VILLA GRIMANI MOLIN AVEZZÙ A FRATTA POLESINE

A cura di Mattia Tridello

Introduzione

La mole di Villa Grimani Molin Avezzù, stagliandosi mirabilmente nel comune di Fratta Polesine (RO), si configura come deciso e inconfondibile segno nel territorio polesano. Scrigno prezioso di innumerevoli tesori, essa diviene un unicum artistico che assurge a chiara e esemplare rappresentazione della villa veneta per antonomasia. Ancorata alla sua isola, definita a sinistra dallo Scortico e a destra da un canale minore, continua a imporsi come effige grandiosa e sublime di uno dei più prolifici periodi architettonici della storia dell’arte regionale, di un tempo passato che vide lavorare nelle sue sale artisti, decoratori e personaggi della storia. Come statica testimone osservò silenziosamente l’opposizione e la resistenza nei confronti dell’invasore straniero durante il periodo risorgimentale, l’affermazione e il passaggio di committenti e proprietari, lo scorrere inesorabile delle epoche. Qui di seguito si propone la prima parte della trattazione relativa a questo gioiello architettonico, ove si prenderanno in esame il contesto in cui Villa Grimani è calata e la sua splendida facciata.

Il contesto di Villa Grimani

Nel cercare di analizzare l’edificio, occorre innanzitutto relazionare quest’ultimo nel contesto storico-geografico circostante. Il corpo di fabbrica è infatti collocato a pochi metri dalla palladiana Villa Badoer e con questa instaura un preciso rapporto sia di vicinanza che di parentela e committenza. Risulta, infatti, veramente difficile riassumere la genesi della costruzione del fabbricato senza tener presente le relazioni instaurate dai proprietari di Villa Molin- Avezzù con quelli della tenuta vicina e viceversa. La “Badoera” (Fig. 1) fu voluta nel 1554 dal "Magnifico Signor Francesco Badoero", un personaggio di spicco modesto, privo di rilevanza pubblica ma discendente di un'illustre famiglia veneziana. Egli, a seguito del sodalizio con la famiglia Loredàn e del conseguente matrimonio con Lucetta (figlia di Francesco Loredan), aveva ricevuto in eredità l'ampio fondo terriero della Vespara (Fig. 2) (località nei pressi del centro cittadino del paese di Fratta ). Seguendo la diffusa e aristocratica tendenza veneziana, nel rivolgere attenzioni all'entroterra per favorire i propri investimenti (specialmente dopo la Lega di Cambrai), i committenti sentirono la necessità di creare un presidio dal quale amministrare le proprietà acquisite e rimarcare il prestigio economico raggiunto attraverso una villa di determinate caratteristiche. I Badoer iniziarono quindi la bonifica della Vespara e l'acquisizione di altri fondi nelle immediate vicinanze, terreni sui quali si diede avvio alla costruzione della villa progettata da Andrea Palladio nel 1556.

