I BENI CULTURALI DEL TRENTINO ALTO-ADIGE E IL PRESEPE DEL DUOMO DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

 

La fine dell’anno è di solito tempo di bilanci, in particolar modo ora che siamo alla chiusura di questo magnifico percorso all’interno di “progetto storia dell’arte” e dei beni culturali del Trentino Alto-Adige. Un percorso iniziato nel 2016 per conoscere e valorizzare la storia dei beni culturali della regione, dalle opere più conosciute della città di Trento fino ad arrivare a quelle meno conosciute delle vallate trentine e dell’Alto Adige.

 

I beni culturali del Trentino Alto-Adige in “progetto storia dell’arte.it”

Nella città di Trento un grande viaggio è stato fatto nel Duomo per scoprire i segreti della sua storia e della sua struttura architettonica. Perché segreti? Come accade molto spesso per i monumenti medievali, il Duomo di Trento cela una simbologia tratta dai bestiari e dai testi biblici: dai rosoni che decorano le facciate fino alle figure antropomorfe dei vari portali di accesso. Il più grande monumento della città di Trento deve però la fama alla sua opera più importante, ovvero la Cappella Alberti che conserva il celebre crocifisso del Concilio di Trento, analizzato in tutta la sua simbologia. Rimanendo nella piazza principale della città sono state analizzate la Torre di Piazza, ex sede delle prigioni cittadine, e la simbolica Fontana del Nettuno.

In città è stato visto Palazzo Fugger Galasso, la cui leggenda lo volle plasmato dal diavolo in una sola notte, e il castello del Buonconsiglio analizzato nella sua evoluzione architettonica e nelle sue opere più importanti. Nel Castello di Trento è stata anche vista la Loggia del Romanino e la Torre dell’Aquila con il famoso Ciclo dei mesi, una delle più importanti testimonianze artistiche della vita nobile e popolare della fine del Trecento. L’architettura contemporanea con il MUSE di Renzo Piano, sede di uno dei più importanti e all’avanguardia musei di scienze del Nord Italia, e il più celebre monumento della città di Trento, ovvero il monumento dedicato a Dante Alighieri, emblema dell’italianità del popolo trentino. In ultimo, per rimanere nel contesto religioso della città: la badia di San Lorenzo, ex chiesa di Padri benedettini e domenicani, e la storia dei santi più conosciuti della città, San Vigilio, patrono di Trento, con la sacra urna delle reliquie ed un ex beato della città, ovvero Simonino da Trento che rese purtroppo celebre la città tra Quattro e Cinquecento per il primo caso in regione di antisemitismo.

 

 

All’interno del progetto divulgativo, per la regione del Trentino Alto-Adige, sono state considerate quasi tutte le peculiarità della regione: chiese, castelli, palazzi, borghi storici, i grandi pittori nativi del Trentino, fino ad arrivare all’archeologia con le palafitte di Fiavé. Per il capitolo delle grandi chiese disseminate sul territorio è stata esaminata la chiesa dell’Inviolata a Riva del Garda, una delle più belle chiese barocche del Trentino, ma anche la Pieve di Ledro nelle sue pregiate opere a stucco. Tra castelli e palazzi sono stati analizzati Castel Thun, il Castello di Arco e il Castello di San Gottardo a Mezzocorona e il Palazzo assessorile di Cles in Valle di Non. I borghi storici di Rango, Balbido, Canale di Tenno e tra le città più significative Merano e Glorenza. Inoltre, alcuni articoli sono stati dedicati alla vita e alle opere di grandi artisti del Trentino, ovvero il ritrattista d’Europa Giovanni Battista Lampi e nella pittura contemporanea l’opera di Carlo Sartori.

 

Infine, nelle vallate trentine sono state trattate molte chiese, in quanto la regione conserva gran parte del suo patrimonio artistico e architettonico negli edifici religiosi disseminati sul territorio. In Val Rendena le chiese più importanti: Sant’Antonio abate di Pelugo, la chiesa di Santo Stefano di Carisolo e la danza macabra di San Vigilio di Pinzolo. Nella valle delle mele: San Bartolomeo di Romeno, il santuario di San Romedio e la chiesetta di San Tommaso a Cavedago. Invece nel Trentino meridionale è stata studiata la chiesa di Sant’Apollinare di Prabi ad Arco con i suoi celebri affreschi, la chiesa di San Rocco a Caneve di Arco e la Chiesa della Disciplina a Riva del Garda. Nel Trentino sud-occidentale è stato fatto un viaggio tra i dipinti e le molte chiese sparse sul territorio della Valle di Ledro.

 

Il significato delle immagini e il presepe della cattedrale di Trento

Il viaggio compiuto tra i beni culturali del Trentino ha le sue radici nel significato che da sempre hanno le immagini nel mondo della storia dell’arte, dalla pittura alla scultura e finanche all’architettura. L’immagine è infatti da sempre un mezzo necessario di apprendimento per il popolo che non poteva accedere allo studio, poiché è sempre stata utilizzata nella storia come veicolo di messaggi e come strumento necessario per la diffusione della conoscenza.

In questo contesto rientra il messaggio che da sempre caratterizza il presepe, ossia quello di veicolare la memoria della nascita del Figlio di Dio. E con un presepe si conclude, infatti, il lungo viaggio nella storia dell’arte trentina: Il presepe della cattedrale di Trento, uno dei più significativi e importanti della città. Da diversi anni il Capitolo del Duomo di Trento ha deciso di dotare la cattedrale della città di un presepe degno del suo messaggio e della struttura che lo ospita: un presepe dalle grandi dimensioni, sistemato in una delle absidiole più importanti del Duomo, ossia in corrispondenza del fonte battesimale per veicolare al meglio il suo messaggio evangelico. La piccola figura del Bambinello è il centro di tutta l’opera, seguita dalle grandi statue della vergine Maria e dal padre Giuseppe sistemati in un paesaggio diroccato; alcuni pastori con le loro greggi accompagnano e vegliano il lieto evento, mentre l’angelo del Signore porta la luce nella Gloria di Dio nell’alto dei cieli. La stella cometa spunta in alto tra rovine di archi e colonne e i tre re magi - Melchiorre con l’oro, Gaspare con l’incenso e Baldassare con la Mirra - giungono alla mangiatoia del Bambinello. Un presepe pensato per la grande struttura architettonica che lo ospita, ma soprattutto per il luogo dove è stato sistemato, ovvero nella zona del battistero del Duomo di Trento, una scelta non casuale che richiama il dono della nascita nella chiesa cattolica.

 

Con il presepe del Duomo di Trento chiudo questo percorso nel grande “progetto storia dell’arte” e ringrazio Giulia Pacini, responsabile del progetto, e tutta la redazione che in questi anni ha collaborato alla cura della pagina web e degli articoli che hanno reso unico il sito web “progetto storia dell’arte.it”.

 

 

Le figure dalla 5 alla 7 sono state scattate dalla redattrice dell'articolo


IL “CRISTO DELLA DOMENICA”

A  cura di Alessia Zeni

 

Un esempio a Tesero in Val di Fiemme

L’iconografia de il “Cristo della domenica”

Una singolare e alquanto rara immagine è la raffigurazione de il Cristo della domenica che ha preso piede tra il Trecento e il Cinquecento fra le popolazioni dell’area alpina. Un’immagine che si diffuse nel nord Italia, nel centro Europa e nell’area meridionale dell’Inghilterra compreso il Galles, per ammonire i credenti sul lavoro domenicale e garantire loro un posto in Paradiso. Una diffusione così ampia da assumere una propria terminologia a seconda delle aree geografiche entro le quali si è sviluppata, come nel caso di Feiertagschristus in area tedesca. Le immagini corrispondenti a questa iconografia giunte fino a noi sono poco più di una sessantina, ubicate prevalentemente nelle aree a ridosso dell’arco alpino centro-orientale (Austria, Germania, Italia settentrionale, Svizzera, Repubblica Ceca e Slovenia)[1].

 

 

Si tratta di una raffigurazione dal significato molto forte perché ricordava al fedele il divieto di lavorare la domenica e di rispettarla come giorno di preghiera e di riposo, poiché anche Dio risposò il settimo giorno della creazione. Prevalentemente dipinta sulle pareti esterne delle chiese, esposte alla vista dei fedeli, ai quali si presentava l’immagine di un Cristo della Passione, nudo con il solo perizoma, sofferente e trafitto, non dai chiodi della crocifissione, ma dagli strumenti impiegati nelle attività lavorative quotidiane. In queste immagini il Cristo è presentato con una lunga serie di arnesi da lavoro, oggetti sia maschili che femminili (l’aratro, la zappa, recipienti ecc.), ma anche con piccole scene ad illustrare ciò che non si deve e si può fare nel giorno del riposo e della preghiera.

L’origine di questa raffigurazione ha radici nel cuore del Cristianesimo, quando prese piede l’immagine di Cristo con l’Arma Christi, ovvero con gli strumenti della Passione. Nel tempo i simboli torturatori della Passione di Cristo (chiodi, lancia, spugna) vennero trasformati in oggetti quotidiani da lavoro per colpire e martirizzare il corpo nudo di Cristo che subiva così una seconda crocifissione. Un’immagine che è andata scomparendo dopo il Concilio di Trento che imponeva un maggiore rigore nella realizzazione delle immagini sacre e con la Controriforma che riteneva le immagini devozionali irrispettose nei confronti della vera fede. In questo nuovo contesto il “Cristo della domenica” veniva interpretato come immagine popolaresca e oltraggiosa all’immagine santa di Cristo, tanto da determinare la distruzione di molte di queste raffigurazioni, a favore di soggetti in grado di elevare meglio l’anima di Dio. Le poche che si sono salvate è stato per negligenza di qualche parroco locale che non applicò le nuove direttive dei vescovi, coprendo o distruggendo queste immagini[2].

Tra il Trentino e l’Alto Adige si contano pochissimi esempi, l’immagine più bella e meglio conservata in regione è sicuramente il Cristo della domenica della chiesetta di San Rocco a Tesero, in Val di Fiemme, nel Trentino orientale.

 

La chiesa di San Rocco a Tesero

 

La chiesetta di San Rocco si trova nel centro del paese di Tesero, sullo stesso sagrato della vicina parrocchiale di Sant’Eliseo e sarebbe stata costruita come cappella dell’attiguo cimitero. È stata edificata nel 1528 per voto formulato durante la peste del 1515, anche se in merito non ci sono documenti che lo comprovano, ma la sola dedicazione a San Rocco, santo protettore contro la peste[3]. Venne consacrata il 25 ottobre 1538 da monsignor Vicenzo Negusanti, suffraganeo del principe vescovo Bernardo Clesio con un altare dedicato ai Santi Rocco e Alessio che porta la pala del 1613 di autore ignoto con la Santa Vergine e i Santi Rocco ed Alessio[4].

 

 

È orientata a nord-est e presenta una facciata a capanna interamente affrescata, preceduta da una tettoia murata sul lato sinistro e aperta sul lato destro, sotto la quale si aprono un portale e due finestre rettangolari. L'interno è ad aula unica con presbiterio rialzato e sormontato da una volta reticolata e affrescata.

 

La chiesa presenta affreschi sia interni che esterni e proprio questi hanno reso celebre questa antica cappella; in particolare è l’affresco de il Cristo della domenica, dipinto a grandi dimensioni sulla facciata dell’edificio che ha contribuito a diffondere la storia di questa chiesetta (Fig. 5). Sulla facciata della cappella un primo frescante dipinse nel 1541 il riquadro a sinistra dell'ingresso, ovvero una Madonna in trono con Gesù Bambino in piedi sulle sue ginocchia, il committente e il Simonino da Trento (Fig. 6). Secondo la data posta in alto a destra della facciata, un secondo frescante intorno al 1557 avrebbe decorato l’Annunciazione (Fig. 5 e Fig. 7) e lo stesso potrebbe aver dipinto tutto il rimanente della facciata: i due affreschi del muro laterale di sinistra raffiguranti la Resurrezione (Fig. 8) e Gesù nell’orto degli ulivi, l’affresco in basso a destra che rappresenta la Pietà (Fig. 7) e il grande Cristo della Domenica[5].

 

Sempre nel 1541, il medesimo frescante ebbe la committenza di affrescare la volta del presbiterio con la decorazione delle vele: la Madonna incoronata col Bambino, il Dio Padre in gloria e i simboli dei quattro evangelisti (Fig. 3). Infine, sulla parete di fondo, a forma di ampia mezzaluna, il pittore raffigurò una sacra composizione sullo sfondo di un paesaggio alpino ricco di montagne: il Cristo crocifisso con ai lati la Madonna e san Giovanni, San Valerio vescovo e San Rocco con un angelo e il cane che ha in bocca il pane, San Valentino che risana un bambino e San Sebastiano (Fig. 3)[6].

 

Il “Cristo della domenica” di Tesero

 

Il Cristo della domenica affrescato sulla facciata principale della chiesetta di San Rocco a Tesero è una delle raffigurazioni meglio conservate nel Trentino e nel territorio dell’arco alpino, dipinta a grandi dimensioni per ricordare ai fedeli che entravano nel cimitero o si recavano nella parrocchiale di Tesero il precetto di rispettare la domenica come giorno di preghiera e di riposo. Un affresco molto grande e ancora oggi ben visibile per chiunque giunga dalla strada principale, sottostante al sagrato della chiesetta.

Per richiamare il fedele a rispettare la domenica, il pittore che dipinse questo affresco presentò il Cristo con una lunga serie di oggetti e di persone che illustrano ciò che non si deve fare o usare la domenica ed alcune immagini che illustrano ciò che invece si dovrebbe fare. L’affresco ha un grande Cristo nel centro della raffigurazione che mostra le mani forate dai chiodi, non ha la corona di spine, ma una grande aureola, è nudo, vestito del solo perizoma e i suoi piedi, anche questi forati, appoggiano su un prato verde. Lo sfondo è dato da un cielo bianco e azzurro sul quale sono dipinti oggetti, cose e persone legate alle attività lavorative quotidiane sia maschili che femminili. Alcune di queste attività sono accompagnate da angioletti, su chi compie buone azioni, e da diavoletti con fiammelle rosse, su chi compie invece cattive azioni. L’affresco è inserito in una cornice dipinta a riproduzione del marmo rosso, nella quale, in alto, è inserita la seguente scritta di ammonimento: “Infra tutti li altri mali selerati, la dominicha sancta voi non santifichati // anci ogni zorno voi lavorati e ogni mal la mia dominicha voi fati” che tradotta “Oltre a tutte le altre azioni malvagie, voi non santificate la domenica, anzi, la domenica lavorate come tutti gli altri giorni e commettete ogni sorta di peccato”[7].

