PINO PASCALI: L’ARTE POVERA IN PUGLIA

A cura di Stefania Pastore

Introduzione: l'Arte Povera

Oltre all'importantissimo lascito artistico antico e medievale che la Puglia offre, ci sono anche preziose testimonianze di arte contemporanea; uno degli esempi più eclatanti è Pino Pascali. È considerato, ad oggi, uno dei più grandi artisti contemporanei pugliesi del ‘900: scultore, pittore, illustratore e grafico, performer, è conosciuto a livello internazionale come esponente dell’Arte Povera. Questa corrente artistica nasce negli anni ’60 in Italia, nel periodo del grande boom economico successivo al dopoguerra: il felice momento di sviluppo industriale l’avrebbe portata, infatti, ad essere una delle nuove potenze del mondo. La società diventava sempre più consumistica sul modello statunitense, la tecnologia sempre più avanzata. In questo clima di cambiamento si sviluppa l’Arte Povera, che rifiuta la società dei consumi, attribuendo invece valore al singolo oggetto: il linguaggio creativo utilizza infatti materiali elementari assemblati in maniera semplice, che puntano a rendere l’opera d’arte un’esperienza sensibile. L’artista poverista utilizza gesti semplici propri dell’artigianato per focalizzare l’attenzione sul rapporto tra l’essere umano e la sua azione concreta, motivo per cui spesso predilige la performance come espressione artistica. La prima mostra di Arte Povera, intitolata “Arte Povera e Im Spazio”, si ebbe nel 1967 nella galleria “La Bertesca” di Genova. A cura del critico d’arte Germano Celant, ospitava diversi artisti, tra i maggiori esponenti della corrente: Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Emilio Prini e Pino Pascali.

Pino Pascali: la vita

Pino Pascali nasce a Bari da genitori di Polignano a Mare il 19 ottobre del 1935 e muore a soli 33 anni, a Roma, a seguito di un tragico incidente in moto. La sua breve vita è costellata di successi artistici. Punti cardine della sua visione artistica sono le forme primarie e mitiche della cultura e della natura pugliese come il mare, la terra, i campi, gli attrezzi e i riti agricoli, che lui mette in connessione con il mondo infantile.

Le opere

Le prime opere di Pino Pascali appartengono al ciclo "dei Guerrieri”, con cui realizza armature in scala impastando bitume, ferraglia e altri oggetti di recupero per ottenere effetti materici e realistici. Come grafico realizza pubblicità per la RAI, e celebri sono diventati i suoi caroselli e i suoi personaggi per la pubblicità dell’Algida. All'inizio degli anni ’60 realizza una serie di opere scultoree che ritraggono il corpo femminile, costruite con stoffe e legno, traendo ispirazione da un altro grande e innovativo artista italiano contemporaneo, Alberto Burri. A partire dal 1965 si dedica alla realizzazione delle armi giocattolo: riproduzioni di armi a grandezza naturale, assemblate con materiale di riciclo, pensate per uno scopo ludico. Queste finte armi nascono dalla personale riflessione dell’artista sulla guerra in Vietnam e su quella in Albania, vissute in prima persona: tutte le opere di questo ciclo vengono presentate nel corso di una performance in cui Pascali si traveste e "gioca" con le armi.

Un altro importante ciclo è quello delle “finte sculture”, ovvero sculture di animali preistorici, teste e code di animali marini, realizzate a grandezza monumentale. Questi soggetti emergono dalle pareti o dai pavimenti reinterpretando lo stesso concetto di scultura perché, pur essendo monumentali nelle dimensioni, rimangono leggerissime essendo opere vuote al loro interno, realizzate con i soliti materiali di recupero. Anche in questo ciclo ritorna preponderante la Puglia, non solo per i soggetti rappresentati, ma anche per la colorazione bianca utilizzata che inevitabilmente richiama il romanico pugliese.

Uno dei contribuiti più significativi di Pino Pascali è quello dato all'arte ambientale. Fu infatti uno dei primi artisti a introdurre l’acqua in una mostra, proponendo un’apertura verso la realtà in cui lo spazio architettonico dell'esposizione veniva utilizzato per inserire elementi propri della natura, producendo un effetto spiazzante nello spettatore che metteva in crisi la propria percezione spazio temporale. I caratteri della civiltà contadina si ritrovano nei “Campi arati”, nei “Canali d’irrigazione”, in “1 mc di terra”. L’acqua soprattutto è l’elemento primario che affascina Pascali da sempre, riportandolo sempre alla Puglia. Ricostruisce il suo mare in vaschette di zinco, ognuna delle quali contiene una sfumatura diversa del colore del mare.

