IL POLITTICO DELLA CERVARA

A cura di Fabio d'Ovidio

Uno dei massimi capolavori conservati all’interno dei Musei Civici di Strada Nuova a Genova – nello specifico a Palazzo Bianco – è il cosiddetto Polittico della Cervara realizzato dal pittore fiammingo Gerard David (1460-1523), presente entro le collezioni del Palazzo a partire dal 1892.

L’opera – prima di giungere nel capoluogo ligure – era conservata presso l’abbazia di San Gerolamo della Cervara, una località situata sulla costa di Levante, tra gli attuali centri di Santa Margherita Ligure e Portofino.

L’intero dipinto, per il nome dell’autore, le dimensioni, la connotazione psicologica conferita ai personaggi, ha suscitato da sempre l’interesse e l’ammirazione dei massimi critici e storici d’arte, anche perché alcune questioni fondamentali come datazione precisa, committenza, configurazione originale del polittico, iconologia e luogo di esecuzione restano ancora questioni non totalmente chiare.

Un’importante notizia storica circa il polittico della Cervara è contenuta entro la cronistoria del convento redatta a partire dal 1420: a proposito dell’opera, nel 1790 don Giuseppe Spinola descrisse la composizione l’iconografia del polittico e poi – basandosi su un’iscrizione presente nel dipinto stesso – ricordò che Vincenzo Sauli nel 1506 terminò di far dipingere una tavola per il coro del convento di San Gerolamo della Cervara, composta da sette tavole dipinte entro una maestosa carpenteria lignea. La composizione è suddivisa in questo modo: al centro la Vergine col Bambino, alla destra San Gerolamo e alla sinistra San Benedetto da Norcia; al di sopra del gruppo centrale una crocifissione che divide la Vergine Annunciata dall’arcangelo Gabriele, infine in corrispondenza dello scomparto centrale la raffigurazione di Dio Padre.

Data l’informazione, il primo ad utilizzarla per ricostruire parzialmente l’opera fu Gian Vittorio Castelnovi che mise assieme soltanto i tre scomparti principali: la Vergine col Bambino, detta Madonna dell’uva, e i due santi Gerolamo e “Benedetto”. Le tre tavole erano presenti nei depositi del Museo di Palazzo Bianco dal 1892 dopo che erano passate per Palazzo Tursi (1830, sede oggi come allora del Municipio) e ancor prima per Palazzo Ducale, (noto ad inizio XIX secolo come Palazzo Imperiale poiché sede della prefettura francese, dove arrivarono nel 1805 in seguito alla rivolta giacobina scoppiata nell’antica Serenissima Repubblica di Genova nel 1797 che non risparmiò i territori più periferici, nemmeno il monastero della Cervara). Sempre Castelnovi capì immediatamente – basandosi sulla nota dello Spinola – che le tre tavole erano parte dell’antico polittico di David e, proseguendo le sue ricerche sull’opera, identificò le due tavole separate dell’Annunciazione – oggi al Metropolitan di New York – in una collezione privata, mentre quella di Dio Padre in una lunetta presente entro i depositi del Museo del Louvre.

Committenza

Sempre partendo dall'appunto di Don Giuseppe Spinola, si può capire che l’opera ci è giunta priva di carpenteria, perdendosi così l’iscrizione che precisava la commissione del dipinto al pittore da parte di Vincenzo Sauli in data 7 settembre 1506, probabilmente termine post quem per l’esecuzione avvenuta probabilmente l’anno successivo così come la messa in posa da datarsi o alla fine del 1507 o agli inizi del 1508.

Di Vincenzo Sauli non si ha una biografia completa e precisa, tuttavia i pochi dati in possesso degli storici dell’arte consentono di delineare la figura di un uomo cresciuto saldamente entro l’establishment politico, economico e culturale genovese, in un periodo contraddistinto da forti tensioni entro la città: l’inizio del XVI vide il passaggio di Genova dalla dedizione alla signoria di Ludovico il Moro a quella verso Luigi XII di Francia presso cui venne inviato nel 1499 in qualità di ambasciatore, in un periodo in cui i rapporti tra corona francese e famiglia Sauli erano alquanto stretti dato che questi ultimi erano i banchieri di fiducia dell’intero regno di Francia. Non si può affermare con estrema certezza che il Sauli si recò direttamente a Bruges dove Gerard David aveva la sua bottega-atelier, quanto più è plausibile che il pittore abbia ottenuto la committenza da parte di emissari della famiglia Sauli lì di stanza a Bruges per questioni economico-commerciali, come di tradizione per molte altre famiglie genovesi. Vincenzo, infatti, nei mesi centrali del 1506 venne impiegato dal Senato genovese come diplomatico recandosi a Milano e a Roma. Il nome di Vincenzo Sauli e della sua famiglia si legarono per decenni a quel monastero, investendovi ingenti risorse economiche sostituendosi alla famiglia Pallavicino e nello specifico a Giovanni Pallavicino, morto nel 1498.

Il polittico della Cervara: pittore, località di esecuzione, questioni di stile

In seguito all'attribuzione delle tre tavole maggiori da parte di Castelnovi a Gerard David che superarono definitivamente i nomi proposti in precedenza come quelli di Frans Floris, Hans Holbein e Albrecht Dürer, nessuno mise più in dubbio la paternità del dipinto. Tuttavia il nome di Floris fu considerato il punto di partenza per avviare una ricerca attribuzionistica sulla Crocifissione: scartando la mano di quest’ultimo, dapprima la tavola venne considerata semplice scuola olandese, poi venne addirittura attribuita al pennello di Filippo Lippi ed infine Jacobsen la restituì al catalogo di Gerard David. Questo fu anche il punto di partenza per ricostruire l’Annunciazione e il Dio Padre Benedicente, già attribuite ad un pittore seguace di Jan Van Eyck o Jan Gossaert o Hugo van der Goes.

Interessante sotto il profilo stilistico è vedere come nella letteratura artistica le tavole conservate a Genova siano lette in chiave italianizzante, mentre ciò non accade con quelle conservate al Met e al Louvre. Questo è spiegato dal fatto che le parti portanti del polittico recepiscono maggiormente il rinnovamento linguistico tipico del Rinascimento italiano (si veda ad esempio attraverso il pavimento dei due santi laterali l’impianto prospettico brunelleschiano), mentre quelle – che si potrebbero definire minori – sono ancora legate alla tipica tradizione stilistica fiamminga.

Solitamente questa differenza viene spiegata con un viaggio eseguito da Gerard David in Italia, collocato in un arco cronologico compreso tra 1503-1507 oppure tra 1511-1515. In generale, senza addentrarsi in studi troppo specifici e ricerche estremamente puntuali, basterà ricordare che ancora oggi è in discussione se il pittore realizzò l’opera a Bruges per poi inviarla all’abbazia della Cervara oppure realizzò l’opera mentre compì il viaggio in Italia che, stando agli studi sul pittore, ebbe come tappa la città di Genova. La questione è per lo più giocata sulle motivazioni che spinsero il pittore fiammingo a realizzare un polittico ad ante fisse – tipico della tradizione italiana – anziché uno ad ante mobili in linea con la tradizione nordica.

