IL MONASTERO ALTOMEDIEVALE DI TORBA A CASTELSEPRIO

A cura di Beatrice Forlini

 

 

Storia del luogo

L’antico monastero femminile di Torba (fig.1), un tempo parte di un complesso di edifici di età tardoantica, sorge oggi in una zona boschiva alle pendici del colle di Castelseprio, nella provincia di Varese. La vicenda di Torba ha infatti origini antichissime, il primo nucleo costruttivo era un castrum cinto da mura difensive con la funzione di avamposto militare a protezione dall’incombente minaccia di invasione da parte dei popoli barbarici. Di questo blocco rimangono, fortunatamente, ancora oggi importanti tracce, nonostante le numerose modifiche del sito avvenute nel corso dei secoli. Legato a Torba rimane però soprattutto un mistero; nonostante i numerosi studi, che anche nell’ultimo periodo hanno portato all’attenzione nuove considerazioni e ipotesi, non si è ancora arrivati a scoprire la destinazione d’uso effettiva della torre altomedievale entrata poi a far parte del monastero benedettino.

 

 Il monastero

In epoca medievale questo sito ebbe grande importanza continuando a mantenere la funzione di cittadella fortificata ma, come testimoniato dalla chiesa di S. Maria Foris Portas e dai resti del monastero e della chiesa di Santa Maria  (fig. 2), in una veste totalmente cambiata. A partire dal VIII secolo, infatti, venne fondato un monastero benedettino, gestito da monache, le quali si impegnarono per trasformare la vecchia architettura militare in un luogo di culto; l'antica torre di vedetta, usata per il controllo dei passaggi sul fiume Olona, entrò a far parte del monastero, così come il corpo trasversale che sorgeva su parte delle mura antiche. Si impegnarono inoltre per far edificare una chiesa ad aula unica, absidata e con cripta.

Per circa sette secoli la comunità femminile abitò questo luogo, lasciando in eredità una serie molto particolare di affreschi realizzati nella torre: sicuramente interessanti per la loro particolarità iconografica, hanno però spesso messo in difficoltà gli studiosi per via della complicata interpretazione.

Nel XVI secolo le monache Benedettine si trasferirono nella vicina località di Tradate, lasciando l'edificio in affitto a contadini locali, e per questo luogo cominciò un lento declino. L'edificio subì quindi un’ulteriore trasformazione diventando sede delle nuove abitazioni dei massari e la piccola chiesa di Santa Maria fu adibita a stalla.

Il complesso, dunque, si tramutò in azienda agricola e, a inizio Ottocento perse definitivamente la propria funzione religiosa. Al momento dell'allontanamento dei contadini, l'edificio versava in uno stato di degrado molto avanzato ma fu fortunatamente acquistato nel 1977 da Giulia Maria Mozzoni Crespi che lo donò al FAI. Grazie all’intervento del Fondo Ambiente l’ex monastero riacquisì importanza, si trattò inoltre di uno dei primi beni acquisiti dall’associazione e questo ha permesso i tempestivi interventi di risanamento e di restauro per salvare il complesso architettonico del monastero.

Anche se è stato fortemente ristrutturato e rimaneggiato rispetto a come doveva apparire in origine, l’acquisto è stato fondamentale per dare inizio a numerosi studi analitici, anche a livello archeologico. Grazie ai molteplici studi, alcuni ancora in corso, si sta cercando di ricostruire la storia di questo luogo particolare e di far sì che ottenga la giusta considerazione in qualità di uno dei più antichi e autorevoli monasteri altomedievali, di cui rimane la straordinaria torre a quattro livelli.

Tappa fondamentale per questo millenario complesso fu sicuramente l’inserimento nel 2011 tra i beni patrimonio UNESCO. Il sito infatti è ancora oggi teatro di importanti ritrovamenti di epoca longobarda ed è tra le tappe imprescindibili del percorso della via Francisca del Lucomagno, cammino che si sviluppa per oltre 100 km toccando numerosi luoghi di interesse. Una parte del complesso è oggi adibita a ristorante.

 

La Struttura

Il portico del corpo longitudinale del monastero doveva avere tre grandi archi (fig. 3), i quali vennero tamponati al momento della spartizione dell’ambiente tra famiglie contadini, con l’obiettivo di ricavarne nuovi locali di residenza, ma successivamente ripristinati grazie al restauro FAI. In questa parte è situato oggi il ristorante, impostato sulla spina romana della muratura tardoantica; essa è ancora in parte visibile all'interno del refettorio, dove si trova anche il grande camino molto antico. La presenza di portici testimonia inoltre l'ospitalità che doveva essere riservata a pellegrini e viaggiatori di passaggio, offrendo un luogo coperto per il riposo, erano poi presenti ambienti della clausura e la torre a più livelli.

 

La Torre

La Torre di Torba (fig. 4) venne con molta probabilità costruita utilizzando materiale di riuso ricavato dalla demolizione di complessi cimiteriali di epoca romana. Secondo molti studiosi l’edificazione della torre è attestabile intorno alla fine del V secolo e doveva essere inizialmente munita sia a est che a nord di contrafforti di sostegno. Con la conversione del complesso a monastero la struttura iniziale della torre è stata per ovvie ragioni profondamente modificata e successivamente vi è stato aggiunto, ormai in epoca rinascimentale, un quarto livello in altezza.

Con la perdita del suo ruolo di bastione difensivo, l’architettura della torre venne addolcita;  vennero costruite delle scale esterne in muratura, le feritoie vennero trasformate in finestre e il secondo piano venne adibito ad oratorium monasteriale con pareti dipinte ad affresco. Questi sono presenti anche nel primo piano, ma frammentari, anche se più integri rispetto a quelli presenti nella chiesa adiacente.

I primi tre livelli appartengono sicuramente alla fase più antica di riqualificazione della torre (VIII-IX secolo) anche se si sono fatte molte supposizioni su quale fosse la funzione di questa torre all’interno del monastero, soprattutto perché ci sono solo pochissimi altri esempi di torri altomedievali ancora in alzato.

Quasi sicuramente il primo piano, oggi quasi interrato, è stato utilizzato per molto tempo come cucina e/o magazzino visto il ritrovamento di numerosi resti di focolari, mentre è più difficile stabilire la precisa destinazione d’uso dei due piani soprastanti, visto anche le diverse fasi di intonacatura e decorazione riscontrate da particolari analisi archeologiche.

 

Sono molto interessanti, infatti, i resti di affreschi del terzo piano (fig. 5-6-7) dove è dipinto Gesù tra santi e apostoli a rappresentare probabilmente una sorta di Dèesis, un soggetto utilizzato spesso nel medioevo per decorare facciate e absidi; sono però anche rappresentate le monache in una sorta di processione, per essere ricordate e celebrate nel tempo. Questi frammenti rivelano inoltre la prevalenza di molti personaggi vescovili, che testimonierebbero una committenza importante per l’epoca, ancora da provare.

Il secondo piano invece è di più difficile interpretazione perché all’inizio era stato lasciato a rustico, facendo pensare che si trattasse di un luogo non cerimoniale ma più di servizio. Alcuni studiosi ritengono possibile che il piano fosse adibito a sepolture a cassa o comunque non interrate, di cui però non c’è traccia e che sarebbero state senza dubbio molto inusuali per l’epoca.

In un secondo momento poi, in concomitanza con la decorazione ad affresco del terzo piano, anche questo secondo ambiente venne affrecsato; di queste decorazioni rimangono pochi frammenti e di difficile interpretazione, sono infatti per lo più simboli e qualche frammento figurato come quello che reca la raffigurazione di una monaca che probabilmente fu badessa del monastero: Aliperga.

 

 

 

 

 

Bibliografia

Castelseprio e Torba: sintesi delle ricerche e aggiornamenti, a cura di Paola Marina de Marchi, 2013, SAP libri, Mantova.