Ad esempio in “32 mq di mare circa” usa vasche di zinco riempite di acqua colorata all’analina con toni degradanti, portando per la prima volta l’acqua in una mostra. L'intensa produzione artistica di Pino Pascali continua nel 1968 con le opere della serie “Bachi da setola”.

Con strutture rivestite di setole di materiale acrilico dai colori sgargianti (che richiamano il comune strumento per spolverare), realizza bachi e ragni giganti. Questi perdono le loro caratteristiche più spaventose e diventano dei giocattoli formato gigante, come testimonia una famosa performance dello stesso artista. Nello stesso anno però, all'apice della sua carriera, Pino Pascali muore.

La produzione artistica di Pino Pascali

La sua vasta produzione artistica è oggi conservata in alcuni musei italiani ed internazionali. La maggior parte è a Roma alla GNAM, Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Menzione a parte merita la Fondazione Pino Pascali a Polignano a Mare, sua città natale. Nel 1998, grazie ad alcune donazioni della famiglia Pascali, nasce il museo che dal 2010 diviene Fondazione: oltre ad ospitare alcune opere particolarmente significative dell’artista, conserva alcune opere di artisti pugliesi vincitori del premio Pino Pascali. La Fondazione è situata in un ex mattatoio ristrutturato a Polignano a strapiombo sul mare, esattamente la casa che Pascali avrebbe sempre sognato.

 

Bibliografia

Lista Giovanni, Arte povera, Milano, Five continents editions, 2006

Poli Francesco, Minimalismo arte povera arte concettuale, Bari, Laterza, 1995

Poli Francesco, Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 a oggi, Milano, Electa, 2003

 

Sitografia

https://www.museopinopascali.it/

https://www.archiviopinopascali.org/


LA CATTEDRALE DI GIOVINAZZO

A cura di Stefania Pastore

Frammenti di epoche da scoprire

La posizione

La cattedrale di Giovinazzo (BA), dedicata a Santa Maria Assunta, come consuetudine sorge in riva al mare, nel nucleo antico della città, per avere protezione naturale, per essere di buon auspicio e per essere punto di riferimento per i naviganti. L’attuale chiesa nasce laddove vi era quella di Santa Maria dell’Episcopio, che fu abbattuta lasciando spazio alla nuova, la quale a sua volta ha subito numerose ristrutturazioni nel corso dei secoli. Tali rifacimenti hanno fatto sì che la facciata conservi parti dell’originale stile romanico pugliese che poco si distaccava dalla tipologia della Basilica Nicoliana a Bari, mentre l’interno sia stato completamente adeguato allo stile barocco.

La cattedrale ha l'ingresso principale sul fronte meridionale, il portale principale è sopraelevato rispetto alla strada ed è riccamente ornato e sormontato da un timpano. Tutta la facciata prevede una successione di archi incrociati, che rimandano al gusto arabo-siculo. Sulla facciata meridionale primeggia un rosone settecentesco con sei figure zoomorfe e una grande bifora sottostante.

Le due torri absidali, superstiti del retaggio medioevale, caratterizzano il panorama del centro storico della città.

All'interno la chiesa è a tre navate suddivise da pilastri in muratura, con ampio transetto, tre cappelle laterali per lato, ed ampio altare maggiore. Le volte della navata centrale sono decorate a lacunari con richiami rinascimentali.

I rifacimenti subiti dalla cattedrale di Giovinazzo

La costruzione medioevale sopra i resti dell’antica chiesa risale al periodo Normanno grazie alle cospicue donazioni della principessa Costanza. L’avvio della costruzione si colloca agli inizi del XII secolo, invece nel 1283 si ha la consacrazione da parte del vescovo Giovanni.

I numerosi restauri che interessano la chiesa iniziano già nel 1399, seguiti, nel 1429, da interventi più incisivi a causa di un terremoto. Nel XIV sec. venne costruito l’adiacente palazzo vescovile affiancato alla facciata nord, collegato alla chiesa dal portale. Il complesso fu poi arricchito nel XVI sec. da una cappella e una sacrestia, sempre sul fianco nord.