Iconografia ed iconologia

L’intero polittico venne collocato sopra l’altare maggiore, la cui architettura costituiva un suppedaneo alle tre grandi tavole, oggi conservate a Genova. Questi tre scomparti – seppur originariamente separati dalla carpenteria lignea – creano uno spazio pittoricamente unitario grazie all'impianto prospettico scorciato del pavimento, agli elementi architettonici del trono della Vergine dalla cui sommità cadono due sontuosi e lussuosi arazzi millefiori i cui  motivi fanno anche da sfondo ai santi negli scomparti laterali. La presenza di questi ultimi elementi connota come arcadico lo spazio in cui sono dipinti tutti i personaggi.

Conducendo un’analisi più approfondita, partendo dalle tre tavole maggiori e dallo scomparto di sinistra, si riconosce San Girolamo, abbigliato in questa occasione con un anacronistico abito cardinalizio – il santo visse tra IV e V secolo d.C., il rango cardinalizio venne istituito non prima di quattro secoli dopo – con al suo fianco il leone che, secondo la sua agiografia,  riuscì ad addomesticare estraendogli una spina conficcata sotto una zampa, e mentre sta tenendo in mano un librone aperto: questo è la Vulgata, ovvero la traduzione da lui attuata dell’Antico Testamento dal greco al latino, traduzione che ancora oggi è quella adottata come ufficiale dalla Chiesa cattolica. La sua persona in questo polittico è giustificata non solo dal fatto che a lui fosse dedicato l’antico monastero della Cervara, ma anche come exemplum di vita monastica: al di sotto del prezioso abito da cardinale si può intravedere un frammento del saio nero, tradizionale indumento dei monaci.

Dalla parte opposta dell’opera è presente una figura più enigmatica, la cui identificazione è ancora incerta. Il giovane uomo imberbe qui dipinto in saio nero è certamente un santo appartenente all’ordine dei benedettini, anche lui con in mano un libro, ma a differenza di San Gerolamo lui non legge poiché assorto nella contemplazione e nella meditazione. Tradizionalmente questo santo viene identificato con San Benedetto da Norcia – il fondatore dell’ordine benedettino e teorico della Regula [1] – tuttavia la classica iconografia di questo santo vuole che sia ritratto come un uomo anziano con lunga barba bianca e capelli bianchi. In considerazione di ciò, l’identificazione dell’uomo raffigurato da David con San Benedetto non può che essere errata. Studi recenti hanno chiarito che il santo monaco benedettino sia invece San Mauro, riconoscibile dalla presenza del fleur-de-lys presente sul pastorale tra nodo e tabernacolo. Questi non è un santo monaco benedettino qualunque, infatti fu il primo seguace di San Benedetto e contribuì con il padre del monachesimo occidentale alla fondazione di uno dei loro monasteri più antichi e prestigiosi, quello di Montecassino.

Degli ideali monastici e di obbedienza, la Vergine viene sempre considerata un modello perfetto. Nello spazio del dipinto, entro una sorta di hortus conclusus, viene raffigurata assisa su un trono, ad occupare quasi per intero la pala centrale del dipinto. In questo dipinto Maria Vergine viene raffigurata con un anello al dito anulare che la identifica immediatamente come sposa dello Spirito Santo, ha inoltre in grembo il Bambino che la qualifica anche come Sedes Sapientiae ed infine, essendo assisa in trono, come Regina. Altri due fattori di estremo interesse su cui il pittore fiammingo si è soffermato sono le parole dipinte a lettere d’oro lungo tutto il gallone del mantello color blu di lapislazzulo che configurano l’incipit del Salve Regina, una delle quattro antifone mariane che la tradizione cristiano-cattolica rivolge alla Vergine, mentre – sempre a lettere d’oro – all'interno del diadema che cinge la sua fronte è inciso l’incipit dell’Ave Maria, la più famosa preghiera della Chiesa cristiana d’Occidente in onore di Maria.

La donna rivolge il suo sguardo, tutt'altro che gioioso poiché conscia del destino riservato al figlio, a Gesù Bambino che tiene in mano un grappolo d’uva – simbolo della futura Passione – e guarda direttamente l’osservatore risultando così il vero diaframma tra lo spazio pittorico ed il mondo reale. Sebbene la figura della Vergine troneggi all'interno del polittico ed il pannello a lei dedicato sia posto de facto al centro dell’opera, non è lei la vera protagonista quanto piuttosto la premonizione degli estremi istanti della vita di Cristo: infatti proprio attraverso questo pannello si passa tematicamente alla fascia superiore.

Il pannello della Crocifissione – la quarta e ultima tavola conservata a Genova – è quello che forse nel parere di chi scrive risulta realizzato con meno attenzione ai dettagli e alla resa dei tipi psicologici. Sotto il profilo iconografico, questo si configura come una classica Crocifissione: Cristo al centro che funge da asse di simmetria portante della scena, Maria Vergine con lo sguardo rivolto verso il basso e le mani giunte alla sinistra, San Giovanni Evangelista, raffigurato a destra, intento ad osservare gli ultimi istanti della vita terrena di Gesù, ed infine il teschio di Adamo alla base della croce che viene bagnato dal sangue di Cristo redimendo così i progenitori dal loro peccato originale. Sotto un profilo più pittorico – guardando lo sfondo, ed in particolare le montagne – l’artista sembrerebbe recepire ed inserire timidamente le novità che Leonardo stava apportando nel contesto rinascimentale italiano.

Analizzando la modalità con cui è stata dipinta la testa del Salvatore – incassata tra le scapole, come quella di Masaccio – si intuisce che non può essere un dipinto autonomo realizzato per essere posto ed osservato ad altezza uomo, quanto più parte di un progetto pittorico più ampio: le dimensioni sono troppo grandi per ritenerla una semplice tavola da devozione privata e, come si può vedere, lo scorcio prospettico dal basso verso l’alto adottato da Gerard David non è adatto ad un’osservazione frontale.

Attualmente chi visita il Museo di Palazzo Bianco a Genova, troverà il polittico della Cervara organizzato secondo la seguente modalità.

Senza soffermarsi troppo sulle due tavolette relative all’Arcangelo Gabriele annunciante e alla Vergine annunciata, che rispondono ai dettami iconografici tipici del rinascimento fiammingo, bisogna soffermarsi un secondo sulla lunetta che raffigura Dio Padre dipinto mentre osserva tutti i personaggi presenti nell’opera dall’alto. Questi ha l’aspetto del tipico Dio-nordico: un uomo giovane con abbigliamento papale, che si differenzia da quello di tradizione mediterranea – per così dire – che invece viene personificato come un uomo anziano con barba e lunghi capelli bianchi, un esempio verrà dipinto a partire dal 1508 da Michelangelo Buonarroti entro la volta della Cappella Sistina a Roma.