 

 Sitografia

https://fondoambiente.it/luoghi/monastero-di-torba

https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00784/

http://archeologiamedievale.unisi.it/castelseprio/larea-archeologica/torba/gli-affreschi


UNA DIMORA DAL FASCINO MAGNETICO: VILLA CARLOTTA A TREMEZZINA

A cura di Beatrice Forlini

 

Villa Carlotta è una bellissima e suggestiva dimora che affaccia sul Lago di Como, in località Tremezzo, oggi adibita a museo e location per eventi culturali. La villa incanta anche per il suo meraviglioso giardino ed è raggiungibile comodamente usando il traghetto che attraversa il lago collegando le varie località; dall’acqua è possibile ammirare tutte le meraviglie dei dintorni rendendo la visita della villa un’esperienza davvero unica. 

 

Notizie storiche

La villa venne fatta costruire alla fine del XVII secolo dal marchese Giorgio II Clerici (1648-1736) con l’idea di dar vita a un ambiente in cui natura ed arte potessero liberamente dialogare. Il complesso successivamente passò in eredità al pronipote, Antonio Giorgio (1715-1768), il quale non fu però in grado di amministrare le fortune di famiglia, tanto che alla sua morte la maggior parte dei pochi beni ancora rimasti in suo possesso passarono ad un ramo cadetto della famiglia. L’unico immobile che riuscì a lasciare in eredità alla figlia Claudia fu proprio villa Carlotta.  

Claudia, sposata col conte Vitaliano Bigli, nel 1801 decise di vendere la proprietà di Tremezzo a Gian Battista Sommariva, allora Presidente del Comitato di Governo della Repubblica Cisalpina (istituita in Italia settentrionale da Napoleone Bonaparte), considerato in quel momento tra gli uomini più potenti della zona di Milano. Egli era estremamente colto, amante e collezionista d’arte e vantava amicizie illustri, tra cui i più celebri artisti dell'epoca, da Antonio Canova a Jacques-Louis David e Bertel Thorvaldsen. Sommariva decise di decorare la villa allestendo al suo interno una parte molto consistente della sua collezione, tanto che si trovò a dover adattare alcuni ambienti così da renderli più idonei ad accogliere le opere. Furono proprio questi capolavori a rendere in  breve tempo la villa famosissima in tutta Europa, attirandovi illustri visitatori quali  Stendhal, Lady Morgan o Gustave Flaubert. 

Circa alla metà dell’800 la villa di Tremezzo venne acquistata dalla principessa Marianna di Nassau, moglie del principe Alberto di Prussia ma solo pochi anni dopo, in occasione delle nozze della figlia Carlotta con il granduca Giorgio di Sassonia-Meiningen, la proprietà passò definitivamente nelle mani della nobile casata tedesca. La villa, adibita a dimora di villeggiatura, porta ancora oggi il nome di Carlotta. Il nuovo passaggio di proprietà non comportò troppe modifiche alla struttura dell’edificio, mentre i saloni interni vennero arricchiti con motivi decorativi in stile neo-rinascimentale. Gli interventi più importanti si riscontrano per esempio nelle grandiose sale di rappresentanza che si devono all’artista Lodovico Pogliaghi (1857-1950). 

I nuovi proprietari in breve tempo vendettero quanto restava della raccolta d'arte di Sommariva, ad eccezione dei grandi dipinti e di alcune sculture, ma gli interventi più importanti si riscontrarono soprattutto nel grande parco. I duchi Bernardo e Giorgio II, appassionati di botanica, arricchirono il giardino con nuove specie di piante e soprattutto con rododendri, azalee, camelie e palme.

 

L’Ente Villa Carlotta

Allo scoppio della Prima guerra mondiale i beni di proprietà di famiglie tedesche vennero sequestrati in tutta Italia con l'intento di non favorire lo schieramento nemico. Villa Carlotta, nonostante fosse ancora di proprietà dei granduchi di Sassonia, non venne requisita ma venne sottoposta ad una sorta di amministrazione controllata che durò fino al principio degli anni Venti.  Nella primavera del 1921, la proprietà passò infine allo Stato italiano ed è proprio in quegli anni che si cominciò a pensare alla possibilità di dar vita a un ente privato, senza scopo di lucro, preposto alla conservazione e valorizzazione del patrimonio della villa. 

Nel 1926 l’avvocato Giuseppe Bianchini, insieme all'industriale Giovanni Silvestri, all'ingegnere Luigi Negretti e ad alcuni imprenditori tessili, crearono il comitato promotore dell'Ente Villa Carlotta, riconosciuto con il Regio Decreto del 12 maggio 1927. Al nuovo ente venne affidata la cura e la gestione della villa e del giardino e dopo quasi 100 anni continua ad essere in attività. Lo scopo perpetrato dall’ente in tutti questi anni continua ad essere quello di conservare e valorizzare la villa promuovendo numerosi interventi di mantenimento del giardino e tutta una serie di iniziative culturali di alto livello tra cui mostre temporanee, concerti, balletti e pubblicazioni, che richiamano anche adesso numerosi visitatori e studiosi. 

L’edificio tra le meravigliose collezioni e archivi

 

La villa presenta un corpo di costruzione massiccio e geometrico, secondo la sobria tradizione lombarda, impostato su un unico asse centrale che divide in due parti uguali la proprietà.
Con Sommariva l'edificio venne modificato sia all'esterno, con l'aggiunta di lesene e della balaustra con l’orologio, sia all'interno nella predisposizione delle sale del primo piano, destinate ad accogliere le meravigliose opere d'arte. Il salone centrale venne arricchito da un’importante volta dipinta in finto stucco e da ampie finestre a lunettoni per valorizzare il gruppo scultoreo di Venere e Marte, realizzato nel 1805 da Luigi Acquisti e l'altorilievo con l'Ingresso di Alessandro Magno in Babilonia, un capolavoro dello scultore danese Bertel Thorvaldsen.

 

Nelle altre sale trovarono posto il celebre gruppo di eccezionale bellezza Amore e Psiche, eseguito tra il 1818 e il 1820 da Adamo Tadolini da un unico blocco di marmo di Carrara, così come la grande tela con Virgilio che legge il sesto canto dell'Eneide del pittore francese Jean-Baptiste Wicar ed il capolavoro di Francesco Hayez, l'Ultimo bacio di Romeo e Giulietta del 1823, manifesto della pittura romantica in Italia.

 

Al secondo piano trovava posto la dimora dei Sassonia-Meiningen con arredi d'epoca, stanze private e gli oggetti della principessa Carlotta, inoltre la Villa conserva un archivio storico ed è depositaria dell’archivio Belloni Zecchinelli.

 

ll Giardino

Il parco che si sviluppa intorno alla villa copre oggi una superficie di circa otto ettari ed è rinomato per la stupefacente fioritura primaverile dei rododendri e delle azalee in più di un centinaio di varietà che risalgono ancora allo spirito naturalistico improntato dai duchi della casata tedesca. In ogni periodo dell'anno l’aspetto del giardino cambia, si trasforma e merita sicuramente una visita per ammirare la dedizione che viene data alla cura degli antichi esemplari di camelie, cedri e sequoie, platani e faggi purpurei per esempio.

Una parte dell’ampio parco che risale alla costruzione della villa è uno splendido giardino all’Italiana che fronteggia l’elegante dimora con una fontana a vasca sagomata e una statua raffigurante citarista dell'antica Grecia Arione di Metimna. Il giardino si sviluppa su un ideale asse simmetrico che lo attraversa dal cancello fino all’orologio posto sul tetto dell’edificio. A decorazione troviamo le siepi potate in forma, fontane e bellissimi giochi d’acqua, statue e aiuole geometriche.

 

 

 

Sitografia

Scheda Sirbec: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/CO160-00021/

Sito ufficiale Villa: https://www.villacarlotta.it/it/


UN LUOGO SUGGESTIVO SUL LAGO MAGGIORE: L’EREMO DI SANTA CATERINA DEL SASSO

A cura di Beatrice Forlini

 


Origine dell'Eremo

L’eremo di Santa Caterina sorge in una posizione tanto particolare quanto suggestiva della sponda lombarda del lago Maggiore; situato nei pressi del piccolo paese di Leggiuno, è infatti costruito a strapiombo sul lago e sotto uno sperone denominato Sasso Ballaro. La scelta della posizione dell’eremo non fu certo casuale, si trova infatti in quello che doveva essere un punto strategico del lago, il quale già in pieno Medioevo rappresentava una fondamentale via di comunicazione tra nord e sud. Il lago Maggiore era infatti un importante centro per il commercio e l’artigianato, oltre che una risorsa per l’agricoltura e probabilmente luogo di ritrovo per mercanti, pellegrini e viaggiatori. 

