LA GROTTA DELLA CIOTA CIARA IN VAL SESIA

A cura di Marco Roversi

Il Parco Naturale del Monte Fenera e i più antichi reperti ossei dell’Italia Nord-Occidentale: la grotta della Ciota Ciara

Esteso sui rilievi collinari della Bassa Valsesia, il Parco Naturale del Monte Fenera si sviluppa per un’area naturale protetta di quasi 3.378 ettari. Il Parco, istituito nel 1987, prende nome dal rilievo montuoso che si erge più alto di tutta l’area, ossia il Fenera, riconoscibile dalle basse zone pianeggianti circostanti del Vercellese e del Novarese. Oltre ad essere un’area naturale protetta, nonché meta e punto di partenza per escursionisti e amanti delle passeggiate d’altura, il Parco si presenta anche come testimone del più antico e remoto passato del territorio valsesiano, un territorio in cui storia, cultura e tradizioni si sono a lungo espresse e reciprocamente influenzate nel corso del tempo.

Fig. 1 - Cartina con l’estensione totale del Parco Naturale del Monte Fenera tra le Province di Novara e Vercelli.

La natura carsica del rilievo del Fenera è di primaria importanza per le Preistoria della Regione Piemonte, in quanto alcune delle cavità, specialmente quelle aperte sulla parete occidentale del monte, hanno restituito, ad un’altitudine compresa tra i 630 e 700 m, tracce di resti faunistici di Età Pleistocenica (Era Quaternaria): trattasi di resti associati a industrie e culture di diversi gruppi umani che si sono succeduti nell’occupazione dell’area almeno a partire da 70.000 anni fa c.a. In particolare le due grotte della Ciota Ciara e del Ciarun hanno restituito le evidenze archeologiche più significative e interessanti.

Principalmente sono state portate alla luce tracce di antiche frequentazioni da parte di esemplari di “Ursus Speleatus” (Orso delle Caverne), motivo per il quale suddette cavità sono denominate “ad Orso”. Si ritiene, infatti, che l’orso abbia frequentato la Valsesia in un periodo compreso tra gli 80.000 e i 70.000 anni fa, ma altri resti della fauna fossile permettono di ricostruire una documentazione ben più ampia circa la frequentazione animale del Fenera: possediamo così anche resti fossili relativi al leone delle caverne, all’orso bruno, a stambecchi, cervi, castori, linci e marmotte. La peculiare importanza del Parco è, tuttavia, dovuta al rinvenimento di tracce di frequentazione da parte dell’Uomo di Neanderthal. È soprattutto la grotta della Ciota Ciara che ha restituito le più importanti testimonianze di quella che è stata considerata come la più antica occupazione umana di tutta l’area nord-occidentale della nostra Penisola. Indagata già a partire dalla prima metà del XIX secolo, e poi a più riprese sino agli Anni ’70 del secolo scorso, i veri e propri scavi sistematici sono giunti solo nel 2009 ad opera dell’Università degli Studi di Ferrara, proseguiti sino allo scorso anno in collaborazione e concessione con la Sovrintendenza Archeologica della Regione Piemonte.

Fig. 2 - Veduta del Monte Fenera e del vicino fiume Sesia.

La grotta della Ciota Ciara: insediamenti umani e rifugio per orsi

Formatasi a causa dell’erosione idrica, la Ciota Ciara si caratterizza per la presenza di due aperture, delle quali solo una fu realmente interessata dall’occupazione umana. Limitata all’area atriale (per motivazioni dovute al basso tasso di umidità e per necessità di illuminazione naturale), la frequentazione si è svolta a più riprese, in ragione anche dei diversi scopi di occupazione: dall’uso quale rifugio per le battute di caccia, su di un arco di tempo così breve e occasionale, a luogo abitativo vero e proprio, su di un arco cronologico a lungo termine. Alternativamente alla presenza umana la cavità, specie nei mesi invernali, era interessata anche dalla presenza animale del territorio: è stato, infatti, ricostruito che quando il riparo in roccia non era occupato da gruppi umani esso serviva da rifugio invernale per orsi (soprattutto l’Ursus Speleatus, ma in alcuni casi anche l’Ursus Arctos), sfruttando allora tali anfratti naturali quali giacigli per il letargo invernale.

Fig. 3 - L’ingresso della grotta della Ciota Ciara.