 

Le attività e gli oggetti descritti nell’affresco sono molti e mostrano un’interessante pagina della vita medievale dell’epoca. Partendo in alto a sinistra troviamo dipinti nella prima fila: un calice, una brocca, uno specchio e quattro strumenti per la tessitura (pettine, peso, agganciafilo, coltello), un libro sopra la testa del Cristo, tre attrezzi da falegname (tenaglia, martello e sega), fuso e navetta per la tessitura, una zappa e un bastone. Nella fila sottostante: tre pani, un’ascia da boscaiolo, una forca da fieno, una frusta, un rastrello da fieno e un badile, un’accetta in alto, una forbice in mezzo e una roncola in basso. Accanto a questi oggetti da lavoro sono dipinti una boccia, a fianco del braccio destro di Cristo, i dadi da gioco, ai lati della testa di Cristo, e, per proseguire con gli attrezzi da lavoro, un falcetto messorio e un falcetto da foraggio a fianco del braccio sinistro di Cristo, un martello da muratore, una cazzuola e subito sotto nove birilli con la boccia[8].

A metà dipinto, dalla parte dell’anca destra del Cristo: un mugnaio vestito di bianco invita nel mulino una donna con un carico sulle spalle sul quale si trova un diavoletto; sotto di loro un uomo col bastone e con la gerla sulle spalle, sulla quale c'è un diavoletto; una balestra e un archibugio e due amanti nel letto sulla cui testiera compare un diavoletto. Vicino all'anca del Cristo vi sono due fedeli a mani giunte, sui quali vi è un angioletto, con un bambino che assistono ad una funzione davanti ad un altare a portelle e, infine, una donna con un angioletto sulle spalle che dà in elemosina un pane ad un poveretto inginocchiato[9].

Dalla parte opposta è dipinta: una chiave, una giovane donna che si specchia sulle cui spalle vi è un diavoletto, una spada, un “fièl” (attrezzo per battere le granaglie), un arcolaio, una falce, una forbice tosapecore. Sotto: un uomo con la canna da pesca e un pesce appeso all'amo, una coppia danzante al ritmo di un piffero suonato da un bambino (un diavoletto sia sulle spalle dell'uomo sia su quelle del pifferaio) e un bottaio pure con un diavoletto sulle spalle che lavora ad una grande botte[10].

Infine, sopra il prato, a sinistra, sono dipinti: un contadino con un diavoletto sulle spalle che ara con l’aratro trainato da una coppia di buoi, una donna seduta che lavora alla zangola aiutata da un diavoletto, un tavolo da osteria con due clienti e un diavoletto; a sinistra, sotto: una donna che lavora su un pentolone, una grande incudine con martello da fabbro e, sotto il piede sinistro di Cristo, una donna che zappa nel campo. Per chiudere, a destra del Cristo, sopra: un uomo col diavoletto sulle spalle che guida un carro per il trasporto di legname trainato da una coppia di buoi (anche sul carico vi è un diavoletto); a destra, sotto: due persone che litigano coi cappelli a terra, un uomo che semina e all'estremità altre due persone che lavorano la terra[11].

Per concludere, l’autore del grande Cristo della domenica di Tesero è ignoto, ma potrebbe trattarsi di qualche pittore itinerante proveniente dalle regioni vicine che si spostava di vallata in vallata con i suoi attrezzi da lavoro per dipingere chiese e facciate che gli venivano commissionate. Purtroppo anche l’epoca di esecuzione rimane incerta fra il 1541 e il 1557, le uniche due date che sono dipinte all’interno e all’esterno della chiesetta di San Rocco.

 

 

Si ringrazia la Biblioteca comunale di Tesero per il materiale bibliografico.

 

 

La foto 2 e le foto dalla 4 alla 10 sono state realizzate dalla redattrice dell'articolo

 

 

 

Note

[1] M. Ferrero, Il Cristo della Domenica: un’iconografia tra arte e religione, pp. 33-34.

[2] Ivi, p. 34.

[3]http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/schedacc.jsp?sinteticabool=true&sintetica=true&sercd=26371#

[4] I. Giordani, L'affresco del “Cristo della domenica”, p. 1.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, p. 2

[7] Ivi, p. 4

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 5.

 

 

 

 

Bibliografia

Guido Giacomuzzi (a cura di), Guide del Trentino. Val di Fiemme storia, arte, paesaggio, Trento, Temi, 2005, pp. 182-183

Marco Ferrero, Il Cristo della Domenica: un’iconografia tra arte e religione. Un esempio vicentino, in “Progetto Restauro. Trimestrale per la tutela dei Beni Culturali”, 42, 2007, pp. 33-37

"I peccati della domenica": la profanazione del riposo festivo nell'iconografia del "Cristo della domenica", in “L'informatore comunale di Mariano Comense”, 6, 2007, pp. 30-33

Italo Giordani, Chiese, cappelle, edicole e affreschi a carattere religioso a Tesero. Appunti del prof. Italo Giordani per la conferenza tenuta a Tesero il 5 febbraio 2009, in stioridifiemme.it

Italo Giordani, L'affresco del “Cristo della domenica” sulla facciata della cappella di san Rocco a Tesero, 2020, in storiadifiemme.it

 

Sitografia

http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/schedacc.jsp?sinteticabool=true&sintetica=true&sercd=26371#

https://www.beweb.chiesacattolica.it/edificidiculto/edificio/26371/Chiesa_di_San_Rocco_Tesero


LE PALAFITTE. IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI FIAVÉ

A cura di Alessia Zeni

 

Nelle Giudicarie Esteriori del Trentino occidentale, un piccolo paese a 20 km da Trento conserva uno dei più importanti siti archeologici dell’arco alpino. Si tratta di Fiavé e della “Riserva Naturale provinciale” che conserva al suo interno uno dei più importanti complessi palafitticoli preistorici europei. Il sito si trova a quota 648 s.l.m. in corrispondenza dell’antico Lago di Fiavé, oggi Torbiera in località Carera e denominata a livello locale la palude di “Palù”.  La Torbiera di Fiavé si estende su una vasta conca triangolare chiusa fra i monti Cogorna e Misone e a nord dallo sbarramento morenico su cui sorge il paese di Fiavé. 

Tra gli anni Sessanta e Settanta importanti scavi archeologici nella Torbiera di Fiavé hanno portato alla luce un complesso sito palafitticolo riconosciuto oggi a livello mondiale e inserito dal 2011 nei “110 siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino” patrimonio dell’umanità UNESCO. Un sito la cui importanza è data dalle diverse forme insediative individuate, l’eccezionale stato di conservazione dei reperti lignei e dall’approccio globale delle ricerche.

 

Il sito archeologico di Fiavé 

Lago, sito palafitticolo, torbiera e area archeologica è il percorso che ha fatto nel corso dei millenni la Riserva naturale provinciale “Fiavé”. Una riserva di 137 ettari la cui storia risale a 15.000 anni fa quando, per sbarramento morenico, nelle fasi finali dell’ultima glaciazione, si andò formando un lago con le acque del torrente Carera e che doveva raggiungere i 10-15 metri di profondità. Oggi il Lago di Fiavé non esiste più, ma sappiamo che fino alla metà dell’Ottocento il lago esisteva con acque poco profonde (1-2 metri) e che di questi pochi metri solo la metà era occupata dall’acqua, il restante non era altro che deposito torboso. A partire dal 1853, l’ampio banco di torba che sostituì l’acqua fu sfruttato dalla “Società per l’escavazione della torba nel Tirolo Italiano” per la produzione di materiale combustibile. Una società che prevedeva di agire sulla palude di Fiavè e ricavare materiale torboso per le industrie di tutto il Trentino (birrifici, tintorie, cartiere, filande e fornaci di laterizi).

In seguito all’intensa estrazione della torba, già nella seconda metà del XIX secolo vi furono le prime segnalazioni del rinvenimento di pali e materiali archeologici. Le segnalazioni di materiale archeologico proseguirono fino al XX secolo, quando vennero condotti gli scavi più importanti dall’archeologo trentino Renato Perini, il quale diresse le principali ricerche sul sito e curò l’edizione integrale delle campagne di scavo condotte tra il 1969 e il 1976, con la collaborazione del Museo Tridentino di Scienze Naturali e poi della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Provincia di Trento.

Nel tempo le indagini sono state estese all’intera torbiera e proseguite fino agli inizi degli anni Novanta del XX secolo, che hanno visto la partecipazione di università internazionali, come Londra e Ginevra, sotto la direzione di Perini e poi del sovrintendente provinciale Franco Marzatico. Le ricerche degli anni Ottanta e Novanta hanno permesso di ricostruire l’evoluzione paleo-ambientale dell’antico lago e di individuare altre aree di interesse archeologico: complessivamente sette zone, interessate dalla presenza dell’uomo tra VII e II millennio a.C. [1].

Le scoperte sono state eccezionali sia dal punto di vista scientifico che storico per la ricostruzione delle più antiche comunità agricole europee. Le ricerche hanno portato alla luce i resti archeologici delle popolazioni che hanno abitato il Lago di Fiavè a partire dall’antico mesolitico per almeno cinquemila anni, con la costruzione di case in legno sulle rive, poi sul lago con le classiche palafitte e infine nell’entroterra con la costruzione delle prime case su terrazzamenti in pietra.

La più antica frequentazione umana attestata nell’area protetta di Fiavé è collocabile al mesolitico (VII millennio a.C.), invece il primo insediamento stabile è datato al tardo Neolitico (3800 e 3600 a.C.) e sorgeva su un’isoletta posta quasi al centro della parte meridionale del lago con la costruzione di capanne sulla riva del bacino. Gli insediamenti con le strutture meglio conservate appartengono ai secoli centrali del II millennio e si tratta di abitati su palafitte all’interno del lago: palafitte sull’acqua sorrette da pali isolati, datate tra antica età del Bronzo e l’inizio di quella media (1800-1500 a.C.). L’abbandono di quest’ultima costruzione corrispose al sorgere di un nuovo avanzato villaggio a palafitte, costruito in parte all’asciutto e in parte in acqua: un villaggio in paglia e legno sorretto da una complessa struttura a reticolo adagiata lungo la sponda e sul fondo del lago, eccezionalmente ben conservata, datata ad un momento avanzato della media età del Bronzo (1500-1350 a.C.). Infine, un incendio distrusse quest’ultimo moderno abitato palafitticolo e un nuovo nucleo abitativo venne costruito all’epoca dell’incendio. Quest’ultimo villaggio fu costruito su una piccola altura di origine morenica al margine meridionale del lago, il Dos Gustinaci, nell’entroterra vicino al lago, intorno agli ultimi secoli del secondo millennio (1300-1200 a. C.). In questo luogo il popolo primitivo del Trentino occidentale costruì le prime capanne in legno su terrazzi artificiali in pietra (Fig. 3)[2].

 

Migliaia e di vario tipo sono stati i ritrovamenti archeologici effettuati nella palude di Fiavé, così come centinaia i materiali caduti in acqua accidentalmente o gettati al tempo delle palafitte e che oggi sono importante testimonianza delle conoscenze tecniche e artigianali dei popoli primitivi - vasi in ceramica, monili in bronzo, gioielli in ambra baltica e oro, che erano rarissimi all’epoca -. Una collezione unica in Europa di oggetti in legno, circa 300 esemplari: stoviglie e utensili da cucina (tazze, mestoli, vassoi), strumenti da lavoro come secchi, mazze, falcetti, trapani, manici per ascia, oltre a strumenti legati alla caccia e alla difesa - un arco e alcune frecce -. Le particolari condizioni ambientali del deposito torboso di Fiavè hanno permesso di individuare anche semi e frutti (carbonizzati e non) di derrate alimentari: spighe di grano e orzo, farro, corniole, nocciole, mele, pere, uva, lamponi, more e altri frutti consumati all’epoca. L’unicità di questa scoperta ha confermato che l’agricoltura era una componente importante e primaria nell’economia di sostentamento di una comunità tipica dell’età del bronzo nella regione subalpina [3].

In ultimo è bene anche ricordare la grande quantità di pollini delle piante che la torba ha conservato e che si sono succeduti negli ultimi quindicimila anni. Agli inizi del Novecento furono effettuate delle ricerche per conoscere il clima che vi era nella preistoria, con lo scopo di ricostruire l’evoluzione del clima, della vegetazione e degli interventi dell’uomo nel periodo successivo all’ultima glaciazione. 

Il “Museo Palafitte di Fiavé” 

 

Il 14 aprile 2012 nella Casa Carli di Fiavé è stato inaugurato il “Museo delle Palafitte”, un museo all’avanguardia che conserva la collezione di reperti archeologici ritrovati nella Torbiera di Fiavé.

Il museo è stato organizzato su due grandi piani. Al primo piano sono raccontate al visitatore le ricerche archeologiche del sito di Fiavé, attraverso filmati e plastici, e la storia dell’antico Lago di Fiavé prima dell’arrivo dell’uomo, risalente a 15.000 anni fa. Segue un’esposizione di reperti mobili e una vetrina, lunga più di sette metri, dedicata alle sette fasi di vita del villaggio.

La sezione più interessante è quella del secondo piano, nel sottotetto, dove uno dei plastici mai realizzati all’interno di un archeo museo ricostruisce il villaggio palafitticolo di “Fiavé 6”, ovvero quello della media età del bronzo con oltre settanta personaggi intenti nella costruzione delle capanne sull’acqua (Fig. 12). A fianco del plastico, alcune vetrine sono dedicate al lavoro dei campi con l’esposizione di falcetti, un aratro e il giogo (Fig. 10), alle specie coltivate e a quelle allevate o cacciate. Alla fine della visita del secondo piano, su un tavolato leggermente rialzato rispetto al pavimento, si aprono dei piccoli ambienti che riproducono la vita all’interno delle palafitte: la vita intorno al focolare, la preparazione dei cibi, la confezione delle vesti e degli ornamenti, la produzione di oggetti in ceramica, metallo, legno e osso e la loro funzionalità nella vita quotidiana di donne e uomini.

