LA CORTE DI URBINO E RAFFAELLO PT II

A cura di Maria Giulia Marsili

 

Gli anni di formazione di Raffaello

In questa seconda parte verrà analizzata la figura di Raffaello Sanzio, ponendo l’attenzione sugli anni giovanili trascorsi nel territorio umbro – marchigiano ed il forte legame creatosi con questa zona, che l’artista ricorderà sempre.

 

«il 28 marzo o il 6 aprile dell'anno 1483, in Venerdì Santo a ore tre di notte, d’un Giovanni de’ Santi, pittore non molto eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno et atto a indirizzare i figliuoli per quella buona via che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua gioventù»
Da Giorgio Vasari, Vita di Raffaello da Urbino, in Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, 1568.

 

Nonostante l’incertezza sulla sua presunta data di nascita, sicuramente certa è la sua data di morte: il 6 aprile 1520 il giovane Raffaello Sanzio si spegneva a Roma dopo 15 giorni di malattia, a soli 37 anni. Malgrado la sua breve vita, le sue opere hanno segnato in modo decisivo il passaggio dal primo Rinascimento alla “maniera moderna”. La madre, Magia di Battista di Niccolò Ciarla, scomparve nel 1491, non lasciando nel giovane Raffaello un vivido ricordo. Il padre, Giovanni Santi rappresentò invece un pilastro importante per la sua formazione personale ed artistica: pittore – seppur definito dal Vasari “non molto eccellente” – attivo alla corte urbinate all’epoca dei Montefeltro. Egli delineò in Raffaello l’idea di “artista di corte consapevolmente colto”, impegnato in ambito artistico in senso lato: non solo in ambito pittorico ma anche teatrale e letterario. La sua opera maggiore fu il poema in terza rima redatto negli anni Ottanta del Quattrocento dal titolo La vita e le gesta di Federico da Montefeltro duca di Urbino. Tuttavia anche Giovanni Santi morì presto, il 1 agosto 1494, lasciando nell’undicenne Raffaello un vuoto colmato dall’enorme stimolo culturale che gli tramandò. Frequentando la bottega paterna egli apprese i primi insegnamenti in materia di pittura ed inoltre potè entrare in contatto con le varie personalità artistiche che giungevano alla corte dei Montefeltro, aprendo così il lungo processo di assimilazione che lo caratterizza. In eredità al figlio lasciò proprio la sua attiva bottega, la quale godeva di un solido patrimonio e di un diretto protettorato da parte delle famiglie più illustri della zona.

 

Raffaello, fra Perugia e Città di Castello

La sua continua assimilazione di ogni stimolo culturale, che portò Raffaello ad essere il grande artista rivoluzionario del suo tempo, caratterizzò il suo operato fin dai primi anni. Prima della sua morte il padre Giovanni Santi fece in tempo a mandare il figlio a Perugia, alla bottega di Pietro Perugino – conosciuto precedentemente durante un possibile soggiorno dell’artista ad Urbino – il quale deteneva il dominio del mercato artistico cittadino e la cui impronta è onnipresente nelle opere giovanili dell’artista.

 

Ma fu nella vicina Città di Castello che Raffaello compì le prime opere autonome: fra queste si menziona lo Stendardo della SS. Trinità e la grande pala d’altare, oggi danneggiata da un terremoto, raffigurante San Nicola da Tolentino, firmata come “Magister”. Quest’ultimo appellativo fu accompagnato a quello di “Illustris” nello stesso anno: nel 1500, a soli 17 anni Raffaello era già consapevole del suo potenziale e non perse occasione per renderlo noto. Nella città operavano già Signorelli e Pinturicchio, i quali Raffaello ebbe sicuramente modo di conoscere e che ritroviamo in alcuni tratti delle sue opere giovanili.

 

Gli anni fiorentini e il rapporto con le Marche

Fu l’ambizione il motore che portò Raffaello nell’autunno del 1504 fuori da Urbino e dall’Umbria, e Firenze si presentava ai tempi come luogo prediletto per “cercar fortuna” e nuovi stimoli. Qui entrò in contatto con le opere dei grandi della tradizione quattrocentesca della generazione precedente – Donatello, Masaccio e Luca Della Robbia – ma soprattutto ebbe modo di conoscere i protagonisti indiscussi della scena – Leonardo Da Vinci e Michelangelo Buonarroti – i quali avevano già dato inizio alla grande rivoluzione della “maniera moderna” rinascimentale del “pensare per figure”. Dallo studio delle loro opere Raffaello approfondì il suo percorso di sintesi artistica, approfondendo soprattutto l’osservazione anatomica delle figure, del loro movimento e delle loro espressioni.

Tuttavia, due delle tre grandi pale d’altare che Raffaello realizzò a Firenze erano ancora destinate a Perugia: la Pala Ansidei per la chiesa di S. Fiorenzo e la Pala Baglioni per la chiesa di S. Francesco al Prato, commissionata da Atalanta Baglioni per la morte del figlio Grifonetto durante la sanguinosa lotta contro la famiglia Oddi per il predominio sulla città. Nella prima opera, nonostante il progresso ottenuto nella realizzazione dell’ombreggiatura e del chiaroscuro, spicca ancora quella quiete meditativa tipica delle opere del Perugino, in cui le figure, seppur vicine, non sembrano essere in contatto fra loro.

 

La seconda, la Pala Baglioni, può essere considerata l’opera decisiva del passaggio di Raffaello dalla giovinezza alla maturità: l’artista scelse di “dipingere una storia” – che secondo Leon Battista Alberti era il compito più alto della pittura – rifacendosi ad una serie di citazioni provenienti dalle opere di Michelangelo e dai traguardi leonardeschi. Nonostante ciò il paesaggio rimane ancora quello vivido del Perugino, ricco di suggestioni fiamminghe, luminoso e pieno di nitidi colori.

 

 

 

Bibliografia

Thoenes, Raffaello (1483-1520). L’invenzione dell’alto Rinascimento, edizione italiana a cura di Francesca del Moro, Modena, TASCHEN GmbH, 2012.