Gli interventi più significativi si ebbero nel XVII sec. sia per esigenze strutturali, sia per adeguare la chiesa alle nuove esigenze liturgiche, e determinarono il cambiamento più radicale della struttura della cattedrale. Tali cambiamenti si ebbero sotto il vescovado di Giacinto Chiurlia prima, e Paolo de Mercuzo poi: furono ricostruite le navate, il timpano venne interrotto dalla costruzione della nuova parte che permise l’allargamento della chiesa per consentire l’inserimento di nuove cappelle. Questi interventi furono ampiamente criticati, e infatti a partire dal 1892 fu fatta una campagna di lavori per il restauro mimetico della facciata e della cripta. Fino al Seicento, infatti, la cattedrale veniva descritta come un organismo a tre navate suddiviso da colonne marmoree alternate a pilastri, di cui la navata centrale aveva falsi matronei e capriate. Di questi elementi, la maggior parte era stata coperta con i restauri settecenteschi.

Gli ultimi massicci restauri tra il 1981 e il 1990 hanno riportato alla luce elementi medioevali.

Le preziose decorazioni interne

Della originaria struttura medioevale della cattedrale di Giovinazzo è possibile osservare, ad oggi, l’impianto a tre navate con absidi e torri, il transetto in cui con i restauri del XX sec, sono emersi frammenti di un antico mosaico e la cripta.

Vale la pena soffermarsi sulla decorazione musiva in quanto non ha confronti con altri pavimenti musivi pugliesi ma piuttosto, secondo alcuni, trova corrispondenze con esempi di ambito padovano. I pochi frammenti pervenutici del mosaico non ci permettono di comprendere il programma iconografico che probabilmente comprendeva un registro narrativo continuo. Osservazioni più certe sono relative alle figure dei due guerrieri nell'area antistante l’altare, che dal colore scuro dei corpi e dagli scudi di forma circolare è plausibile indicare come Saraceni. Un altro frammento è quello nel braccio destro del transetto, dove si distingue una figura umana con un bastone. Questa figura è separata, da una doppia linea continua, da una figura zoomorfa, forse un leone. Anche nel coro ci sono resti del mosaico con decorazioni a fasce parallele all'asse principale dell’edificio, e tessere di pietra calcarea di varie dimensioni disposte con trame geometriche. Gli ultimi frammenti rinvenuti sono quelli sotto il muro di contenimento dell’altare maggiore che raffigurano, entro tre rotae, un guerriero con la spada e lo scudo, un animale con sembianze ferine, mentre del terzo tondo si vede solo la cornice.

Di matrice medioevale è anche la cripta. Questa presenta quindici volte a crociera, poggianti su 10 colonne in marmo e 12 pilastrini che sporgono dai muri perimetrali; le chiavi di volta al centro delle crociere hanno prevalentemente motivi floreali. Solo due sono però originali del medioevo e riproducono la testa di un uomo e di un leone di fattura bizantina. Purtroppo sia le colonne che i rispettivi capitelli risultano notevolmente danneggiati a causa di restauri che hanno utilizzato lo stucco per ricoprire precedenti decorazioni e per l’azione erosiva della salsedine.

All'interno della cattedrale di Giovinazzo sono di notevole pregio le decorazioni della cona, della balaustra, del cancello in ottone e del pavimento marmoreo, tutti disegnati dall'ingegnere Gennaro Sanmartino, fratello del celebre Giuseppe Sanmartino scultore napoletano. A questi si aggiunge la decorazione scultorea dell’altare con due angeli reggi-fiaccola e il gruppo della Gloria del Sacramento, che sostituisce nella tipologia usuale il solito dipinto. Con l’epoca del Barocco, la cattedrale fu interamente rivestita nell'abside e nel catino da rispettivamente nove e tre tele, opere del pittore Carlo Rosa famoso per la decorazione del soffitto della Basilica di S. Nicola a Bari.

Di grande prestigio è anche l’organo settecentesco. Questo, ad oggi, sostituisce quello preesistente cinquecentesco. L’organo settecentesco fu fatto realizzare dal vescovo Gaetano Chiurlia, ma rimane ancora sconosciuto l’autore. Dai carteggi ritrovati, però, si può supporre che del complesso progetto realizzato da Gaetano Barba sia stata realizzata solo una parte. Infatti, secondo recenti ipotesi, la cassa lignea dell’organo pare risponda al progetto affidato al mastro intagliatore Saverio La Pegna. Grazie ad una sapiente scelta compositiva, la preesistente struttura si integra armoniosamente con la nuova mostrando uno schema di curve contrapposte e sovrapposte che richiamano la matrice borrominiana.