Infine, una sezione è dedicata alla “Riserva Naturale provinciale” della Torbiera di Fiavé con le indicazioni delle molte specie animali che la vivono, dagli anfibi, ai rettili e gli uccelli migratori che ogni anno vi fanno sosta. 

 

Il “Parco Archeo Natura”

L’apertura del “Museo palafitticolo di Fiavé” nel 2012 è stato il primo passo per la creazione del grande “Parco Archeo Natura” ideato dalla Soprintendenza per i Beni culturali della Provincia di Trento con la collaborazione di vari enti locali ed inaugurato nel 2021. Un “Parco archeologico” che comprende il sito con i resti, tuttora visibili, dei pali che dovevano sorreggere le costruzioni preistoriche, il Museo e la Riserva Naturale della Torbiera di Fiavé.

Il “Parco Archeo Natura” è stato pensato con l’intento di far conoscere la vita ai tempi delle palafitte, attraverso l’installazione di vere e proprie palafitte e la riproduzione di un villaggio palafitticolo. Il percorso è stato attrezzato anche per scoprire le attività che venivano svolte dal popolo primitivo, dalla costruzione delle palafitte, alla lavorazione del legno, della terracotta e della metallurgia, l’allevamento, l’agricoltura ed i culti antichi. Il tutto raccontato con installazioni, pannelli informativi, filmati e percorsi didattici per immergersi, all’aria aperta del Parco, nella vita del mondo preistorico. 

 

 

 

Note

[1] Nelle sette aree individuate dagli archeologi è stata accertata la presenza dell’uomo grazie a scavi in estensione condotti dall’archeologo Perini nelle prime tre zone, mentre nelle altre quattro attraverso carotaggi e sondaggi studiati da Franco Marzatico.

[2] P. Bellintani, L. Moser, F. Didonè, Il Museo delle palafitte di Fiavé, p. 28; P. Bellintani, Fiavè 40 anni dopo, pp.111-112.

[3] R. Perini, Scavi archeologici Parte I, pp. 345-347.

 

 

 

Bibliografia

Renato Perini, Scavi archeologici nella zona palafitticola di Fiavé-Carera. Parte I. Campagne 1969-1976. Situazione dei depositi e dei resti strutturali, Trento, Alcione, 1984

Gianni Ciurletti, Guido Ferrara, Fiavè – Torbiera Carera (Trentino - Italia). Il parco e il museo archeologico/naturalistico delle palafitte. Un progetto in fase di realizzazione, In Paolo Bellintani e Luisa Moser (a cura di), Archeologie sperimentali. Metodologie ed esperienze fra verifica, riproduzione, comunicazione e simulazione. Atti del convegno. Comano Terme-Fiavè (Trento, Italy) 13-15 settembre 2001, Trento, Alcione, 2003, pp. 159-169

Paolo Bellintani, Luisa Moser, Frando Didoné, Il Museo delle palafitte di Fiavé, in Vincenzo Tiné e Loretta Zega (a cura di), ArcheoMusei. Musei archeologici in Italia. Atti del convegno. Adria, Museo Archeologico Nazionale, 21-22 giugno 2012, 2012, pp. 28-29

Paolo Bellintani, Cristina Dal Rì, Monica Dorigatti, Luisa Moser, Elena Silvestri, Il Museo delle Palafitte di Fiavé, in Franco Nicolis (a cura di), Ada. Archeologia delle Alpi, 2014, Trento, Temi, 2014, pp. 167-175 

Riccadonna Donato, Lappi Ennio, Zattera Mauro, Quando a Fiavé c'era un lago. La storia dello scavo della torba nel Palù di Fiavé tra malaria e palafitte, Arco, Grafica 5, 2018

Paolo Bellintani et al., Fiavé 40 anni dopo. Diagnostica sulle strutture palafitticole delle aree di scavo Perini conservate in situ, in Palafitte: ricerca, conservazione, valorizzazione. Atti del convegno, Desenzano del Garda, 6-8 ottobre 2011, Quingentole, SAP Società archeologica, 2018, pp. 111-118


LA “TORRE DI PIAZZA” E LE STORICHE CAMPANE DELLA CITTÀ DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

 

Piazza del Duomo, cuore della città di Trento, è considerata tra le più belle piazze d’Italia; a partire dal Duomo di San Vigilio, una successione di palazzi e case storiche affacciano su di essa incorniciandola. Tra questi edifici emerge il Palazzo Pretorio, ex sede dei principi vescovi di Trento, con la grande Torre di Piazza o Torre Civica (Fig. 1). La Torre è stata protagonista dei più importanti avvenimenti della città come l’incendio che nel 2015 ne ha distrutto gli apparati lignei e danneggiato per sempre la settecentesca campana della “Renga”. Nonostante ciò la Torre è rimasta integra in tutta la sua imponenza e ancora oggi la nuova campana e gli orologi delle sulle sue facciate scandiscono la vita quotidiana dei cittadini di Trento (Fig. 2).

La storia della Torre di Piazza

 

La data esatta della sua costruzione è ad oggi sconosciuta, ma sappiamo che la torre venne eretta prima del 1160 sull’antica Porta Veronensis[1], a difesa della piazza e del vicino Palazzo vescovile. La torre all’epoca era merlata e alta non più di 22 metri con uno spessore murario davvero imponente di quasi 2 metri, presentava una porta sopraelevata e una cinta muraria la univa a Palazzo vescovile proteggendola da eventuali attacchi esterni. Nel XIII secolo è stata aumentata l’altezza una prima volta, fino a quando nel XIV secolo l’aspetto architettonico ha raggiunto le attuali misure: la torre si presenta ancora oggi con 46,5 metri di altezza mentre la sommità venne fortificata con un solaio sporgente retto da un sistema di mensole in pietra e archetti in laterizio, e una merlatura a scalare. Inoltre venne dotata di finestrelle quadrate, feritoie, solai e scale in legno mentre è probabile che la parte esterna più alta sia stata protetta con una struttura in legno dalla quale si poteva effettuare il “tiro piombante” (Fig. 3, Fig. 4, Fig. 5).[2]

 

Già a partire dal Quattrocento fu luogo di detenzione in custodia al principe vescovo di Trento e fungeva da Torre Civica del Comune con orologio e campane che scandivano la vita della città. Successivamente sia le carceri che la torre passarono in gestione al Comune, il quale promosse all’apertura del Concilio di Trento un’importante opera di decorazione della facciata prospiciente la piazza con immagini raffiguranti San Vigilio e Santa Massenza. L’affresco venne commissionato al pittore Gerolamo Fontana ma col tempo purtroppo è andato perduto. Nel 1546 vi fu la sostituzione del vecchio orologio con uno nuovo, incarico affidato al frate Francesco da Lecco, mentre più di duecento anni dopo,  nel 1789, i consoli promossero la fusione della campana grande, la storica e importante campana conosciuta col nome di “Renga”.

Nell’Ottocento, alla fine del Principato vescovile e con il passaggio all’amministrazione austriaca, la torre mantenne la funzione di carcere del tribunale circolare di Trento, insieme a Torre della Tromba e Torre Vanga. Le celle vennero ampliate e a questo periodo risalgono le numerose scritte lasciate dai carcerati sulle pareti (Fig. 6, Fig. 7).

 

Nel secolo scorso sono stati eseguiti dei lavori di manutenzione, fino ad arrivare all’importante restauro del 2009-2011 che purtroppo è stato compromesso dall’incendio dell’agosto 2015. Gli antichi solai e le scale in legno sono andate completamente bruciate mentre la preziosa campana della “Renga” ha subito la fusione della lega metallica e svariate fessurazioni che ne hanno danneggiato per sempre la sonorità. Recentemente la “Renga” è stata musealizzata nella Torre e nel 2018 una nuova campana è stata fusa dalla fonderia Grassmayr di Innsbruck per tornare oggi a suonare e scandire la vita dei cittadini di Trento[3].

 

La “Renga” e la “Guardia” : le storiche campane della Torre Civica

Le storiche campane della città di Trento erano la “Renga” e la “Guardia”, nomi dati per ricordare il loro ruolo quando entrambe suonavano nella Torre Civica o Torre di Piazza. Sono state restaurate e la “Renga” è stata musealizzata all’interno della Torre, mentre la più antica campana della “Guardia”, in restauro all’epoca dell’incendio, attende ancora oggi di trovare una nuova collocazione museale.

 

La “Renga” aveva il ruolo di chiamare a raccolta i cittadini e il consiglio della città quando venivano convocate le pubbliche assemblee, infatti il suo nome deriva da “arengo”, un termine utilizzato nel Medioevo per indicare le sedute pubbliche. La campana veniva anche chiamata della “Rason” o “Rexon” (“Ragione”) per ricordare ai cittadini dove si svolgeva la funzione civica e amministrativa della città (Fig. 8).

La campana più piccola, quella detta della “Guardia” o delle “Hore”, realizzata probabilmente nei primi decenni del Quattrocento scandiva le ore e soprattutto indicava in città la presenza di incendi.

Vi era un guardiano incaricato della custodia delle campane che le suonava a mano e in maniera differente a seconda del messaggio che si voleva comunicare ai cittadini; erano infatti molti i diversi modi in cui poteva essere suonata, come ad esempio il campanò per accompagnare le feste del patrono e le processioni o il suono per le feste in città.[4] La campana della “Guardia” veniva suonata in occasione delle udienze del Podestà di Trento e per chiamare in servizio coloro che dovevano prestare i turni di guardia presso le porte della città[5]. Il guardiano delle campane doveva sorvegliare la città giorno e notte per avvistare gli eventuali incendi, frequenti nel tardo medioevo; nel caso di un incendio doveva far suonare la campana delle “Hore” o della “Guardia” e segnalare sulla sommità della Torre Civica con una lanterna da quale parte fosse  l’incendio.

Non conosciamo l’anno in cui vennero sistemate le campane nella Torre Civica di Trento, ma sappiamo che nel 1499 il fonditore Bartolomeo da Rimini[6] venne chiamato a rifondere le due campane. La “Renga” di Bartolomeo oggi non esiste più perché rifusa nel 1789, mentre la “Guardia” porta ancora oggi la firma di Bartolomeo da Rimini. Questa storica e importante campana è oggi conservata nei depositi della Soprintendenza per i beni storico-artistici di Trento in attesa di una sua adeguata collocazione; è una campana molto preziosa in quanto richiama le forme dei bronzi medievali, stretti e alti, e porta interessanti rilievi in bronzo[7]. Sulla superficie della “Guardia” trova spazio l’immagine del Simonino da Trento con la testa raggiata, rappresentato con vessillo e gli strumenti del suo martirio (cinque spilloni, la tenaglia e il bacile).[8] Segue una Madonna coronata con il Bambino, la figura di un vescovo benedicente con mitra e pastorale[9] e, infine, l’episodio evangelico di Gesù nell’orto degli ulivi. Il corpo della campana è liscio tranne per alcune importanti scritte che ricordano i consoli e i procuratori di Trento allora in carica e la firma di Bartolomeo da Rimini.

Per quanto riguarda la campana della “Renga” sappiamo che questa venne realizzata nel 1789 con la rifusione della vecchia e il lavoro venne affidato a Leonardo Maffei, figlio di Pietro Maffei, fonditore di molte campane trentine, tra cui il Campanone del Duomo di Trento. Leonardo Maffei realizzò per la Torre Civica di Trento una campana imponente – 133 cm di diametro per 114,5 di altezza – con poche decorazioni, ma con l’indicazione dell’anno di fusione, il fonditore e lo stemma Maffei, i consoli della città in carica in quell’anno e il committente dell’opera (Fig. 8).

Entrambe le campane hanno sulla loro superficie il grande rilievo dell’aquila di San Venceslao, stemma dell’allora Principato vescovile di Trento e oggi stemma del Comune di Trento.

 

L’orologio della Torre

 

Una breve parentesi la merita l’orologio della Torre Civica, o meglio i vari quadranti sistemati sulle facciate della Torre. La consuetudine di sistemare strumenti per la misurazione del tempo in punti elevati della città prese piede dalla fine del Duecento, nonostante ciò la prima testimonianza di un orologio meccanico azionato da pesi sistemato sulla Torre di Piazza a Trento risale al 1448, quando il custode delle carceri, delle campane e sentinella della città aveva anche il compito di caricare l’orologio e del periodico riposizionamento delle lancette.[10]

Fu solo nel 1869 che si arrivò alla sistemazione dell’attuale orologio per opera di Carlo Zanoni, orologiaio originario di Cavalese e residente a Trento. Si occupò della realizzazione di un orologio moderno che ovviasse agli errori dovuti alla dilatazione del pendolo e delle corde e che fosse in grado di battere le ore, ma anche i quarti d’ora, secondo l’uso tedesco essendo allora Trento e il Trentino sotto la dominazione austriaca (Fig. 9).

 

 

 

Note

[1] L’antico ingresso alla città romana di Tridentum risalente al I secolo d.C.

[2] Gentilini, La torre di piazza a Trento,  2014, p. 44.

[3] Cfr. https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Visitare/Edifici-storici/Torre-civica-e-Palazzo-Pretorio

[4] Moser, La “Renga” e la “Guardia” della torre di piazza, 2014, pp. 104-105.

[5] Cfr. https://www.cultura.trentino.it/Rubriche/Restauri-in-evidenza-fra-pubblico-e-privato/Per-chi-suonava-la-Campana-della-Guardia-di-Trento.

[6] Bartolomeo da Rimini faceva parte di una famiglia di origini venete o lombarde specializzata nella fusione di campane. Il padre, Battista, si era trasferito con la famiglia a Rimini, qui i quattro figli furono tutti dediti all’arte della fusione. Moser, La “Renga” e la “Guardia” della torre di piazza, 2014, p. 105

[7] Cfr, https://www.cultura.trentino.it

[8] Per conoscere la storia di Simonino da Trento si rimanda al contributo: https://www.progettostoriadellarte.it/2020/03/27/linvenzione-del-colpevole-il-caso-di-simonino-da-trento-dalla-propaganda-alla-storia-recensione-mostra/

[9] Questo vescovo è stato individuato in Sant’Udalrico perché si scorge accanto alla mano del santo un pesce, suo attributo iconografico. Potrebbe essere stato raffigurato sulla campana della “Guardia” per celebrare l’allora vescovo di Trento Udalrico Liechtenstein in carica dal 1493 al 1505. Moser, La “Renga” e la “Guardia” della torre di piazza, 2014, p. 109.