Strinati, Raffaello, “Art e Dossier”, n. 97, Giunti, Firenze, 1995.

Lorenza Mochi Onori, saggio del catalogo della mostra “Raffaello e Urbino”, 2019.

P. Di Teodoro e V. Farinella, Santi, Raffaello, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 90, 2017.

 

Sitografia

http://www.gallerianazionalemarche.it

http://www.gallerianazionalemarche.it/collezioni-gnm/lo-studiolo/

http://www.terredelperugino.it/panorami-ispirato-perugino/

https://www.treccani.it/enciclopedia/federico-da-montefeltro-duca-di-urbino/


LA CORTE DI URBINO E RAFFAELLO

A cura di Maria Giulia Marsili

 

 

Raffaello Sanzio e Urbino

Quello di Raffaello è il terzo grande nome – accanto a quello di Leonardo Da Vinci e di Michelangelo Buonarroti – che caratterizza il lucente periodo del Rinascimento italiano. I suoi grandi capolavori del periodo fiorentino e romano, che rispecchiano perfettamente tutti gli ideali classici rinascimentali, sono frutto della continua assimilazione e rielaborazione di ogni stimolo culturale incontrato lungo il suo percorso, che partì eccezionalmente dall’allora piccolo ducato di Urbino. Negli ultimi decenni del Quattrocento la città di Urbino era divenuta teatro privilegiato per l’operato dei grandi artisti ed architetti dell’epoca, invitati a corte dal duca Federico da Montefeltro. Quest’ultimo, condottiero, capitano di ventura e soprattutto grande uomo di cultura e mecenate, influenzò e caratterizzò gli anni successivi che inaugurarono il Cinquecento sotto il segno di una florida e salda cultura artistica, dando spazio anche all’esperienza scientifica e tecnica. In questo “locus amoenus” delle arti mosse i primi passi Raffaello Sanzio, il quale seppe cogliere ogni possibile impulso da quell’ambiente, così motivante ed energico, prima di spostarsi a Firenze e poi definitivamente a Roma, dove tutt’ora la sua salma è conservata all’interno del Pantheon.

 

«Qui giace Raffaello, dal quale la natura temette mentre era vivo di esser vinta;

ma ora che è morto teme di morire»

 

In questa prima parte verrà analizzato quel fervore culturale che caratterizzò la città di Urbino negli ultimi anni del Quattrocento ed i primi anni del Cinquecento, ponendo l’attenzione sulla figura del duca Federico da Montefeltro.

 

L’Urbino dei Da Montefeltro

Se il 1483 fu l’anno che vide la nascita della brillante stella di Raffaello, l’anno precedente un’altra stella altrettanto lucente vide la sua fine: il duca Federico da Montefeltro morì il 10 settembre 1482 durante la guerra di Ferrara. Il duca nacque nel 1422 a Gubbio, ma i suoi natali sono piuttosto confusi: i più lo vogliono figlio illegittimo – poi legittimato dalla bolla papale di papa Martino V – di Guidantonio da Montefeltro, dal quale successivamente ereditò il ducato di Urbino, a seguito della morte prematura di Oddantonio, al potere per meno di un anno, dal 1443 al 1444. Federico, dopo aver ottenuto il titolo ducale di Urbino da papa Sisto IV, riuscì a trasformarlo in breve tempo nel secondo centro artistico rinascimentale più importante della Penisola, secondo solamente a quello di Firenze, guidato da Lorenzo il Magnifico. Portato alla massima espansione territoriale ed ad una prosperità economica mai vista prima, il ducato divenne centro nevralgico per i maggiori pittori, architetti, ingegneri dell’epoca: Piero della Francesca, Melozzo da Forlì, Luca Signorelli, Francesco di Giorgio Martini, Leon Battista Alberti. Per comprendere al meglio, con una sola immagine, la sintesi perfetta dell’essere del duca Federico si può osservare la famosa opera di Pietro Berruguete, realizzata per l’interno del prezioso studiolo all’interno di Palazzo Ducale.

 

Il duca, seduto su una lussuosa sedia rivestita in velluto verde, si presenta come un perfetto condottiero e capitano di ventura: indossa la sua armatura sotto ad una cappa purpurea foderata di ermellino ed ha con sé una spada e la mazza del comando. Al contempo egli appare assorto nella lettura di un codice, come a voler sottolineare il suo profondo interesse per la cultura. Al suo fianco, con un braccio delicatamente appoggiato a lui, è rappresentato il figlio Guidobaldo, nato nel 1472, anch’egli vestito in modo estremamente lussuoso: la diagonale immaginaria fra il volto di Federico e quella del figlio simboleggia la trasmissibilità ereditaria del potere, ottenuta, come già detto, solamente nel 1474.

 

Il Palazzo Ducale e lo studiolo di Federico

 

“Tra l’altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito d’Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni cosa sì ben opportuna lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva”

Da Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, 1528.

 

Fra le numerose committenze legate a Federico da Montefeltro, che connotano ancora oggi la città di Urbino, vi è l’edificazione di quella “città in forma di palazzo” – come la definì Castiglione nel suo Cortegiano – che è il Palazzo Ducale. Constata l’insufficienza del vecchio palazzo Bonaventura, fino ad allora sede della casa dei Montefeltro, Federico optò per l’edificazione di una nuova imponente costruzione in pieno stile rinascimentale, servendosi dei numerosi ingegneri ed architetti che giungevano numerosi alla corte di Urbino, divenuta culla dell’umanesimo matematico. Dalla prima aggregazione di varie dimore feltresche, adiacenti alla zona occupata ora da piazza Rinascimento, iniziata già nel 1445, Federico inaugurò la prima fase di costruzione nel 1447 sotto la responsabilità dell’architetto e scultore fiorentino Maso di Bartolomeo. Ingenti rinnovamenti sopraggiunsero nel 1468 con l’arrivo dell’architetto dalmata Luciano Laurana, allievo di Leon Battista Alberti, in precedenza attivo a Mantova per la famiglia Gonzaga. Con la realizzazione dello scalone e del cortile d’onore e della caratterizzante facciata dei Torricini si giunse all’impostazione rinascimentale dell’architettura contraddistinta da un elevato equilibrio delle parti.