La storia di questo eremo inizia molto tempo fa ed è legata alla leggendaria e mitica figura di un Beato, Alberto di Arolo, della facoltosa casa dei Besozzi; egli, secondo il racconto, era un ricco commerciante che conduceva una vita agiata. Un giorno però per scampare ad un naufragio invocò la Santa martire Caterina di Alessandria, facendo voto di cambiare completamente stile di vita e di dedicarsi unicamente a penitenza e preghiera. Riuscendo poi fortunatamente ad arenarsi proprio sotto al sasso o rupe Ballara, decise di dare fede al voto fatto e costrì una chiesa dedicata alla santa che lo aveva salvato, Caterina. L’iniziale nucleo costruttivo rimane adesso inglobato nella zona absidale della chiesa ed è solo una parte del complesso che possiamo ammirare oggi affacciandoci da questo “balcone di roccia” naturale. A fare da cornice alla costruzione possiamo ossevrare un panorama mozzafiato sulla natura e sul lago.[1] Sebbene costruito in un luogo non facilmente raggiungibile e nonostante la beatificazione di Alberto e la sua effettiva esistenza non siano mai state propriamente dimostrate, fin dal Medioevo il complesso divenne meta di numerosi pellegrinaggi.

Fin dall’inizio del Trecento altri uomini scelsero di seguire l’esempio dell’eremita, prima senza una regola e poi col passare del tempo unendosi e dandosi una struttura e delle regole. Si arrivò dunque alla formazione di una prima comunità monacense che faceva capo alla regola di Sant’Ambrogio ad Nemus, la quale diede viata al nucleo più antico dell’edificio che ancora oggi rimane alla base del complesso dell’eremo. Le prime struttre ad essere costruite furono: la cappella di Santa Maria Nova, la chiesa dedicata a San Nicolao, all’interno della quale sono state rinvenute le testimonianze più antiche del complesso, risalenti al 1301, il campanile, il conventino e il convento meridionale. La cappella e la chiesa di San Nicolao vennero poi inglobate nel volume della successiva chiesa dedicata a Santa Caterina. Nel 1379, dopo gravi difficoltà economiche, l’eremo venne aggregato alla domus milanese di S. Ambrogio ad Nemus. 

La storia del complesso dal Cinquecento ad oggi

Il complesso visse un periodo di grande fioritura e benessere a partire dal Cinquecento grazie all’alleanza tra la famiglia Besozzi, da sempre legata all’Eremo grazie alla figura dell’antico antenato Alberto, e la famiglia degli Sforza. Col tempo le piccole chiese che erano sorte accanto al famoso sacello di Santa Caterina divennero un unico grande ambiente; venne modificata quella che era la zona absidale trasformandola in cappelle laterali e a partire dalla metà del secolo vennero realizzati diversi cicli di affreschi e decorazioni di vario genere, . 

Il complesso comprende principalmente ancora oggi tre edifici: il convento meridionale, il cosiddetto conventino e la chiesa di Santa Caterina, collegati tra loro da due cortili terrazzati affacciati sul lago. L'ingresso all'eremo era ubicato nel convento meridionale e dall'atrio un terrazzo conduceva al conventino che ospitava la cucina, il refettorio e le celle dei monaci. A est della facciata della Chiesa dedicata a Santa Caterina vi è l’imponente campanile in pietra.

Il Seicento fu invece un secolo segnato da guerre, carestie e peste, che colpirono duramente anche questa zona fino a causare la soppressione dell’Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus. Alcuni anni più tardi l’Eremo venne affidato ai Carmelitani di Mantova, che rimasero qui fino alla soppressione del convento nel 1769. la maggior parte della proprietà passo quindi sotto le parrocchie dei vicini comuni di Arolo, Cerro, e Laveno, mentre la chiesa venne rilevata dalla Curia di Milano e unita alla Parrocchia Leggiunese. 

L’eremo rimase pressochè abbandonato, senza una comunità religiosa residente, per quasi 150 anni nonostante i numerosi sforsi da parte della parrocchia di Leggiuno nel tentativo di trovare qualche ordine interessato a rilevare l’Eremo. Il complesso, già a partire dal 1914 era stato riconosciuto come Monumento Nazionale, avendo così l’opportunità di essere restaurato varie volte. Dopo la Seconda guerra mondiale l’Eremo tornò a vivere un momento di attività, la prima sala del convento superiore venne infatti trasformata in ristorante e al fine di rendere il complesso più facilmente rggiungibile venne ricostruito  l’attracco per il battello in cemento. Nel 1970 la Provincia di Varese acquistò la struttura avviando uno dei primi interventi di restauro d'urgenza sull'edificio del conventino per evitare in maniera concreta che l’edificio continuasse a subire danni. Venne fatto un intervento di consolidamento e successivamente restaurato l'intero complesso. L’ingresso, che avveniva tradizionalmente via lago (prima dell’attracco del battello), oppure attraverso una scalinata, è stato reso ancora più agibile grazie anche alla costruzione di un ascensore in tempi recenti. Un episodio curioso da ricordare è che l’accesso via terra dalla porta sud che ancora oggi è utilizzato da tutti i visitatori, durante il periodo del Concilio Tridentino (1545-63) era vietato perché era inconcepibile il passaggio attraverso i locali della clausura monacale. 

Per concludere, questo luogo, ancora considerato un singolare esempio di struttura conventuale, grazie alla sua ricchezza spirituale, agli spettacolari scenari che regala sulla natura circostante e alle sue meravigliose opere d’arte, continua ad attirare numerosi visitatori e pellegrini, curiosi di rivivere un’atmosfera quasi millenaria.

 

 

 

 

 

Note

[1] Sito web Eremo di Santa Caterina del Sasso, sezione Storia: https://www.eremosantacaterina.it/it/l-eremo/storia [consultato in data 26/04/2022]

 

 

 

Sitografia

Sito Eremo: https://www.eremosantacaterina.it/it/ [consultato in data 26/04/2022]

Scheda Sirbec: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00095/  [consultato in data 26/04/2022]


“L’ISOLA DI TOSCANA IN LOMBARDIA”: IL BORGO DI CASTIGLIONE OLONA

A cura di Beatrice Forlini

 

 

Castiglione Olona definita da Gabriele d’Annunzio: “L’isola di Toscana in Lombardia”, è un piccolo borgo in provincia di Varese che racchiude ancora il suo spirito rinascimentale; qui, infatti, il Cardinale Branda Castiglioni (1360 circa-1443) a partire dal 1422, grazie a una bolla di papa Martino V, e all’autorizzazione del Duca di Milano, ottenuta l’anno seguente, decide di riedificare il suo borgo natale (Fig. 3).

 

Il cardinale Castiglioni è stato un’importante figura del primo Quattrocento italiano, dapprima come legato apostolico e riformatore in diverse zone dell'Europa centro-orientale e poi attivo protagonista di alcuni dei maggiori Concili ecumenici del tempo. È stato però anche un grande cultore d’arte e a lui si deve, per esempio, la committenza a Masolino da Panicale degli affreschi della Cappella di San Clemente a Roma.