In ultima istanza, si ricorda che nel corso del 2005 si svolse a Genova, presso Palazzo Bianco, l’esposizione completa delle sette tavole componenti l’originale polittico così come concepito dall'artista nordico. In tale occasione venne pubblicata la monografia dal titolo Il polittico della Cervara di Gerard David, a cura del professore di storia dell’arte medievale dell’Università di Genova Clario di Fabio, all'epoca direttore del museo, che presenta articoli di Maryan Ainsworth, massima conoscitrice di Gerard David, e di Maria Clelia Galassi, docente di storia delle tecniche artistiche presso l’ateneo ligure.

Purtroppo data l’attuale emergenza Covid tale pubblicazione non è stata presa in considerazione poiché fuori stampa, irreperibile on-line e difficile da trovare nelle biblioteche.

 

Note

[1] La Regula suddivideva la vita monastica tra ore di preghiera e lavoro, regola che poi in corso di Età Moderna venne esemplificata dalla celeberrima formula ora et labora (prega e lavora).

 

Bibliografia

V. Castelnovi Il polittico di Gerard David nell’Abbazia della Cervara, 1952

J. Hoogewerff A proposito del polittico di Gerard David nell’Abbazia della Cervara, 1953

J. Hoogewerff Pittori fiamminghi in Liguria nel XVI secolo, 1961

J. Friedlander Early Netherlandish Painting 1971

Algeri, A. De Floriani La pittura in Liguria. Il Quattrocento, 1991

Di Fabio La galleria di Palazzo Bianco. Genova, 1992

 

 


PALAZZO TOBIA PALLAVICINO A GENOVA

A cura di Fabio D'Ovidio

STORIA ARCHITETTONICA DI PALAZZO TOBIA PALLAVICINO

I lavori di edificazione di palazzo Tobia Pallavicino, sito in Strada Nuova, furono avviati nel 1581 sotto la supervisione di Giovan Battista Castello, detto il Bergamasco, e dietro la commissione di Tobia Pallavicino, uno degli uomini più ricchi della Genova del suo tempo grazie al commercio dell’allume delle cave di Tolfa (che gli fruttò alla morte una disponibilità economica di circa 400 mila scudi d’oro).

Il Castello, che in questa occasione è anche presente in qualità di maestro frescante e stuccatore, progettò il palazzo secondo il tradizionale lessico che Galeazzo Alessi stava impiegando nelle ville aristocratiche extra-cittadine: volume cubico diviso su due piani, il terreno e il primo piano nobile, cui si aggiungono due piani ammezzati e un cortile, ormai perduto, che sorgeva in luogo dell’attuale piazza del Ferro.

Nel corso del 1704 il palazzo venne ceduto alla famiglia Carrega che a partire dal 1710 fino al 1714 decise di rinnovare la morfologia del palazzo: per prima cosa venne rifatto il tetto, si aggiunsero gli infissi e infine l’intero complesso venne aumentato in altezza con l’aggiunta di un piano. Tutte queste modifiche furono rese possibili grazie agli indennizzi ottenuti in seguito al bombardamento navale da parte della Francia di Luigi XIV, il Re Sole, negli anni ’80 del XVII secolo.

Nel 1830 il palazzo venne acquistato dalla famiglia Cataldi ed infine nel 1922 dalla Camera di Commercio cittadina che, ad oggi, ne è l’attuale proprietaria ed ha elevato l’edificio a sua sede.

Il 13 luglio 2006 una commissione UNESCO riunita a Vilnius inserì fra i siti Patrimonio dell'umanità le Strade Nuove insieme a 42 dei 163 palazzi iscritti almeno in una delle cinque liste ufficiali della Repubblica di Genova (Rolli del 1576, 1588, 1599, 1614 e 1644), tra cui Palazzo Tobia Pallavicino, secondo il tradizionale tour che  si effettua durante una delle giornate degli ormai famosi Rolli Days.

I criteri adottati per la selezione sono stati il II e il IV:

II) L'insieme delle Strade Nuove e dei palazzi ad esse collegate mostra una valenza importante per lo sviluppo dell'architettura e dell'urbanistica del XVI e del XVII secolo. Il loro esempio fu divulgato dalla trattatistica architettonica del tempo, rendendo le Strade Nuove e i palazzi tardo-rinascimentali di Genova un punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo dell'architettura manierista e barocca europea.

IV) Le Strade Nuove di Genova costituiscono un esempio eccezionale d'insieme urbano di palazzi aristocratici di grande valore architettonico, che illustra l'economia e la politica della città mercantile di Genova all'apice del suo potere nel XVI e XVII secolo. Il progetto propose uno spirito nuovo e innovativo che caratterizzò il Siglo de los Genoveses (1528-1640). Nel 1576 la Repubblica di Genova stabilì delle liste, o Rolli, legalmente vincolanti, che riconoscevano i palazzi più importanti come dimore ufficiali per i visitatori illustri.

PERCORSO ARTISTICO

Il ciclo decorativo presente nel palazzo si snoda cronologicamente in due distinte fasi: la prima risale al momento della costruzione dell’intero palazzo e vede come assoluto protagonista il Bergamasco coadiuvato da artisti locali tra cui Luca Cambiaso, la seconda invece è da ascrivere alle committenze della famiglia Carrega durante il primo Settecento, tra cui spicca la figura di Lorenzo De Ferrari (1680-1774).

L’ingresso-atrio è un ampio vano rettangolare connotato da una spettacolare e magnificente ricchezza delle decorazioni a stucco, modulate secondo il gusto delineato da Raffaello a inizio XVI secolo a Roma, presente lungo tutte le pareti. Gli affreschi della volta, lunettata alla base, vedono al centro, contornati da decorazioni a grottesca, due riquadri con all'interno di uno Giunone, mentre dell’altro Leda e il Cigno (uno degli amori di Giove). Alla base della volta si possono osservare altri otto riquadri di minori dimensioni con altrettante figure tratte dal pantheon greco-romano, tra cui Diana, Mercurio, Saturno, Giove. Non si conosce la precisa motivazione che spinse il pittore a raffigurare proprio questi personaggi: probabilmente si ritiene che questi siano le personificazioni dei giorni della settimana, ipotesi condivisa da molti studiosi locali dato che nel vicino Palazzo della Meridiana si trova una soluzione figurativa analoga volta proprio ad indicare i giorni settimanali.

Il salone del piano terreno presenta un’imponente decorazione ad affresco sia al centro della volta che alla sua base. Il grande affresco centrale è, allo stato di conservazione attuale, il capolavoro di Giovan Battista Castello nel palazzo. Il tema iconografico è quello del Parnaso con Apollo musagete, raffigurato mentre suona la cetra, attorniato dalle nove Muse divise in tre gruppi, mentre in cielo volano tre amorini. Presente assieme al dio delle arti e alle divinità femminili Pegaso, che scalciando verso il terreno dà vita al fiume Acheronte, sacro alle Muse stesse.