 

Sitografia

http://www.medioevo.org/artemedievale/Pages/Puglia/Giovinazzo.html

http://www.parrocchiemolfetta.it/concattedralegiovinazzo/cenni-storici/

https://www.mondimedievali.net/Artemedievale/pavimenti/giovinazzo.html

http://win.comune.giovinazzo.ba.it/public/turismo/chiese2.asp?chiesa=cattedrale

 

Bibliografia

Cassano R., Pasculli Ferrara M., Fonseca C. D., Mola S., Cattedrali di Puglia, Mario Adda Editore, Bari, 2001

Bianco R., La cattedrale di Giovinazzo, in Medioevo: l’Europa delle cattedrali, a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Electa, Milano, 2007

De Ceglia D. , Magarelli G., L’organo della cattedrale di Giovinazzo, in Fogli di Periferia, anno XXV, 2013, n. 1-2


LA CHIESA DI SANTA TERESA A GALLIPOLI

A cura di Stefania Pastore

Introduzione

La chiesa di Santa Teresa rappresenta uno dei tanti esempi di Barocco leccese, uno di quelli non troppo conosciuti perché situata nella città di Gallipoli, nota meta turistica estiva nel Salento per divertimenti giovanili, spesso sottovalutata dal punto di vista artistico. La città, infatti, offre numerose testimonianze storiche perché affonda le sue radici in un passato lontano, risalente al 1000 a.C., e ha visto nel corso dei secoli la dominazione di diverse etnie.

Fig. 1

La chiesa di Santa Teresa: la struttura

La chiesa di Santa Teresa vede la sua costruzione, insieme al Monastero delle Carmelitane scalze, tra il 1687 e il 1690 a cura del vescovo Perez de la Lastra. A discapito dell’interno barocco, l’esterno è molto lineare e conta due ingressi, di cui quello principale è sovrastato dalla statua di Santa Teresa con una lunga epigrafe che narra della nascita della chiesa, mentre l’altro ingresso presenta lo stemma dell’ordine dei Carmelitani scalzi.

L’interno è costituito da un’unica navata che conta ben quattro altari in stile barocco, di cui tre in pietra e il quarto marmoreo. Sul lato destro della navata, rispetto alla porta principale, vi sono la tela di S. Agostino e di S. Ignazio di Loyola, attribuita alla scuola leccese del pittore Antonio Verrio, sull'altare più vicino all'entrata, mentre sull'altro altare la tela dell’Immacolata insieme ai santi Giovanni Evangelista e Luigi Gonzaga. Sul lato sinistro della navata si trova l’altare con la tela di S. Maria Maddalena e quello con la statua lignea di S. Teresa del Bambino Gesù. Inoltre, sempre sul lato sinistro, la chiesa custodisce il busto in onore del vescovo De la Lastra, sepolto sotto l’altare maggiore. Sulla cantoria del presbiterio è collocato l’imponente organo settecentesco, attribuito al maestro organaro pugliese Carlo Sanarica.

Fig. 2

L’altare maggiore

Il maggiore degli altari, sempre in pietra, era dedicato all'Immacolata. Tuttavia, già dal 1753 si ebbe la necessità di inserire nella grande struttura lapidea, che già accoglieva la tela con la Sacra famiglia, un altare marmoreo. L’opera fu commissionata ad Aniello Gentile, famoso maestro napoletano marmoraro. Egli sfrutta al massimo le potenzialità della chiesa, trasformando il tabernacolo in una quinta scenica. Fedele alla tradizione dei maestri marmorari napoletani, Gentile scolpisce bouquet di gigli nei pilastri dell’altare, putti capi-altare che riprendono quelli dell’altare del Sacramento a Brindisi. La tradizione napoletana della lavorazione dei marmi vede il suo apice nella prima metà del ‘600 con Cosimo Fanzago a Napoli, per poi diffondersi nelle province del Meridione e in alcune della Spagna, in maniera più capillare, nel ‘700 con l’affermarsi del gusto per l’altare marmoreo.

Fig. 3

La storia della chiesa di Santa Teresa

La chiesa vede la sua intitolazione a Santa Teresa di Lisieux, altrimenti conosciuta come Santa Teresina per distinguerla da Teresa d’Avila. Teresa di Lisieux fu dichiarata Santa proprio a seguito di un miracolo accaduto a Gallipoli nel 1910, miracolo che permise alla chiesa di continuare a sopravvivere. Nel 1861, infatti, fu emanata una legge con cui si stabiliva che molti beni ecclesiastici, soprattutto meridionali, fossero espropriati e soppressi. Tra questi vi era anche il monastero delle Carmelitane di Gallipoli con l’annessa Chiesa. Questo negli anni si era mantenuto economicamente grazie ai contributi della facoltosa gallipolina Ida Piccinno, poi diventata priora del monastero con il nome di madre Carmela. Nel 1909, come testimoniano i libri dei conti, la chiesa si trovava economicamente in passivo per trecento lire. Madre Carmela decise, così, di rivolgersi alla beata Teresa (non ancora diventata Santa) con un ciclo di preghiere.

