arresto e la carcerazione per due mesi a causa di una mancata restituzione di denaro. Venne poi scarcerato ritirandosi a Casalmaggiore nel 1539. Prima del ritiro portò a termine l’opera più importante del Manierismo italiano ovvero la Madonna dal collo lungo22.

Il pittore morì l’anno successivo, nel 1540 a Casalmaggiore, probabilmente colpito dalla malaria.

 

Opere Parmigianino

 

Fig. 16 - Battesimo di Cristo, 1519, Gemäldegalerie, Berlino.
Fig. 17 - Sant’Agata e il Carnefice, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 18 - Santa Lucia e Apollonia, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 19 - Santi Stefano e Lorenzo, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 20 - San Vitale a Cavallo, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 21 - Vergini sagge e vergini stolte, 1531-1539, Basilica di Santa Maria della Steccata, Parma.
Fig. 21a - Vergini sagge e vergini stolte [dettaglio], 1531-1539, Basilica di Santa Maria della Steccata, Parma.
Fig. 22 - Madonna dal collo lungo, 1534, Galleria degli Uffizi, Firenze.

Bibliografia

Correggio, Elemond Arte, 1992.

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-araldi_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/mazzola-francesco-detto-il-parmigianino_%28Dizionario-Biografico%29/


L'ARTE A BOLOGNA NEL XV SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

Il contesto storico nella Bologna del XV secolo

Bologna nel 1401 divenne la città dei Bentivoglio, famiglia toscana che, alleata con i Visconti di Milano, cacciò il Legato Pontificio dalla città emiliana. Giovanni I Bentivoglio fu il primo della casata a governare sulla città, ma il prestigio e la rinomanza politica arrivarono sotto Giovanni II, cugino del precedente signore di Bologna, Sante Bentivoglio. L’arte pittorica a Bologna durante il XV secolo fu rappresentata per lo più dai pittori ferraresi come Ercole de Roberti e Francesco del Cossa, trovando poi sviluppi verso la fine del secolo con Francesco Francia e Lorenzo Costa. Dal 1506 i Bentivoglio vennero esiliati dal papa Giulio II, portando la città solo il potere papale. Fu in questo contesto che si sviluppò il Rinascimento bolognese del XV secolo.

Francesco del Cossa

Come già sappiamo Francesco del Cossa fu un pittore appartenente all'Officina ferrarese del XV secolo. Dopo le scene affrescate nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia si trasferì stabilmente a Bologna attorno al 1470 dove fin da subito ebbe un’intensa attività, caratterizzata da commissioni di grande prestigio. La prima opera bolognese del pittore avvenne lo stesso anno del suo arrivo e fu la Pala dell’Osservanza (fig. 1) in San Paolo in Monte; due anni dopo per Giovanni II Bentivoglio ridipinse la Madonna del Baraccano (fig. 2) un affresco votivo di grande significato simbolico. Tra il 1472 e 73 assieme ad Ercole de Roberti portò a compimento il Polittico Griffoni (fig. 3) commissionato da Floriano Griffoni mentre nel 1474 portò a termine la Pala dei Mercanti (fig. 4) commissionata da Alberto de Cattanei e Domenico degli Amorini, dove possiamo notare l’attenuamento dello stile bizzarro e tagliente tipico della pittura ferrarese a vantaggio di una maggiore monumentalità delle figure, portando nel panorama bolognese le novità pittoriche rinascimentali. Prima della morte avvenuta nel 1478 per la peste, del Cossa decorò le volte della Cappella Garganelli dentro la Cattedrale di San Pietro, portata poi a termine da Ercole de Roberti.