Di eccezionale importanza è stato il rinvenimento di alcuni resti ossei, che gli studi condotti dagli archeologi dell’Ateneo ferrarese hanno attribuito, senza alcuna ombra di dubbio, al Genere Homo. Il ritrovamento si limita ad un dente e ad un osso occipitale integro, in buono stato di conservazione; quest’ultimo è stato di grande utilità per ridefinire la storia evolutiva dell’Uomo non solo in Europa, ma anche nel Nord Italia, dal momento che presenta il caratteristico “chignon” (o rigonfiamento occipitale) e la sottostante fossa soprainiaca ( una scanalatura sopra l'inion o linea superiore della nuca, caratteristica determinante della specie neanderthaliana).

La direttrice degli scavi Marta Arzarello, Professoressa del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Ferrara, specifica che suddetto chignon occipitale e la sottostante fossa soprainiaca  iniziano a mostrarsi in modo alquanto sporadico con un antenato del Neanderthal, ossia l’Homo Heidelbergensis. Poiché il rigonfiamento occipitale del materiale osseo del Fenera risulta essere poco sviluppato, è possibile quindi affermare che tale importantissimo reperto possa risalire ad una forma arcaica della specie neanderthaliana o addirittura ad un Homo Heidelbergensis.

In termini cronologici l’occupazione della Ciota Ciara si inserisce nell'orizzonte del Paleolitico Medio (tra i 300.000 e i 34.000 anni fa circa), e l’uomo ne ha sfruttato il territorio limitrofo per ricavarne cibo e materie prime necessarie al suo sostentamento; soprattutto ha raccolto selce e quarzo e le ha lavorate per produrre schegge dai margini assai taglienti, ma nei rilievi in cui l’occupazione si è verificata meno intesa, l’uomo ha portato in sito anche strumenti già confezionati altrove in materie prime di tutt'altra origine. Le analisi condotte su tali materiali litici hanno attestato un’occupazione della grotta più intensa nell'area atriale, sulla base dei dati raccolti nel corso di una più attenta osservazione delle tre unità stratigrafiche che hanno interessato il totale scavo del sito. Le materie prime impiegate sembrano essere locali, raccolte principalmente in posizione secondaria, perlopiù sotto forma di ciottoli di medie e grandi dimensioni. Più del 90% del detibage (vale a dire tutto il materiale prodotto durante il processo di riduzione litica e la produzione di utensili in pietra scheggiata) è stato ricavato dal quarzo e il restante principalmente da selce, mentre assai raro è stato l’impiego dell’opale.

I metodi di scheggiatura impiegati sono quelli propri del Paleolitico Medio, si è ricostruita anche parte della catena produttiva, arrivando a dimostrare come la scheggiatura sia avvenuta in situ e sia stata finalizzata soprattutto al confezionamento di strumenti d’uso domestico. Lo sfruttamento di carcasse animali è testimoniato dalla presenza di tracce di macellazione lasciate sulle ossa dai suddetti strumenti litici. Inoltre, al di là delle consuete operazioni di macellazione per il recupero di carne a scopo alimentare, sono state ricavate tracce anche di recupero di pellicce, probabilmente impiegate sia per il confezionamento di abiti, sia per la realizzazione di giacigli riparati in roccia.

Gli studi condotti sul Monte Fenera hanno così permesso di ricostruire un quadro molto preciso sulle sue fasi di occupazioni in antico e si tratta di un risultato documentario unico per meglio inquadrare il processo di popolamento dell’Italia Nord Occidentale in Età Preistorica. In particolare gli studi della Ciota Ciara hanno permesso di dimostrare come nell'area del Fenera l’Homo Neanderthalensis si sia adattato alle condizioni geografiche e ambientali e abbia anche adottato uno specifico comportamento tecnico in risposta alle caratteristiche fisiche della materia prima presente in loco. L’approccio interdisciplinare adottato dagli studiosi ha inoltre permesso di stabilire come l’occupazione della grotta sia variata nel corso del tempo, sia per termini di durata sia per attività in essa svolte.

Al fine di una maggior valorizzazione del luogo e dei reperti rinvenuti, la Ciota Ciara è stata diretta protagonista di una mostra intitolata “L’Uomo di Neanderthal in Piemonte: scavi e ricerche nella grotta della Ciota Ciara (Borgosesia, VC)”, e svoltasi dall’8 novembre al 7 dicembre 2012 presso Villa Amoretti, a Torino. La mostra, aperta a tutti (specialisti e non solo) si è articolata su più livelli, con un corpus principale organizzato su pannelli espositivi a scopo didattico finalizzati a divulgare sia gli aspetti generali legati ad uno scavo archeologico preistorico (raccolta dei materiali, lavaggio, vaglio dei dati raccolti e classificazione), sia il più generale contesto della Preistoria piemontese, con più specifici accenni alla presenza dell’Uomo di Neanderthal. Per una più chiara comprensione del contesto sono stati esposti pannelli esplicativi inerenti ai vari contesti, nello specifico, della Ciota Ciara, quali la sedimentologia, i materiali litici, i materiali paleontologici e paleoambientali. La mostra ha senza dubbio rappresentato un ottimale esempio di valorizzazione e divulgazione, ed è tuttora esposta in modo permanente presso il Museo di Archeologia e Paleontologia “Carlo Conti” di Borgosesia. Il museo ospita, infatti, una mostra permanente in pannelli, donata dall'Università degli Studi di Ferrara, che illustra le attività di scavo e di ricerca svolte presso la grotta della Ciota Ciara.