La priora aveva conosciuto la Santa grazie ad una sua biografia, nota con il nome “Storia di un’anima”, che le era stata donata dalla priora delle suore Marcelline di Lecce. Poco prima della fine del triduo, quando madre Carmela era a letto a causa di una pleurite, avvenne il miracolo: le apparve in sogno Teresa di Lisieux, la quale la invitava a recarsi presso la cassetta delle offerte perché lì avrebbe trovato ciò che le occorreva. Infatti madre Carmela trovò le cinquecento lire promesse. Questo fatto prodigioso permise di avere dati sufficienti alla beatificazione prima, e alla canonizzazione poi, della Santa. che avvenne nel 1925 ad opera di papa Pio XI.

Nel 2010, in occasione del centenario del miracolo della Santa, è stata esposta l’urna di Santa Teresa a coronare un ciclo di manifestazioni ed eventi.

 

Sitografia

http://www.cattedralegallipoli.it/il-monastero-di-s-teresa/

http://www.salento.info/1975-chiesa-santa-teresa-in-gallipoli-storia-miracoli/

http://www.parrocchiascalzibari.it/index.php?option=com_content&view=article&id=186:centenario-del-miracolo-di-santa-teresina-a-gallipoli&catid=57:santi-carmelitani&Itemid=78

http://www.ilcomuneinforma.it/viaggi/2031/il-miracolo-di-santa-teresina-a-gallipoli/

http://www.centrossannunziata.it/index.php?option=com_content&view=article&id=21:monastero-di-gallipoli-a-lecce&catid=19&Itemid=149

Bibliografia

Pasculli Ferrara M., L’arte dei Marmorari in Italia meridionale, De luca editori d’arte, Roma 2013.


LA MADONNA DEI MARTIRI A MOLFETTA

TRA ARCHITETTURA E FOLKLORE

La Basilica della Madonna dei Martiri a Molfetta, città balneare in provincia di Bari, è stata intitolata alla compatrona della diocesi di Molfetta a partire dal 1951 con la Bolla pontificia del papa Pio XII.

La chiesa è stata elevata a Basilica Pontificia nel 1987, proclamato anno Mariano da Giovanni Paolo II, ma affonda le sue radici in un passato molto più lontano.

Partendo dalla stessa intitolazione della Madonna, “Dei Martiri”, si può facilmente ricostruire un passato importante per la comunità molfettese: nella città esisteva infatti un complesso costituito dal Monastero della Carnaria, che insieme allo Spedale dei Crociati, così erroneamente definito a causa di trascrizioni errate, dava rifugio a pellegrini denominati martiri per estensione del significato del termine, perché questi morivano in nome della fede. Infatti, il pellegrinaggio non era solo una cammino di fede, ma portava inevitabilmente disagi, difficoltà, penitenze, astinenze, digiuni, facili motivi di morte.

Il santuario della Madonna dei Martiri a Molfetta costituiva un passaggio obbligato tra i due poli più importanti dell’itinerario di pellegrinaggio pugliese: la grotta dell’Arcangelo nel Gargano e la basilica di San Nicola a Bari. Esso infatti, svolgeva soprattutto funzione di ricovero per i più poveri come la maggior parte degli ospizi e degli ospedali, lungo le vie di pellegrinaggio. Nobili e benestanti invece, alloggiavano in case private appartenenti ad amici o familiari o si facevano costruire dei ricoveri. La maggior parte degli ospizi era sotto la protezione della Madonna della pietà o della Misericordia, quasi sempre accompagnati da un piccolo cimitero che dava sepoltura a pellegrini o crociati di passaggio. Questo titolo mariano compare sempre più spesso, in accordo con un concetto di maternità, protezione, verso poveri, sofferenti ed umili, iconograficamente rappresentato da una Madonna con grande mantello che avvolge tutti.