I problemi di attribuzione

Ben più complicata e intricata si presenta la situazione riguardo la villa vicina. A differenza della “Badoera” che risulta fin da subito autografa del Palladio tanto da essere inserita nei famosi “Quattro libri dell’Architettura”, il nodo problematico principale di Villa G. M. Avezzù risiede innanzitutto nell'impossibilità di appurare in modo inequivocabile l’autore della stessa. Frutto di ciò è la constatazione della carenza di documenti certi riguardanti la paternità e la data di costruzione dell’edificio. Tuttavia, ripercorrendo le vicende storiche e cronologiche riguardanti la proprietà del sito, si possono dedurre alcuni dati utili per la suddetta analisi.  Era infatti il 1519 quando, dopo l’acquisto di duemila campi presso la località Vespara di Fratta, iniziò la breve ma significativa parentesi dei Loredan nel territorio polesano. In quest’ultimo periodo Giovanni Francesco Loredan e il figlio Giorgio comprarono dal governo della Serenissima e da possidenti locali terreni e case nella campagna frattense dimostrando, ben presto, un interessamento principale nei confronti dei fondi limitrofi al centro cittadino. Successive acquisizioni si protrassero fino al 1528, anno in cui venne stilato un atto di compravendita di 260 campi nella valle di S. Maria. L’importanza di tale documento non risiede solamente nell'ampio territorio che, da lì a poco sarebbe stato impiegato dalla famiglia veneziana, bensì nella prima e significativa citazione in questo di una dimora di G. Francesco e Giorgio Loredan situata a Fratta e affacciata sul canale dello Scortico. Grazie a questo piccolo ma importante dettaglio sono state avanzate numerose interpretazioni circa la realizzazione ex-novo della villa: la più accreditata prende in esame il documento sopracitato per dimostrare come, probabilmente, l’edificio cinquecentesco sia il frutto del rimaneggiamento di una fabbrica precedente. A sostegno di tale ipotesi risultano fondamentali le indagini sulla cartografia dell’epoca. In una di queste, datata 1549, risultano raffigurati, nella località del sito, numerosi fabbricati disposti, come specificato nell'atto, di fronte al canale che attraversa il paese (Fig. 3). Tali indizi lasciano quindi intuire che la villa che vediamo ancora oggi non sia stata costruita come edificio ex novo in un fondo terriero isolato, ma in un terreno già precedentemente occupato da altri fabbricati, perlopiù rustici, di proprietà dei Loredan. Accreditata risulta quindi la possibilità che uno di quest’ultimi abbia subito delle ristrutturazioni  volte a rinsaldarne la struttura muraria e la valenza estetica in un periodo storico non ancora sicuro e certo. Cercando di stabilire le date di inizio e fine costruzione della fabbrica occorre, ancora di più, rimarcare le vicende familiari legate alle parentele, ai nuclei d’amicizia instaurati tra i proprietari delle due ville vicine e all'eredità lasciata dal proprietario dell’immobile.

L'eredità dei Loredan

Alla morte di Giorgio Loredan, non essendoci discendenti diretti, la tenuta venne divisa tra le due sorelle di quest’ultimo: Lucietta e Lucrezia, rispettive mogli di Francesco Badoer (tra l’altro, amico di Giorgio e appartenente, come quest’ultimo, alla Compagnia della Calza) e Vincenzo Grimani. Nonostante l'assenza di dati documentari decisivi, le ricerche storiche più recenti hanno individuato proprio nel Grimani il probabile committente delle trasformazioni dell'antica casa di famiglia della moglie, attuate dunque in anni paralleli alla costruzione della dimora Badoer, ossia intorno alla metà del Cinquecento, più precisamente tra il 1554 e il 1556. La datazione indicata si è potuta intuire non solo dalle vicende instaurate tra le due famiglie veneziane ma specialmente da un’altra carta geografica, datata 1557 (Fig. 4) (quindi un anno dopo l’inizio del cantiere Badoer) e dal confronto di quest’ultima con quella, prima citata, del 1549. Nel paragone istituito tra la prima e la seconda mappa raffiguranti entrambe, nel particolare, l'area di Fratta Polesine, possiamo agevolmente riconoscere come, nel lotto che a noi qui interessa, sia intervenuto un radicale  cambiamento. Nel 1549 edifici dimensionalmente minori ne occupavano il suolo, mentre nel 1557 uno su tutti sembra spiccare quanto a monumentalità, mostrando addirittura l'abbozzo di due enormi camini alla veneziana. Tale raffronto permette quindi, quasi in certezza, di collocare la costruzione della villa in simbiosi temporale con il cantiere della “Badoera”.

Per giungere finalmente al “punctum dolens” dell'attribuzione, l’unica voce a difendere finora la sicura autografia palladiana rimane Glauco Benito Tiozzo, preceduto dalla settecentesca testimonianza dell’architetto e pubblico perito alle Fortezze Giovanni Vettori di Venezia. Secondo la maggioranza degli storici dell’arte, invece, l’opera non è l’esito diretto ma indiretto del maestro padovano, che potrebbe aver affidato un disegno o un abbozzo iniziale a un cantiere guidato da un soprastante architetto appartenente alla sua cerchia. Lo strettissimo vincolo parentale delle committenze, la contiguità fisica e di datazione con la Badoera nonché la presenza in loco di Palladio non escludono quindi possibili influenze a livello compositivo e stilistico ispirate sia alla vicina villa frattense sia alle opere precedenti e giovanili di quest’ultimo.