 

L’ultima fase di edificazione, dal 1476 al 1482, vide la realizzazione della rampa elicoidale che collegava il mercatale con lo stesso palazzo, e dell’imponente facciata ad ali, per opera di Francesco di Giorgio Martini da Siena: nobile architetto molto apprezzato alla corte dei Da Montefeltro che progettò inoltre la realizzazione del duomo di Urbino e di altre svariate numerose fortezze nell’ampio territorio della casata.

 

A seguito di questo breve e conciso excursus sulla costruzione del Palazzo Ducale, è essenziale soffermarsi sul piccolo luogo dedicato agli studi che Federico da Montefeltro fece costruire all’interno sul suo palazzo dal 1475. L’uso di adibire una piccola stanza, lontana dai clamori degli ambienti principali della residenza, venne ripreso già dal XIV secolo su consuetudine francese: ciò è prova della profonda cultura ed impegno che Federico poneva in questo ambito. Il suo interno rappresenta un’invidiabile exempla di come uno studiolo dovesse essere al tempo, esso è un vero e proprio gioiello da custodire. Le tarsie lignee ad opera di Giuliano e Benedetto da Maiano, che ricoprono la parte inferiore della stanza rappresentano – con un magico effetto trompe-l’oeil – armadi e sedili con oggetti soliti degli studioli di cardinali, insieme alla figurazione delle tre Virtù teologali. Il tutto adornato da strumenti musicali e matematici che rimandano alla tradizione pitagorica e platonica cara alla cultura matematico-scientifica di Federico. Nella tribuna superiore sono presenti 14 ritratti (all’epoca 28) di uomini illustri, filosofi, poeti e padri della Chiesa realizzati quasi certamente da Pedro Berruguete su disegno del fiammingo Giusto di Gand. È interessante notare come tutto sia permeato dal forte dualismo fra sacro e profano: la sintesi fra i due ambiti risultava essenziale ed efficace a Federico, come a dimostrazione della sua polivalente cultura. Ma non solo, in quell’epoca l’ambivalenza fra cristiano e pagano si trovava all’acme, tanto che successivamente sarà anche proposta da Raffaello all’interno delle Stanze Vaticane.

 

 

Bibliografia

Thoenes, Raffaello (1483-1520). L’invenzione dell’alto Rinascimento, edizione italiana a cura di Francesca del Moro, Modena, TASCHEN GmbH, 2012.

Strinati, Raffaello, “Art e Dossier”, n. 97, Giunti, Firenze, 1995.

Lorenza Mochi Onori, saggio del catalogo della mostra “Raffaello e Urbino”, 2019.

P. Di Teodoro e V. Farinella, Santi, Raffaello, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 90, 2017.

 

Sitografia

http://www.gallerianazionalemarche.it

http://www.gallerianazionalemarche.it/collezioni-gnm/lo-studiolo/

http://www.terredelperugino.it/panorami-ispirato-perugino/

https://www.treccani.it/enciclopedia/federico-da-montefeltro-duca-di-urbino/


IL RELIQUIARIO DEL BERNINI AD OSIMO

A cura di Maria Giulia Marsili

 

 

All’interno del Museo Diocesano di Osimo, nella caratteristica piazza del Duomo, è conservata una piccola croce in metallo argentato e dorato attribuita ad uno dei più illustri protagonisti del Seicento: l’illustre Gian Lorenzo Bernini (Napoli,1598 – Roma, 1680). La tradizione vuole che essa sia stata realizzata per la custodia di una scheggia della Santa Croce di Cristo ottenuta con onore, in un momento storico in cui la “caccia alla reliquia” era all’acme, dal cardinale romano Girolamo Verospi (1599 – 1652), vescovo dal 1642 della piccola città marchigiana.

 

Il cardinal Verospi e la storia del prezioso Reliquiario

Nato in una nobile famiglia romana, Girolamo Verospi venne nominato cardinale nel 1641 da papa Urbano VIII (1623 – 1644), ovvero Maffeo Barberini, il quale gli consegnò poco dopo anche il titolo di Sant’Agnese in Agone. Solamente l’anno successivo ebbe l’onore di prendere in carico il vescovato della diocesi di Osimo, succedendo ad Agostino Galamini, dove rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1652. Molti sono i meriti a lui attribuiti durante gli anni passati nella cittadina, tra i quali i più significativi sono dovuti alla costruzione di due chiese molto importanti, quella dei Padri Cappuccini e quella di San Niccolò, custodita a partire da allora dalle suore clarisse. Tuttavia l’episodio più rilevante per il quale la figura di Verospi è rievocata nella memoria collettiva cittadina, fu la decisione presa nel 1651 di imbiancare le pareti interne della cattedrale di San Leopardo, duomo della città, con l’intento di “disinfettare” il tutto, dato il timore per la diffusione dell’epidemia da colera che stava colpendo il territorio. Il danno storico-artistico fu irreparabile, gli affreschi medievali che ricoprivano le pareti non furono più recuperati, se non in minima parte.

 

Malgrado ciò, il nome di Verospi rimase nel tempo legato a molteplici azioni lodevoli nella storia della diocesi osimana. Le sue origini romane lo rendevano un uomo consapevole della magnificenza del momento artistico in cui stava vivendo, e ciò lo spinse ad occuparsi ed alimentare maggiormente il patrimonio culturale cittadino con una serie di relazioni e committenze, le quali sono tutt’oggi motivo di vanto per città.