Nelle lunette che si trovano alla base della volta sono inseriti busti di gusto romano che mostrano la volontà diffusa di presentare Genova, che nel secondo Cinquecento era la prima potenza economica europea, come novella antica Roma. Al di sopra di questi busti si trova la narrazione di un mito classico la cui lettura iconografica è ancora oggi molto dubbia, complice lo stato di conservazione: probabilmente è il mito incentrato sulla storia di Aracne e della sua trasformazione in ragno, dato che in uno di questi riquadri è presente un telaio.

Salendo lo scalone situato sulla destra, con le spalle rivolte all'ingresso, si arriva al primo piano nobile, area dove è possibile osservare il passaggio dalla decorazione artistica di fine Cinquecento, dietro committenza Pallavicino, a quella della famiglia Carrega a inizio ‘700.

Appena giunti al piano si entra in un vano le cui modalità decorative sono le stesse presenti al piano inferiore: stucchi modellati a lesena che corrono lungo le pareti e volta con le tradizionali grottesche di derivazione raffaellesca in cui troviamo nuovamente figure mitologiche. Al centro dell’intera volta è nuovamente rappresentato Apollo: in questa occasione si trova in cielo con tre Muse al suo fianco mentre suona la cetra. Nei grandi medaglioni ai suoi lati si hanno figure femminili musicanti.

Nella parete posta di fronte a quella di accesso al vano si apre una porta che conduce ad una stanza, modesta per dimensioni rispetto agli altri ambienti, che è nota con il nome di salotto di Tobia Pallavicino: attualmente è occupato da uno degli uffici della Camera di Commercio, le decorazioni parietali sono coperte da scaffali ma, sulla volta del soffitto, si apre un riquadro cinquecentesco dove è raffigurato Amore che veglia Psiche.

Con questo termina la sezione decorativa che aveva contraddistinto il palazzo in cui Tobia Pallavicino ed i suoi eredi avevano vissuto fino a tutto il XVII secolo; oltrepassando questa zona si entra “fisicamente” nella seconda parte della storia di questo edificio, avvenuta in seguito all’acquisto da parte della famiglia Carrega.

Il primo salone a presentare la nuova decorazione appare sostanzialmente spoglio: nessun motivo architettonico decorativo a stucco sulle pareti, totalmente bianche, e nessun affresco sulla volta ribassata del soffitto. In realtà prima del passaggio di proprietà settecentesco sulla volta doveva essere rappresentato uno degli episodi finali dell’intero mito di Amore e Psiche, dipinto sempre dall’équipe di Giovan Battista Castello, creando una continuità iconografica e narrativa tra il precedente salotto di Tobia Pallavicino e questo ambiente. Oggigiorno, in luogo di questo affresco vi è una “semplice” (si fa per dire) decorazione a stucco bianco che corre lungo la base della volta da cui, dagli angoli, si diramano due diagonali che si intersecano al centro in corrispondenza del grande lampadario centrale. Attualmente questa stanza, come il sottostante salotto con l’affresco del Parnaso, è adibito a sala conferenze.

Ancora da ascrivere al nucleo architettonico di XVI secolo, ma decorato secondo quella sensibilità tipica di pieno Settecento, è la cappella gentilizia presente in un salotto posto sul lato destro del grande salone precedente. Questa è chiusa da una porta costituita da due ante in legno rivestite di tela su cui Lorenzo De Ferrari dipinse un motivo decorativo a grisaille con al centro due medaglioni, uno per anta, con la Natività e l’Annunciazione. All'interno della cappella si conserva la cosiddetta Madonna Carrega, opera di Pierre Pouget, scultore francese che a fine ‘600 si trasferì a Genova in virtù delle grandi committenze che avrebbe ricevuto nel capoluogo ligure dalla grande aristocrazia cittadina. Il gruppo che raffigura una Vergine con Bambino presenta una plasticità di eco michelangiolesco e berniniano che unisce sapientemente in un risultato raffinato echi della tradizione scultorea rinascimentale e barocca. L’opera venne, stando alle fonti, con ogni probabilità commissionata dalla famiglia Balbi, dato che nel 1717 figurava in una delle loro residenze, ma verso la metà del XVIII secolo venne acquistata dai Carrega che la collocarono entro la cappella gentilizia la cui decorazione interna venne affidata al già citato De Ferrari. Il pittore genovese creò una quinta architettonica in stucco dorato molto suggestiva alternando i rilievi plastici ad una riproduzione pittorica di come doveva apparire Strada Nuova in quel periodo. Nella piccola cupola che conclude questo spazio si ha invece un raffinatissimo volo di amorini, che mostra tutta l’abilità e la sensibilità pittorica dell’artista.

L’ultima stanza in analisi, quella che conclude la visita del palazzo durante l’evento dei Rolli Days, rappresenta il dulcis in fundo, la meraviglia delle meraviglie, ossia la camera aurea o galleria dorata. Alla stanza si accede passando su un piccolo balconcino in ferro battuto: la nascita avviene in seno a quei lavori di rinnovamento ed ampliamento voluti nel secondo decennio del ‘700 da Giovan Battista Carrega, l’ideatore e l’esecutore per la parte pittorica fu Lorenzo De Ferrari. La camera ha una pianta rettangolare alquanto stretta ed è chiusa alla sommità da una volta a botte lunettata; all'interno però, grazie al sapiente gioco di specchi e decorazioni in legno dorato, la luce si riflette da una superficie all'altra dilatando notevolmente lo spazio e dando l’impressione al visitatore di essere in uno spazio molto più esteso. Se a questo ci si aggiunge che in pieno Novecento è stato aggiunto un importante tavolo ellittico tutto specchiato, l’effetto di amplificazione è assicurato.

I soggetti dipinti appartengono alle storie di Enea con un intento dichiaratamente celebrativo. Il grande affresco centrale della volta raffigura Venere che intercede presso Giove per salvare il figlio Enea dalla furia vendicativa di Giunone. Nei quattro tondi, disposti a coppie, applicati a mezza altezza sui lati minori e collocati entro stucchi, si trova altrettanti episodi della biografia dell’eroe troiano narrati nell’Eneide: Enea che fugge da Troia, Enea e Didone, Venere nella fucina di Vulcano ed Enea che uccide Turno.

 

 

Bibliografia

Alizeri “ Guida artistica per la città di Genova”, Genova 1847

Gavazza “Lorenzo De Ferrari (1680-1774)”, Milano 1965

Torriti, "Tesori di Strada Nuova, la via aurea dei genovesi", Genova, Cassa di risparmio di Genova e Imperia 1970.

Poleggi, "Strada Nuova una lottizzazione del Cinquecento a Genova", Genova, Sagep Editrice, 1972.