 

Opere Francesco del Cossa

 

Ercole de Roberti

Anch'egli pittore dell’Officina ferrarese seguì Francesco del Cossa a Bologna ma a differenza di quest’ultimo lui tornò a Ferrara nel 1479. A Bologna il pittore lavorerà per lo più al fianco di Francesco del Cossa come nel caso dei Santi sui pilastrini e la Pradella con le storie di San Vincenzo Ferrer (fig. 5) del Polittico Griffoni del 1472-73. In quest’ultima opera notiamo come il suo stile si sia evoluto, soprattutto nelle architetture organizzate razionalmente. Nel 1475 de Roberti compì un ritratto di profilo per Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza, chiamato Dittico Bentivoglio (fig. 6) Questa tipologia di ritratto dominò nelle corti italiane per quasi tutto il XV secolo (si rifaceva all’ideale umanistico dei ritratti dei Vir Illustris, derivate dalle effigi degli imperatori nella monetizzazione romana). Prima del ritorno a Ferrara egli concluse gli affreschi della Cappella Garganelli  (fig. 7) iniziata sempre con del Cossa, che ebbe un forte impatto sulla scuola locale e sui visitatori che la videro tra cui Niccolò dell’Arca e Michelangelo. Purtroppo degli affreschi della Cappella rimane un solo frammento raffigurante la Maddalena Piangente.

 

Opere Ercole de Roberti

 

Lorenzo Costa

Altro esponente del Rinascimento bolognese del XV secolo fu Lorenzo Costa detto il Vecchio; nacque a Ferrara nel 1460 da Giovanni Battista Costa e Bartolomea. I primi passi in pittura furono condizionati quasi sicuramente dal padre, anche se successivamente come modello stilistico prenderà quello di Cosmé Tura. Una delle sue prime opere giovanili fu il San Sebastiano8 del 1482, inizialmente attributo al Tura ma successivamente, dopo la trascrizione in latino dei caratteri ebraici sullo scudo in basso a sinistra, si è riusciti a dedurre che l’opera era del Costa (firma del pittore a caratteri ebraici).

Nel 1483 Lorenzo Costa e tutta la sua famiglia si trasferirono a Bologna per sfuggire alla peste che stava affliggendo Ferrara e per la guerra contro Venezia. Già in quell’anno lavorava per i Bentivoglio, signori di Bologna e nella primavera del 1475 , venne nominato “pictor” in un atto notarile, questo ad indicare che all'età di 25 anni probabilmente lavorava già in proprio. Col tempo a Bologna strinse amicizia con Francesco Francia, altro illustre pittore bolognese del XV secolo. L’anno seguente Giovanni II Bentivoglio gli commissionò di dipingere la cappella di famiglia nella Chiesa di San Giacomo Maggiore, portando a termine la Vergine alla presenza della famiglia Bentivoglio9 nel 1488, completandola due anni più tardi con i due Trionfi10a,b (Trionfo della Fama e Trionfo della Morte). Nel biennio 90-92 del 400 il pittore oltre ai trionfi già citati fece il ritratto di Giovanni II Bentivoglio11 e la Pala Rossi12, ultima sua tavola eseguita in San Petronio. In quest’ultima opera vi è una svolta fondamentale nel suo percorso artistico che lo portò a distaccarsi dalle influenze di Tura e del Cossa, rimandando al canone classico dell’arte del Bellini, del Perugino e del Francia, senza però rinunciare al tocco leggero di geniale bizzarria padana tipicamente costesca. Verso la fine del secolo operò in San Giovanni in Monte per la realizzazione della Pala Ghedini13. All'inizio del secolo ebbe un’attività molto intensa: per citarne alcune il pittore realizzò opere come l’Incoronazione della Vergine14 (1501), San Petronio fra i Santi Domenico e Francesco15 (1502) e lo Sposalizio della Vergine16 (1505).

Nel 1506 i Bentivoglio vennero esiliati a Ferrara da Papa Giulio II, ma il Costa non li seguì, dirigendosi a Mantova dove lavorerà per Isabella d’Este e vivrà fino alla sua morte avvenuta nel 1535.