 

Fu proprio per l’interesse e l’impegno verso le arti del cardinale Verospi che una piccola e preziosa opera del Bernini è oggi conservata dal Museo Diocesano di Osimo. La paternità di quello che viene oggi chiamato Reliquiario della Santa Croce è stata a lungo dibattuta e contesa fra due importanti nomi: quello dello scultore Alessandro Algardi, sostenitore del rigore e della compostezza del classicismo, e quello di Gian Lorenzo Bernini, eclettica personificazione della cultura dell’epoca. Entrambi sono considerati protagonisti indiscussi del palcoscenico romano del tempo, nonostante le ingenti differenze stilistiche e la profonda rivalità fra i due, accentuata dalla successione papale: fu infatti nel 1644 con la morte di papa Urbano VIII (1568-1644) - indiscussamente filoberninano - che Algardi sostituì Bernini per volere di papa Innocenzo X Pamphilj (1574-1655), inaugurando un decennio trionfale per lo scultore.

 

Grazie all’assonanza del reliquiario con un disegno a penna conservato al Museum der bildenden Künste di Lispia, il quale propone lo stesso schema compositivo, è stata conferita definitivamente l’appartenenza a Bernini, giustificandola inoltre dalla diffusa usanza di altri prelati marchigiani di far giungere nei loro centri importanti testimonianze dell’operato dell’artista romano, alimentando la sua fama anche nella periferia pontificia.

 

Il Reliquiario della Santa Croce

Dal punto di vista prettamente tecnico-stilistico, sebbene il materiale prediletto da Bernini fosse certamente il marmo - al quale riusciva a conferire “l’aspetto di qualsiasi altra materia” - le sue abilità scultoree e di lavorazione si estendevano anche ai metalli preziosi come l’oro, l’argento ed il bronzo, impiegati in questo caso nella realizzazione del prezioso reliquiario osimano.

 

Le sue forme rientrano perfettamente nelle caratteristiche proprie dell’artista romano e in quelle del periodo barocco – a quel tempo all’acme – coniugando la dinamicità degli elementi con la ricerca psicologica dei personaggi, attribuendo notevole importanza alle espressioni dei volti, in grado di coinvolgere emotivamente lo spettatore. Dalla base quadrangolare in bronzo dorato, nella quale è presente un elaborato cartiglio ovale recante l’iscrizione HOC NOSTRA COELUM/TENUIT IN LIGNO SALUS, si eleva una nuvola sviluppata “a ponte” sotto cui spuntano delle teste di cherubini. Su di essa sono posti i due angeli: uno in posizione adorante e con il volto ruotato verso il suo compagno, anch’egli inginocchiato, intento a reggere ed osservare l’alta croce maggiore, la quale presenta all’incrocio una piccola croce d’oro cava destinata a contenere la sacra reliquia della Santa Croce. Anche in questo caso, tipicamente nella maniera di Bernini, i panneggi frastagliati delle vesti increspate sembrano donare la giusta dinamicità alle leggiadre figure con le ali spiegate. Questa particolare dinamicità è alimentata ulteriormente dal gioco di colori – innescato dall’uso dell’argento per la realizzazione delle teste, delle mani e dei piedi, contrapposto all’oro delle vesti e delle ali – e dall’equilibrio fra vuoti e pieni, dovuto all’apertura presente nella nuvola. Purtroppo il reliquiario è stato danneggiato da cause sconosciute: ad oggi l’angelo sulla sinistra presenta le mani mozzate, le quali sono andate disperse. Tuttavia per la città di Osimo è motivo di vanto poter custodire un tanto prezioso oggetto realizzato dalla mano del Bernini, artista poliedrico e multiforme, da considerarsi il massimo esponente della cultura figurativa barocca.

 

 

Le immagini utilizzate sono state scattate dall'autrice.

 

 

Bibliografia

Sgarbi, Da Rubens a Maratta, Le meraviglie del barocco nelle marche, 2. Osimo e la marca di Ancona, Osimo, Palazzo Campana, 29 giugno – 15 dicembre 2013, Cinisello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2013.

N. Cellini, in Algardi, Alessandro, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. 2, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1960.

 

Sitografia

https://www.osimoturismo.it/arte-e-cultura-osimo/museo-diocesano/


POMARANCIO AD OSIMO: LA COMMITTENZA DEL CARDINALE GALLO

A cura di Maria Giulia Marsili

 

 

Antonio Maria Gallo, cardinale e mecenate

Nato probabilmente il 18 ottobre 1553 in una famiglia originaria di Carpi e trasferitasi in quegli anni nell’alta Marca, più precisamente nella cittadina di Osimo, Antonio Maria Gallo fu un importante cardinale e mecenate. Fin da giovanissimo la sua vita venne influenzata dalla protezione del cardinale Felice Peretti, anch’egli marchigiano, divenuto poi Sisto V nel 1585. Il nepotismo in voga in quegli anni diede la possibilità al giovane di ottenere ben presto cariche ed onorificenze: attraverso un rapidissimo cursus honorum, a Gallo venne concessa la porpora nel novembre del 1586. L’anno seguente Sisto V lo nominò protettore del santuario di Loreto, ben presto l’incarico di protettorato del santuario mariano venne subito accompagnato da quello di vescovo della sua città natale, Osimo, che mantenne per 29 anni, a successione del vescovo Fiorenzi. Nella piccola cittadina marchigiana, Gallo fu anche protettore anche della congregazione benedettina dei Silvestrini, fondata dal compaesano Silvestro Guzzolini, dal quale egli si vantava di discendere. Nella sua vita si spostò spesso all’interno dello Stato Pontificio, trascorrendo lunghi periodi a Roma, ma tornando sempre ad Osimo. I suoi funerali, a seguito della morte avvenuta il 30 marzo 1620, si svolsero a Roma nella chiesa del Gesù e la salma fu inumata nella Basilica di Santa Maria in Aracoeli.

 

Pomarancio, il fedele pittore del cardinale

Colui che dalla tradizione venne consacrato come pittore prediletto dal cardinale Gallo fu Cristoforo Roncalli, detto Pomarancio, dal nome del paesino in provincia di Pisa, chiamato Pomarance, nel quale nacque nel 1552. Pur toscano d’origine e romano di formazione, Pomarancio trascorse l’ultima parte della sua vita proprio nelle Marche, motivato dalla committenza lauretana e dalla serie di legami ed impegni nati nella regione. Fra quest’ultimi, di notevole importanza, quelli riguardanti il cardinale osimano.