[10] Le variazioni della temperatura, la struttura in ferro dell’orologio, l’allungamento e l’accorciamento delle funi che sostenevano i pesi potevano causare scarti sensibili del dispositivo di regolazione del tempo. Addomine, La diplomazia delle ore, 2014, p. 92.

 

 

Bibliografia

Cagol, S. Groff, S. Luzzi, La Torre di piazza nella storia di Trento. Funzioni, simboli, immagini. Atti della giornata di studio, Trento, 27 febbraio 2012, Trento, Temi, 2014

Gentilini, La torre di piazza a Trento. Conoscenza materiale e cantiere di restauro, in Cagol, Groff, Luzzi, 2014, pp. 41-59

Moser, La “Renga” e la “Guardia” della torre di piazza. Le campane di Bartolomeo da Rimini e Leonardo Maffei, fonditori a Trento, in in Cagol, Groff, Luzzi, 2014, pp. 103-123.

Addomine Marisa, La diplomazia delle ore. L’orologio della torre di piazza di Trento, in in Cagol, Groff, Luzzi, 2014, pp. 91-101.

 

Sitografia

www.comune.trento.it

www.cultura.trentino.it


GIOVANNI BATTISTA LAMPI. IL RITRATTISTA D’EUROPA PT II

A cura di Alessia Zeni

 

 

In questo secondo contributo dedicato al pittore ritrattista Giovanni Battista Lampi di Romeno (Valle di Non, Trento) andremo a conoscere l’apice della sua carriera artistica, divisa tra la corte polacca e quella degli zar di Russia, per poi chiudere con gli ultimi anni in terra viennese.

 

La Polonia e il ritorno a Vienna

Il successo di Giovanni Battista Lampi ebbe una tale risonanza che la sua fama raggiunse la corte principesca di Varsavia, dove si trasferì nell’autunno del 1788, chiamato dal re Stanislao Augusto Poniatowski per realizzare alcuni importanti ritratti.

 

Qui la fama fu tale che la sua permanenza si prolungò oltre il previsto, fino a sette mesi, ed ottenne numerose commissioni artistiche dalle famiglie aristocratiche più importanti della Polonia. Oltretutto, a Varsavia, Giovanni Battista Lampi poté rinnovare ulteriormente la sua pittura, grazie alle influenze artistiche internazionali e al clima di rinnovamento che si respirava nella città. Un’innovazione nel segno dell’illuminismo, ma anche nel recupero dei valori nazionali che Lampi tradusse in ritratti di giovani donne con abiti alla moda francese o di uomini in vesti di eroici cavalieri feudali o ancora in ritratti della tradizione polacca.

In Polonia realizzò diversi ritratti per la famiglia Potocki come quello dello scrittore Jan Potocki (1761-1815) e della moglie Julia Lubomirska. Lampi ritrasse Jan Potocki in abiti da viaggiatore immerso in un paesaggio esotico di palme e piramidi, a ricordo della sua passione per le civiltà del passato e del suo viaggio in Egitto. Per quanto riguarda la moglie la dipinse in tutta la sua bellezza rispecchiando in ciò la fama di una delle donne più affascinanti dell’epoca. Lampi ritrasse anche il generale Stanislaw Szczesny Potocki con i due figli maggiori: la grazia neoclassica dei giovani contrasta con la figura del padre in armatura d’acciaio brunito, nel ruolo di difensore della famiglia e di generale d’artiglieria. O anche quello della moglie, Amelia Potocka, dipinta davanti ad un cavalletto con la figlia maggiore Pelagia; quadro che colpisce per la cura nella resa delle vesti e per la bellezza incantevole della figlia che indossa un bel abito tradizionale.

 

Molte le donne aristocratiche dipinte da Lampi in Polonia, come il ritratto della dama Urszula Dembinska raffigurata nell’atto di leggere uno spartito musicale. Consideato da molti uno dei lavori più famosi dell’artista,carica di sentimento la donna con la sua folta chioma bionda, il volto diafano e lo scialle di tulle. E ancora i ritratti incompiuti delle donne e fanciulle di casa Tomatis o quello di Jozefa Massalska dipinta all’interno di un paesaggio crepuscolare con abito da cerimonia che guarda l’osservatore per indicargli la figura ritratta nel monile che tiene in mano. In ultimo è importante ricordare i ritratti di Stato, come quello del deputato e generale Pavel Grabowski raffigurato in abiti della tradizione polacca, rispecchiando in ciò il desiderio di molti deputati di farsi ritrarre in costumi tradizionali durante il periodo di affrancamento della Polonia dalle potenze straniere.

 

Il soggiorno polacco ben presto si concluse e Lampi tornò a Vienna carico di tele da ultimare per le molte commissioni ottenute dall’aristocrazia polacca. Nella città austrica riprese il suo posto di professore all’Accademia di Belle Arti, espose alcune opere alla mostra del 1790 e venne incaricato di ritrarre a figura intera il nuovo imperatore Leopoldo II, fratello del defunto Giuseppe II. Il soggiorno viennese fu però breve perché di lì a poco si trasferì in Russia, probabilmente per sfuggire al clima di crisi innescato dalla rivoluzione francese che sovvertiva il sistema politico e sociale al quale Lampi era legato, quello dell’aristocrazia e della monarchia.

 

Nella corte degli zar di Russia

L’ultimo e più importante viaggio di Giovanni Battista Lampi fu quello nella terra degli zar, ma prima di raggiungere la Russia fece tappa a Jassy (oggi Iasi in Romania).

A Jassy arrivò nell’ottobre del 1791 e la breve permanenza nella cittadina rumena gli valse il lasciapassare per la corte di San Pietroburgo. A Jassy realizzò alcuni ritratti di dignitari russi e quello del generale Vasilij Popov, segretario dell’imperatrice Caterina II, che gli aprì la strada per la corte degli zar. Giovanni Battista Lampi venne infatti chiamato proprio da Caterina II a San Pietroburgo, nel gennaio del 1792, e qui vi rimase per ben sei anni, gli ultimi del regno della zarina. Qui egli raggiunse l’apice della sua carriera artistica, sia perché l’imperatrice lo elesse primo pittore di corte, ma soprattutto perché la sua pittura raggiunse i livelli più alti della ritrattistica neoclassica europea, tanto da influenzare una generazione di ritrattisti russi. Iniziò a lavorare per la corte imperiale ritraendo le granduchesse infanti Alessandra ed Elena e,  nel 1793, Caterina II, in un ritratto a grandezza naturale destinato a diventare l’immagine più famosa e più copiata dell’imperatrice di tutte le Russie.

 

Il successo di questa importante commissione gli valse la nomina a membro onorario dell’Accademia Imperiale di Belle Arti che fu seguita nel 1795 dall’ambito riconoscimento delle sette medaglie coniate dall’Accademia, ovvero il titolo di “pittore perfetto”. Il suo atelier a San Pietroburgo divenne meta dell’aristocrazia russa e ricevette commissioni dai principali esponenti della corte: l’ultimo favorito dell’imperatrice Platon Zubov, l’ambasciatore Nikolaj Jusupov, il consigliere Alexander Samojlov e la moglie Ekaterina Trubetzkaja, solo per citarne alcuni. Ritratti in cui scompaiono le armature delle opere polacche per lasciare il posto a immagini intime, introspettive, con personaggi dipinti a grandezza naturale in tutta la loro fierezza e maestosità con gli abiti eleganti dell’epoca.

 

La morte improvvisa dell’imperatrice Caterina II, il 16 novembre 1796, colse l’artista alla sprovvista, ma Lampi aveva già realizzato il ritratto della futura imperatrice, la granduchessa Maria Fёdorovna, moglie dell’erede al trono Paolo I, e il doppio ritratto dei loro figli, i granduchi Alessandro e Costantino. Maria Fёdorovna fu ritratta dal pittore trentino nell’atto di dipingere i profili dei suoi dieci figli e con al collo l’incisione, in un cammeo, della suocera Caterina II.

Nell’aprile del 1797, a 45 anni, Lampi tornò definitivamente a Vienna con un bagaglio di riconoscimenti e di ricchezze che pochi artisti dell’epoca potevano vantare in Europa.

 

Gli ultimi anni a Vienna

Una volta a Vienna Lampi ritornò all’insegnamento accademico e divenne uno dei ritrattisti più ricercati dall’aristocrazia mitteleuropea e dalle famiglie principesche d’Europa. A Vienna porterà a termine alcuni ritratti lasciati incompiuti a San Pietroburgo e il legame con la Russia resterà sempre aperto, realizzando, nel 1802, il ritratto a grandezza naturale di Platon Zubov, il più grande dipinto compiuto da Lampi ed oggi conservato all’Ermitage.

Durante la crisi dei regimi monarchici, Giovanni Battista Lampi dichiarò fedeltà alla Casa d’Austria e all’imperatore Francesco II. Per la sua dichiarata fedeltà e i suoi meriti artistici, il 4 settembre 1798, Francesco II, gli conferì il titolo di cavaliere, uno stemma nobiliare e, l’anno successivo, divenne definitivamente cittadino di Vienna con la nomina a cittadino onorario della città.

In questi anni, Lampi ottenne importanti commissioni dagli esponenti della famiglia imperiale e la sua pittura subì un’ultima ed importante evoluzione artistica: i suoi impareggiabili ritratti raggiunsero un tale virtuosismo nella resa dei tessuti e degli ambienti che otterranno la piena approvazione dei committenti austriaci. Figure statuarie e auliche ottenute grazie all’uso sapiente dello sfumato, ma anche grazie ad un’attenta resa atmosferica e un’attenta cura nei dettagli dell’abbigliamento e dell’ambientazione.

Sono da ricordare i ritratti di Franz von Saurau, futuro cancelliere, della contessa Maria Sophie von Schӧnborn o i ritratti a grandezza naturale degli imperatori Francesco II e della seconda moglie Maria Teresa di Borbone. I grandiosi ritratti a figura intera dei principi Schwarzenberg, nei quali emergono i fasti dello stile Impero e del vecchio regime, ai quali Lampi fu fedele per tutta la vita.

 

Durante il biennio del Congresso di Vienna, il pittore trentino ottenne le ultime importanti commissioni come il ritratto del conte Johann Rudolph von Czernin-Chudenitz nel quale riuscì a camuffare le deformità del viso, il ritratto del plenipotenziario russo, amante della arti, Andrej Kyrillovic Razumovskij, per il quale aveva già dipinto, tra il 1805 e  il 1806, l’effige dello scultore Antonio Canova.

La carriera artistica di Lampi è ormai giunta al termine: nel 1822 il pittore si ritirò dall’insegnamento e affidò la gestione dell’atelier viennese al figlio maggiore che donò al paese natale del padre, Romeno, il capolavoro neoclassico della pala dell’Assunta. Giovanni Battista Lampi visse tra Vienna e la cittadina termale di Baden, dove dipinse ancora il suo medico curante, Anton Franz Rollett.

 

Il 30 agosto 1826 ricevette a Vienna la medaglia al merito civile e due anni dopo donò all’imperatore la sua ultima opera, l’autoritratto al cavalletto. Il 25 dicembre 1829 morì la seconda moglie dell’artista, Julia Rigin, conosciuta a San Pietroburgo, e l’11 febbraio 1830 fu la volta di Lampi che morì nella su casa viennese del sobborgo di Leopoldstadt.

Alla morte la sua collezione di quadri, sculture, stampe e monete andò dispersa, ma non la sua arte che oggi è conservata nei più grandi musei d’Europa e testimonia il grande artista che fu negli anni dell’antico regime.

 

 

 

Bibliografia

Rasmo Nicolò, Giambattista Lampi. Pittore, Trento, Saturnia, 1957

Un ritrattista nell'Europa delle corti. Giovanni Battista Lampi. 1751-1830, catalogo a cura di Mazzocca Fernando, Pancheri Roberto, Casagrande Alessandro, Lampi, Trento, Saturnia, 2001

Pancheri Roberto, Giovanni Battista Lampi alla corte di Caterina II di Russia, Trento, Temi, 2011


GIOVANNI BATTISTA LAMPI. IL RITRATTISTA D’EUROPA PT I

A cura di Alessia Zeni

 

 

Le prossime due uscite sulla storia e l’arte del Trentino saranno dedicate ad un grande artista della Valle di Non che partito da Romeno, nel Trentino occidentale, fece fortuna nelle corti principesche d’Europa, come pittore ritrattista di sovrani e nobili austriaci, polacchi e russi.

 

Il periodo giovanile

 

Giovanni Battista Giuseppe Silvestro nacque il 31 dicembre 1751 in una casa sulla piazza principale di Romeno, nel territorio del Principato vescovile di Trento. Figlio del pittore Matthias Lamp, di origini sudtirolesi[1], e Chiara Margherita Lorenzoni[2] che morì il 4 gennaio 1752, dopo aver messo al mondo il piccolo Giovanni Battista. La famiglia Lamp fu una famiglia numerosa - Giovanni Battista fu l’ultimo di quattordici figli – che negli anni fu tormentata da debiti, dalle beghe familiari e con una bottega artistica a Romeno da mandare avanti. Giovanni Battista fu allevato dalla sorella maggiore, Isabella, mentre il padre lo avviava al mestiere di pittore, ma fu solo dopo un soggiorno di un paio di anni a  Salisburgo presso il cugino, il pittore Pietro Antonio Lorenzoni, che Giovanni Battista si avvicinò concretamente al mondo dell’arte. Qui fece apprendistato presso le botteghe di Franz Xaver Konig, attivo come ritrattista per la corte principesca, e di Franz Nikolaus Streicher, entrambi pittori interpreti della pittura rococò.