Il suo contributo maggiore però è forse proprio la trasformazione di Castelseprio da piccolo borgo fortificato a un centro nevralgico di cultura e spiritualità, dove si respira lo spirito rinascimentale del centro Italia. Il cardinale è partito proprio dai resti dell'antico castello collocato in cima al colle del paesino, antica rocca fortificata, è documentata già dall'XI secolo ma nel corso dei secoli venne più volte assediata, fino alla distruzione nel XIII secolo. Successivamente fondà una Collegiata (edificata in soli tre anni, dal 1422 al 1425) per l'educazione del clero secolare, un Ginnasio, diverse dimore signorili e una Chiesa dedicata al Corpo di Cristo (edificata a partire dal 1437) (fig. 5). Quest'ultima è particolarmente interessante in quanto è un precoce esempio della fortuna del prototipo brunelleschiano della Sagrestia Vecchia della fiorentina Basilica di San Lorenzo, in Lombardia.[1]

 

Per realizzare e decorare questi nuovi edifici il cardinale ha richiamato nella sua “officina” di Castelseprio artisti di svariata provenienza, affidandosi per l'architettura e la scultura a maestranze lombarde primi fra tutti i fratelli Pietro, Giovanni e Alberto Solari che realizzano la Collegiata e diversi altri palazzi; anche le sculture presenti nella Collegiata e nel Battistero sembrano riferibili a due artisti lombardi, ovvero  Filippo e Andrea da Carona, mentre ad affrescare le pareti della Collegiata, del Battistero e del Palazzo del Cardinale giunsero rinomati artisti toscani: Masolino da Panicale(1383-1447), il senese Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta (1410-1480) e Paolo Schiavo (1397-1478). Una scelta forse insolita per il tempo ma dovuta alla vasta e aggiornata cultura del cardinale grazie ai suoi interessi in ambito umanistico e ai frequenti viaggi in Italia e all’estero che gli permettono di vedere e prendere spunto da diverse culture. (fig. 1)

 

La Collegiata (fig.2) venne consacrata nel 1425, gli architetti che la realizzarono, i fratelli Solar, divennero in breve tampo protagonisti del rinnovamento architettonico del gotico lombardo. La chiesa è dedicata ai SS. Stefano e Lorenzo, come ricordato dalla lunetta presente sulla facciata datata 1428 che riunisce tutti i personaggi legati alla storia della Collegiata diaposti intorno alla Vergine con Bambino: oltre ai due santi sono infatti presenti anche il cardinale Branda, inginocchiato ai piedi della Madonna, e i SS. Ambrogio e Clemente.

 

A pianta longitudinale, la chiesa è suddivisa in tre navate, non presenta transetto né cappelle laterali ma culmina con un’abside semiottagonale poco sporgente dal perimetro, affrescata con storie della Vergine e dei Santi Stefano e Lorenzo, realizzate dai tre pittori toscani soprannominati.

A Masolino da Panicale si devono gli episodi della vita della Vergine affrescati sulle vele della volta, caratterizzate da volti delicati e colori luminosi, esempi suggestivi dell’innovativo passaggio pittorico tra Medioevo e Rinascimento. Essi sono di un’elevatissima qualità compositiva, luminosa e cromatica, inoltre nelle tre vele centrali le architetture si presentano complesse e fantasiosamente gotiche, caratterizzate da un ritmo innovativo che percorre univocamente l'intera decorazione; nonostante la fragilità conservativa, questi affreschi furono restaurati negli anni Venti del Novecento, strappati e trasportati su tela, ed infine ricollocati in situ nel 1972.

Per completare la Collegiata, le decorazioni delle pareti del presbiterio (dedicate ai due santi Stefano e Lorenzo) vengono affidate al fiorentino Paolo Schiavo e al Vecchietta, che al tempo era all’inizio della sua carriera artistica ma portatore di un linguaggio moderno e ben informato sulle novità di Donatello che lo porterà a diventare uno dei principali artisti senesi del tempo. Il solo Vecchietta invece opera nel palazzo signorile di Branda Castiglioni (fig. 7-8) dipingendo i murali raffiguranti Uomini e Donne famosi, oggi molto deteriorati. Inoltre, il cardinale dota la chiesa di ricchi oggetti e tesori che oggi sono conservati al museo attiguo ed entro il 1437 fu anche realizzato un monumento sepolcrale del cardinale Branda, attribuito ai fratelli Filippo e Andrea da Carona.

 

Un altro esempio di questo grandioso progetto è il Battistero (fig. 4) che sorge probabilmente sui resti di una torre angolare del preesistente castello, trasformata poi in cappella gentilizia; esso deve la propria celebrità al ciclo di affreschi del sottarco realizzati sempre da Masolino, che poi affresca anche parte del palazzo del cardinale dipingendo uno dei primi esempi di solo paesaggio (fig. 9).

 

Le scene nel sottarco del battistero (datate al 1435) rappresentano, invece, momenti della vita di San Giovanni Battista, dall’annuncio della sua nascita alla sepoltura. Questi episodi sembrano sfondare illusionisticamente le pareti con architetture e paesaggi molto realistici e suggestivi; sono inoltre ricchissimi di particolari studiati nei minimi dettagli, per i quali Masolino utilizza l’innovativa prospettiva scientifica, ideata a inizio secolo da Filippo Brunelleschi che però accostata a lavorazioni attinte dall’oreficeria, caratteristiche ancora dell’arte tardogotica. Sono presenti quindi elementi pienamente rinascimentali, nei quali si risente l'eco degli affreschi della Cappella Brancacci di qualche anno prima, a cui però si affianca una vena più gotica tipica del contesto lombardo, con la sottile descrizione dei costumi, la delicata gamma cromatica e l’altezzoso atteggiarsi dei personaggi.

Un’altra novità è rappresentata dalle decorazioni delle pareti del Battistero, dove i protagonisti della storia sacra si mescolano insieme a quelli dell’epoca contemporanea, con l’inserimento di ritratti e riferimenti a costumi e avvenimenti odierni, in cui ovviamente Branda Castiglioni ricopre un ruolo di primo piano; come nel Battesimo di Cristo, ambientato in un paesaggio che sembra non abbia termine e si perde nell’infinito, una scena carica di grazia e armonia. (fig. 6)

 

Il borgo di Castiglione Olona però dopo la morte del cardinale Branda Castiglioni, nonostante questo ambizioso progetto e le grandi maestranze intervenute, va incontro ad un lento declino. Nel XVI secolo sia il castello che la Collegiata furono saccheggiati e a metà del secolo quello che resta del castello viene smantellato. Nel 1775 invece, le pareti interne della chiesa vengono completamente ricoperte da uno strato di calce, che nel 1843 in occasione di alcuni lavori fu rimosso, facendo così venire alla luce gli affreschi della volta della zona absidale con la firma di Masolino.

Sempre nell’Ottocento continuano delle modifiche e rinnovamenti dell’assetto originale, per esempio viene cambiato l’assetto delle navate per ricreare decorazioni in stile quattrocentesco, e all’ inizio del Ventesimo secolo viene aggiunto un pulpito in pietra (su disegno dell'ingegnere Antonio Castiglioni). Nel 1927 viene realizzato un primo intervento di restauro degli affreschi dell'abside, eseguito da Mauro Pelliccioli e pochi anni dopo viene rimosso anche l'altare barocco. Come già accennato, negli anni Settanta, si procede ad un nuovo restauro degli affreschi dell'abside, con strappo e successiva ricollocazione. In anni più recenti sono stati eseguiti nuovi restauri che hanno riguardato il rosone, la facciata e la copertura, ma anche le pale degli altari (lavori eseguiti nel 2001) ed infine vengono nuovamente ritoccati gli affreschi dell'abside nel 2002.

Oggi però è possibile visitare l’intero complesso, diventato museo, di proprietà della Parrocchia della Beata Vergine del Rosario di Castiglione Olona (sotto l’Arcidiocesi di Milano) e dal 2010 ufficialmente riconosciuto come Museo dalla Regione Lombardia, immergendosi e rimanendo quasi sospesi nel magico tempo e spirito rinascimentale del Quattrocento italiano.

 

 

 

Note

[1] G. Dorfles, S. Buganza, J. Stoppa, Storia dell’arte, vol.2, 2004, p. 76.

 

 

 

 

Bibliografia

G. Dorfles, S. Buganza, J. Stoppa, Storia dell’arte, vol.2, 2004, Bergamo, Atlas editore.

 

Sitografia

Sito complesso museale: http://www.museocollegiata.it/wp/

Scheda Sirbec: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00006/


LA CHIESA DI SAN FEDELE A MILANO IN UN DIALOGO TRA ARTE DEL PASSATO E DEL PRESENTE

A cura di Beatrice Forlini

 

 

San Fedele a Milano  

La chiesa di San Fedele è situata in una bellissima e tranquilla piazza (fig. 1) a pochi passi dal Duomo di Milano e da Palazzo Marino. Non lontano troviamo anche diversi altri importanti edifici esemplari delle grandi novità architettoniche della Milano di fine Cinquecento.
Questa piazza è anche celebre per la presenza della statua bronzea dedicata ad Alessandro Manzoni, opera di Francesco Barzaghi (1839-1892), eretta nel 1883; proprio qui, infatti, era solito recarsi il grande scrittore per la messa, e purtroppo nel gennaio 1873 sui gradini della chiesa cadde, ormai anziano, battendo la testa. Il colpo fu fatale per lo scrittore, che non si riprese e morì pochi mesi più tardi all’età di 88 anni.