Analisi dell’edificio: la barchessa

Villa Grimani, con la sua non trascurabile dimensione orientata a Nord (come di consueto per le ville venete), dispone il suo fronte principale in maniera ortogonale alla facciata di Villa Badoer e si presenta in asse con la strada che scorre sull'argine sinistro dello Scortico e costeggia il muro di cinta della dimora vicina. Così facendo la villa crea un asse direzionale lineare e suggestivo che, insieme a quello perpendicolare della “Badoera” e a quello che partiva dal castello di Manfrone (demolito nel corso del secolo), diventa una delle direttrici urbanistiche e prospettiche principali del centro cittadino (Fig. 4).

Fig. 4 –Schema delle direttrici: 1 Villa L. Grimani Molin Avezzù, 2 Villa Badoer, 3 Castello di Manfrone.

Varcando i cancelli della proprietà si notano due punti fondamentali nell'assetto spaziale: il corpo centrale di villa Grimani, che si impone monumentalmente, e la barchessa laterale di destra. Quest’ultima, completamente staccata dalla casa padronale, era destinata, come per la maggior parte di tali costruzioni nel panorama veneto, a contenere gli ambienti di lavoro e di servizio. Se nella casa dominicale non vi era spazio per quest’ultimi, molto spesso, le barchesse ospitavano cucine e locali per la preparazione del cibo, in caso contrario esse includevano stalle e annessi rustici (rimesse per arnesi agricoli e magazzini per scorte alimentari) che venivano spesso celati grazie alla collocazione di ampi portici arcati in facciata. La costruzione laterale, nel caso di Villa Grimani, presenta una pianta molto semplificata (Fig. 5-5a), chiara e ben articolata formata da un volume pressoché rettangolare che ospita il porticato dal quale si accede ad ambienti rustici, probabilmente stalle, intervallati da pareti divisorie. Tuttavia, il vero elemento di interesse del corpo architettonico è senz'altro il prospetto frontale. Questo, scandito dalla successione di paraste tuscaniche, presenta cinque aperture arcate sormontate da un’evidente chiave di volta. A coronamento dell’edificio compare una cornice marcapiano che divide il livello porticato inferiore dall'attico superiore dove, in corrispondenza simmetrica agli archi, si trovano cinque finestre rettangolari.

Un’approfondita indagine sull'impianto compositivo del fronte rustico alluderebbe a probabili derivazioni architettoniche, dalle quali l’architetto della villa avrebbe tratto alcuni riferimenti. Una delle ipotesi più avvalorate e verosimili pone l’attenzione sulla presenza del sistema parasta-arco che, in questo caso, si ripete molte volte e termina con una doppia parasta su entrambi gli spigoli perimetrali laterali. La cifra stilistica sia nelle singole partizioni architettoniche che nella scansione delle stesse alluderebbe a un possibile intervento oppure ad un’influenza dell’architettura del veronese Michele Sanmichieli. Egli, attivo principalmente a Venezia e Verona, lasciò tracce in edifici presenti anche in polesine, primo fra tutti, Palazzo Roncale a Rovigo (Fig. 6). Come in quest’ultimo la barchessa presenta le arcate all'interno di un meccanismo compositivo scandito da paraste che, in coppia, terminano negli spigoli laterali. Ancora più coincidenti, gli stilemi propri dell'architettura sanmicheliana si riscontrano nelle finestrature di Palazzo degli Honori a Verona e soprattutto nella Villa Soranza a Castelfranco Veneto (Fig. 7).

Fig. 6 – Veduta di Palazzo Roncale a Rovigo.

Confronto tra la barchessa a sinistra e un particolare di Palazzo Roncale a destra

Fig. 7 – Ricostruzione del fronte della Villa Soranza a Castelfranco Veneto.