A vent’anni, Giovanni Battista ritornò a Romeno ed iniziò la sua nuova attività di pittore ritrattista, dedicandosi principalmente ai ritratti della nobiltà trentina, senza però trascurare la pittura di ambito religioso, seguendo in questo la tradizione di famiglia. In terra trentina vi rimase per circa otto anni e in questo periodo ricevette le prime importanti commissioni artistiche: i ritratti di Giuseppe Bassetti e della moglie Antonia del Monte, eseguiti a Trento nel 1772, il ciclo di otto ritratti eseguiti nel 1773 per i conti Spaur, una delle più antiche e nobili famiglie trentine, e, in ambito religioso, la famosa pala dei Santi Martiri Anauniensi, dipinta nel 1775 su commissione della famiglia de Gentili di Sanzeno (Valle di Non) per la locale chiesa parrocchiale.

Sposò Anna Maria Franchi di Cloz (Valle di Non) dalla quale ebbe quattro figli: Anna Maria Margherita nel 1773, il 4 marzo 1775 Giovanni Battista Junior (1775–1837) che sarà a fianco del padre nella sua attività artistica, nel 1777 un terzo figlio Vincenzo Melchiorre che morì dopo pochi mesi e infine un quarto figlio, Francesco Serafino Ferdinando, che nacque a Klagenfurt il 22 gennaio 1782, anch’esso pittore.

 

La formazione di Giovanni Battista Lampi non si fermò nella terra natia, egli infatti completò il suo percorso artistico a Verona; nella città scaligera si recò nel 1772 dove entrò in contatto con l’ambiente neoclassico dell’Accademia di Pittura e Scultura di Giambettino Cignaroli e qui frequentò la scuola del pittore Francesco Lorenzi, allievo del Tiepolo. Questo apprendistato gli permise di superare la sua prima maniera artistica, caratterizzata da colori freddi e disegni incerti, per una pittura neoclassica, ma allo stesso tempo tesa alla ricerca della massima verosimiglianza e dell’introspezione psicologica del personaggio ritratto, attraverso l’uso sapiente del chiaroscuro e della composizione.

La sua arte lo candiderà al ruolo di primo pittore del Principato di Trento e si stabilirà dal 1776 con il suo studio in Contrada Larga a Trento, dal quale usciranno le opere manifesto della sua prima evoluzione artistica: il ritratto del neo-eletto principe vescovo di Trento Pietro Michele Vigili Thun (1724-1800), primo di una lunga serie, la cui ricerca del dettaglio naturalistico è dichiarata dalla presenza simbolica di una mosca sulla mantellina del vescovo. La sua capacità di leggere la personalità dell’effigiato lo condurrà alla creazione di ritratti di grande efficacia psicologica come quello del frate domenicano Vincenzo Aberti Colico o alla resa dettagliata dell’abbagliamento come nel ritratto di Paride Saracini, signore di Molveno e Belfort, o ancora, il ritratto del vescovo di Sutri e Nepi Gerolamo Luigi Crivelli sul quale ricompare la mosca a trompe l’oeil.

 

La grave malattia del padre, Matthias Lamp, che lo colpì nell’autunno del 1779, e la sua dipartita metteranno fine alla permanenza in Trentino del giovane Battista Lampi. Un piccolo dipinto conservato nel Convento dei Francescani di Trento che rappresenta un Cristo morto in tutta la sua sofferenza, può essere considerato il commiato dell’artista al Trentino e il ricordo dei dolorosi giorni passati accanto al padre morente.

 

Dal Tirolo alla corte imperiale viennese

Dopo la morte del padre, Giovanni Battista si trasferì definitivamente a Innsbruck, in Tirolo, qui egli lavorò come pittore ritrattista della nobiltà tirolese ed ebbe la fortuna di conoscere l’arciduchessa Maria Elisabetta d’Asburgo-Lorena (1743-1808), badessa del capitolo delle nobili dame di Innsbruck, sorella dell’imperatore Giuseppe II e della regina di Francia Maria Antonietta. Nel 1781 eseguì per la badessa un ritratto che mostrò la grande abilità artistica del pittore, nascondendo il gozzo che le deformava il collo e dando al ritratto la dignità che l’arciduchessa d’Austria tanto desiderava. Dopo il successo di questo ritratto, Maria Elisabetta lo raccomandò alla sorella Maria Anna, badessa a Klagenfurt, dove il pittore si trasferì con la famiglia e lavorò al suo cospetto, abbandonando definitivamente la pittura sacra e dedicandosi completamente al ritratto. A Klagenfurt nacque il quartogenito di Lampi e nell’atto di battesimo compare per la prima volta la forma italianizzata del cognome: non più “Lamp” o “Lomp”, ma “Lampi”, probabilmente per testimoniare la propria provenienza culturale e allo stesso tempo per mettersi alle spalle le sue umili origini.

 

Il successo ottenuto a Innsbruck e a Klagenfurt gli aprì la strada per la tanto desiderata corte viennese, dove si trasferì nel 1783. A Vienna, Lampi visitò le più importanti quadrerie della città, ma anche gli artisti e i quadri dell’Accademia di Belle Arti che contribuirono a rinnovare la sua arte, anche rispetto alla pittura contemporanea della scuola viennese, ispirandosi alle opere del passato e alla ritrattistica francese e viennese. Dipingerà i grandi della corte viennese e i suoi ritratti non avranno il tono dimesso della precedente pittura, ma gli effigiati saranno dipinti in tutta la loro personalità facendo attenzione allo status sociale, alla resa realistica delle sembianze e alle scene che saranno dal pittore dilatate per comprendere gran parte della figura e dell’ambiente intorno a loro.

Tra i primi ritratti eseguiti da Lampi a Vienna si segnalano per la cura del dettaglio espressivo quelli di Ignaz von Born, esponente della massoneria austriaca, e del banchiere calvinista Johann von Fries. Ma fu nel 1784 che il pittore ricevette il suo primo incarico per la corte viennese: il ritratto della giovanissima duchessa Elisabetta di Württemberg (1767-1790), allora promessa sposa dell’arciduca Francesco. Per la duchessa dipinse il ritratto-manifesto del suo rinnovamento artistico: raffigurò la giovane a grandezza naturale su di un balcone, mentre guarda l’osservatore, con abito sfarzoso in raso azzurro, tipico dell’epoca, ornato da pizzi trasparenti e perle, probabilmente per alludere al suo futuro matrimonio, e sul fondo chiude la scena un paesaggio montano crepuscolare. L’opera ha riscosso un tale successo che venne più volte replicata e lo stesso imperatore mandò il ritratto in dono a Firenze, alla futura suocera, la granduchessa di Toscana, Maria Ludovica di Borbone, dove oggi il ritratto tuttora si conserva.

 

Il grande epilogo del soggiorno viennese di Giovanni Battista Lampi si avrà con l’entrata del pittore all’Accademia di Belle Arti della città, grazie all’intercessione dell’imperatore Giuseppe II per il quale aveva realizzato un ritratto a grandezza naturale, e la nomina nel 1786 a professore di pittura di storia con un compenso annuo di 600 fiorini. I ritratti dell’imperatore Giuseppe II e del presidente dell’Accademia, il barone Joseph von Sperges, inaugurarono una sequenza di ritratti di Stato a carattere ufficiale che raggiunsero il favore della corte viennese, divenendo in breve tempo il ritrattista più ricercato di Vienna. Allo stesso tempo la sua fama uscì dai confini austriaci e raggiunse l’aristocrazia polacca, ma soprattutto la rinomata corte degli zar di Russia, dove la sua carriera proseguì e raggiunse i massimi livelli.

 

 

 

Note

[1] Matthias Lamp era originario della Val Pusteria (Bolzano) e nacque da un rapporto illegittimo del padre Andrea Lamp che lo avviò all’attività di pittore. Dopo aver svolto apprendistato a Brunico, apre bottega a Romeno in Valle di Non, nel 1723. In cinquant’anni di attività, dalla bottega di Matthias Lamp uscirono opere a carattere religioso (pale d’altare, paliotti, gonfaloni, Via Crucis) che ancora oggi si possono ammirare nelle chiese del Trentino. La necessità di mantenere la bottega artistica e una famiglia numerosa vide il padre impegnato fino a tarda età, impegnandosi anche in lavori artigianali, di restauro, tinteggiatura e doratura (Pancheri 2011, p. 19).

[2] Chiara Margherita era figlia di un notaio di Cles, Lorenzo Lorenzoni, di una nota famiglia di pittori della Valle di Non. Sposò Matthias Lamp il 5 febbraio 1730.

 

 

Bibliografia

Rasmo Nicolò, Giambattista Lampi. Pittore, Trento, Saturnia, 1957

Camerlengo Lia, Giovanni Battista Lampi. Gli anni trentini, in “Dai castelli anauni alle corti europee: Giovanni Battista Lampi pittore”, catalogo a cura di Bruno Ruffini, Caputo Gianmatteo, Camerlengo Lia, Belli William, Trento, Tipografia Ideal, 2001, pp. 61-90

Un ritrattista nell'Europa delle corti. Giovanni Battista Lampi. 1751-1830, catalogo a cura di Mazzocca Fernando, Pancheri Roberto, Casagrande Alessandro, Lampi, Trento, Saturnia, 2001

Pancheri Roberto, Giovanni Battista Lampi alla corte di Caterina II di Russia, Trento, Temi, 2011


LA FONTANA DEL NETTUNO E ALTRE FONTI DELLA CITTÀ DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

La scelta di porre l’attenzione sulla Fontana del Nettuno in Piazza Duomo a Trento è stata favorita dal recente restauro che ha riportato alla luce l’antico splendore del monumento. Ma non è l’unica fontana che rinfresca i cittadini di Trento, nelle afose giornate d’estate, altre fonti sono sparse per la città, le più singolari le vedremo in questo contributo.

 

Fontana del Nettuno

 

 

Magnificum hunc fontem

cum acquarum perpetuo cursu,

desperantibus omnibus,

Franciscus An[tonius] Iongo tri[dentin]us fecit.

 

Questa è la frase che è stata scolpita sul fusto della fontana ad indicare l’autore dell’opera, Francesco Antonio Giongo, ma anche la data «MDCCLXVIII» (1768) e «SPQT» (Senatus Popolusque Tridenti). Una frase di augurio affinché da questa grande fonte possa sgorgare acqua in eterno: acqua segno di vita all’interno della città. L’idea di sistemare una fontana nel centro partì proprio dal bisogno di rifornire i cittadini di acqua corrente, sana e di sorgente, dato che fino ad allora l’approvvigionamento avveniva tramite pozzi.

 

La scelta di costruire una fontana nella piazza principale della città fu ordinata dal Magistrato Consolare di Trento nel 1767, all’interno di un ampio progetto di riqualificazione urbana che mirava a dare nuovo splendore al centro cittadino. La progettazione e la realizzazione fu affidata allo scultore e architetto trentino Francesco Antonio Giongo di Lavarone (1723-1776)[1] che realizzò il progetto e scolpì vasche e fusto, mentre Stefano Salterio da Como (1730-1806) scolpì la statua del Nettuno e gli altri gruppi scultorei. La fontana è stata ultimata nell’arco di un anno, nell’ottobre del 1768, e l’acqua è stata portata alla fonte solo nell’anno successivo, l’8 luglio del 1769, dopo una complessa opera di canalizzazione delle acque di sorgente e del torrente Fersina[2]. La fontana è stata costruita tra Piazza Duomo e l’imbocco di Via Belenzani, la principale via di collegamento con il centro, per dare unità spaziale alla piazza e spezzare il conoide di via Belenzani[3].

Il Nettuno è rappresentato in piedi in tutta la sua imponenza e fierezza è accompagnato dal tridente che può essere considerato il simbolo della città. Il tridente che porta nella mano sinistra rappresenterebbe l’antico nome della città, Tridentum, ovvero il nome dato dai romani quando si insediarono tra i tre denti della piana dell’Adige, cioè i tre colli del Verruca (oggi Doss Trento), di Sant’Agata e di San Rocco.

 

La fontana è divisa su tre piani sistemati lungo un fusto che ricorda la forma di un albero e sulla cui vetta il Dio Nettuno è coronato con il tridente. Il Dio cavalca tre delfini, le cui code sono avvolte nelle gambe del Dio Nettuno e dalle loro bocche si riversano zampilli di acqua in una vasca rotonda sagomata, ricavata in un calcare di rosso ammonitico proveniente da cave trentine, di tre metri di diametro. Questa vasca appoggia sulla sommità del fusto che si innalza al centro di una grande vasca formata da otto catini, quattro dei quali a forma di tinozza e gli altri a forma di conchiglia. Da ogni catino altre quattro divinità mitologiche gettano acqua nella grande vasca: due tritoni su cavalli marini e due tritoni con in mano un pesce e un vaso. Nel piano intermedio del fusto, appoggiati su quattro mensole, altri due tritoni e due delfini mitologici cavalcati da putti lanciano dalle loro bocche zampilli d’acqua nella grande vasca.

 

Tutta la costruzione, alta oltre 12 metri, appoggia su una scalinata poligonale che una trentina di anni fa era cinta da un festone di catene sostenuto da pilastrini di pietra bianca. Oggi la fontana è accessibile al pubblico ed è il principale luogo di ritrovo nel centro della città di Trento.

Nel 1871 sono stati sostituti tutti i gruppi scultorei della fontana per opera dello scultore trentino Andrea Malfatti (1832-1917) e del pittore Ferdinando Bassi (1819-1883) che studiò le forme e i disegni originali della fontana. Invece la statua in pietra del Nettuno è stata sostituita da una in bronzo, nel 1945, per il cattivo stato di conservazione della statua. L’originale si trova oggi nel cortile del comune di Trento in Palazzo Thun.

 

 

Fontana dell’aquila

 

 

Sempre all’interno di Piazza Duomo, sull’angolo di Casa Rella, un’altra fonte rinfresca i cittadini di Trento durante le giornate estive e primaverili della città: è la Fontana dell’aquila che reca sulla cima del pilastro da cui sgorga l’acqua, l’aquila simbolo di Trento, ovvero l’aquila di San Venceslao.

La fontana fu progettata dall'ingegnere Pietro Leonardi, ma fu portata a termine nel 1850 dallo scalpellino di Trento Stefano Varner (1811-1887). La Fontana dell’aquila ha una vasca di forma ovale e una colonna ha base fogliata al di sopra della quale è sistemata l’aquila intenta a spiumacciarsi. L’ugello da cui sgorga l’acqua è circondato da una corolla di foglie e dalla bocca di una testa leonina fuoriesce l’acqua.