Fig. 4 - I reperti ossei del Fenera.

 

SITOGRAFIA:

- www.areeprotettevallesesia.it

- www.lastampa.it

- www.eventivalsesia.info

- www.piemonteparchi.it

- www.museocarloconti.it


STORIA ARCHEOLOGICA DEL PIEMONTE

Dalle più antiche tracce neolitiche alla conquista romana

“PedemMontium”, così veniva denominata dagli antichi romani l’attuale regione del Piemonte. Incuneata nell'estrema porzione nord occidentale della nostra penisola, questa regione offre una storia antichissima, una storia che si radica profondamente nel suo territorio estremamente vario e diversificato. Dagli alti massicci delle Alpi Occidentali e Centrali sino alle basse colline delle Langhe, del Canavese e del Monferrato, per aprirsi poi nell'ampia Pianura Padana a confine con la vicina Lombardia, molti sono i luoghi che sanno di antico e che ci parlano di una storia assai lontana nel tempo.

È sul finire del Paleolitico inferiore ( 200.000 anni fa circa), che a seguito dello scioglimento dei ghiacciai nell'alta Val Padana, si hanno le primissime tracce della presenza umana. I primissimi abitanti del Piemonte dovettero confrontarsi con un paesaggio ampiamente diversificato, per essere così protagonisti di un’evoluzione lenta e graduale, che portò dalle più antiche comunità di cacciatori-raccoglitori dell'antica età della pietra, sino ai successivi insediamenti di contadini sedentari del Neolitico (che in Piemonte inizia all'incirca poco prima del 5000 a. C.) , nonché infine alle grandi tribù della primissima Età del Bronzo ( l’età del Bronzo antico in Piemonte non copre un arco di tempo all'incirca dal 2300 a.C al 1550 a.C.).

Tracce ancora visibili di queste antiche società sono assai diffuse sul territorio piemontese, quali i resti ossei animali e umani (in particolare due denti attribuiti a scheletri Neanderthal, caso sino ad ora unico nell'intero arco alpino italiano) e utensili litici del Paleolitico Superiore rinvenuti nell'attuale area protetta del Monte Finera, in piena Val Sesia.

Furono invece le colline del centro-sud, assai ricche di zone boschive e legname, le prime ad ospitare i più antichi insediamenti stabili di cacciatori-raccoglitori, ad oggi ben documentati e studiati, quali l’area dell’Astigiano e di Trino Vercellese, mentre le primissime tracce Neolitiche sono riscontrabili nell’area del Cuneese (Alba), ove è stato portato alla luce un villaggio preistorico di quasi 8000 anni fa e sopravvissuto sino alla conquista romana della regione, ad oggi trasformato in parco archeologico.

Fig 1. Reperti ossei umani provenienti dal Monte Finera, in Val Sesia.

È a partire dagli inizi del II millennio a.C. che le comunità di villaggi stanziate sul territorio cominciarono a venire fra loro in contatto grazie a rotte e scambi commerciali, con il transito di merci e materie prime lungo direttrici che si muovono dal nord siano al sud del continente europeo. Ma lungo tali rotte commerciali non si spostarono solo merci, ma anche uomini. Ecco allora che tra 1800 e 600 a.C. si riscontra l’arrivo dalle regioni d’oltralpe di popolazioni di stirpe celtica.

Tra i primi ad arrivare furono i Leponzi, i quali hanno lasciato diverse tracce della loro presenza sul territorio, della loro vita e della loro cultura, inseritasi nel contesto della cultura golasecchiana del Ticino e del Varesotto; questa popolazione unitasi poi con i Liguri (popolazione considerata autoctona da gran parte degli studiosi e stanziata oltre che nel Basso Piemonte anche in Liguria e lungo la Costa Tirrenica) essi diedero poi origine ad una cultura celto-ligure di cui, ad oggi, ancora poco si conosce.