Non esiste una leggenda di fondazione del santuario della Madonna dei Martiri, tuttavia le fonti storiche fanno risalire la messa in opera di un ospizio per i Crociati e una cappella, verso la fine dell’anno Mille, a Ruggero il Guiscardo, a cui solo in seguito sarebbe stato aggiunta la chiesa.[1]

Il primitivo tempio, voluto da Guglielmo I re di Sicilia, fu costruito laddove ancora oggi si trova, in riva al mare. Era formato da una sola navata sormontata da due cupole gemelle, di cui oggi ne rimane solo una che occupa l’attuale abside.

Nel 1700 fu aggiunta una nuova cupola, dietro l’altare maggiore dove oggi si trova il coro. Gli studi condotti fino a questo momento, non sono riusciti a ricostruire con precisione l’architettura della Chiesa, nonostante gli scavi del 1987 su tutta l'area di ponente, alla ricerca di fondazioni precedenti. Secondo la tradizione locale, la pianta è da ricondurre alla seconda metà del XII secolo (1162), quando cioè il Vescovo di Ruvo Ursone (1162-1163) avrebbe consacrato la prima pietra della Chiesa romanica di S.Maria per volere di Guglielmo I, re di Sicilia.

È possibile ricostruire l'aspetto della Chiesa della fine XI secolo ed inizio del XII, comprensiva di campanile e cappelle, seguendo un manoscritto della Visita parrocchiale di Mons. Pompeo Sarnelli oggi proprietà dell'Archivio di S.Maria. La chiesa, così composta, venne distrutta nel XIX secolo per costruire quella che oggi vediamo. Il manoscritto descrive la presenza di una torre forse preesistente alla Chiesa romanica, che aveva funzione di difesa e che fu adibita anche ad uso liturgico. Vi è descritto anche un piccolo giardino con una fontana che oggi è stata ricoperta, senza permetterne più la localizzazione. Il complesso, fin da questo momento, doveva assolvere a diverse funzioni, quali: dimora degli ecclesiastici, degli inservienti, residenza vescovile estiva o alternativa, foresteria per personaggi di rilievo, struttura ricettiva per i devoti della Vergine, per forestieri e pellegrini.[2]

La fisionomia e la destinazione della chiesa così delineate, non subirono cambiamenti di rilievo fino al secolo XIII. Con il Vescovo Filippo del Giudice Caracciolo (1785-1844) e con l’insediamento dei Padri Riformati, si desiderò costruire un nuovo edificio, molto più grande, demolendo il precedente. Il culto della Regina dei Martiri aveva infatti visto un esponenziale incremento presso la comunità molfettese.

Infatti, diverse sono le testimonianze degli storici locali che attribuiscono miracoli individuali e collettivi alla Madonna dei Martiri, in occasione di pestilenze, terremoti o invasione nemiche.

Ad esempio, Anselmo Adorno, influente genovese in Puglia, alla fine del 1470, narra di un prete di Barletta che aveva vissuto in prima persona uno di questi miracoli: una nave era stata colpita da una tempesta e il proprietario, volendo salvare il suo equipaggio, promise alla Madonna dei Martiri metà della nave, già colpita dalle intemperie. Pronunciato il voto apparve la Madonna, l’equipaggio si salvò e la nave giunse in salvo a Corfù.

Un altro evento miracoloso risale al 1485 quando i Turchi invasero la città, mettendo a ferro a fuoco la cappella della Madonna. L’immagine sacra però rimase indenne e i Turchi, adirati per l’accaduto, saccheggiarono la chiesa. La Madonna intervenne e non permise alla nave, carica di bottino, di prendere il largo. I turchi atterriti furono costretti a sbarcare e a riconsegnare tutto ciò che era stato depredato.

Un evento salvifico, decisivo per l’affermazione del culto mariano si ebbe nel 1530, quando la città fu assediata dall'esercito francese. La Madonna apparve sopra le mura, disorientando i soldati e mettendoli in fuga. Questa apparizione permise alla città e ai cittadini, di rimanere incolumi e perciò la popolazione fece voto di celebrare l’11 maggio, ogni anno.

Diversi sono poi i miracoli individuali frequentemente concessi dalla Madonna dei Martiri, quali guarigioni di storpi, ciechi, muti, lebbrosi, partorienti in pericolo di vita, ecc. A Lei, i malati o i loro parenti, facevano voto oppure lasciavano un opulento dono per omaggiarla della grazia ricevuta.[3]

LA MADONNA DEI MARTIRI A MOLFETTA: ARCHITETTURA DI FEDE

Tornando all'aspetto architettonico della chiesa, in epoca neoclassica presentava tre navate, l'Altare Maggiore col quadro della Vergine, il Coro, due cappelle laterali, quella del Rosario e del Santo Sepolcro e cinque altari secondari.