 

La storia di questa chiesa iniziò proprio nella seconda metà del Cinquecento, quando per volere dei gesuiti e dell’arcivescovo Carlo Borromeo, venne affidata la prestigiosa commissione all’architetto e pittore lombardo Pellegrino Tibaldi (1527-1596), che a partire dal 1569 concepì un monumentale edificio a navata unica, ricco di soluzioni nuove (fig. 2-4). Egli, infatti, dopo lunghi anni passati a Roma per studio e lavoro, divenne l'architetto prediletto di Carlo Borromeo e venne nominato anche Architetto della Veneranda Fabbrica del Duomo, oltre ad essere impegnato in alcuni dei più importanti cantieri, civili e religiosi, della città meneghina.

 

La chiesa fu consacrata nel 1579, dieci anni dopo l’inizio dei lavori, ma la sua costruzione proseguì per più di un secolo dopo che Pellegrino Tibaldì lasciò il cantiere nel 1586 e partì per la Spagna; i suoi successori però non si scostarono mai troppo dai disegni originali e il cantiere passò prima sotto la direzione di Martino Bassi,  poi di Francesco Maria Richini nel 1629 che cominciò i lavori del coro, e ancora ad Antonio Biffi nel 1684 che iniziò ad erigere la cupola, ed infine a Pietro Pestagalli che nell’Ottocento terminò la facciata e realizzò l’altare maggiore. Il volto di S. Fedele, rimane però di impronta Cinquecentesca e Controriformista (fig. 3) nonostante gli interventi si siano protratti per così tanti anni; fa eccezione soltanto il pesante coronamento della facciata che risale infatti a metà Ottocento.
Dopo la soppressione dell’ordine dei gesuiti nel 1814 la Chiesa passò sotto il controllo della vicina chiesa di Santa Maria della Scala, successivamente abbattuta per far posto al Teatro alla Scala. Dopo la Seconda guerra mondiale San Fedele tornò invece ai gesuiti che avviarono una serie di attività sia sociali sia culturali e artistiche, dando vita alla Fondazione Culturale San Fedele.

 

La storia di questa Chiesa benché piena di memorie antiche non si ferma allo spirito Cinquecentesco, infatti, qui oggi convivono in stretto dialogo con le decorazioni, le strutture architettoniche e i dipinti, alcune opere di arte contemporanea di noti artisti; è infatti presente un piccolo itinerario museale all’interno della Chiesa (inaugurato il 31 dicembre 2014 dopo alcuni restauri) a cura di Andrea Dall’Asta SJ, direttore della Galleria San Fedele e dell’architetto Mario Broggi.

Questo progetto è legato alla storia della Galleria San Fedele, fondata negli anni Cinquanta dalla omonima Fondazione dei gesuiti. Il fondatore, Padre Arcangelo Favaro, si propose come interlocutore del dialogo tra arte e fede,  trasformando così la Chiesa di San Fedele in un vero e proprio laboratorio sperimentale ed espressivo in cui hanno collaborato artisti del calibro di Carlo Carrà, Lucio Fontana(fig. 6) e Mario Sironi; dimostrando così che la cosiddetta: «arte “sacra” non era morta ma necessita solo di una “conversione” di linguaggio, che non poteva essere separato da un messaggio, reinterpretato però secondo i linguaggi del tempo odierno».[1] E ancora artisti come David Simpson, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Sean Shanahan, Claudio Parmiggiani e Nicola De Maria sono stati interpellati negli anni più recenti per riflettere su temi fondamentali della fede con opere site specific pensate appositamente per gli spazi della chiesa.

 

Tutte queste opere sono esposte in alcuni punti strategici della chiesa, in un itinerario molto interessante che comprende anche le cosiddette “stanze di contemplazione” ovvero la cripta e il sacello, ma anche la sacrestia e la cappella delle ballerine (fig. 8) così chiamata perché fino agli anni Ottanta le danzatrici del vicino teatro alla Scala la sera prima del debutto erano solite portare dei fiori sull’altare della Madonna del latte, un affresco del XIV secolo.

 

Tra le opere esposte, nella prima cappella sulla sinistra, troviamo la grande pala della Deposizione di Cristo di Simone Peterzano (1533-1599) (fig. 5), che sarebbe diventato maestro del giovane Caravaggio alcuni anni più tardi, il dipinto è caratterizzato da una luce vibrante che definisce ogni figura, da un naturalismo rinascimentale ancora percepibile nello sfondo ma soprattutto da un manierismo coloristico pienamente cinquecentesco. La prima cappella che si incontra sulla destra presenta invece un altare dedicato ad Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore dell’ordine dei gesuiti, raffigurato nella pala realizzata da Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano (1573-1632) tra i principali artisti del capoluogo lombardo del XVI secolo; la pittura del Cerano si distingue per un carattere intensamente espressivo e uno stile tardo manierista e mistico che rendono la composizione densa di colore e fortemente chiaroscurale come ben si percepisce in questa tela.

 

Un'altra menzione spetta alla realizzazione di altre due opere più tarde, raffiguranti dei momenti fondamentali per la storia della chiesa, a testimonianza degli stretti legami tra San Carlo e la Compagnia di Gesù, ovvero: La posa della prima pietraLa traslazione delle reliquie (fig. 7) destinate ai lati del presbiterio, commissionati nell’ultimo trentennio del Seicento ad Agostino Santagostino (1635-1706) insieme al fratello Giacinto.

 

Infine, è giusto menzionare la sacrestia lignea di San Fedele, intagliata in legno di noce nel XVII secolo dai fratelli Taurino. Si tratta infatti di uno degli esempi più pregevoli di intaglio ligneo presenti a Milano con sculture realizzate in circa trent’anni di lavoro e che mantengono inalterata la loro grandiosa e lucida robustezza.

 

 

 

 

Note

[1] Sito museo San Fedele, Sezione Sede: https://www.sanfedeleartefede.it/sede/

 

 

 

 

Sitografia

Scheda SIRbeC: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00026/

Sito museo San Fedele: https://www.sanfedeleartefede.it


VILLA BORROMEO VISCONTI LITTA: UNA VILLA “DI DELIZIE” a LAINATE

A cura di Beatrice Forlini

 

 

 

Villa Borromeo Visconti Litta è una delle attrazioni culturali più affascinanti di Lainate, cittadina alle porte di Milano, dove a fine Cinquecento il conte e mecenate d’arte Pirro I Visconti Borromeo (1560 ca-1604) fece costruire la sua grandiosa dimora. Questa, ancora oggi, incanta per le sue innumerevoli e affascinanti opere d’arte e di architettura, dal bellissimo ninfeo al grande giardino che la circonda.

La storia di questo complesso inizia proprio alla fine del XVI secolo quando il Conte Borromeo decide di ampliare questo suo vecchio possedimento terriero destinato a “riposteria” per prodotti agricoli, e di trasformarlo nella sua villa ufficiale di rappresentanza, chiamando all’opera eccellenti artisti dell’epoca. Tra di essi si possono citare l’architetto Martino Bassi, i pittori Camillo Procaccini e il Morazzone, Agostino Lodola e il Volpino oltre che agli scultori Francesco Brambilla il Giovane e Marco Antonio Prestinari.

Con il tempo questo luogo diventa quindi una vera e propria “Villa di delizie” dove poter ospitare grandi feste e ricevimenti degni di scrittori, intellettuali e sovrani di passaggio per la vicina Milano. Il Conte fa anche realizzare i giardini e il Palazzo delle Acque, propriamente detto Ninfeo (fig.1) per il quale affida il progetto a Martino Bassi. Si tratta di un luogo ancora oggi di grandissima suggestione per le sue decorazioni e per gli spettacoli idraulici con fontane e schizzi dal pavimento e dai rivestimenti. Il Ninfeo si apre in un susseguirsi di grotte artificiali decorate da stalattiti in tufo, conchiglie e pietre dure, oltre alle stanze rivestite a curiosi mosaici di ciottoli, realizzati da Camillo Procaccini.