Gavazza “La grande decorazione a Genova”, Genova 1974

Poleggi (a cura di), "Una Reggia Repubblicana Atlante dei Palazzi di Genova 1530-1664", Torino, Umberto Allemandi & C., 1998.

Bartolini, E. Manara, "Palazzo Tobia Pallavicino", Genova, Sagep Editori, 2008

VV. “Genova. PALAZZO TOBIA PALLAVICINO. Camera di Commercio”, Genova Sagep, 2013


LA STRADA NUOVA A GENOVA

A cura di Irene Scovero

Soluzioni paesaggistiche in uno spazio rinascimentale

Via Garibaldi, inizialmente Strada Maggiore poi fino all’Ottocento Strada Nuova a Genova, è una delle principali arterie della città antica. Il tracciato attraversa con andamento rettilineo e in piano, ortogonalmente alle direttrici medievali che scendono  verso il mare, un’area orizzontale interposta tra la collina di Castelletto a monte e il fitto tessuto medioevale. Nel XVI secolo, negli anni del nuovo sviluppo che accompagna la città, entrata nell’orbita del potere imperiale all’avvio di quello che è stato definito “il secolo dei genovesi”, l’aristocrazia necessita di modelli abitativi che ne sottolineino collocazione internazionale e protagonismo sociale.

Vi era la necessità di rinnovamento, fasto e lusso. Furono proprio queste priorità a dar vita nel 1550 all’edificazione di una via residenziale, creando uno spazio che raccogliesse le dimore dei membri dell’oligarchia genovese, in quel momento famiglie di grande potenza economica internazionale. Il contributo più incisivo nella realizzazione delle dimore fu dato Gian Galeazzo Alessi venuto a Genova nel 1548. I palazzi di villa che aveva realizzato per alcune famiglie, avevano lasciato nell’architettura genovese un modello tipologico di grande evidenza monumentale che venne ripreso da Bernardino Cantone, l’architetto camerale, che si occupò della realizzazione della Strada Nuova. Per quanto riguarda il contributo pittorico-figurativo, il soggiorno di Perin del Vaga, nel terzo decennio del secolo, aveva maturato nella cultura locale  una concezione moderna di spazialità decorativa che si era rivolto inizialmente nella committenza esclusiva e periferica dell’ammiraglio Andrea Doria, ma che venne ripresa dagli artisti locali in questa occasione di rinnovo urbano. La decorazione delle abitazioni lussuose della via interviene nell’esaltazione degli spazi celebrativi dove si inseriscono temi mitologici e storici. I pittori nati nel secondo decennio e attivi in questi anni si erano aggiornati a Roma e i cantieri aperti nel nuovo quartiere furono un’occasione irripetibile per la promozione di questo capitale di cultura decorativa.

I palazzi di Strada Nuova sono una combinazione di soluzioni particolari, dove si ritrovano idee architettoniche che richiamano al VI libro dell’Architettura civile di Sebastiano Serlio, in particolare per quanto concerne la tipologia di cortile e giardino. Nei primi del Novecento, in contemporanea a forti eventi speculativi in aree cittadine già luoghi di villa, si avverte una certa sensibilità pubblica verso il tema del giardino. Intorno al 1927 il Comune acquisì antiche ville che divennero di proprietà pubblica e questo comportò anche lavori di sistemazioni anche nei giardini.

Vengono elencati i milioni di metri quadrati dei nuovi giardini pubblici del Comune di Genova e nel 1928 è in corso la realizzazione del più grande parco pubblico, il Peralto. Questo spirito innovativo per la valorizzazione delle  aree verdi urbane non trova analogo riscontro nel caso di Strada Nuova, nel momento che negli anni ’20 il Comune sacrificò il giardino di Palazzo Spinola e quello adiacente di Palazzo Lercari, per la realizzazione di due gallerie cittadine e Piazza Portello.

Evidentemente, se da un lato si assiste a una volontà da parte dell’amministrazione civica, dell’acquisizione di nuove aree verdi per la fruizione del pubblico cittadino, questo non corrisponde ad una effettiva presa di coscienza dell’importanza dei giardini storici.

Con la caduta della Repubblica di Genova, e con le successive trasformazioni della città realizzate con ritmi incalzanti, in particolare dalla seconda metà dell’Ottocento l’organizzazione dello spazio verde subisce una crisi travolgendo gli aspetti conservativi del rapporto città-territorio così come si era organizzato in epoca preindustriale nel governo della classe  aristocratica genovese.

I nuovi percorsi stradali spezzano l’assetto originario dei giardini.

Ne sono esempio anche i palazzi di Strada Nuova sopra citati, come un territorio di villa, il giardino di Villa Scassi a Sampierdarena o quello del Palazzo del Principe. Nel primo caso l’esecuzione di Via Cantone realizzata alla fine degli anni 20 provocò una cesura tra palazzo e giardino compromettendo la soluzione scenografica originaria.

Gli stessi problemi si ritrovano per il giardino di Palazzo del Principe. La costruzione della linea ferroviaria Genova-Torino, intorno al 1850, causò lo sbancamento di una parte del giardino nord che fu poi irrimediabilmente distrutto dalla costruzione di Via Pagano Doria nel 1899.

Per quanto riguarda Strada Nuova, ancora negli anni Settanta si assisterà alla sistemazione dell’area verde a monte di Palazzo Tursi e in anni vicinissimi, alla radicale trasformazione in veste ottocentesca dell’area adiacente a Palazzo Bianco. Solo tra il 2001 e il 2004 vengono condotti i restauri dei giardini superstiti a nord di Strada Nuova.

Strada Nuova, ora Via Garibaldi vista dall'alto.
Rilievo dei palazzi di Strada Nuova.

La Strada Nuova a Genova: Peter Paul Rubens e i Palazzi 

La fortuna internazionale della Strada Nuova si deve soprattutto agli scritti di Pier Paolo Rubens; l’artista il 29 maggio del 1622 pubblicò ad Anversa il volume intitolato Palazzi moderni di Genova.

L’incisore delle 72 tavole, appare fedele ai disegni anche se la stampa capovolge l’orientamento dei rilievi. In epoca più tarda con uguale data incisa sul frontespizio, comparve una seconda edizione ampliata, che il Cicognara ritenne posteriore alla morte del Rubens avvenuta nel 1640.

La venuta dell’artista a Genova, nel 1604 gli permise di conoscere alcuni aristocratici genovesi, che divennero attivi committenti della sua arte,  e di ammirare le loro residenze. Queste, secondo il Rubens, coniugano bellezza e comodità nel rispetto delle regole dell’antico, grazie anche all’eccezionalità degli ambienti racchiusi una struttura cubica. Spazi di destinazione privata legati alla vicenda di famiglie private e non a una corte. Naturalmente Rubens rimase colpito da Strada Nuova, dalla sua importanza urbanistica e di significato nella società genovese, perché primo esempio di quartiere residenziale riservato ad una classe dominante cittadina. L’architetto tedesco, Joseph Furttenbach, tra il 1610 e il 1620, durante il suo soggiorno italiano, rimane affascinato dell’architettura genovese, e in particolare dai giardini e dalle grotte artificiali lasciando testimonianze fondamentali per lo studio di questi manufatti. Una fedele illustrazione nel secolo successivo è offerta dalla Raccolta di diverse vedute della città di Genova, pubblicata nel 1779 dall’Abate Antonio Giolfi, dove nella veduta di  Via Nuova, ogni palazzo, nonostante lo scorcio è fedelmente illustrato.