 

Opere Lorenzo Costa

 

Francesco Francia

Francesco Raibolini, detto il Francia, nasce a Zola Predosa tra il 1447-49. Prima di dedicarsi alla pittura si dedicò all’arte orafa, facendosi riconoscere per le “paci” in argento niellato. Nell'età giovanile ebbe modo di viaggiare molto (Ferrara, Romagna, Marche, Firenze, Perugia, Mantova, Padova, Venezia) entrando in contatto con Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, il Perugino, Antonello da Messina e le opere fiamminghe. Queste ultime costruiranno un tratto stilistico assai rilevante nella sua intera produzione. L’enorme patrimonio di conoscenze e di eredità stilistiche le troviamo nelle opere degli anni 80 e 90 del 400 come la Sacra Famiglia Bianchini17, la Crocifissione Bianchini18 del 1485, le Pale per la famiglia Felicini19, Malanzuoli20, il ritratto di Violante Bentivoglio del 1490 e quello di Bartolomeo Bianchini detto Codro21 del 1495. Altra opera realizzata lo stesso anno fu la Pala per la famiglia Scappi22 presso la Chiesa dell’Annunziata, a testimoniare come il pittore ricevette molte richieste dalle famiglie dell’aristocrazia bolognese. Alle fine del 1400 Anton Galeazzo Bentivoglio figlio di Giovanni II, chiese al Francia di realizzare per la Chiesa della Misericordia una Pala23 da inserire nella loro cappella presso la Chiesa della Misericordia. Con il nuovo secolo il pittore portò a termine alcuni affreschi24a,b delle storie dei Santi Cecilia e Valeriano presso l’Oratorio di Santa Cecilia, oltre alla Madonna del Terremoto25 del 1505 (omaggio alla vergine per aver preservato la città dalle peggiori conseguenze del recente terremo).

Con la cacciata dei Bentivoglio e l’avvento di Giulio II, il pittore dal 1508 fu responsabile dei conii, ricevendo importanti commissioni da parte di famiglie prima emarginate come i Gozzadini, per i quali realizzò la Pradella della natività e passione di Cristo, chiamata Visione di Sant’Agostino26.

Nell'ultimo decennio di vita il pittore fu in grado di rispondere più liberamente alle commissioni provenienti da signorie, città forestiere e committenti ecclesiastici come Guidobaldo di Montefeltro, Francesco Maria della Rovere e Isabella d’Este, dando maggiormente lustro al Rinascimento bolognese del XV secolo.

Il pittore morirà a Bologna nel 1517.

 

Opere Francesco Francia

 

 

 

Bibliografia

Emilio Negro, Nicosetta Roio - Lorenzo Costa 1460-1535, Artioli, 2001.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/raibolini-francesco-detto-il-francia_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-del-cossa_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/ercole-roberti_%28Dizionario-Biografico%29/


L'ARTE A FERRARA NEL XV SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

 

 

Questo ciclo di articoli vedrà come protagonista l’arte tra XV e XVI secolo delle signorie emiliano-romagnole.

 

Gli Estensi furono una famiglia che si insediò a Ferrara dal 1240 divenendo prima duchi, poi signori della città. Sotto Niccolò III d’Este (1384-1441) Ferrara divenne un grande centro culturale rinascimentale, raggiungendo ulteriore splendore sotto Leonello d’Este (1407-1450). Con Borso d’Este (1413-1471) la Scuola ferrarese, meglio nota come Officina ferrarese, divenne molto importante per la presenza di artisti come Cosmé Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de Roberti. Successivamente, con Ercole I d’Este, la città raggiunse il massimo splendore con la costruzione dell’Addizione Erculea da parte di Biagio Rossetti nel 1492. Si raggiunge l'apice del Rinascimento a Ferrara nel XV secolo.