Il concretizzarsi dell’attuale composizione architettonica della basilica, si ebbe intorno al 1851 quando si procedette a rivestire l’interno di stucchi, a seguito degli interventi strutturali che resero la basilica più grande.[4]

L’odierna basilica ha tre navate, con due ordini di colonne. La navata centrale è a tutto sesto decorata con rosoni esagonali incassati, quelle laterali invece presentano delle volte con decorazioni in stucco. Sulla porta di ingresso è posizionata la tribuna con l’organo monumentale.[5]

L’attuale organo sostituisce quello seicentesco del quale, dal 1937, si sono perse le tracce. Le uniche informazioni di cui siamo in possesso, sono quelle derivanti da una visita pastorale effettuata nel 1699, dal vescovo di Bisceglie (BAT) Pompeo Sarnelli, il quale descriveva un organo monumentale in ottone, nella cantoria sull’ingresso principale della basilica, che riportava una iscrizione con il nome del donatore, Francesco Coloredi, e la data, 1680.[6]

Continuando la descrizione dell’odierno santuario, proseguiamo verso le pareti laterali. Su di queste, sono collocati cinque altari in marmi policromi sui quali vi sono opere d’arte contemporanee e antiche. Tra queste possiamo ricordare le tele di G. Porta, “Il transito di S. Giuseppe”, “L’ Adorazione dei Magi, “, “la Visitazione di Maria”.

Celebre è anche l’olio su tela appartenente alla tipologia della Madonna con Bambino, attorno al quale vi sono diverse leggende. Presumibilmente l’opera sarebbe giunta a Molfetta, intorno al 1188 grazie ai Cristiani che avevano combattuto in Terra Santa e che l’avevano sottratta agli infedeli, lasciandola in custodia al santuario in cambio dell’ospitalità ricevuta. Secondo una credenza popolare invece, il quadro sarebbe stato ritrovato in mare da alcuni pescatori locali. Questi, gioiosi per il ritrovamento, vollero donarlo a qualche chiesa della città, ma sulla via del ritorno, si imbatterono in un vascello di Mussulmani, con i quali ingaggiarono battaglia per il possesso dell’opera sacra. Gli avversari se ne impadronirono, ma mentre facevano ritorno alle loro terre, improvvisamente le acque del mare si ritrassero facendo inabissare il vascello. Giorni seguenti i marinai molfettesi, tornarono nel luogo di ritrovamento dell’opera e la pescarono ancora una volta. Riuscirono finalmente a portarla nel santuario della Madonna dei Martiri dove si trova tutt’ora.

Un’altra leggenda legata alla Madonna con il Bambino, vuole invece che essa sia stata dipinta da San Luca in persona, perché del tutto simile all’immagine di Santa Maria Maggiore di Roma. La verità d’altronde, potrebbe essere che sia una imitazione di un originale più antico. Il quadro comunque, nel XVI sec. fu fatto restaurare e abbellito da una cornice d’argento, dall’allora vescovo.[7]

Secondo gli storici, più verosimilmente, l’icona della Madonna dei Martiri fu dipinta, secondo alcuni, su una tavola di cipresso alla maniera greca, per altri, ad olio su un supporto ligneo di cedro. Misura cm 100 x 66 e presenta i due soggetti principali al centro della scena: la Vergine Maria e il Divino Bambino che si stringono in un tenero abbraccio. Sul fondo, negli angoli, compaiono due soggetti marginali ovvero due teste di angeli nimbate.

Maria è rappresentata a mezzobusto, sorregge con il braccio sinistro il Bambino e lo stringe a sé, mentre con la mano destra, poggiata sul petto, sembra volerlo “mostrare” e indicarlo come vera via per la salvezza (tipologia dell’Odegitria). La Vergine tocca con la sua guancia quella del Figlio che risponde in un abbraccio verso la Madre. Va sottolineato come i colori scelti per le tuniche dei personaggi, abbiamo dei precisi scopi iconografici. Il piccolo Gesù indossa una tunica rosso-porpora, colore che ne sottolinea la divinità. Alle sue spalle è possibile notare un lembo della veste che pende verso il basso a significare l’effusione della Grazia Divina, da parte del Cristo, su tutta l’umanità. Anche la Vergine indossa una tunica rosso-porpora e completa il suo abbigliamento avvolgendosi in un manto di un colore blu scurissimo, bordato d’oro. La tunica della Madre di Dio, infatti, è rosso-porpora a indicare la Sua divinità, il blu scuro del manto sottolinea la sua natura umana, mentre le bordature dorate stanno a indicarci la luce sovrannaturale che la avvolge.[8]