 

Sappiamo inoltre che il Ninfeo era concepito per ospitare una bellissima collezione di dipinti, sculture e curiosità, in parte copie dall'antico o michelangiolesche ma anche con diverse creazioni originali; purtroppo, però la collezione è stata impoverita da una serie di dispersioni tra Ottocento e Novecento, e la stessa sorte è toccata anche alla collezione di dipinti, gravemente impoverita e ormai ricostruibile solo attraverso i vecchi inventari e fonti scritte. Il Ninfeo, però, può essere considerato ancora oggi uno degli esempi ingegneristici più importanti e significativi del genere, ed è ancora attivo grazie a sofisticati meccanismi idraulici e all’alimentazione dell’immenso serbatoio delle acque.

Sempre Camillo Procaccini, affiancato dal fratello paesaggista Carlo Antonio e da altri collaboratori, tra il 1602 e il 1603 realizza la decorazione ad affresco di una serie di ambienti al piano terra dell'ala più antica dell'edificio residenziale; qui, in elaborate incorniciature di mascheroni, animali mostruosi e grottesche, si inseriscono rappresentazioni mitologiche e classiche attraverso allegorie e imprese araldiche. Questi affreschi sono stati in larga misura strappati durante i lavori di restauro che hanno coinvolto la villa e il giardino a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ma sono stati poi ricollocati, permettendo così ai visitatori di recuperare questa cultura figurativa Cinquecentesca, seppur vanno tenuti in considerazione i danni intercorsi dalla realizzazione avvenuta più di tre secoli prima.[1]

Fino alla prima metà del Settecento la Villa mantiene un impianto invariato con l’originale struttura a pareti in laterizio intonacato con un portico sostenuto da colonne litiche a pianta rettangolare e uno scalone a due rampe in posizione angolare.

È invece con Giulio Visconti Borromeo Arese, ultimo erede della dinastia, che vengono realizzati i primi interventi che ne modificano l’assetto originario: egli fa costruire il “Quarto Nuovo” (fig.2), un corpo di fabbrica in laterizio a chiusura della corte d'ingresso e perpendicolare alla struttura Cinquecentesca, caratterizzato da una pianta rettangolare, due ali laterali poco sporgenti rivolte al giardino e una sala da ballo al piano nobile.

 

Sempre in questo periodo vengono rimodellati il Ninfeo e il giardino, sotto la guida dell’architetto e pittore ornatista dell’Accademia di Brera, Giuseppe Levati, con l'inserimento di un emiciclo e della fontana di Galatea (fig.6), formata da una bellissima vasca circolare corredata da statue degli artisti ticinesi Francesco e Donato Carabelli. Poi per volere del nipote di Giulio, il marchese Pompeo Litta, le facciate del Ninfeo vengono rivestite da concrezioni calcaree che lo armonizzano ancora meglio al contesto naturalistico del giardino, dopo l’affermazione del gusto per i giardini all'inglese. Dopodiché all’inizio del XIX secolo viene anche inserito un boschetto paesaggistico, molto di moda al tempo, animato da lievi dislivelli del terreno, con scomparti verdi ad andamento irregolare dove prevalgono piante ad alto fusto e cespugli.

 

Oltre alle sue maestose architetture e decorazioni, infatti, la parte più significativa di questo grandioso complesso rimane la grande zona lasciata a giardino, di circa tre ettari e probabilmente sin dalle origini suddivisa in quattro grandi scomparti scanditi da piante di agrumi in vaso, con due serre fredde destinate al ricovero invernale degli agrumi e, successivamente, da due serre calde per le specie più esotiche. È interessante da questo punto di vista una descrizione redatta nel 1840 da un botanico che rende l’idea delle grandi varietà di piante che dovevano essere presenti nel maestoso giardino, tra cui ad esempio ananas, banani, caffè, orchidee, ibisco e gardenie. Oggi nel parco si contano alberi appartenenti a ben più di 50 specie diverse e arbusti classificabili in 15 specie. Di notevole interesse sono anche due serre in ferro e vetro in stile Liberty che nel 2015 sono state oggetto di una importante riqualifica, grazie a un finanziamento da parte della Fondazione Cariplo.

I primi restauri e la riattivazione dei giochi d'acqua della Villa si devono ad Alberto Toselli che rileva la proprietà nel 1932 dopo il declino della famiglia Litta e la cessione della Villa al Demanio dello Stato nel 1866; è solo, però, in seguito all'acquisto da parte del Comune di Lainate nel 1971 e agli interventi di recupero del Ninfeo dopo un lungo periodo di abbandono, che l’arte e la storia di quella che era stata una grandiosa dimora hanno ripreso a stupire i visitatori con anche eventi a tema e mostre temporanee. (fig. 3,4,5,7,8)

 

 

Note

[1] Scheda SIRBeC Villa Visconti Borromeo Litta-complesso consultabile online all’indirizzo: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede-complete/MI100-03427.

 

 

Sitografia

Sito Villa Litta: https://www.villalittalainate.it/index.php

Scheda SIRBeC: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/MI100-03427/


UN CASO PARTICOLARE: LA CHIESA DI SANTA MARIA FORIS PORTAS A CASTELSEPRIO

A cura di Beatrice Forlini

 

 

La chiesa di S. Maria Foris Portas oggi si trova immersa in un grande parco archeologico nel piccolo paese di Castelseprio, oggi in provincia di Varese (fig.1), che comprende anche i resti di un antico castrum costruito su preesistenze militari del IV-V secolo d.C. e il monastero di Torba, a poca distanza, oggi bene FAI. Il nome, tradotto letteralmente, significa «fuori dalle porte», perché la  piccola chiesa sorgeva proprio fuori dalle mura dell'antico borgo fortificato di Castelseprio, ed era probabilmente un luogo di sosta per i pellegrini che scendevano lungo il corso del fiume Olona).

 

La chiesa risale probabilmente al IX secolo, anche se non si hanno riferimenti precisi, ed è l'unico edificio rimasto intatto dell'antico borgo fortificato, forse grazie alla devozione legata al luogo di culto; dopo che il castello e il modesto nucleo urbano circostante sono andati definitivamente in rovina, la piccola chiesa oggi rimane pressoché isolata e sospesa nel tempo.

La piccola costruzione si trova infatti su un'altura distante duecento metri dalla cinta muraria dell’antico castrum ed è orientata da Ovest a Est. La chiesa si presenta esternamente molto semplice e rustica, ed è preceduta da un nartece con grande arco a tutto sesto, aggiunto successivamente e datato al XVII secolo anche se originariamente doveva essere scandito da numerose aperture. La chiesa presenta una pianta trilobata a croce greca con un'unica navata rettangolare (fig.3), non molto lunga, anche se questo semplice schema planimetrico è arricchito dalle tre absidi ad arco oltrepassato (dette anche «a ferro di cavallo»), ritmate esternamente da quattro contrafforti di rinforzo, in stile orientale (forma che prende il nome di triconco).[1] (Fig.2)

 

Le tre absidi sono uguali tra loro tranne che per la disposizione delle finestre. All'esterno, esse sono rinforzate da contrafforti e coperte da bassi spioventi semiconici. Internamente la chiesa doveva essere intonacata e coperta da affreschi e stucchi, mentre il pavimento presenta intarsi di marmo.

La testimonianza più prestigiosa della chiesa però è al suo interno perché l'abside principale è decorata da pitture murali di straordinario valore scoperte nel 1944 dallo storico Gian Piero Bognetti (che è sepolto, su sua volontà, nell’abside sud della chiesa), in assoluto tra le testimonianze più importanti della pittura muraria europea dell'Alto Medioevo. Il ciclo, disposto su due registri, descrive episodi dell'Infanzia di Cristo; l'anonimo maestro che li realizza è probabilmente di origine orientale, perché ripropone i canoni di quella fase della cultura artistica bizantina ricordata come “Rinascenza Macedone”. Anche se deteriorati, ma ancora molto ben leggibili si trovano nella parte inferiore: la Presentazione al tempio, la Natività con l’annuncio ai pastori(fig.4) e l’Adorazione dei Magi; mentre nel registro superiore sono presenti l’Annunciazione, la Visitazione, la Prova delle acque amare (fig.6) il Sogno di Giuseppe e il Viaggio a Betlemme(fig.8). Sopra la finestra centrale della parete absidale è presente un medaglione che rappresenta Cristo Pantocratore(fig.7). Nella parte interna dell’arco trionfale invece corrisponde un analogo tondo che rappresenta un’Etimasia(fig.5).[2] Tutti questi soggetti riconducono al tema del mistero dell’incarnazione di Cristo, forse non casuale nella scelta in un’area che all’epoca era sotto il controllo dei longobardi, già convertiti al cattolicesimo ma ancora in qualche modo legati all’eresia ariana.