 

L'arte a Ferrara nel XV secolo: L'Officina ferrarese

L’Officina ferrarese fu fondata da Cosmè Tura presso la corte estense a Ferrara, al quale si affiancarono Francesco del Cossa ed Ercole de Roberti. Lo stile della scuola muterà nel tempo, dovuto alle influenze di artisti e delle città vicine, come Mantova, Venezia, Firenze e Bologna, ospitando artisti come Andrea Mantegna, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca e Roger Van Der Weyden. Altri artisti che faranno parte dell’Officina ferrarese nel Quattrocento saranno Galasso Galassi, Angelo Maccagnino, Michele Pannonio, Lorenzo Costa il Vecchio, Boccaccio Boccaccino, Domenico Panetti, L’Ortolano Ferrarese, Ercole Grandi, Ludovico Mazzolino e Michele Coltellini.

 

Cosmé Tura

Pittore della corte estense, nonché rappresentante di spicco dell’Officina ferrarese, nasce nel 1433, e i primi documenti dove troviamo il suo nome risalgono al 1451-52, quando per la corte estense decorò oggetti di uso quotidiano. Tramite studi, pare che il pittore, tra il 1452 e 1456, non si trovasse a Ferrara. Da qui l’ipotesi che sia stato mandato dagli Estensi in viaggio di apprendistato a Padova dove venne influenzato dalla pittura rinascimentale padovana (segno netto e tagliente, esuberanza decorativa con citazioni dell'antico, portato poi ad estremi livelli). Tornato a Ferrara, conobbe direttamente Piero della Francesca attorno al 1458-59, suo grande maestro dal quale mutò il senso della costruzione spaziale geometrica, lo spirito monumentale e la luce che si fece più nitida e tersa usata negli sfondi. Altro stimolo che Tura ricevette fu quello proveniente dalla pittura fiamminga, da cui apprese l’osservazione minuta dei dettagli e la resa delle varie consistenze dei materiali tramite l’uso della pittura ad olio. Sotto la corte estense di Borso d’Este, Cosmé Tura dipinse opere come la Madonna con Bambino in un giardino (fig. 1), 1452; Madonna con Bambino in trono tra San Girolamo e una Santa martire (forse la Maddalena), 1455. Nel 1458 concluse le opere del Ciclo delle Muse iniziate da Angelo Maccagnino presso lo Studiolo di Belfiore dell’omonima Delizia, quali Calliope e Tersicore (figg. 2,3). Verso la fine degli anni '60 del 400 dipinse le ante dell’organo del Duomo di Ferrara raffiguranti da un lato L’Annunciazione (fig. 4) e dall’altro San Giorgio e la principessa (fig. 5). Con la successione al potere di Ercole I d’Este, Cosmé Tura divenne ritrattista di corte, ruolo che ricoprì fino al 1486 quando venne sostituito da Ercole de Roberti. Nel 1470 concluse il Polittico Roverella (fig. 6), fatto in onore di Lorenzo Roverella, allora vescovo di Ferrara (una delle opere più importanti del pittore).

Prima della morte che lo colpirà nel 1490, il pittore ferrarese realizzò un’ultima opera tra il 1484 e il 1490 chiamata Sant’Antonio da Padova (fig. 7).

Opere Cosmé Tura

 