Una curiosa leggenda legata all’aquila della fontana racconta che un uomo di Sardagna (frazione di Trento) venne condannato ingiustamente a morte e condotto alle prigioni della Torre Civica in Piazza Duomo per essere portato al patibolo. Qui vide un’aquila che voleva sulla Torre e disse alla sua vista che se era innocente l’aquila sarebbe diventata di pietra. L’aquila si tramutò in pietra e l’uomo venne liberato; da allora l’aquila è nel luogo dove si posò, ovvero sulla fontanella di Piazza Duomo.

 

Fontana dei “do’ castradi”

 

Fig. 10 – Piazza delle Erbe a Trento, Fontana dei “do’ castradi”. Credits: Di Chryspa - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62937776.

 

In Piazza delle Erbe, nel centro di Trento è collocata la fontana chiamata volgarmente dei “do’ castradi” poiché l’acqua esce dalle teste di due arieti in bronzo. La fontana è stata disegnata dall'ingegnere Saverio Tamanini ed è stata realizzata nel 1867 dallo scultore Stefano Varner (1811-1887).

Il basamento in pietra ha una pianta mistilinea e sulla sommità due conchiglie in bronzo accolgono l’acqua dei “do’ castradi”. Le teste dei due arieti sono sistemate su una colonna in pietra a base quadrata, decorata sugli altri due lati da due teste femminee. Sulla sommità della colonna è sistemata una statua in bronzo copia di un’opera di Andrea Malfatti (1832-1917) che raffigura una donna inginocchiata accanto ad un serpente.

 

Fontana di Bacco

 

La fontana di Piazza Pasi, sempre nel centro cittadino è decorata da una pregevole opera scultorea che raffigura il Dio Bacco dello scultore Andrea Malfatti (1832-1917). È stata realizzata nel XIX secolo ed è stata sistemata in un angolo della piazza; è un’opera di pregevole bellezza che emerge tra le case che circondano la piazzetta.

Il Bacco è stato scolpito nella pietra bianca e la vasca della fontana ha la forma di una coppa circolare, baccellata, che è stata sistemata su un piedistallo ottagonale appoggiato su una basa rialzata a due gradini. Al centro della coppa è collocata la statua del giovane Bacco scolpito su di una roccia, vestito con pelle leonina che gli cinge la vita, sostenuta da una cinghia, porta in testa un festone di vite e in mano un otre dal quale sgorga l’acqua nella coppa. Tutti elementi che richiamano in maniera sintetica e artistica la sua classica iconografia.

 

Fontana dei delfini

 

 

La fontana dei delfini situata verso la periferia di Trento, di fronte alla chiesa sconsacrata di S. Croce, in Corso 3 Novembre. È una fonte che passa inosservata alla gente di passaggio, ma meriterebbe la giusta considerazione per la particolarità delle sue forme artistiche: una vasca ellissoidale baccellata e la  colonna da cui esce l’acqua è a pianta quadrilobata sormontata da un cesto di frutti. Gli ugelli escono dalle teste di tre delfini, scolpiti sui tre lati della colonna, che sono stati eseguiti con grande maestria e attenzione del dettaglio. La fontana risale al XIX secolo.

 

Fontana in Piazza Diego Lainez

 

 

La fontana in Piazza Diego Lainez, nei pressi del centro cittadino è qui ricordata perché ritorna il simbolo della città, ovvero il tridente. Eseguita nel XIX secolo, è stata sistemata sul muro che fronteggia l’abside della chiesa di Santa Maria Maggiore a Trento. È in marmo bianco, dalle forme semplici, ma eleganti e ben eseguite. È qui segnalata per il tridente scolpito sulla sommità dello specchio della fontana, all’interno di una conchiglia, elemento che riprende il simbolo della città, il tridente del Dio Nettuno.

 

Fontana di Piazza Venezia

Fig. 14 – Piazza Venezia a Trento, Fontana dei cavalli. Fonte: https://spazicomuni.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Visitare/Altri-siti-di-interesse-turistico/Fontana-dei-Cavalli.

 

In ultimo voglio ricordare una fontana dell’era moderna, ovvero la fontana di Piazza Venezia celebre agli automobilisti che dal centro si recano sulle colline o si spostano verso il sud della città.

L’opera è meglio conosciuta come “lavamàn del sindaco” per la sua grande forma a catino e la grande statua dei cavalli.

La fontana è una grande vasca in pietra con 150 getti sistemati lungo il perimetro che spruzzano l’acqua verso il centro con la statua in bronzo di due cavalli stilizzati. I cavalli sono opera dello scultore trentino Eraldo Fozzer (1908-1995) che sistemò la statua nel 1983, in sostituzione di un’altra sua opera raffigurante i corpi nudi di due Naiadi, le ninfe dell'acqua portatrici di fecondità. Le loro nudità furono oggetto di molte proteste che per cui vennero sostituite dall’attuale statua dei cavalli. La fontana è stata realizzata nel 1954 e nel 1956 è stata sistemata la prima scultura di Eraldo Fozzer, poi sostituita dall’attuale.

 

In questo contributo sono state descritte le fontane artisticamente particolari, ma molte altre sono disseminate tra le vie e le piazze della città che nella loro semplicità costituiscono un pezzo della storia e dell’arte di Trento.

 

 

Note

[1] Francesco Antonio Giongo nacque a Lavarone nel 1723 e morì a Trento nel 1776, studiò disegno e pittura a Trento e realizzò diverse opere scultoree nelle chiese trentine, ma la sua opera più famosa rimane la Fontana del Nettuno in Piazza Duomo a Trento.

[2] Oggi la fontana è alimentata dall'acquedotto cittadino attraverso un sistema a ricircolo  che filtra e decalcifica l’acqua; un sistema che è stato introdotto nei restauri del 1989-1990.

[3] È importante il significato urbanistico di questa fontana, sistemata sugli assi prospettici di via Belenzani, via Cavour, via Verdi di Trento che si incrociano nello spazio di Piazza Duomo. La fontana si interpone fra il protiro della facciata settentrionale del Duomo di Trento e l’ingresso di via Belenzani, abolendo del tutto il rapporto diretto fra la strada e la Cattedrale di San Vigilio. Inoltre la statua del Nettuno, rivolta verso via Belenzani, guarda verso la mano tesa della statua di San Francesco Saverio, posta in fondo alla via, sulla chiesa omonima, creando così lungo via Belenzani una fuga prospettica bidirezionale fra i due poli visivi. (Bocchi Oradini 1989)

 

 

Bibliografia

Bocchi Renato, Oradini Carlo, Trento, Roma, Bari, Laterza, 1989

Bocchi Renato, Trento. Interpretazione della città, Trento, Saturnia, 1989

Mayr Anna, Le fontane di Trento, Trento, Publiprint, 1989

Pancheri Roberto, La fontana del Nettuno. Salute e decoro della città, Trento, Temi, 2004

 

Sitografia

https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Conoscere


TORRE AQUILA E IL "CICLO DEI MESI"

A cura di Beatrice Rosa

INTRODUZIONE: PORTA DELL'AQUILA E TORRE AQUILA

Nel Duecento fu costruita la cinta muraria che circondò Trento fino al 1830-1850, quando si prese la decisione di demolire le mura; l’accesso alla città era al tempo garantito da quattro porte, tra cui porta dell’Aquila.

La porta, in prossimità del Castello del Buonconsiglio, era in origine sormontata da una semplice torre di difesa che venne modificata nel Trecento da Giorgio di Liechtenstein; il vescovo si impossessò di questa parte di mura e della porta per trasformare l’edificio duecentesco in uno spazio privato. Questo evento creò un forte malumore nei cittadini, i quali rivendicavano il possesso comune della torre e delle mura. Solo nel 1407 la torre venne restituita al controllo dei cittadini, grazie all'emanazione di un atto ad hoc durante la sommossa popolare con l’intervento del duca d’Austria e conte del Tirolo Federico IV, che mise fine al potere del vescovo[i].

Tra Trecento e Quattrocento, Giorgio di Liechtenstein[ii] con i suoi interventi di ristrutturazione, sopraelevazione e con la commissione della decorazione pittorica[iii], trasformò la torre di difesa in un luogo privato e isolato; come disse Enrico Castelnuovo, in un “domestico giardino del paradiso” [iv]. Tramite un lungo cammino coperto voluto dal vescovo stesso, si accede tuttora dal Castello del Buonconsiglio al secondo piano della torre, dove si trova il locale più interessante dell’edificio: una saletta alta cinque metri e mezzo, larga sei e lunga otto. Varcata la porta di questa sala, non si può che rimanere stupiti dalle pareti che recano “il ciclo dei Mesi”, uno dei più importanti e significativi cicli d’affreschi profani del gotico internazionale[v].

IL CICLO DEI MESI DI TORRE AQUILA

La decorazione pittorica della sala ha per soggetto, come detto, “il ciclo dei Mesi”: la raffigurazione dei mesi dell’anno, tramite l’illustrazione di temi aristocratici e popolari. Si tratta di undici scene - marzo è infatti andato perduto con la distruzione della scala – scandite da alte colonne tortili che presentano i lavori e i passatempi di ogni mese[vi];  sono tutte ambientate all'aperto con personaggi della vita signorile e contadini occupati nelle loro attività agricole.

La narrazione comincia sulla parete est con i mesi di gennaio e febbraio (fig. 1 e fig. 2). La scena di gennaio si svolge in un paesaggio nevoso, con due gruppi signorili che stanno combattendo a palle di neve in primo piano, mentre in secondo piano ci sono due cacciatori con i cani che avanzano nella neve, uno dei quali già con la cacciagione sulla spalla destra. Lo sfondo dell’episodio è dominato da un castello, e un visitatore sta bussando alla porta; l’edificio, un complesso di costruzioni di diversi stili e periodi, è stato riconosciuto da Nicolò Rasmo con il castello di Stenico, rinnovato proprio ai tempi di Giorgio di Liechtenstein. In alto a destra dell’affresco si può inoltre apprezzare la raffigurazione di un bosco con due volpi caratterizzate molto attentamente[vii]. Sopra la finestra c’è invece febbraio, con due squadre di quattro cavalieri che si sfidano in un torneo ai piedi delle mura - riconoscibili come quelle che collegano il Castello del Buonconsiglio proprio a torre Aquila. Il tema del torneo è legato al mese di febbraio probabilmente per il rapporto con le giostre che si tenevano a carnevale. Oltre ai cavalieri, il mese è connotato dalla presenza di giovani che assistono al torneo dalle mura, ma di nuovo anche di un’attività della “plebe”, con il fabbro nella sua bottega in basso a destra nell'affresco[viii].

Il mese di marzo occupava in origine l’angolo sud-est della stanza, ma a causa di un incendio che ha distrutto la scala a chiocciola in legno, è andato perduto. Il ciclo prosegue quindi sulla parete meridionale con i mesi di aprile, maggio e giugno. Aprile (fig. 3) è una delle scene più complesse del ciclo: il tutto si svolge in un terreno in parte coltivato o arato, a tratti invece boscoso e roccioso. In primo piano a sinistra si vedono due contadini impegnati nell’aratura di un campo, mentre sulla destra stanno passeggiando due dame, abbigliate alla moda del tempo. La cresta rocciosa sulla sinistra della scena è occupata da un bosco dove si vede un cane che insegue una lepre su un terreno costellato di funghi bianchi. Più in alto due donne annaffiano un giardinetto sotto gli occhi di un altro contadino che conduce un carro trainato da buoi; probabilmente il personaggio proviene dal mulino che occupa la parte in alto a sinistra dell’affresco. Sulla destra un uomo abbigliato di giallo sta seminando mentre un altro a cavallo sta lavorando il campo con un erpice[i]. A connotare il mese di maggio (fig. 4), c’è un prato cosparso di fiori su cui giovani aristocratici e dame stanno passando il loro tempo con le più svariate attività; molto probabilmente questi personaggi hanno raggiunto il campo dalla cittadina cinta da mura con la chiesa gotica presente nella parte in alto a sinistra dell’opera. Fuori dalle mura quattro persone stanno attorno a un tavolo rotondo mentre discutono e si cibano di ciò che hanno sulla tovaglia. Questo mese primaverile presenta solo personaggi aristocratici e nessuno della plebe, è importante però sottolineare che questa è una delle scene più ridipinte di tutta Torre Aquila[i].

L’estate comincia nella scena successiva con giovani coppie aristocratiche che danzano su un prato rigoglioso a ritmo di musica dei cinque musicanti che stanno suonando in basso a sinistra. Tornano a giugno (fig. 5) anche le attività del popolo: in alto a destra le mucche accovacciate sono al pascolo, una donna sta mungendo mentre altre trasportano il latte e lavorano il burro nelle malghe in legno. A sinistra di nuovo due nobili che escono dalle mura, la donna con una coroncina di fiori in testa, l’uomo abbigliato di rosso che osserva il suo cane correre libero sul ponte. Come la scena di aprile, anche qui ci sono vari interventi cinquecenteschi tra cui uno dei musici che ha le armi del Clesio sul suo abito[i]. La parete occidentale ospita luglio e agosto (fig. 6 e fig. 7). Le attività umili dominano la prima delle due scene, con in alto il taglio del fieno e sulla destra quattro contadini raccolgono l’erba tagliata con forconi e rastrelli. L’unica attività aristocratica della scena è legata ai falchi: si vede uscire dal bosco vicino alla città un falconiere con i trespoli su cui sono assicurati tre falchi, mentre un altro ammaestratore ha già percorso il ponte e prosegue con il telaio in mano su cui sono appoggiati sei falchi. Sopra questo personaggio un’altra scena molto curiosa, con tre uomini in barca in uno stagno intenti nella pesca. I falchi tornano poi nell’unico dettaglio di vita cortese della scena, dove si vede un gentiluomo inginocchiato che offre un falco ad una dama abbigliata alla moda con la consueta coroncina di fiori in testa[i]. Anche agosto è caratterizzato da attività agricole, con quattro contadini in un campo di grano che tagliano le spighe, legano i fasci e li ammucchiano poi in catasta. Un contadino con il suo carro di buoi si dirige verso il villaggio di capanne in cui spicca la casa in muratura del prete che sta leggendo alla finestra. Nella parte bassa dell’opera torna poi l’attività aristocratica con due dame e un gentiluomo, ognuno con un falco che discutono fuori dalla porta di un castello[i]

L’edificio di colore rosso prosegue poi nel mese di settembre (fig. 8), dove le scene di vita signorile occupano maggiore spazio. Gentiluomini a cavallo al centro della composizione stanno cacciando con il falco, mentre due dame e un signore, appena usciti dal castello, passeggiano a cavallo nei boschi popolati da animali nella parte bassa dell’opera. In alto ritroviamo le figure di contadini, una abbigliata di bianco sta raccogliendo le rape mentre altri tre sanno arando il campo con buoi e cavalli[i].