 

Gli elementi principali che distinguono questi affreschi da tutti gli altri esempi di pittura altomedievale sono, infatti, la complessità delle forme e l'attenzione al dato naturalistico, gli scorci prospettici, i legami con la pittura romana antica, tutte caratteristiche che li fanno entrare di diritto nella lista dei patrimoni dell'umanità dal 2011. Tutta quest’area fa, infatti, parte del sito Unesco “Longobardi in Italia: i luoghi del potere” con altre sei località che custodiscono i beni artistici e monumentali dell’epoca longobarda. In età post-carolingia la chiesa probabilmente diventa un edificio di culto privato, annesso a quelle che vengono identificate come residenze dei conti e gastaldi del Seprio; secondo degli studi archeologi a queste residenze è seguita poi la costruzione di un fossato e di una zona funeraria. Nel corso dei secoli pochi elementi hanno modificato l'aspetto della chiesa, tra questi solo la chiusura delle varie aperture presenti nel Nartece e, come già detto, la realizzazione nel XVII secolo della grande apertura ad arco a tutto sesto nella parete d'ingresso.

 

 

 

 

Note

[1] G. Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016, pp. 576-577.

[2] Motivo iconografico cristiano di tradizione orientale consistente in un trono sormontato da una croce, simboli della presenza spirituale di Cristo (cit. G. Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016, p. 577).

 

 

Bibliografia

Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016.

 

Sitografia

Scheda SIRBeC: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00785/,/

http://www.unescovarese.com/code/15317/La-chiesa-di-Santa-Maria-foris-portas.

http://www.castelseprio.net/info_tur/monumenti/S.%20Maria/chiesa/S.Maria.htm.


VILLA PANZA A VARESE

A cura di Beatrice Forlini

Tra arte contemporanea e suggestioni paesaggistiche in una villa settecentesca

Villa Panza è una villa suburbana che sorge in un quartiere della bellissima città di Varese; è molto particolare perché la sua storia è un dialogo tra antico e contemporaneo; inizia infatti ad essere costruita nel XVIII secolo ma oggi, all’interno di alcuni ambienti, è conservata una prestigiosa collezione di arte contemporanea di artisti americani nota in tutto il mondo, formata dall’ultimo proprietario, il Conte Giuseppe Panza, a partire dagli anni Cinquanta dopo una serie di viaggi in America. Qui sono conservate infatti più di 150 opere ispirate ai temi della luce e del colore che fanno prendere vita alle stanze di questa bellissima villa in una nuova forma, attuale e affascinante, e a completare la suggestione è anche l’idilliaco giardino da cui è circondata.

La storia della villa però inizia molto prima, siamo a Biumo Superiore, un quartiere di Varese, dove da fine Seicento era nota la presenza di una casa nobiliare della famiglia dei conti Orrigoni, che al tempo ospitava anche personaggi illustri come il conte Gerolamo Colloredo, governatore di Milano.

Dopo la morte dell’ultimo erede della famiglia questa proprietà è però contesa tra un’altra famiglia e due ordini religiosi che ne reclamano l’eredità per una presunta donazione da parte dell’ultimo proprietario. Nel 1743 si giunge infine ad un accordo, in base al quale la vedova Orrigoni ne rimane usufruttuaria, mentre i due ordini religiosi sono riconosciuti come legittimi proprietari.

Si susseguono poi diversi possidenti, a partire dal marchese Paolo Antonio Menafoglio, discendente di una nobile famiglia di origini bergamasche a cui si deve la promozione del progetto di ricostruzione della villa originale con l'assetto odierno caratterizzato dal sobrio ma elegante edificio principale, a tre piani, impostato su una corte a "U" e aperto a ovest verso il grande parco. I lavori continuano poi per alcuni anni e all’interno viene anche realizzato un ampio salone decorato sul soffitto da una scena allegorica, dipinta dal pittore Pietro Antonio Magatti; sempre in questo periodo fu sistemato anche il giardino che contribuisce a rendere la residenza una delle principali ville di delizia del Varesotto.

A fine Settecento, dopo alcuni problemi fiscali, i discendenti del Marchese Menafoglio sono costretti ad alienare la villa, che viene acquistata nel 1783 da Benigno Bossi, esponente di una nobile famiglia milanese. All'inizio dell'Ottocento la villa è nuovamente oggetto di diversi passaggi di proprietà ed infine, nel 1823, viene acquistata dal duca Pompeo Litta Visconti Arese, rappresentante di una illustre casata.

Negli anni successivi il complesso è ampliato grazie all'acquisizione di alcune terreni limitrofi sul lato nord, che permette la costruzione di un nuovo corpo di fabbrica destinato ad ospitare l’ala dei “rustici” su progetto dell'architetto Luigi Canonica, lo stesso che trasforma il giardino in un parco all’inglese. Questo nuovo e lungo corpo di fabbrica a due piani con impianto a "L" comprende diversi ambienti che oggi sono in parte destinati all’esposizione della nota collezione di arte contemporanea con alcuni pezzi site specific, oltre che ad esposizioni temporanee, trasformando questa parte della villa in luogo molto suggestivo, come una sorta di tempio consacrato alla luce; tra le diverse opere spiccano i lavori di Dan Flavin, di cui la collezione vanta la più grande concentrazione di opere permanenti, oppure di artisti come James Turrell e Robert Irwin. Sul lato orientale è presente poi un lungo portico scandito da pilastri e pavimentazione a ciottoli con il prospetto verso la piazza caratterizzato da una fascia marcapiano con al centro un portale in bugnato liscio. Fra il 1829 e il 1830 viene aggiunto anche un nuovo corpo di fabbrica rettangolare più basso, progettato dallo stesso Canonica, nel quale viene realizzato un sontuoso salone da ballo con decorazioni neoclassiche.

Poco dopo la morte del duca nel 1835, la proprietà passa in eredità ai figli e in seguito viene assegnata al primogenito Antonio Litta Visconti Arese, che nel 1866 lascia l'usufrutto alla moglie Isolina Prior. Quest'ultima nel 1876 acquista la villa che viene ereditata nel 1901 dal nipote Henry David Prior, che ne resta proprietario fino al 1934.

E da qui inizia la storia più recente della Villa, dopo il susseguirsi di tutti questi diversi proprietari; nel 1935 viene infatti acquistata da Ernesto Panza, a lui si devono alcune ulteriori modifiche, affidate all'architetto Piero Portaluppi. In particolare, egli riconfigura alcuni ambienti interni, come una cappella Settecentesca trasformata in bagno, il riassetto di parte del giardino e la realizzazione di una piccola corte interna al complesso. La villa poi è ereditata dal conte Giuseppe Panza che nel 1996 la dona al FAI, che dopo alcuni lavori la apre al pubblico a partire dal 2001.

La Villa oggi ospita spesso mostre ed eventi ed è meta di numerosi visitatori e appassionati d’arte, che scoprono la sopracitata collezione permanente in dialogo con le ricche decorazioni e costruzioni più antiche, trascorrendo così una giornata un po’ diversa dal solito immersi completamente nell’arte in questo fascinoso complesso, anche tra i 33.000 mq di parco verde, arricchito anch’esso da opere di Land Art, e che regala bellissimi panorami sulla città di Varese e dintorni.