La scansione paradigmatica di arco, chiave di volta allungata, cornice marcapiano, finestrella dell'attico racchiusa, lateralmente, da lesene di ordine pseudo-gigante non lascia indifferente neppure l’attribuzione a riferimenti di origine mantovana. Influssi dalla città lombarda potevano giungere in polesine attraverso l'ambiente veronese, vicentino e, ancora, veneziano, ove approdavano personalità, maestranze o stampe, se non addirittura disegni, con le novità stilistiche portate alla corte dei Gonzaga da Giulio Romano. Non stupisce, quindi, una singolare somiglianza tra la barchessa in questione e i prospetti, in particolare quello centrale, di Palazzo Te, dimora che Federico II Gongaza si era fatto progettare e decorare dal pittore e architetto romano (Fig. 8).

Fig. 8 – Palazzo te, Mantova, fronte settentrionale.

Confronto tra un’arcata di Palazzo Te (sinistra) e l’arco della barchessa (destra)

Se nei disegni e rilievi realizzati nel 1775 dal Vettore (incaricato dai proprietari di ricavare le quotature dello stabile per ricavarne una stima immobiliare) compare una seconda barchessa che spazialmente circoscrive la corte antistante la villa, ora tale costruzione non è più visibile. Uguale sorte spettò, sempre secondo il sopracitato disegnatore, alla rampa di scale sinistra che conduce, insieme a quella a destra, al piano nobile dell’edificio. Quest’ultima, infatti, già dal ‘700 risultava mancante e perciò sono state avanzate alcune ipotesi sulla sua reale esistenza o distruzione che ci permettono di iniziare a descrivere la facciata principale del vero e proprio corpo di villa.

La facciata principale

Il fronte che più di tutti contraddistingue l’architettura della villa e la rende riconoscibile a qualsivoglia visitatore o abitante della cittadina di Fratta è senz'altro quello principale. Grazie alle cornici marcapiano, il prospetto viene diviso in tre livelli, uno inferiore per i servizi quali cucine e vani vari, quello intermedio occupato dal piano nobile e infine l’ultimo destinato ai locali del sottotetto. La costruzione viene arricchita da una cornice di gronda a dentelli che circoscrive la copertura a quattro falde (Fig. 9).

Il livello inferiore

Il piano terra del corpo padronale, esternamente, presenta il basamento bugnato e arcato che sorregge l’ampio pronao superiore. Il vano, sporgente rispetto al profilo perimetrale rettangolare che assume la costruzione, presenta cinque aperture, delle quali una centrale più ampia e due laterali per parte leggermente ristrette. La massa aggettante è affiancata, a destra e sinistra, da due rampe di scale con balaustra che, se percorse, conducono all’entrata del piano nobile. Come anticipato in precedenza, numerose ipotesi ricostruttive sono state analizzate per cercare di ricostruire, più fedelmente possibile, l’aspetto originario della villa. Riportata nei rilievi del Vettore, già dal XVIII secolo, vi è la completa assenza della scalinata di sinistra che tuttora vediamo grazie a un restauro filologico, avvenuto negli anni ’70 del ‘900, volto a ripristinare la perduta simmetria del fronte. Tuttavia la questione, continuando a stimolare ipotesi sempre diverse, ha portato alla considerazione che sarebbe stato, almeno per il Cinquecento, insensato demolire un elemento che determinava la simmetria della facciata; perciò, forse nelle intenzioni originarie dell’architetto, l’accesso alla dimora doveva avvenire senza scale esterne, dal piano terra della costruzione, passando per il vano inferiore bugnato, da dove si sarebbe raggiunto, tramite una scala posta sulla destra, il salone nobile. A testimonianza di questo vi è la presenza di un basamento veramente ricco di apparati decorativi esterni, il bugnato, simbolo imperiale per eccellenza, numerose entrate a fornice e una centrale di queste leggermente più larga e alta. Per comprendere meglio l’interpretazione occorre confrontare Villa Grimani Molin-Avezzù con la creazione palladiana di Villa Foscari (Fig. 10). Anche quest’ultima presenta un basamento rigido, scabro, sul quale si aprono una piccola porta angusta e varie finestrelle. La poca attenzione data a tale elemento trova risposta nel fatto che, ai lati, si configurano due rampe ascendenti, due scalinate d’accesso che costituiscono l’ingresso privilegiato al piano nobile. A Fratta, invece, la ricercatezza dell’esterno si ripropone anche all'interno del basamento. In un affresco della volta, oltre a decorazioni a grottesche, è presente la raffigurazione di un piccolo satiro (Fig.11) che con la mano invita i visitatori ad entrare. Si pensa quindi che anche tali piccoli accorgimenti decorativi non sarebbero stati presenti se l’ingresso fosse stato al piano superiore e quello inferiore fosse stato destinato all'uso della servitù.