L’autunno prosegue con ottobre (fig. 9), una scena incentrata sulla vendemmia, la spremitura dell’uva e la preparazione del mosto. Nel vigneto stanno lavorando diversi personaggi mentre due contadini sulla sinistra utilizzano il torchio necessario per la spremitura dell’uva. Nella parte bassa a destra dell’affresco due nobili assaggiano il mosto[ii].

Comincia così l’inverno, a novembre le attività si concentrano maggiormente in città e non più nei campi, vediamo infatti i pastori che fanno entrare il gregge dalle mura. Alcuni cacciatori sono in montagna, impegnati nella caccia all’orso, mentre altri quattro, al centro della composizione, si stanno scaldando le mani davanti a un focolare. Anche in questa scena non manca l’elemento signorile, si vedono infatti due elegantissime figure a cavallo risalire la montagna, entrambi con una lancia in mano[i]. La scena di dicembre è dominata dalla città dotata di mura: all’interno si vedono un contadino con i suoi due asini carichi, due uomini che stanno entrando con i carri trainati da coppie di buoi, portando la legna appena tagliata dai taglialegna che ancora lavorano sulla montagna già un po’ innevata[ii].

L’unico elemento costante nelle scene è la presenza del sole, sempre in alto e al centro dell’opera; esso è ogni volta posizionato in una diversa casella zodiacale in base al mese trattato[i].

IL MAESTRO DEI MESI DI TORRE AQUILA

Dopo aver analizzato le scene del ciclo, viene spontaneo chiedersi chi abbia realizzato queste meravigliose opere a Torre Aquila a Trento. Ciò che è certo è che gli affreschi sono stati realizzati prima del 1407; sono tuttora attribuiti al Maestro Venceslao, un pittore del vescovo di Trento arrivato in città nel 1397, nonostante lo stile di questo ciclo sembri molto più avanzato rispetto agli affreschi autografi dell’artista nella cappella del cimitero di Riffiano a Merano[i]. Che sia o meno il Maestro Venceslao, il Maestro dei Mesi è molto probabile fosse di origine boema; confrontando infatti i paesaggi trentini, caratterizzati da monti rocciosi e colori irreali, con la miniatura boema dell’ultimo decennio del Trecento non si possono che notare innumerevoli affinità.

Gli affreschi non hanno solo elementi boemi, bensì anche lombardi, lo si vede per esempio nel fabbro del mese di febbraio, nel campo di rape nel mese di settembre o nel torchio di ottobre… la costante attenzione naturalistica per gli elementi vegetali nelle scene sembra provenire indiscutibilmente dalla lezione dei Tacuina (ndr i Tacuina sanitatis erano manuali di scienza medica scritti e miniati, la loro divulgazione avviene in area lombarda tra XIV e XV sec.)[ii]. Allo stesso tempo il pittore dei Mesi non è sicuramente un lombardo o un italiano, lo si vede dal modo arcaico di rappresentare lo spazio e la scala dei personaggi[iii].

La sala dei Mesi subì un restauro per volontà di Bernardo Clesio negli anni Trenta del Cinquecento; il cardinale incaricò Marcello Fogolino di modificare parzialmente la sala, intervenendo nei volti e nelle vesti dei personaggi, nei paesaggi e introducendo il tendaggio a balze bianche e rosse sotto la cornice, che in origine era diversamente decorata. L’intervento del Clesio non fu avventato o fuori luogo: il Maestro dei Mesi aveva infatti optato per la decorazione in maggior parte a fresco, ma con alcuni ritocchi a tempera, questo aveva comportato che già nel XVI sec. alcune parti di pittura erano cadute ed era quindi necessario risanarle[iv].

IL CICLO DEI MESI E IL GOTICO INTERNAZIONALE

Sia l’idea della camera dipinta, che dell’iconografia legata alla vita cavalleresca, al mondo dei contadini e dei pastori, non erano inusuali nell’Europa del XIV sec., anzi erano tendenze rilevabili soprattutto in Francia e in Germania. Il ciclo dei Mesi di Torre Aquila è un’importantissima testimonianza della vita economica e sociale tra la fine del Trecento e del secolo successivo con la descrizione delle attività umane, sia dei nobili che dei popolani. Con la descrizione così sensibile dei mestieri e della natura, quest’opera si inseriva perfettamente nel fenomeno del gotico internazionale, uno stile pittorico che ebbe fortuna nelle grandi corti europee (Parigi, Praga, Digione, Bourges, Milano…), grazie allo scambio di idee e alla diffusione dei manufatti, soprattutto quelli facilmente trasportabili[v].

 

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12.

[ii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12.

[iii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12

[iv] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 14.

[v] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 20-21.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  1. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, Trento 1990
  2. Castelnuovo, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, a cura di E. Chini, Trento 1987

 

CREDITI FOTOGRAFICI

  1. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  2. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  3. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  4. http://senzadedica.blogspot.com/2013/04/il-ciclo-dei-mesi-aprile.html
  5. https://tramineraromatico.wordpress.com/2016/10/12/una-meraviglia-medioevale-il-ciclo-dei-mesi-di-venceslao-nella-torre-dellaquila-castello-del-buonconsiglioa-trento/
  6. https://tramineraromatico.wordpress.com/2016/10/12/una-meraviglia-medioevale-il-ciclo-dei-mesi-di-venceslao-nella-torre-dellaquila-castello-del-buonconsiglioa-trento/
  7. http://senzadedica.blogspot.com/2013/07/il-ciclo-dei-mesi-luglio.html
  8. https://www.pinterest.it/pin/502432902164865107/
  9. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  10. http://senzadedica.blogspot.com/2013/10/il-ciclo-dei-mesi-ottobre.html
  11. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  12. https://www.pinterest.it/pin/360358407662234172/

 

 

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 10.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 215.

[ii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 233.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 181.

[ii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 195.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 163.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 145.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 125.


[i]
E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 104.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 85.

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 9

[ii] Per capire meglio chi fosse Giorgio di Liechtenstein e il suo ruolo nella Trento tra Trecento e Quattrocento rimando al mio articolo del mese di Agosto riguardo il Castello del Buonconsiglio (https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/)

[iii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p.9

[iv] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 10.

[v] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p.9

[vi] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, pp. 10-11.

[vii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p.57.

[viii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p.71.


LA CHIESA DI SAN ROCCO A CANEVE DI ARCO

A cura di Beatrice Rosa

A pochi chilometri dalla cittadina di Arco di Trento, nella frazione di Caneve, vi è la chiesa di San Rocco (fig. 1), un edificio liturgico molto piccolo che nasconde però un grande tesoro: quando vi si entra, non si può infatti che rimanere estasiati dalla bellezza e ricchezza degli affreschi e delle pale d’altare che lo decorano.

Fig. 1 - Chiesa di San Rocco di Caneve.

L’edificazione della chiesa risale al XV secolo, in occasione del matrimonio tra Odorico d’Arco e Susanna Collalto avvenuto nel 1480; ipotesi confermata dalla presenza delle sigle e stemmi dei due nobili affrescati nell’arco santo (fig. 2). Dalle fonti si evince come i Conti d’Arco fossero particolarmente affezionati a questa chiesa, probabilmente per la presenza di un palazzo dei conti proprio nella frazione arcense. Degno di nota il fatto che l’edificio non sia citato nell'elenco delle chiese del luogo per decenni, probabilmente perché fino al 1537, anno della prima visita pastorale, aveva la funzione di cappella privata[i].

Fig. 2 – Stemma di Odorico e Susanna.

L’accesso alla chiesa è favorito da due ingressi: quello principale a sud e quello secondario ad est. Come già anticipato, è un edificio di piccole dimensioni con l’aula rettangolare  larga 9 m, lunga 6 m e alta 7 m e l’abside a pianta quadrata con lato lungo 5 m e alta 4 m[ii]

La decorazione interna

La peculiarità della chiesa di San Rocco è la decorazione ad affresco su tutte le pareti, sia la parte del presbiterio che della navata, frutto essenzialmente di due campagne decorative: una di fine Quattrocento e l’altra di metà Cinquecento.

Gli affreschi del presbiterio

La prima campagna lavorativa, coeva con la costruzione dell’edificio di fine Quattrocento, riguardava gli affreschi del presbiterio, molto probabilmente ad opera del pittore rivano Gaspare Rotaldo[iii]. Accedendovi, non si può non notare la raffigurazione sulla parete di fondo di S. Antonio Abate e S. Agostino affiancati dai parzialmente visibili S. Sebastiano e S. Rocco (fig. 3). Gli affreschi sono molto rovinati perché, sicuramente dopo il 1519, è stata presa la decisione di dotare la chiesa di un vero altare e di una sacrestia, il che ha portato all'introduzione di una nicchia nella parete di fondo per contenere l’altare ligneo con il gruppo scultoreo della Madonna con i santi Rocco e Sebastiano e sulla parete di sinistra l’introduzione della porta per la sacrestia. Attualmente nell'altare ligneo c’è una Madonna con Bambino in marmo, in quanto sfortunatamente le tre sculture lignee sono state rubate nel 1987[iv].

Fig. 3 – Parete di fondo.

I quattro santi citati precedentemente sono inseriti in un paesaggio esteso sulle pareti laterali, un’immagine familiare se si visita la chiesa di San Rocco dopo essere stati nella cittadina di Arco: nell'angolo tra la parete sinistra e quella di fondo è infatti rappresentato il borgo di Arco e sotto il fiume Sarca[v].

La parete più interessante del presbiterio è sicuramente quella di sinistra, dove è raffigurato un personaggio ben abbigliato sdraiato sullo stipite dell’ingresso alla sacrestia (fig. 4). Questo giovanotto non è un semplice pellegrino, ma è San Rocco: sdraiato con la testa appoggiata al braccio destro, lo sguardo languido rivolto verso di noi, come se non si stesse accorgendo dell’arrivo del cane che gli sta portando una pagnotta. Il santo è raffigurato con tutti i suoi attributi più comuni: l’abbigliamento e il bastone da pellegrino, la piaga sulla gamba destra indicata da lui con la mano sinistra e appunto, il fedele amico. Sulla stessa parete, si vede sbucare anche un altro personaggio, un ragazzo biondo, dal naso prominente e le labbra carnose che sembra salutarci con la mano destra. Si è molto discusso sull'identificazione di questo giovane, con la conclusione che si tratti dello stesso Odorico d’Arco in atteggiamento di saluto alla moglie, la cui effige era con tutta probabilità raffigurata sulla parete opposta, lato del presbiterio sfortunatamente molto rovinato e manomesso[vi].

Fig. 4 – San Rocco.

Se si alza lo sguardo verso la volta a crociera, si noterà la rappresentazione dei quattro evangelisti in tondi, attorniati da dei simpaticissimi putti festosi occupati in svariate attività (fig. 5). La presenza di questi bambini alati è un meraviglioso esempio di convivenza di iconografia sacra e profana in un edificio liturgico[vii].

Fig. 5 - Putti.

Gli affreschi dell’aula

Molto diversi sono invece gli affreschi caratterizzanti l’aula, frutto di una campagna decorativa di metà XVI secolo attribuita a Dioniso Bonmartini e aiuti. Dioniso Bonmartini era un pittore di Arco, che già nel 1537 aveva firmato gli affreschi del sottogronda del Palazzo del Termine. Tramite questa testimonianza e lo stile peculiare del pittore, riconoscibile per i tratti fisionomici caratterizzati, la varietà di atteggiamenti e movenze e l’attenzione particolare alla gestualità delle mani, è stato possibile attribuirgli il ciclo pittorico di Caneve[viii].

La volta a crociera è decorata, come nell'abside, con quattro medaglioni che iscrivono le figure degli Evangelisti con i loro attributi, essi sono poi circondati da un motivo a grottesche caratterizzato da fiori e rami che si tramutano poi in vasi e in uccelli (fig. 6)[ix].

Fig. 6 – Volta sopra l’aula.

Gli affreschi parietali hanno come soggetto la Passione di Cristo. Il racconto va letto partendo dalla parete di destra dove è raffigurato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme: vediamo Cristo in groppa a un asino, accompagnato da vari personaggi tra cui S. Pietro, riconoscibile dalle chiavi nella mano destra e dalla tunica blu e il mantello giallo. A destra di questo episodio, c’è la scena successiva raffigurante l’Ultima Cena, più precisamente il momento in cui Gesù disse: “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà” (fig. 7). La narrazione prosegue sulla parete di fondo con la scena della lavanda dei piedi sulla sinistra e Cristo nell'orto del Getsemani sulla destra, episodi sfortunatamente molto rovinati a causa dell’apertura della finestra in facciata[x].

Fig. 7 – Parete di destra.

Dalla parete di fondo ci si rivolge poi alla quella di sinistra dov'è presente la vicenda della cattura di Cristo (fig. 8): Gesù è nell'atto di rimproverare S. Pietro che ha reciso con la spada l’orecchio destro ad uno dei convenuti. A destra, sul medesimo registro, si scorge un gruppo di soldati romani che scortano Gesù verso Anna, suocero di Caifa, per il giudizio preliminare.

Fig. 8 – Parete di sinistra.