Delle altre popolazioni celtiche stanziate sul territorio piemontese si possono poi ricordare, come più importanti, i Salassi, siti nell'Alto Canavese e in Valle d'Aosta, i Sallui nel Vercellese, i Vertamacori nel Novarese, i Taurini nella provincia di Torino, gli Statielli nella zona di Acqui Terme e nelle Valli Bormida, dell'Orba e forse nella Valle Belbo, i Bagienni fra Mondovì e il Cuneese e i Dertonines a Tortona e nella zona della Valle Srivia.

Fino al V a.C. nella regione vissero etnie in parte ancora ben differenziate, fino a che si avrà una maggiore omogeneità culturale solo con l’invasione Gallica del secolo successivo, e saranno proprio queste realtà culturali ad entrare in contatto con la futura presenza romana sul territorio.

Fig 2. Cartina con la distribuzione delle principali genti celtiche in Piemonte e nel resto del nord Italia.

La conquista romana fu alquanto tardiva, preceduta inizialmente da accordi di tipo federativo con alcune delle tribù stanziate nella regione e da sporadici contatti di natura principalmente commerciale. I primi siti romani si hanno, così, solo con il II secolo a.C., con il primissimo nucleo abitativo romano sviluppatosi nell’area fra i fiumi Po, Tanaro e Stura. A questa prima romanizzazione risalgono le fondazioni di Dordona, l’attuale Tortona, come centro di controllo e di scalo commerciale lungo la Via Aemilia Scauri, e anche la colonia di Eporedium, oggi Ivrea, fondata con il preciso obiettivo di controllare e difendere il territorio da possibili invasioni di popolazione celtiche occupanti l’attuale Valle d’Aosta. L’occupazione romana si fece poi ancor più fitta con l’arrivo del I secolo a.C., quando la presenza della potenza mediterranea si fece considerevole soprattutto in funzione dei collegamenti con la Gallia Transalpina, conquista da Giulio Cesare, e in seguito con gli ulteriori domini dell’Europa Occidentale. Di qui la cura di attrezzare reti viarie assai organizzate lungo le quali sorsero città a loro presidio e di importanza strategica, ossia centri come Vercelli, Susa, Asti e Torino. Quest’ultima fu fondata per volere di Augusto tra il 25 e il 15 a.C. come “Augusta Taurinorum”, in quanto sorta in piena area celtica sotto influenza della tribù dei Taurini, in occasione di un intenso programma di riorganizzazione coloniale dell’intero arco alpino voluto dall’imperatore. La presenza romana nella regione rimarrà invariata sino al III-IV d.C., quando le prime invasioni barbariche e la successiva caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C) faranno entrare il Piemonte in una nuova tappa della sua lunghissima storia, quella dell’Età Medioevale e delle successive presenze longobarda e franca.

Molte quindi le tracce storico-archeologiche che ci tramando la lunghissima storia di questa regione, dalle più monumentali, quali i resti della Torino Romana, i siti archeologici di Industria, l’anfiteatro di Susa, e la villa romana di Almese, alle più piccole, ma non meno importanti, quali i moltissimi reperti conservati nei musei archeologici non solo delle città capoluoghi di provincia, ma anche delle più piccole realtà presenti sul territorio. Il Piemonte vanta, inoltre, la presenza di alcuni siti archeologici inseriti nella Lista dei Patrimoni dell’Umanità redatta dall’UNESCO. È il caso dei villaggi palafitticoli preistorici di Azeglio, sul Lago di Viverone, e del Parco dei Lagoni di Mercurago, sul Lago Maggiore, entrambe aree archeologiche rappresentative della cultura risalente al periodo compreso tra il Neolitico e l’Età del Bronzo e insediamenti di comunità preistoriche palafitticole databili tra il 5000 e il 500 a.C.

 

Fig 3. Rovine della villa romana di Almese (TO).

 

Fig 4. Arco di Augusto a Susa, uno dei monumenti romani più celebri della città (TO).

 

Fig 5. Una delle tombe della “Necropoli Golasecchiana” del Parco dei Lagoni di Mercurago (NO).

 

Fig 6. Ricostruzione di un’antica palafitta preistorica presso Azeglio, sul Lago di Viverone (BI).

 

Sitografia:

- www.areeprotettevallesesia.it

- www.piemonte.beniculturali.it

- www.archeo.piemonte.beniculturali.it

- www.piemondo.it

- www.ambientecultura.it/territorio/Alba

- www.piemonteceltico

 

Bibliografia:

- “La Grande Enciclopedia”, di LibraireLarousse e Alberto Peruzzo Editore, 1995, vol.15