 

È possibile trovare il preciso punto di congruenza fra il pittore ed il cardinale Gallo nella congregazione degli Oratoriani di San Filippo Neri[1]. In primis, il pittore toscano fu personalmente amico del santo stesso e ciò lo portò ad essere ben conosciuto e stimato da tutta la Confederazione. Inoltre, fu apprezzato da illustri cardinali come Cesare Baronio[2] e Paolo Crescenzi[3]. Lo stesso Gallo ebbe stretti rapporti con questa comunità religiosa, tanto da presiedere addirittura la commissione di beatificazione di San Filippo nel 1615. Dunque è possibile che proprio nel contesto romano il cardinale osimano abbia conosciuto il grande pittore al quale, successivamente, affidò gli affreschi della volta della Sala del Tesoro (detta anche del Pomarancio) e della cupola della Basilica della Santa Casa di Loreto.

 

Pomarancio rimase sempre debitore della protezione concessagli dal cardinale Gallo, tanto da celebrarlo in svariati ritratti (fig. 1). Da quest’ultimi scaturisce quella personalità austera, rappresentata da un carattere non malleabile né gioviale, che distinse la vita del cardinale. Roncalli fu un maestro nel seguire la strada avviata nel secolo precedente da Michelangelo, conferendo importanza al legame fra fisionomia e «moti dell’animo». Nelle vesti cardinalizie troviamo un uomo impostato, dallo sguardo aguzzo e da una ben visibile vigorosità, si noti ad esempio la mano sinistra che stringe con forza il pezzo di stoffa bianco.

 

Palazzo Gallo e il soffitto della sala delle feste

Nel 1612 Antonio Maria Gallo diede il via alla costruzione del proprio palazzo gentilizio nel centro storico di Osimo, la sua città natale. Proprio a quell’anno risale la prima commissione a Pomarancio: una pala raffigurante Santa Palazia, la cui chiesa era stata distrutta proprio per far spazio all’imponente palazzo. Questa prima impresa venne dispersa nel corso delle requisizioni napoleoniche, ma Roncalli venne immediatamente richiamato due anni dopo nel 1614. Il compito in tale seconda occasione fu notevolmente maggiore, l’artista venne convocato per la decorazione del soffitto del salone delle feste del piano nobile di Palazzo Gallo.

 

Risulta interessante riflettere un attimo sulla scelta di Roncalli da parte del cardinale, rispetto al giovane pittore bolognese Guido Reni, molto apprezzato da Gallo. Questa preferenza può essere letta come conseguenza di diversi fattori: per prima cosa Pomarancio era al tempo un artista affermato, con tanto di bottega personale e molta esperienza, all’apice della sua fama e della sua maturità. Inoltre, ciò che desiderava Gallo era avere un pittore fedele che rispecchiasse il suo gusto elitario ed aristocratico, ovvero ciò che non poteva essere Reni: troppo giovane, rivoluzionario e vicino alla pittura di “maniera moderna”. Il suo stile largo ed imponente, reduce del manierismo toscano ed influenzato dal naturalismo caravaggesco, si sposava perfettamente con il gusto elitario e allegorico del cardinale che scelse il tema biblico del Giudizio di Salomone (fig. 2).

 

L’imponente decorazione occupa l’intero soffitto e viene scandita da lacunari con cornici in stucco e oro zecchino, usanza diffusasi notevolmente in epoca sistina e clementina. Il tutto è inoltre ornato da stemmi araldici della famiglia Gallo e del suo benefattore, Sisto V. Il complesso programma iconografico pone al centro dell’attenzione la figura biblica di Salomone, scelto come exemplum identificativo della caratteristica del giudizio, sostenuto essere il miglior aspetto del carattere del cardinale.

 

Brevemente, la vicenda riporta la storia di due prostitute che, vivendo insieme, reclamavano entrambe di essere la madre dello stesso bambino; Salomone decretò che il bimbo venisse tagliato a metà e diviso fra le due contendenti, in modo tale che la vera madre risultasse colei che fosse disposta ad affidarlo alla mentitrice pur di salvarlo. La scena, ambientata in un’imponente architettura classicheggiante, si concentra sul momento in cui Salomone, con un gesto che riprende il Michelangelo della Cappella Sistina, ferma la guardia che sta per compiere la sentenza. Al di sotto della scena vi si legge “PENTRABILIOR OMNI GLADIO ANCIPITI”, citazione dalla lettera di San Paolo agli ebrei in riferimento alla parola di Dio, considerata “più tagliente di qualsiasi altra spada a doppio taglio”. Ai lati dell’episodio principale vi sono le due personificazioni maggiori, identificabili tramite le scritte sottostanti, della Sapienza divina e della Sapienza umana (Divitiarum Domina). Segue poi la vasta gamma di allegorie: il primo pennacchio raffigura la Vanità, interpretata da una donna intenta a specchiarsi con un teschio in mano; al suo fianco la Giustizia, con spada e bilancia. Al di sopra di queste la figura intenta a bruciare le armi è la Pace, mentre la giovane che sta scrivendo la parola “Sacripante”[4] su di una tavola è la Diligenza. Nei due pennacchi posti sui lati corti del rettangolo centrale vi è poi la figura della Fede, riconoscibile dalla croce e dal cartiglio “Diliges Dominum Deum tuum, Ex toto corde tuo”[5] e di un angelo con la cornucopia, forse l’Abbondanza.

 

Il riferimento alla pittura del secolo precedente è continuo: il gusto classicheggiante di tutta la composizione, la sua resa armonica ed il bilanciamento cromatico rimandano ai lavori lauretani messi in standby per l’incarico dato da Gallo. Pomarancio fu in grado di ponderare perfettamente gli insegnamenti raffaelleschi e gli affetti del Barocco al fine di creare una composizione del tutto accurata. Lo storico italiano Luigi Lanzi lo definì “il miglior affresco che facesse” e ne parlò descrivendola come una “opera bellissima e senza difetti”[6].