Il racconto riprende poi nel registro inferiore della parete di destra (fig. 7): nel primo episodio vediamo Caifa in trono, vestito sontuosamente mentre discute con uno dei tanti sacerdoti al suo fianco; sta aspettando Gesù che arriva da sinistra scortato dai soldati romani, con lo sguardo affranto rivolto verso il basso. I soldati ritornano anche nella scena seguente sulla destra, in questo caso stanno conducendo Cristo davanti a Pilato. Il pittore sceglie di illustrare in questa parte di parete un episodio narrato dall'evangelista Matteo, cioè il momento in cui Pilato si fa portare da due inservienti dell’acqua e un catino che utilizza per lavarsi le mani. La narrazione prosegue poi sulla parete di fondo dove si possono ammirare due episodi commoventi della Passione: sulla sinistra la flagellazione con Cristo alla colonna, sulla destra l’incoronazione di spine[xi].

A differenza degli affreschi visti finora, gli episodi nel registro inferiore sulla parete sinistra, gli ultimi due prima della crocifissione, sono molto rovinati ma ancora perfettamente leggibili: sulla sinistra è raffigurato Cristo davanti ad Erode e a destra l’affollata salita al Calvario (fig. 8)[xii].

La narrazione si conclude poi sopra l’arco santo con la straordinaria Crocifissione (fig. 9), episodio che occupa lo spazio che nelle altre pareti sarebbe stato investito per rappresentare due scene. Al centro vediamo Cristo crocifisso, con il corpo candido, la testa reclinata verso il basso in un atteggiamento di rassegnata accettazione. Al suo fianco i due ladroni in croce, con il corpo più rosaceo, in pose contorte e divincolate, probabilmente a causa del dolore che rende anche i loro volti quasi grotteschi. Ai piedi della croce si notano Maria Maddalena e S. Giovanni Evangelista con gli occhi rivolti verso l’alto; un dettaglio meraviglioso è quello in primo piano con le quattro donne che reggono la Vergine svenuta dal dolore nel vedere il figlio crocifisso[xiii].

Fig. 9 – La crocifissione.

Oltre al ciclo della Passione, è degno di nota anche l’affresco alla destra della porta laterale (fig. 10). Esso raffigura una mensa d’altare sulla quale, tra i candelabri, è presente un ostensorio in oro al cui interno si può scorgere l’eucarestia con il Cristo crocifisso, il tutto coperto da un leggerissimo velo trasparente[xiv]. Tra le due colonne sullo sfondo, è compresa la pala d’altare: essa ha come soggetto due santi, di cui noi oggi vediamo solo dal busto fino ai piedi, nonostante ciò, sono perfettamente riconoscibili come S. Sebastiano sulla sinistra e S. Bernardino sulla destra. Inginocchiati davanti all'altare riconosciamo S. Rocco, indicante con la mano destra la piaga sulla gamba, e S. Girolamo in vesti di eremita in preghiera, come i tre giovinetti al centro della composizione. Questo affresco non presenta discontinuità nella stesura dell’intonaco, il che fa pensare, considerate anche le molte analogie stilistiche, che sia stato realizzato dalla stessa mano degli affreschi della Passione di Cristo[xv].

Fig. 10 – Mensa d’altare.

Osservando le pareti dell’aula, si potrebbe rimanere invece perplessi nel vedere degli affreschi molto diversi rispetto a quelli descritti finora. Gli affreschi “anomali” sono essenzialmente tre: raffiguranti la Resurrezione di Cristo (fig. 11), le pie donne al sepolcro (fig. 12) e l’Assunzione in cielo di Maria (fig. 13). Essi sono atipici sia dal punto di vista stilistico che dal punto iconografico: basti pensare all'Assunzione della Vergine, un episodio alquanto slegato dal contesto della Passione in quanto non sono presentati altri fatti quali, per esempio, la Pentecoste[xvi].

Con tutta probabilità la narrazione comincia con la Resurrezione, un affresco molto rovinato e poco leggibile in cui si vede ancora Cristo che risorge con in mano il vessillo crociato, la sagoma del sarcofago e di un soldato. Contrariamente a quello appena citato, l’affresco della Pie donne al sepolcro verte in un ottimo stato conservativo che permette di leggerne tutti i dettagli: in primo piano si vede il sepolcro scoperchiato e l’angelo che lo indica. Alla scena assistono ben undici figure femminili, la più visibile e facilmente identificabile è Maria Maddalena, con il vasetto degli unguenti in mano e il canonico abito rosso. Questa scena è particolarmente interessante anche perché è “un episodio nell'episodio”, infatti con un po’ di attenzione, si può notare in basso a sinistra Gesù, nelle vesti di ortolano, che appare alla Maddalena. La coesione di due scene in una, è un fatto inusuale nella chiesa di San Rocco, come anche peculiare è lo stile utilizzato che fa pensare a una mano diversa rispetto a quella di Dioniso Bonmartini e aiuti. Sulla parete opposta è invece presente l’Assunzione della Vergine, il più rovinato degli affreschi dove si può solamente scorgere la figura sbiadita di Maria[xvii].

Gli altari laterali

Oltre ai meravigliosi affreschi, la chiesa di San Rocco è di grande importanza per le due pale d’altare che decorano gli altari ai lati del presbiterio di cui però vi parlerò in un’altra occasione![xviii] (fig. 14-15)

 

BIBLIOGRAFIA

Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994.

Il paesetto di Caneve d'Arco e la sua chiesina di San Rocco, a cura di F. Zendron, Trento 1964.

Podetti, Gli affreschi cinquecenteschi del Palazzo del Termine ad Arco, in “Sommolago”, XXV, 2008, 3, pp. 5-114.

 

CREDITI FOTOGRAFICI

  1. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-san-rocco/
  2. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  3. https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g670770-d11963970-Reviews-Chiesa_di_San_Rocco-Arco_Province_of_Trento_Trentino_Alto_Adige.html
  4. https://elenaedorlando.wordpress.com/2013/10/20/passeggiate-domenicali/
  5. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  6. https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g670770-d11963970-Reviews-Chiesa_di_San_Rocco-Arco_Province_of_Trento_Trentino_Alto_Adige.html
  7. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  8. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  9. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  10. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  11. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  12. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  13. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  14. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  15. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 246.

[ii] Il paesetto di Caneve d’Arco e la sua chiesina di S. Rocco 1964, pp. 11-12.

[iii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 36-43.

[iv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 55-56.

[v] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 44-53.

[vi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 44-53.

[vii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 36-43.

[viii] E. Podetti, Gli affreschi cinquecenteschi del Palazzo del Termine ad Arco, in “Sommolago”, XXV, 2008, 3, pp. 21-29.

[ix] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[x] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xiii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xiv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xvi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xvii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xviii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 57-63.


LA STORIA DEL DUOMO DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

Uno dei monumenti simbolo della città di Trento è il Duomo dedicato al vescovo tridentino Vigilio. La chiesa domina il centro della città con il Palazzo Pretorio, oggi sede del Museo Diocesano Tridentino, e la Torre Civica. Come altri edifici simili, il Duomo di Trento ha una storia molto lunga e complessa che va dall'epoca di diffusione del Cristianesimo in regione, ai restauri condotti nell'ultimo secolo.

Fig. 1 - Piazza e Duomo di Trento - (www.cattedralesanvigilio.it).

La primitiva costruzione del Duomo di Trento la si deve al terzo vescovo tridentino, Vigilio (Roma, 355 – Val Rendena, 400-405), il quale volle venisse costruita una basilica cimiteriale all'esterno della città romana di Tridentum per conservare le spoglie dei tre martiri missionari della Val di Non, Sisinio, Martirio e Alessandro. I tre martiri vennero trucidati dai pagani il 29 maggio 397 e sepolti nell'antica basilica di Trento per volere di Vigilio; alla sua morte, tra il 400 e il 405 d.C., anche Vigilio venne sepolto nell'antica basilica. Questa primitiva basilica venne costruita fuori della porta urbana dell’antica città di Trento, "presso la porta Veronensis", lungo il tratto di strada che un tempo usciva verso Verona. Venne scoperta tra il 1964 e il 1977 e oggi la si può visitare sotto il pavimento del Duomo, alla profondità di circa tre metri. La storia di questa antica basilica è capitolo a parte nelle vicende del Duomo di Trento, perché l’attuale struttura del Duomo risale al XIII secolo, a quando il principe vescovo Federico Vanga (1207-1218) avviò la completa ricostruzione dell’antica basilica.

La posa della prima pietra del Duomo di Trento è ricordata nell'epigrafe commemorativa inserita nel contrafforte meridionale dell'abside maggiore, che ricorda la data 29 febbraio 1212 e l’incarico della progettazione conferito al costruttore Adamo d’Arogno, capostipite di una lunga serie di maestri comacini. La costruzione prese avvio dalla zona orientale per poi progredire fino alla costruzione dell’impianto architettonico, sostanzialmente romanico.

All'inizio del Trecento, il maestro Egidio da Como o da Campione assunse la guida del cantiere del Duomo, completando la facciata fino al rosone e il prospetto meridionale. Questi interventi sono stati compiuti grazie al contributo finanziario del nobile condottiero Guglielmo da Castelbarco che è ricordato in un'epigrafe apposta sull'angolo sud ovest della facciata del Duomo insieme alla data 1309.

Gli interventi successivi compiuti tra il XV e il XVI secolo diedero alla struttura interna della navata principale un aspetto vicino allo stile gotico, attestato dal verticalismo delle proporzioni e dall’espansione dello spazio interno. A quest’epoca risale il completamento delle coperture e della facciata, del tiburio sopra il transetto e della cella ottagona del campanile.

Fig. 4 - Duomo di Trento, facciata - (www.wikipedia.org).

In età barocca vi fu la costruzione di una delle cappelle più importanti del Duomo di Trento, la Cappella del Crocifisso o Cappella Alberti. Questa venne aperta sul fianco sud della cattedrale, per volere del principe vescovo Francesco Alberti Poja (1678-1689). I lavori iniziarono il 6 aprile 1682 e terminarono nel 1687, come indicato dalla data impressa sullo scudo bronzeo al centro del pavimento. Oggi la cappella è utilizzata come luogo di conservazione dell'Eucaristia, ma in origine fu concepita come cappella funeraria del vescovo Poja e per conservare il gruppo ligneo cinquecentesco del Cristo "del Concilio".

All’inizio del Settecento vi fu la realizzazione della copertura a cipolla del campanile del Duomo, una copertura così caratteristica che venne copiata da molte chiese del Trentino, e negli anni quaranta dello stesso secolo venne completamente modificata la zona del presbiterio del Duomo. La completa ristrutturazione dell’area del presbiterio fu voluta dai cittadini di Trento, in seguito al voto del 1703 per la liberazione della città dall’assedio dei francesi. Questi lavori portarono alla demolizione dell’antica cripta medievale e di conseguenza all’abbassamento del presbiterio di circa quattro metri. Nella nuova area venne realizzato il coro ligneo "dei Santi Angeli" e il magnifico baldacchino in pietra che domina l’area del presbiterio e protegge l’altare in pietra del Duomo di Trento. Un baldacchino del tutto particolare poiché riprende l’idea del più famoso baldacchino di San Pietro in Vaticano opera del Bernini e del Borromini. L’altare e il baldacchino del Duomo di Trento furono realizzati dai fratelli Domenico e Antonio Sartori da Castione, presso Rovereto, mentre gli angeli, i putti e gli emblemi che ornano la parte superiore del baldacchino furono in gran parte realizzati dallo scultore Francesco Oradini.

Fig. 5 - Duomo di Trento, presbiterio e baldacchino - (www.cattedralesanvigilio.it).

La storia recente del Duomo di Trento riguarda principalmente interventi di rifacimento e restauro all’intero bene, alcuni di questi patrocinati dal governo austriaco. Negli anni ottanta dell’Ottocento iniziarono gli interventi dell’architetto Enrico Nordio, interventi che furono molto discussi perché modificarono drasticamente alcune strutture dell’edificio. Questi lavori comportarono la completa ricostruzione delle volte della navata maggiore (dipinte due anni dopo da Giuseppe Lona), l'innalzamento delle murature, la ricostruzione del tetto a due spioventi, il totale rifacimento della cupola realizzata in forme neoromaniche e la riconfigurazione esterna del tiburio.

Durante la Seconda Guerra mondiale, il 2 aprile 1945, la copertura della navata centrale venne distrutta da una bomba che squarciò la volta sottostante e danneggiò il campanile sia nella copertura che nella cella. I danni causati dalla guerra furono riparati nell’immediato, ma fu solo negli anni Cinquanta grazie al Soprintendente Mario Guiotto che venne restaurato l’intero Duomo. Gli ultimi interventi di ristrutturazione sono stati promossi negli anni 1963-1977, dall’Arcivescovo Alessandro Maria Gottardi per festeggiare l'anniversario della chiusura del Concilio di Trento. Gli interventi comportarono il ritorno dei due bracci del transetto al livello originario, il nuovo assetto liturgico del presbiterio e la scoperta degli antichi ambienti sotterranei. Fu infatti nel 1964 che iniziò la ricerca archeologica dell’antica basilica di San Vigilio, nel sottosuolo del presbiterio del Duomo di Trento. Infine, ma non meno importante è bene ricordare tutta la campagna di restauro condotta nel nostro secolo all’esterno e all’interno del Duomo di Trento, realizzata secondo le ultime normative in materia di restauro.

Fig 6 - Piazza e Duomo di Trento, fianco nord - (www.wikipedia.org).

 

Bibliografia e Sitografia

Primerano Domenica, Scarrocchia Sandro (a cura di), Il Duomo di Trento tra tutela e restauro. 1858-2008, Catalogo della mostra, Temi Editrice-Museo Diocesano, Trento 2008

Rogger Iginio, Il Duomo di Trento. Guida breve, Edizioni Museo Diocesano Tridentino, Trento 2004

Anderle Michele, Primerano Domenica, Rogger Iginio, La cattedrale di San Vigilio. Le fasi costruttive della cattedrale e i suoi protagonisti, Cd-rom

Castelnuovo Enrico, Ronchetti Mario, Ceri Gianni, Peroni Adriano, Il Duomo di Trento, Trento, Temi, 1992-1993

www.cattedralesanvigilio.it

www.chieseitaliane.chiesacattolica.it Elenco delle chiese delle Diocesi Italiane curato dal CEI – Conferenza  Episcopale Italiana - Ufficio Nazionale per i Beni culturali Ecclesiastici e l'edilizia di culto - Diocesi di Trento - Inventario dei beni culturali immobili