All’interno della Basilica della Madonna dei Martiri, come precedentemente spiegato, sono presenti cinque altari in marmi policromi. Di questi, il maggiore, presenta un paliotto in argento. Grazie alle testimonianze pervenuteci, sappiamo he questo fu commissionato a maestranze napoletane intorno al 1669, spendendo una cifra importante che fu raggiunta grazie a prestiti dell’allora Università molfettese.[9]

Di maestranze napoletane, risulta essere anche la splendida statua del Cristo Morto, opera in marmo della scuola di Sannmartino, celebre autore del Cristo Velato. Questa è collocata all’interno dell’antica cappella dell’Annunziata, e costituisce una copia esatta dell’Anastasi di Gerusalemme. La costruzione della cappella è imputabile al XVI sec. commissionata dall’illustre famiglia Lepore. Sulla mensa dell’altere dedicato al sepolcro di Cristo, fino alla fine del Seicento, vi era una statua lignea del Cristo. Sull’altare c’era un’arca di legno con il coperchio aperto. Sulla parte anteriore dell’arca si trovava la statua di Cristo morto avvolto nel lenzuolo con il capo su un cuscino in stoffa. L’interno dell’arca era poi rivestito in seta, che nel corso del tempo, subì un forte deterioramento. Cosi al posto di quella statua lignea, il vescovo Celestino Orlandi, nel 1761 fece collocare quella marmorea. La statua rappresenta Cristo morto sul sudario, con tre chiodi del supplizio accanto ai piedi, e il capo poggiato sul cuscino a quattro nappe.[10]

Concludendo il tour all’interno della Basilica della Madonna dei Martiri, il cappellone della Vergine dei Martiri è ciò che resta dell’architettura medioevale. Sotto l’arco a sesto acuto si trova uno degli altari in marmo, sul quale troneggia l’icona lignea della Madonna, precedentemente descritta. Ai lati dell’altare, incorniciati d a medaglioni in marmo, le tele opera del maestro d’Elia, di S. Corrado, Patrono di Molfetta, e di S. Nicola, Patrono di Bari.[11]

Da tutto quello che è stato raccontato fino a questo momento, si può evincere come non solo la Basilica, ma anche e soprattutto il culto della Madonna dei Martiri a Molfetta rivesta un ruolo particolare nella vita di ciascun fedele ancora oggi. Tale importanza, si perpetua nei secoli a partire da un’antica promessa fatta alla Vergine Maria a seguito della peste che imperversava in Terra di Bari nel 1656 e che continuò a mietere migliaia di vittime per oltre un anno e mezzo. Molfetta ne uscì indenne grazie alla protezione del "Manto Divino" della Madonna dei Martiri e di S. Corrado.[12]

Il giorno 8 settembre di ogni anno, la promessa viene onorata e la Madonna portata in processione, issata su due barche connesse tra loro e trasportata dal porto antico a quello commerciale. La processione dà inizio a una serie di festeggiamenti cittadini che prendono il nome della comunemente conosciuta “fiera”, una ricorrenza annuale irrinunciabile per ogni molfettese.

 

Biografia e sitografia

1 Tripputi A.M., La madonna dei Martiri di Molfetta, Mezzina, Molfetta, 1990.

2 http://www.madonnadeimartiri.it/storia.asp

3 Tripputi A.M., La madonna dei Martiri di Molfetta, Mezzina, Molfetta, 1990.

4 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997.

5 Il santuario della Madonna dei Martiri, Guida del pellegrini, Litografia Falcone, Manfredonia, 1998.

6 Del Vescovo G. A., L’organo seicentesco di santa Maria dei Martiri, in Solenni festeggiamenti della Compatrona Maria SS. Dei martiri, 1998

7 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997

8 Del Rosso G., L’immagine della Madonna dei Martiri - Evoluzione di un’iconografia mariana, in Luce e Vita

9 Pisani C., Il <<voto perpetuo>> fatto dai molfettesi alla Madonna dei Martiri nel 1656, anno della peste, in L’altra Molfetta, anno XXXI n. 9, 2015

10 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997

11 Il santuario della Madonna dei Martiri, Guida del pellegrini, Litografia Falcone, Manfredonia, 1998

12 Pisani C., Il <<voto perpetuo>> fatto dai molfettesi alla Madonna dei Martiri nel 1656, anno della peste, in L’altra Molfetta, anno XXXI n. 9, 2015