L’influenza di tale, probabile, soluzione d’accesso all'edificio venne richiamata anche, cronologicamente più tardi, da parte dell’architetto Vincenzo Scamozzi che, per un ramo della famiglia Molin (proprietari succeduti ai Grimani nel frattempo a Fratta) nelle vicinanze di Padova realizzò una villa. Quest’ultima, se osserviamo accuratamente, non può, di certo, non richiamare la soluzione adottata in polesine: il basamento, privo di scale, ben decorato è il vero accesso allo stabile, il pronao soprastante e aggettante è un’altra conferma di una probabile influenza frattense (Fig. 12).

Fig. 12 – Villa Molin, Mandria, Padova.

Il livello intermedio

Il livello superiore si contraddistingue e caratterizza principalmente per l’ampio pronao esastilo timpanato (Fig. 13). Le colonne di ordine tuscanico sorreggono una trabeazione composta da architrave, fregio e cornice in laterizio a vista che, a sua volta, sostiene il timpano con cornice sempre in cotto. La singolarità dell’avancorpo si concretizza con la presenza di proporzioni non del tutto esatte che fanno sì che l’intercolumnio centrale, in asse con l’arco del basamento, sia più largo e non della stessa dimensione di quelli laterali. Sorte analoga spetta alla suddivisione del fregio. Nella parte di quest’ultimo, corrispondente allo spazio centrale, si susseguono tre metope abbreviate, frutto di una accelerazione prospettica dovuta al non cambiamento della successione classica negli spigoli terminali laterali (Fig. 14). Con occhio attento e unendo questi dettagli, si può facilmente intuire che il progettista della villa, a conoscenza del viaggio a Roma di Palladio, abbia visto alcuni dei suoi rilievi di edifici antichi. In uno di questi, il tempio raffigurato mostra un pronao del tutto simile a quello in questione, con la successione di metope che parte dagli angoli per arrivare all’intercolumnio centrale (Fig. 15). Non stupisce, quindi, che questa sgrammaticatura stilistica, per altro innovativa nel suo uso in un pronao, non sia frutto di un banale errore tecnico ma probabilmente di un sapiente uso di fonti e riferimenti dai quali attingere.

A fianco del pronao si collocano, simmetricamente, due finestre per parte. Queste, di notevoli dimensioni, sono contornate da una cornice architravata in cotto che riprende il motivo dei materiali del portico e del basamento nel fronte.

Fig. 15 – Disegno di Palladio di un tempio dell’antica Roma.

Il livello superiore di Villa Grimani

Il livello con cui termina la costruzione esternamente presenta una successione di piccole finestre rettangolari e simmetriche che permettono di illuminare naturalmente l’interno del sottotetto. La copertura a quattro falde si arricchisce della presenza di ben quattro camini “alla veneziana” che, con un basamento in cotto inferiore, si stagliano a coronamento della struttura (Fig. 16).

Fig. 16 – Particolare delle canne fumarie dei camini.