 

 

 

Note

[1] La Confoederatio Oratorii Sancti Philippi Nerii riunisce le società clericali di vita apostolica di diritto pontificio fondate sul modello della Congregazione dell'oratorio. Essa ebbe origine nella seconda metà del XVI secolo dalla comunità di sacerdoti secolari raccoltasi a Roma attorno a San Filippo Neri.

[2] Cesare Baronio (Sora, 30 ottobre 1538 – Roma, 30 giugno 1607) fu un membro degli Oratoriani di San Filippo Neri e nel 1596 papa Clemente VIII lo innalzò alla dignità cardinalizia.

[3] Pier Paolo Crescenzi (Roma, 1572 – Roma, 19 febbraio 1645) venne elevato a cardinale nel 1611 da papa Paolo V.

[4] Personaggio letterario le cui gesta furono citate da Boiardo e Tasso nelle loro opere.

[5] “Amerai il signore Dio tuo con tutto il tuo cuore” Deuteronomio, 6, 5; Matteo 22, 37.

[6] Da Rubens a Maratta. Le meraviglie nel barocco nelle Marche. 2. Osimo e la marca di Anona, pp. 247.

 

 

Bibliografia

Sgarbi, Da Rubens a Maratta, Le meraviglie del barocco nelle marche, 2. Osimo e la marca di Ancona, Silvana Editoriale, 2013.

Carnevali, La cattedrale di Osimo, Storia, documenti e restauri del complesso monumentale, Silvana Editoriale, 2014.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-maria-gallo_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/felice-peretti/

https://www.treccani.it/enciclopedia/roncalli-cristoforo-detto-pomarancio_%28Dizionario-Biografico%29/


LA CHIESA DEI SANTI MARTIRI AD OSIMO

A cura di Maria Giulia Marsili

 

 

Appena fuori le mura che racchiudono il centro storico della città di Osimo, comune marchigiano nella provincia di Ancona, vi è una piccola chiesa poco conosciuta ma di notevole importanza. Questa è la chiesa dei Santi Martiri, così chiamata poiché eretta nel preciso luogo del ritrovamento dei corpi dei martiri Fiorenzo, Sisino e Dioclezio, uccisi per lapidazione l’11 maggio 304 sotto l’imperatore Diocleziano. Codesta data è ancor oggi rilevante per tutta la comunità cristiana di Osimo, che si ritrova ogni anno di fronte alla piccola chiesa per la commemorazione del martirio. La chiesa, di forma cilindrica, conserva tuttora l’aspetto voluto dal vescovo cardinale Guido Calcagnini1 nella ricostruzione del 1794, come è testimoniato dall’iscrizione a lui dedicata nella lapide posta sulla facciata, a sinistra del portone principale.

 

 

“La prima quasi Cattedrale di Osimo”: la storia della Chiesa dei Santi Martiri osimani

 

La piccola chiesa cilindrica possiede una storia lunga ed articolata. Lo storico Francesco Lanzoni2 nei primi anni del 1900 scrisse al riguardo: “La prima quasi Cattedrale di Osimo fu a Roncisvalle, luogo del martirio di Fiorenzo, Sisino e Dioclezio, durante la persecuzione di Diocleziano (anno 304)”. De facto, la sua storia può canonicamente avere inizio da questo evento, il martirio, dal quale trae origine anche la diffusione della stessa religione cristiana nella città di Osimo.

Fonti ancor più antiche, come i racconti riguardanti la guerra gotica, combattuta fra il 535 ed il 553, citano il luogo del martirio. Viene precisato che Belisario, capo dell’esercito bizantino, raggiunse la città di Auximum nel 539 e ordinò ai suoi di accamparsi vicino ad una fonte, chiamata “magna”, menzionando un “santuario non distante”. Dunque, si può ben pensare che già all’epoca vi fosse la presenza di un luogo di culto.

Nel secolo XI i benedettini, dopo il trasferimento dall’Abbadia di Osimo al rione di Roncisvalle, ingrandirono la piccola chiesa già presente e la dedicarono a San Fiorenzo. La storia vuole che la chiesa fu luogo di passaggio della seconda visita, avvenuta nel 1220, di San Francesco d’Assisi ad Osimo. Si è tramandata da allora la famosa storia della pecorella acquistata dal santo per compassione.

Nei secoli successivi si alternarono altri ordini religiosi come i Domenicani (dal 1286) e i Silvestrini, benedettini istituiti dall’osimano Silvestro Guzzolini, che vi rimasero fino al 1376, anno in cui l’edificio fu danneggiato dalle soldatesche di Francesco Sforza.

Nel 1444, durante i lavori di ricostruzione, vennero ritrovati i corpi dei tre Santi Martiri: le reliquie incustodite vennero portate al Duomo, dove furono sistemate in un altare vicino alla torre campanaria, per volere dell’allora vescovo di Osimo, Andrea da Montecchio. Si dovrà aspettare il 1531 per assistere allo spostamento delle reliquie al centro della cripta nella Cattedrale di San Leopardo per volere del vescovo Sinibaldi.

A quel tempo, poco distante vi era un’ulteriore chiesetta: quella di Santa Maria di Roncisvalle, al cui interno vi era un crocifisso miracoloso dipinto sulla parete. La tradizione vuole che nel 1521 “l’immagine del Santissimo Crocifisso dipinta nella chiesa di Santa Maria di Roncisvalle versò sangue miracoloso”3. L’affresco venne trasferito nell’altare della chiesa di San Fiorenzo, che nel frattempo aveva assunto il nome dei Santi Martiri, dove ancora oggi è situato.

Nel 1751 vennero ritrovate anche le teste degli stessi martiri e furono subito portare in Duomo per essere unite ai loro corpi, traslati tre secoli prima. Le vicende riguardanti le condizioni della chiesa rimangono poi confuse, ma certamente la sua forma attuale risulta essere quella dettata dal vescovo Guido Calcagnini nel 1794. I restauri attuati nel tempo sono stati diversi ed hanno riguardato anche la struttura abitativa adiacente alla chiesa, l’ultimo restauro risale al 1986.