I giardini privati dei palazzi nobiliari

Accennati, posti a margine rispetto alla prestigiosa architettura, i giardini e il verde che facevano da fondo naturalistico alla dimora sono stati, negli scritti, alquanto trascurati. Il carattere effimero del giardino, insieme ad un’inadeguata tutela ne ha accelerato la scomparsa rispetto al palazzo.

È possibile però, recuperare frammenti di ciò che doveva essere cercando di  recuperare il punto di vista del committente sul paesaggio e sullo spazio privato del suo giardino. Il palazzo e il rispettivo spazio verde sono elementi inscindibili, andavano e vanno visti come un unicum da salvaguardare e tutelare. Purtroppo, le vicende urbanistiche dei primi decenni del XX secolo hanno stravolto e indebolito la lettura del paesaggio circostante la dimora storica, basti pensare al caso dei Palazzi a monte di Via Garibaldi adiacenti a Piazza Fontane Marose.

Queste dimore sono state privati dei loro giardini, andati distrutti per la costruzione del nuovo assetto viario e delle due Gallerie cittadine ai primi del Novecento.

Nel XV secolo l’idea del giardino rinascimentale assume un significato decorativo e ornamentale. Vi è un ritorno alle forme di gusto antiquariale e si nota una spiccata passione per l’ars topiaria, con la quale gli alberi vengono modellati in maniera da raffigurare una infinità di forme: antropomorfe, geometriche o fantastiche. Nel De Re Aedificatoria di Leon Battistia Alberti, viene definita la competenza pratica e intellettuale del giardino nel contesto urbano e suburbano.

I comportamenti  codificati del giardino appartengono alla sfera del piacere, del gioco e della cultura. Questi atteggiamenti possono trovare posto nella città in rapporto di correlazione con il momento dell’attività politica e mercantile.

La disposizione geometrica delle piante, all'interno del giardino entro uno spazio ben organizzato, si ritrova nelle idee di simmetria prevalenti a Firenze. Tuttavia, l’ordine geometrico, l’uso dell’acqua e l’imitazione simbolica del Giardino dell’Eden sono presenti già nei giardini francesi del XII e XIII secolo con richiamo alla cultura del Medio Oriente. Nel Rinascimento la riscoperta dell’architettura romana riportò in auge l’uso delle grotte. Il Cinquecento inventa e realizza grotte artificiali, che divennero il motivo centrale dei giardini. Nel mondo classico, la grotta è luogo dove si palesano gli elementi costitutivi del creato ed è anche una forma laica di riflessione religiosa, vista più come simbolo di morte che di vita, perché associata al carcere e le alle costrizioni che il corpo impone all’anima. L’idea della grotta rinascimentale passa attraverso le teorie neoplatoniche e più precisamente attraverso l’opera di Porfirio di Tiro, allievo di Plotino, che nel III secolo d.C. compose De Antro Nympharum. La riscoperta degli scritti del filosofo si ebbe grazie al lavoro dei platonici fiorentini, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Porfirio interpreta i pochi passi del canto 13 dell’Odissea, attraverso un tema fondamentale del pensiero platonico: il dramma della discesa dell’anima nel mondo e il suo ritorno.­

Le grotte artificiali, sono la testimonianza di una certa sensibilità, gusto e cultura di un’epoca. Tra il XV e XVI secolo, nel nuovo clima umanista, l’antro diviene il luogo sacro consacrato agli dei marini, simbolo culturale della totalità della natura dove al suo interno sono concepiti e generati dei, ninfe e uomini. Il Cinquecento ha costruito grotte artificiali, facendone emblemi e il centro emotivo del giardino. Non è un caso che in Strada Nuova, tutti i giardini culminassero con una grotta o un piccolo ninfeo. Quest’ultimi, consacrati all'acqua, riportano concrezioni di conchiglie, ciottoli marini, coralli, tutti elementi che rimandano all'elemento marino e che, insieme alle sculture poste all’interno, spesso figure pisciformi, ricreano un tempio intimo delle acque.

La ritrattistica

Nel XVII secolo, la ritrattistica viene chiamata a sottolineare il ruolo della classe dirigente, si ricerca un genere pittorico che palesi lo status sociale specie per i membri dell’oligarchia dominante, rispecchiando usi e costumi della società contemporanea. La condizione sociale del committente viene ostentata non solo dagli abiti, ornamenti e architetture, ma anche dalla rappresentazione dei propri giardini. Roseti, fiori, vasche e fontane zampillanti vengono accostati alla dama o alla famiglia aristocratica che, attraverso tali rappresentazioni simboliche, si identifica come padrona degli spazi verdi e loro unica fruitrice in grado di permettersi di goderne le particolarità.

In alcune rappresentazioni pittoriche diversi elementi di una scenografia di magnificenza vengono evidenziati (moduli dell’architettura, fontane, satiri, e aleggiano specie arboree. Le essenze floreali che compaiono nei dipinti rimandano, spesso, al loro significato simbolico), in altri casi compaiono pochi segni come una pianta o un albero in lontananza che fanno presumere la presenza del giardino.

Peter Paul Rubens, Giovanna Spinola Pavese, collezione privata.
Peter Paul Rubens, G.B. Carbone, ritratto di Battista Chiavari e Banetta Raggi, 1648-1650, Milano-Pesaro, Galleria Altomani.
D. Fiasella, La famiglia di Gio Vincenzo Imperiale nella Villa di Sampierdarena, 1642, Genova, Musei di Strada Nuova.

La Strada Nuova a Genova: alcuni esempi dei giardini dei palazzi a monte e a sud

Ci sono differenze tipologiche tra i giardini lato monte e quelli a mare della via.  I primi, in rapporto con la natura del territorio sono veri e propri spazi aperti nella collina realizzati con  terrazzamenti degradanti verso il palazzo. Diversa la struttura dei giardini sud, limitati e di breve estensione, compresi tra l’edificio e le preesistenti costruzioni medievali.

Sul lato mare i giardini erano quindi pensati per essere godibili dall’interno del palazzo. Per questi motivi sono stati alquanto trascurati e ancor oggi il visitatore che visita gli edifici in Strada Nuova se rimane colpito da quanto resta dei  giardini a monte, alcuni ancora visitabili, ignora l’esistenza dei giardini sul lato opposto, modificati e alterati nel corso dei secoli e a tutt’oggi,  quelli rimasti,  non facilmente accessibili.