Francesco del Cossa

Di questo pittore si hanno poche notizie in merito alla sua vita e alla sua formazione. L’anno della sua nascita (1436) si ottiene per via dello scambio di fonti epistolari tra due letterati bolognesi che commemoravano la sua prematura morte all'età di 42 anni, mentre la sua formazione pare sia avvenuta al fianco di Cosmé Tura, con influenze del rinascimento padovano legate a Donatello e Mantegna, ma anche alle novità di Piero della Francesca, da cui prenderà maggior spunto per la compostezza e la solennità delle figure. Il suo nome viene menzionato per la prima volta in un documento del 1456, quando sotto la tutela del padre ricevette un pagamento per la realizzazione della Deposizione con tre figure (opera distrutta con il rifacimento dell’abside verso fine 400) vicino all'altare maggiore della Cattedrale di Ferrara. Nel 1460 verrà menzionato in due atti notarili, venendo chiamato “pictore”. Sempre lo stesso anno gli si attribuisce l’opera Polimnia per il Ciclo delle Muse presso lo Studiolo di Belfiore, poi successivamente assegnato ad Angelo Maccagnino. Nel 1463 morirà il padre e fino all’11 Dicembre del 1467 (giorno dove risultò essere a Ferrara) non si ebbero più documenti sul pittore. Molto probabilmente fece un viaggio formativo verso Firenze. Qualche anno dopo gli venne affidata la collaborazione agli affreschi del Salone dei Mesi a Palazzo Schifanoia, dove portò a termine i mesi Marzo, Aprile e Maggio  (figg. 8,9,10) portando un colore luminoso e un’attenta cura nella costruzione prospettica, contrapponendo una più naturale rappresentazione umana rispetto a quella di Tura. Dopo la fine degli affreschi a Palazzo Schifanoia, Francesco del Cossa si trasferì a Bologna, probabilmente deluso dai bassi compensi che il duca Borso gli dava. Della vita del pittore a Bologna ne parleremo successivamente quando tratteremo del Rinascimento bolognese sotto la corte dei Bentivoglio.

Opere Francesco del Cossa

Ercole de Roberti

Nato tra il 1451 e il 1456, fu apprendista di Gherardo da Vicenza, Francesco del Cossa e Cosmé Tura, ossia il pantheon dell'arte ferrarese nel XV secolo. A circa 17 anni lavorò agli affreschi di Palazzo Schifanoia, compiendo il mese di Settembre (fig. 11), dove possiamo notare che le forme subiscono una stilizzazione geometrica e le figure, grazie ai contorni tesi e spigolosi, assumono dinamismo da rendere il tutto anti-naturalistico con grande violenza espressiva.

Ci sarà un periodo dove assieme a del Cossa lavorerà a Bologna (1470-1478), per poi fare ritorno a Ferrara intorno al 1479 aprendo una bottega con il fratello Polidoro e l’orafo Giovanni di Giuliano da Piacenza. Il punto di arrivo stilistico del pittore lo abbiamo con la Pala Portuense (fig. 12) per la Chiesa di Santa Maria in Porto vicino Ravenna del 1479-81, mentre tra il 1486 e il 1493 vengono documentati dipinti di donne dell’antichità commissionati da Eleonora d’Aragona, tali Bruto e Porzia (fig. 13), 1486-90; Moglie di Asdrubale con figli (fig. 14), 1490-93 (1490-93) e un piccolo dipinto per il cardinale Ippolito d’Este del 1486.

Ercole de Roberti continuò a dipingere oltre che a Ferrara in altre città dell’Emilia-Romagna, influenzando i vari artisti locali. Nel 1487 divenne ritrattista di corte prendendo il posto di Cosmé Tura, mentre nel 1489 venne inviato da Eleonora d’Aragona a Venezia per acquistare oro per poter eseguire le dorature dei forzieri della figlia Isabella d’Este, che si apprestava a diventare moglie di Francesco II Gonzaga a Mantova. Nel 1492 assieme al duca Alfonso d’Este si dirigerà a Roma per rendere omaggio a Papa Alessandro VI Borgia, nonché suo futuro suocero. L’anno successivo de Roberti lavorerà a dei cartoni per la delizia di Belriguardo. Il pittore poi morirà nel 1496 venendo sepolto nella Chiesa di San Domenico.

Opere Ercole de Roberti

 

Con questo articolo si conclude la prima parte sull'arte a Ferrara nel XV secolo. Nel prossimo termineremo l’argomento trattando alcuni artisti del panorama artistico ferrarese del XVI secolo come Dosso Dossi, Bastianino, Scarsellino e Carlo Bononi.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/roberti-ercole-de-detto-anche-ercole-da-ferrara_%28Enciclopedia-Italiana%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-del-cossa_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/cosme-tura_%28Enciclopedia-Italiana%29/