 

 

L’architettura e le opere

 

Come già affermato, la chiesa dei Santi Martiri presenta oggi la struttura del 1794, quella data dall’architetto Antonio Pizzichini su commissione del cardinale Guido Calcagnini. La sua forma geometrica regolare, cilindrica e slanciata in altezza, si inserisce perfettamente nella cultura architettonica diffusa all’epoca, la quale proponeva un neoclassicismo sobrio e preciso. Indirettamente le forme adottate tennero conto degli insegnamenti di quell’architettura rivoluzionaria dei francesi Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux che andava sviluppandosi in tutta Europa.

La costruzione, articolata in un unico vano, presenta una pianta centrale all’interno di un cilindro cavo del diametro di 7,10 m. All’esterno vi sono esposte le due, già citate, lapidi di notevole importanza. La prima, posta alla sinistra del portone principale, come già riferito, ricorda l’opera di ristrutturazione messa in atto da Calcagnini nel 1794. Mentre la seconda, scritta con un dolce latino, invita il viandante alla visita, ricordando le vicende principali che colpirono la chiesa nel corso del tempo.

 

“ Qui, o viandante / al sangue del Crocifisso / al martirio di Sisinio / Dioclezio Fiorenzo / al sepolcro anche / di Massimo / alla pietà di Francesco / verso la pecora / palme rose lacrime cuore / porta offri spargi dona“

 

Si sta parlando del già citato miracolo del crocifisso, del martirio e della seconda visita di San Francesco d’Assisi alla città.

 

 

L’interno appare oggi sobrio e regolare. Le due opere principali che possono essere analizzate sono il celebre affresco del Crocifisso miracoloso, databile agli inizi del 1500 e la tela, di autore ignoto, del Martirio dei santi Sisinio, Fiorenzo, Dioclezio e Massimo.

 

Affresco del Crocifisso, inizi del 1500.

 

L’antico affresco, databile agli inizi del 1500 ed appartenuto alla chiesa di Santa Maria di Roncisvalle, è ora posto come pala d’altare all’interno della chiesa dei Santi Martiri. Protagonista della raffigurazione è Cristo crocifisso: il suo volto, che emana pace e calma interiore, è reclinato sulla destra, verso la figura della Vergine Maria, le cui braccia al cielo comunicano il dolore provato. Alla sinistra vi è san Giovanni, con lo sguardo rivolto verso il crocefisso, intento a portarsi la mano destra verso il viso, ad espressione di stupore. Pur non essendo oggi in condizioni ottimali, l’affresco mantiene ancora quell’aurea sacrale conferitagli dalla tradizione, che lo vede oggetto di miracolo.

 

La seconda opera da analizzare, ovvero la tela, rappresenta un unicum eccezionale. Tuttavia quest’ultima non è stata nel tempo molto studiata e le notizie pervenuteci non sono cospicue.

 

 

L’autore, tuttora ignoto, scelse di rappresentare in forma didascalica il passaggio dal paganesimo al cristianesimo nella città di Osimo. Come exemplum di questa conversione egli scelse la lapidazione dei martiri osimani Fiorenzo, Sisinio e Dioclezio. In primo piano, sulla destra della statua di Esculapio posta al centro della tela, vi sono quattro uomini intenti a lanciare pietre ai tre martiri, Sisinio sulla sinistra, Fiorenzo al centro e Dioclezio sulla destra, riconoscibili dai nomi incisi vicino alle figure. Alla sinistra della statua invece, possiamo notare il martirio di Massimo accompagnato dalle parole “Maximus Romae eadem die caesus, Auximum ad socios translatus” ovvero “Massimo ucciso a Roma lo stesso giorno, fu trasferito ad Osimo presso i compagni di fede”. Nel frattempo, uno squarcio di luce nel cielo torbido accompagna l’arrivo di un angelo salvatore, simbolo di speranza. La scena appare dinamica e ben costruita, l’osservatore è capace di comprendere appieno l’intero svolgimento della storia.

 

L’iconografia del martirio dei santi si è nel tempo diffusa in tutta la città di Osimo, diventando uno dei soggetti ricorrenti. A dimostrare ciò vi è la stampa del medesimo soggetto posta nell’ingresso secondario della chiesa, quello conducente alla sagrestia.

 

 

 

Le foto sono state realizzate dalla redattrice

 

Note

1 Guido Calcagnini, nato a Ferrara nel 1725, venne eletto vescovo di Osimo e Cingoli da Pio VI nel 1776.

2 Francesco Lanzoni (Faenza, 1862 – 1929) è stato uno storico e presbitero italiano. In materie di storia locale ed agiografia, egli si interessò particolarmente allo studio delle origini delle chiese locali e della diffusione del cristianesimo.

3 Parole di Flaminio Guarnieri, appartenente della famiglia Guarnieri, all’epoca custodi della chiesa.

 

 

Bibliografia

Ermanno Carnevali, La cattedrale di Osimo – Storia, documenti e restauri del complesso monumentale, Silvana Editoriale, 2014.

Maria Teresa Fiorio, Il museo nella storia – Dallo studiolo alla raccolta pubblica, Pearson, 2018.

 

Sitografia

Parrocchia Santa Maria della Misericordia

http://www.fratiminoriosimo.it/storia/santi-martiri-osimani/


LA “MADONNA DEL ROSARIO” DI GUERCINO AD OSIMO

A cura di Maria Giulia Marsili

 

 

Introduzione, la chiesa di San Marco Evangelista

All’interno della chiesa di San Marco Evangelista, nel pieno centro storico della piccola cittadina marchigiana di Osimo, si può ammirare una grandiosa pala d’altare che fu commissionata dal vescovo Galamini all’abile pittore emiliano Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666). Si tratta di un vero e proprio gioiello per la città che, nella prima metà del Seicento, poteva vantare un ambiente socio-culturale vivace ed incline alle influenze artistiche di tutta la Penisola centrale.