I primi palazzi che si incontrano sul lato monte venendo da ponente e che mantengono ancora, nonostante i vari rifacimenti avvenuti nei secoli successivi, un impianto paesaggistico sono Palazzo Bianco e Palazzo Doria Tursi che insieme a Palazzo Rosso, posto frontalmente, fanno parte dei Musei di Strada Nuova. A ridosso di Palazzo Bianco sorgeva l’antica chiesa di san Francesco, poi demolita nel 1820. Il giardino che rimane a  ridosso del palazzo conserva frammenti di architettura e decorazione marmorea della distrutta chiesa. Fu eliminata la maggior parte della vegetazione e create aiuole geometriche dove in un disordine non casuale sono stati posti pezzi archeologici di fronte alle arcate della chiesa ancora visibili e inglobate in architetture recenti. Palazzo Doria Tursi è il palazzo più maestoso e rappresentativo per quanto riguarda i giardini, classico esempio di aree verdi realizzate con terrazzamenti che hanno portato allo sbancamento della collina di Castelletto. Gli architetti, con un tracciato di scale riuscirono a risolvere il problema di “fabbricare in costa” cui si dedicò anche Sebastiano Serlio nel settimo libro. Nella realizzazione del palazzo venne abbandonata ogni separazione tra il portico, cortile e scala facendone uno spazio unico senza interruzioni. La dimora doveva essere organizzata in vari appartamenti autonomi affacciati sui giardini adiacenti; come scrive il Poleggi, la grandezza delle misure del palazzo doveva rispondere a una dimensione famigliare che trovò in giardini separati a più livelli la possibilità di una vita articolata con indipendenza. Tra il 2001 e il 2004 sono stati condotti i restauri del palazzo e dei relativi spazi verdi. Durante i restaturi del giardino inferiore di levante hanno proceduto alla demolizione e ricostruzione del bordo delle aiuole a roccaglia seguito da un diradamento della vegetazione, gli alberi malati o in contrasto con l’immagine del giardino sono stati abbattuti.

Tra i giardini meglio conservati a lato monte della strada c’è sicuramente quello di Palazzo Nicolosio Pallavicino. All’ingresso dello stabile salta subito all’occhio lo spazio scenico con il bellissimo ninfeo settecentesco realizzato da Domenico Parodi. Il piano nobile è agganciato al terrapiano del giardino, sospeso sopra la galleria del centro cittadino realizzata agli inizi del Novecento. Tutta la decorazione interna è in stretta connessione con l’immagine del giardino cui le stanze si affacciano. Gli affreschi che interessano a noi sono quelli che più si sposano con l’apparato decorativo del giardino cui le stanze si affacciano; un continuo richiamo alla natura  ed agli elementi simbolici che già inizia nelle raffigurazioni dell’atrio. Domenico Parodi nella sala centrale rappresenta Bacco che regge la corona di Arianna, un tema dove trionfa la sensualità e una natura lussureggiante popolata da putti, grappoli d’uva e festoni di fiori e frutti. Un apparato scenografico dove la bidimensionalità della pittura ben si sposa con la tridimensionalità dello stucco.

Dalle immagini dell’affresco ci si sposta poi nel giardino dove in fondo al suo asse centrale, nella grotta, viene rappresentato un Bacco più giovane coronato da tralci di vite che riceva il vino dal Sileno alle sue spalle. Ai suoi piedi Satiri con tipici caratteri zoomorfi, che accompagnano il dio nel rito. La simmetria del giardino si presenta ancora oggi con due percorsi laterali e uno centrale. Le fonti individuate testimoniano l’esistenza di un’uccelliera detta “dei pavoni” restaurata nel 1791 forse posta nell’ala di ponente in simmetria con il pergolato. In fondo al giardino l’alto muraglione divide il giardino inferiore da quello superiore. Nel piccolo spazio superiore adibito ad orto, dovevano nascere rigogliose e delicate primizie tra cui i carciofi che compaiono negli inventari settecenteschi che, nel Cinquecento gli aristocratici genovesi regalavano come oggetto prezioso. Questo secondo giardino, citato nel passaggio di proprietà dai Centurione ai Pallavicino nel 1711, aveva sul muraglione di fondo un ninfeo ed è  tutt’ora presente la torre-cisterna sul lato destro. Quest’ultimo elemento di tradizione islamica, con all’interno una scala a chiocciola è da far risalire ai contatti che il Lomellino aveva con gli ambienti islamici. Nicolosio, è ricordato, infatti, come grande concessionario della pesca del corallo nell’isola tunisina di Tabarca. Questo materiale viene ostentato nel giardino, sia nelle pareti ai lati delle grotte sia all’interno di queste dove sono ne sono presenti degli “arbusti”.

Per Palazzo Pantaleo Spinola a sud della strada, di particolare interesse sono le soluzione realizzate nel Seicento al posto del giardino cinquecentesco. Nel XVII secolo  modifiche strutturali diedero vita al piano terra di un cortile ottagonale con giardino acciottolato e ninfeo triabsidato coincidente al piano superiore con lo splendido ninfeo sul terrazzo ad anello che ospitava il ratto di Elena di Pierre Puget. La geniale sistemazione seicentesca fece si che gli spazi dei saloni dialogassero con gli ambienti esterni non solo per la loro continuità visiva ma per il comune programma iconografico. Nel XX secolo il cortile fu coperto da una terrazza e lo spazio acciottolato con piante di agrumi è ora sede degli sportelli bancari del Banco di Chiavari e della Riviera Ligure. Diverso è il discorso per l’edificio a fianco, Palazzo Tobia Pallavicino. Il giardino cinquecentesco, solo visibile dalle piante di Rubens e del Reinhardt, venne soppresso nel Settecento per realizzare al suo posto un corpo di fabbrica che ospitasse una galleria dorata, per emulare quella degli specchi della reggia di Versailles; esempio supremo di rococò europeo.

Anche i palazzi vicini hanno subito modifiche sostanziali, a parte il giardino di Palazzetto Doria che conserva pressoché inalterato l’assetto originario. La maggior parte di questi spazi verdi privati è stata modificata nel corso del XVIII secolo creando soluzioni nuove e aggiornate al gusto dell’epoca. È il caso di Palazzo Baldassarre Lomellino-Campanella dove venne chiamato Andrea Tagliafichi, uno degli architetti più importanti dell’aristocrazia genovese che operò soluzioni terrazzate nuove con tempietti in stile neoclassico. In Palazzo Lazzaro e Giacomo Spinola- Cattaneo Adorno i rilievi del Rubens mostrano la specularità dei due lotti interni; la simmetria dei giardini doveva essere ripartita in parterre con al centro delle vasche, come mostra la pianta del primo piano del Rubens. Lo spazio di ponente, diversamente da quello vicino che è interamente terrazzato ed abbellito con piante in vaso, ultima con un ninfeo. La parte del calpestio termina, infatti, con un’area in terra battuta dove sono presenti alberi e palme; in asse con l’ipotetica vasca che doveva trovarsi al centro del giardino, incastonato nel retro del palazzo di fronte, un ninfeo. In primo piano, al centro della nicchia sullo sfondo di un paesaggio, ormai indefinito, formato da tinte brune e l’azzurro di quello che doveva essere il cielo, è presente una composizione scultorea.  Una figura maschile, tardo rinascimentale, cavalca un delfino spalancando con la mano sinistra la bocca dell’animale per far uscire l’acqua che doveva alimentare il basso barchile sottostante. Ai suoi piedi tre figure femminili pisciformi portano le mani al petto, nell’atto di far zampillare l’acqua dai seni; classica iconografia che ben si sposa con l’elemento acquatico delle grotte e ninfei