Le foto dalla 4 alla 7 sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

Sitografia

Scheda Sirbec: http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/VA050-00070/

Sito FAI: https://fondoambiente.it/luoghi/villa-e-collezione-panza


UNO “SCRIGNO” SENZA TEMPO: IL SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DEI MIRACOLI DI SARONNO E IL “CONCERTO DEGLI ANGELI” DI GAUDENZIO FERRARI

A cura di Beatrice Forlini

 

Il Santuario di Saronno. Storia e costruzione

Il Santuario di Saronno, intitolato alla Beata Vergine dei Miracoli (Fig. 1) è una delle più rinomate testimonianze dell’architettura religiosa in Lombardia, un luogo ricco di opere d’arte realizzate da numerosi artisti, alcuni dei quali annoverabili tra le eccellenze non solo del Cinquecento lombardo, ma dell’intero Rinascimento italiano.

 

L’edificio sorge a Saronno, una cittadina a metà strada fra Milano e Varese. Esso è costruito, per volontà dei cittadini saronnesi, a partire dal 1499 sulla Varesina, la strada che collegava la zona a Varese. I cittadini vollero costruire l’edificio in onore di S. Maria e per dare ospitalità al simulacro della Madonna del miracolo, una statua della seconda metà del XIV secolo che si riteneva dispensasse miracolose guarigioni, posta allora in una cappella sulla strada e oggi nell'abside. Un’altra ipotesi vede invece, attorno al 1460, un giovane, già malato e costretto a letto da alcuni anni, miracolosamente guarito dalla Madonna della Strada Varesina la quale lo invitò a costruire una chiesa in suo onore. In seguito alla costruzione di una provvisoria “chiesuola”, i saronnesi decisero di erigere un tempio più grande dedicato a Maria. La prima pietra del nuovo Santuario viene posta l’8 maggio del 1498, giorno di S. Vittore. Il cantiere del tempio mariano era coordinato da un insieme di “deputati”, un organo composto da uomini eletti che avrebbero dovuto prendere in carico l’attività di amministrazione della fabbrica. I deputati saronnesi, che all’inizio del Cinquecento fecero innalzare anche la “casa” con i loro uffici, probabilmente si rivolsero all’architetto Giovanni Antonio Amadeo (1447-1522), già responsabile dei lavori del duomo di Milano, per progettare una chiesa che venne eretta in tre tempi. Il nome di Amadeo, che non è attestato dai documenti, è stato avanzato a partire dalla planimetria della chiesa, il cui modulo originario è una croce greca con cupola.

In una prima fase, inaugurata con la posa della prima pietra e terminata nel 1516, vennero completati l’abside, la zona presbiteriale e la cupola, con il tiburio (quest’ultimo attribuito con certezza ad Amadeo) e il campanile di Paolo della Porta.

Nel 1556 inizia un processo di espansione del santuario. A causa dell’afflusso sempre maggiore dei fedeli accorsi sul luogo, l’edificio venne ampliato in larghezza a tre navate e il corpo longitudinale allungato a cinque campate (Figg. 2-3). Il nuovo progetto del tempio, ora a croce latina, venne affidato al nuovo responsabile del cantiere milanese, Vincenzo Seregni (1520-1594), ma venne tuttavia interrotto circa dieci anni dopo. La sospensione dei lavori fu dovuta principalmente al fatto che, per proseguire l’ampliamento dell’edificio oltre la terza campata, bisognava demolire la piccola cappella “del Miracolo”. In seguito all’intervento diretto di Carlo Borromeo, la Statua della Madonna custodita nella piccola cappelletta venne trasferita all’interno della chiesa.

 

 

Contestualmente all’arrivo di Seregni, la fabbrica del santuario si arricchì di altre due presenze fondamentali, ovvero Cristoforo Lombardo e Giulio Romano (1499-1456), che vennero contattati per realizzare la sagrestia della chiesa, sormontata dalla caratteristica volta a vele.

Un altro protagonista della decorazione del Santuario è l’architetto Pellegrino Tibaldi (1527-1596), detto Pellegrino de’ Pellegrini, il quale tra il 1596 e il 1613 completò la maestosa facciata, costruita tra il 1596 e il 1613. I lavori proseguono fino al XVII secolo per sopraelevare la canonica, dove poco distante viene costruita una casa colonica per far alloggiare i contadini incaricati di curare la vigna e l’orto del Santuario.

La decorazione interna: Bernardino Luini e Andrea da Milano

Per quanto riguarda la decorazione interna, l’anno decisivo fu il 1525, momento in cui si decise di rinnovare completamente l’apparato decorativo. A tal proposito vennero contattati i più importanti maestri lombardi nelle arti della pittura e della scultura per dar vita a un apparato che, nelle intenzioni dei deputati, avrebbe dovuto raffigurare alcuni episodi della vita di Maria e Gesù.

 

Alberto da Lodi (1490-1528) decorò la volta dell’abside, del presbiterio (Fig. 4) e dell’antipresbiterio, mentre le pareti furono affidate a un grande della pittura lombarda del tempo, Bernardino Luini (1481-1532). Luini si impegnò ad affrescare uno Sposalizio della Vergine e un Gesù tra i dottori (antipresbiterio, figg. 5-6); l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al tempio (presbiterio, figg. 7-8): Quattro Evangelisti e i Quattro Dottori della Chiesa (lunette della volta); Virtù Teologali e Pace (lesene). All’interno delle cappelle che fiancheggiano la cupola, poi, sono collocate anche le statue lignee di Andrea da Milano (1475-1547). Andrea da Milano (o “da Saronno”) scolpì invece alcuni pregevoli gruppi policromi, come il Cenacolo (cappella sinistra, fig. 9) e il Compianto sul Cristo morto (cappella destra).

 

 

La cupola: Il Concerto degli Angeli di Gaudenzio Ferrari

Dopo la morte di Luini, la cui opera è ritenuta tra le più alte espressioni della pittura del Cinquecento lombardo, per decorare la cupola con un’Assunzione della Vergine (Fig. 10) viene invitato dapprima Cesare Magni che, non avendo colpito i committenti, venne sostituito nel giugno del 1534 da Gaudenzio Ferrari (1475-1546), pittore originario di Valduggia in Valsesia e definito da Giovanni Paolo Lomazzo, insieme ad Andrea Mantegna, Michelangelo, Polidoro da Caravaggio, Leonardo, Raffaello e Tiziano Vecellio uno dei sette “Governatori” del “Tempio della Pittura”.

 

Il capolavoro di Gaudenzio Ferrari, i cui documenti di pagamento indicano nel 1534 l’anno di stipula del contratto e nel 1536 quello di conclusione dei lavori, si trova nel cuore del santuario, la grande cupola di quasi 100 metri quadri interamente affrescata. Un’opera quasi senza precedenti, decorata con 86 meravigliosi angeli “in concerto” accompagnati da strumenti musicali reali ma anche di fantasia e l’uno diverso dall’altro. Al centro trovano invece spazio le statue del volto del Padre Eterno e dell'Assunta; tutto intorno poi, a raffigurare il Paradiso, ad accompagnare il corteo di angeli musicanti diviso in quattro cerchi, vi sono trenta puttini danzanti che accolgono l'arrivo della Vergine.

Il “Concerto degli Angeli” di Gaudenzio si dimostra fonte inesauribile di ricerca: da un lato gli studiosi cercano infatti di identificare i vari strumenti proposti dal pittore, dall’altro quest’ultimo manifesta, sin dai disegni preparatori, una meticolosa attenzione nei confronti dei dettagli: nelle prove grafiche preliminari (tra i quali particolare rilevanza acquisisce un disegno a penna e acquarello marrone con rialzi a biacca oggi conservato a Monaco di Baviera) infatti, si può notare lo studio dell’esatta posizione del corpo, delle mani e degli strumenti musicali.

 

Il Santuario ha inoltre assunto, nel corso del tempo, una grandissima rilevanza nel panorama religioso italiano. Oltre ad essere una costante meta di pellegrinaggio, il tempio mariano di Saronno è stato considerato da alcuni pontefici quasi al livello di una delle Sette Basiliche di Roma. Da Pio II Piccolomini (papa dal 1458 al 1464) fino a Giovanni Paolo II (1978-2005), infatti, più di cento sono state le bolle con cui venivano concessi privilegi e indulgenze.

 

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Sitografia

Sito ufficiale del Santuario della Beata Vergine dei Miracoli: http://www.santuariodisaronno.it/home.html

 

Bibliografia

Agosti, J. Stoppa (a cura di), Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, Milano, Officina libraria, 2018, cat.81, pp.457-458.