 

Il committente Agostino Galamini                     

Il committente Simone Galamini, nato nel 1552 a Brisighella, nei pressi di Faenza, nel momento in cui entrò a far parte dell’Ordine domenicano scelse di farsi chiamare fra’Agostino; in onore di Agostino Recuperati, parente da parte di madre, che resse l’Ordine dei Predicatori dal 1539 al 1540. Nel 1608 a Roma venne eletto maestro generale dell’Ordine domenicano: per il suo operato fu molto stimato da Camillo Borghese, ossia Paolo V (1605 – 1621), che lo nominò successivamente cardinale e gli conferì il titolo di Santa Maria in Aracoeli a Roma nel 1611. Nel 1620 fu poi nominato vescovo di Osimo, dopo esserlo stato dal 1613 nelle vicine diocesi di Recanati e Loreto, sempre nell’area dell’alta Marca. Rimase nella cittadina marchigiana fino alla sua morte, avvenuta il 6 settembre 1639, dedicando grande costanza ed attenzione ad ogni aspetto della diocesi.

Degna di nota è la consacrazione della città alla Madonna del Rosario, avvenuta nel 1630, con l’intento di scongiurare la minaccia dell’epidemia di colera che caratterizzò la prima metà del Seicento. Alla sua morte Galamini venne sepolto per scelta con l’abito dei domenicani, in onore della sua vocazione di frate e del suo impegno verso i più deboli, nella cappella del Rosario nella chiesa di San Marco ad Osimo, accompagnato da un epitaffio inciso su di una piccola lapide che egli stesso aveva dettato precedentemente: OSSA FR. AUGUSTINI S: R: E PRESBYTERI CARD. TITULI SANCTAE MARIAE ARACOELI EPI AUXIMATIS[1].

 

Fig. 1 – Interno della chiesa di San Marco Evangelista, Osimo (AN). Foto dell’autrice.

 

La “Madonna del Rosario” di Guercino

Proprio alla trecentesca chiesa di San Marco Evangelista - in passato popolarmente chiamata chiesa della “Madonna del Rosario” in onore della consacrazione - il cardinale rivolse la sua più profonda attenzione commissionando, pochi mesi prima della sua morte, una grandiosa pala d’altare a Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (1591-1666). L’artista era ai tempi molto
conosciuto ed apprezzato in tutta l’alta Marca, verosimilmente Galamini venne sollecitato nella sua scelta dall’amico e nobile pittore maceratese Sforza Compagnoni.

 

La pala raffigurante la Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina da Siena si trova ancor oggi sull’altare maggiore della suddetta chiesa, ma il Galamini non vide mai la sua realizzazione ultimata. All’interno della Biblioteca di Osimo è conservato il primo documento riguardante la commissione della pala datato 20 giugno 1640[2], data successiva alla morte del vescovo. Un ulteriore documento, dell’ottobre dello stesso anno, ricorda la visita personale dell’osimano Camillo Talleoni, in servizio con una guarnigione nei pressi dello studio del Guercino a Cento, motivata dalla curiosità di vedere i primi disegni per la pala. Di fatto si hanno notizie riguardo due disegni preparatori, uno conservato al Teylers Museum di Haarlem e l’altro nella collezione reale di Windsor Castle.

 

Spostandosi sull’aspetto tecnico dell’opera, secondo la composizione classicista pone al centro della composizione le figure della Madonna e il Bambino, le quali, con lo sguardo rivolto verso il basso, porgono contemporaneamente i rosari alle figure di due santi facilmente identificabili come San Domenico e Santa Caterina da Siena, riconoscibile dall’attributo del giglio, simbolo di purezza. Dietro i due santi si apre una folla di religiosi inginocchiati, come le due donne alla sinistra di San Domenico, riconoscibili come Santa Tecla e Santa Palazia.

 

Lo storico dell’arte Denis Mahon (1910-2011), grande studioso del Guercino, ha sostenuto a gran voce la tesi secondo cui quest’ultime due figure siano di mano diversa, in questo caso del fedele collaboratore dell’artista Bartolomeo Gennari (1594-1661). Non solo, anche tutti gli elementi floreali, come i gigli in primo piano e le rose sparse dagli angioletti nel piano superiore, sono attribuibili alla mano di Paolo Antonio Barbieri (1603-1649), fratello del pittore appena citato. Tali notizie testimoniano il modus operandi del Guercino, il quale era solito avvalersi dell’aiuto da parte degli altri artisti della sua bottega. Nel complesso l’intervento, in questo caso devozionale, si può anch’esso definire “guerciniano” dato l’uso di colori accesi, come l’azzurro della veste della Vergine, tipico della fase matura dell’artista emiliano. Ai lati dell’opera vi è una cornice composta da quindici ovali in stucco dorato di scuola marchigiana, rappresentanti i quindici misteri della preghiera del Rosario: gaudiosi, dolorosi, gloriosi.

 

Fig. 2 - Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino, Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina da Siena, 1640-1642, olio su tela, 336,5 x 235,5 cm, Osimo (An), chiesa di San Marco Evangelista. Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Guercino_-_Madonna_del_Rosario_con_San_Domenico_e_Santa_Caterina_da_Siena,_1642.jpg.

 

 

 

Note

[1] Trad. dal latino: “Le ossa di fra’ Agostino cardinale di Santa Romana Chiesa dell’Ordine dei Preti del titolo di Santa Maria in Aracoeli vescovo di Osimo”.

[2] Barucca, 2015, p. 122.

 

 

Bibliografia

Rivabene, Galamini, Agostino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 51, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1998 < https://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-galamini_%28Dizionario-Biografico%29/ >.

A cura di Vittorio Sgarbi, Da Rubens a Maratta, Le meraviglie del barocco nelle marche, 2. Osimo e la marca di Ancona, Silvana Editoriale, 2012.

Ermanno Carnevali, La cattedrale di Osimo – Storia, documenti e restauri del complesso monumentale, Silvana Editoriale, 2014.

 

Sitografia

https://www.turismo.marche.it/en-us/what-to-see/tourist-attractions/Chiesa-di-S-Marco-Evangelista/1098