Il cantiere di Strada Nuova non fu solo luogo di sperimentazioni architettoniche nuove e cantiere di pittori e scultori aggiornati dell’epoca, ma rispecchia il gusto rinascimentale per l’ostentazione del lusso, del bello e della ricercatezza che si palesa non solo nell’architettura fine a se stessa, ma si allarga allo spazio verde visto come elemento imprescindibile dell’architettura di palazzo.

Palazzo Nicolosio Lomellino

Domenico Parodi, Progetto per il ninfeo di Palazzo Lomellini, Genova, Palazzo Rosso, Gabinetto, Disegni e stampe (n. inv, 4667).
Costruzione della Galleria Zecca-Portello, 1924 e il sovrastante giardino Lomellino.

Domenico Parodi, Bacco che regge la corona di Arianna, primo quarto del XVIII sec, secondo piano nobile.

Palazzo Bianco

 

Palazzo Doria Tursi 

 

Per la realizzazione di un polo museale unitario, nel 2004, venne progettato un collegamento tra i due Palazzi, Bianco e Doria Tursi, che permettesse il raggiungimento delle due gallerie museali. Venne creato un manufatto, definito “Cerniera” che aveva il compito di congiungere i livelli dei giardini dei due edifici. Il collegamento avvenne a ponente in corrispondenza del braccio vetrato realizzato per le colombiane del 1892.

Palazzo Pantaleo Spinola-Banco di Chiavari e della Riviera Ligure

 

Palazzo di Andrea Spinola, sezione assonometrica ipotetica dello stato originario. Punti di vista esterni della volta della sala. [1]
Il cortile-giardino ottagono, oggi coperto di Palazzo Spinola Gambaro. (Archivio Fotografico della Soprintendenza peri Beni Architettonici ed Ambientali della Liguria).
Stato attuale. Banco di Chiavari e della Riviera Ligure. Cortile ottagonale ora adibito a sportelli bancari.

Palazzetto Doria

Palazzo Baldassarre Lomellino-Campanella

Palazzo Lazzaro e Giacomo Spinola-Cattaneo Adorno

 

Palazzo Rosso

Nel vasto terrazzo pensile settecentesco, due moderni pergolati fanno da cornice a un portale settecentesco. Quest’ultimo[1] faceva parte del monastero di San Silvestro; scolpito da Giacomo Gaggini e Angelo Maria Mortola su commissione delle monache domenicane. Presenta due grandi angeli che fungono da cariatidi, mentre altri due sorreggono un medaglione che rappresenta San Domenico.

 

I giardini di Strada Nuova nelle testimonianze dei viaggiatori[3]

[…] Le terrazze tenute a giardino, fra edifizio ed edifizio, con le viti che formano arcate verdi, coi boschetti d’aranci e con gli oleandri fioriti, a venti, trenta, quaranta piedi al di sopra della strada.[4]

[…] Palazzo Spinola, con l’esterno interamente dipinto; nell’interno l’atrio, la scala, le logge in alto, il cortile e il giardino formano una composizione imponente.[5]

 […] Gli scaloni conducono a giardini incantati dove gli aranci, i melograni, i rosai, i gelsomini esalano profumi prestigiosi, dove le vasche, le fontane e le cascate fanno brillare tutti i loro colori spandendo freschezza e un infinito sussurro. Questi giardini, alti sopra bei portici, lasciano cadere sulla strada la polvere umida degli zampilli, il profumo dei fiori e il ricco fogliame. Ci si chiede se Semiramide abbia avuto simili giardini a Babilonia.[6]

 […] Vidi il palazzo di Giovanni Battista d’Auria, una costruzione molto maestosa il cui giardino non soltanto era molto attraente ma anche adorno di statue e di fontane.[7]

 [… ] Palazzo Tursi, così lo rallegrano l’olezzo dei giardini, l’agitarsi degli arbusti e il lene mormorio delle fonti.[8]

 

Note e riferimenti

[1] L'immagine tratta da Lo Spazio Dipinto, il grande affresco genovese nel '600, indica diversi punti di vista di lettura del programma iconografico della sala del Piola.

[2] Il portale fu trasportato nel giardino di  Palazzo Rosso probabilmente dopo i bombardamenti del 1942 e del 1944 che  distrussero parte della chiesa.

[3]Relativo alla fortuna di Strada Nuova negli scritti dei viaggiatori , vedere: Genova dei grandi viaggiatori, a cura ,di Franco Paloscia; Viaggio in Liguria, a cura, di Giueseppe Mercenaro.

[4]C. Dickens, 1846, p. 36.

[5]J. Burckhardt, 1855.

[6]J. Autran, 1840, in Viaggio in Liguria di Giuseppe Mercenaro.

[7]F. Morison, 1594, in Strada Nuova di E. Poleggi.

[8] F. Alizeri, 1846.

 

Bibliografia

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I fiori del Barocco, pittura a Genova dal naturalismo al rococo, Catalogo della mostra a cura di A. Orlando, Cinisello Balsamo, 2006

Il giardino di Flora: natura e simbolo nell’immagine dei fiori, Catalogo della Mostra a cura di M. Cataldi Gallo e F. Simonetti, Genova, 1986

Burkhardt, Il Cicerone. Guida al godimento delle opere d'arte in Italia, Firenze, 1952

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L’età di Rubens. Dimore, committenti e collezionisti genovesi, Catalogo della mostra a cura di Piero Boccardo, Genova, 2004

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P. Gauthier, Les plus beaux édifices de la ville de Genes, Paris, 1818-1832

Monache Domenicane e Genova, a cura di C. Cavelli Traverso, Roma, 2010

Boccardo, C. Di Fabio, I Musei di Strada Nuova, Torino, 2004

Torriti, Tesori di Strada Nuova: la Via Aurea dei genovesi, Genova

Palazzo Nicolosio Lomellino di Strada Nuova a Genova, a cura di G. Bozzo - B. Merlano - M. Rabino, Genova, 2004

Porfirio, De Antro Nympharum, a cura di Lascaris, Roma (ed. italiana a cura di L. Simonini, l’Antro delle Ninfe, Milano, 1986)

Reinhardt, Palast Architektur von Oberitalien und Toscana, Berlin, 1886