 

Bibliografia

Maschio, Villa Loredan-Grimani Avezzù a Fratta Polesine, Minelliana, 2001;

Negri, M. Cavriani, Palladio e Palladianesimo in Polesine, Minelliana, 2008;

Cevese, Invito a Palladio, Rusconi Immagini, 1980;

Daverio, la Stori dell’Arte, Manierismo e Controriforma, Corriere della Sera, 2019,

Shail, Cosmologican Themes in decorative Programs of Villa Grimani Molin Avezzù, Scuola di Dottorato Università Ca’ Foscari di Venezia, 2013;

Gli affreschi di Villa Badoer e Grimani Molin Avezzù, Minelliana, 2008;

Appunti delle lezioni di liceo della Professoressa Alessandra Avezzù;

 

Sitografia

Sito web di Villa Molin Avezzù;

Sito web dell’Amministrazione del Comune di Fratta Polesine;

Sito web “carboneriarovigo”;

Sito web dell’Istituto Regionale Ville Venete;

Sito web di Villa Badoer a Fratta Polesine;

Sito web dell’Archivio di stato di Rovigo;

 

Immagine tratte da:

Shail, Cosmologican Themes in decorative Programs of Villa Grimani Molin Avezzù, Scuola di Dottorato Università Ca’ Foscari di Venezia, 2013

Maschio, Villa Loredan-Grimani Avezzù a Fratta Polesine, Minelliana, 2001

Negri, M. Cavriani, Palladio e Palladianesimo in Polesine, Minelliana, 2008

 

Fotografie di dominio pubblico tratte da Google e Google Maps


NOSTRA SIGNORA DEL PILASTRELLO DI LENDINARA

Il santuario di Nostra Signora del Pilastrello: prezioso scrigno di Arte, Fede e devozione.

Il Santuario di Nostra Signora del Pilastrello sorge all’interno di Lendinara, città in provincia di Rovigo che fin dal XVI secolo ha rivestito una posizione di eccellenza, non solo artistica ma anche letteraria e storica nel panorama regionale veneto, tanto da essere più volte definita “L’Atene del Polesine”. Il legame tra questa e il Santuario ritrova le proprie origini in tempi antichi, era il 9 Maggio 1509. Dopo una nottata di vento e pioggia la statua della Madonna con Bambino, che Giovanni Borezzo aveva posto in una nicchia nella facciata della propria casa, fu ritrovata in una siepe del giardino circostante completamente illuminata e sfolgorante di luce. L’accaduto, fin dall’inizio ritenuto miracoloso, iniziò ad attirare numerosi fedeli così, il noto giurisperito lendinarese Lorenzo Malmignati, di proprie spese, fece erigere un capitello con altare per collocare dignitosamente il Simulacro. A questo episodio, ben settant’anni più tardi, ne seguì un altro ancor più straordinario. Nella primavera del 1576 Ludovico Borezzo si prodigò per restaurare il capitello sul quale era posta la venerata statuetta. Durante i lavori, tuttavia, ogni qualvolta i muratori attingevano acqua da una fonte vicina per stemperare la calce, essa, da trasparente, chiara e limpida diventava di color sangue. L’evento suscitò ben presto notevole scalpore nella città anche al seguito di numerose guarigioni miracolose dovute all’acqua sgorgante della fonte. Fu così che nel 1577 il Consiglio cittadino propose al Vescovo locale di costruire un tempio come segno reale e fisico di ringraziamento per le grazie ottenute, l’accolta richiesta si concretizzò con la posa della prima pietra il 26 Agosto 1577 e l’affidamento del futuro Santuario ai monaci olivetani del Monte Oliveto.

La chiesa, collocata sul fondo prospettico dello “stradone della Madonna”, presenta un ingresso sopraelevato dal piano stradale tramite due gradini e un sagrato in marmo rosso di Verona. La facciata, realizzata nel 1805 su progetto di don Giacomo Baccari, si articola in due livelli, uno inferiore e uno superiore, divisi tra loro da una trabeazione di gusto classico composta da architrave in laterizio, fregio recante l’iscrizione “INDULGENZA PLENARIA QUOTIDIANA PERPETUA E MOLTISSIME ALTRE PER LI VIVI E PER LI MORTI” e cornice sempre in cotto. Il livello inferiore risulta scandito in cinque campate con accenni di archi a tutto sesto (una centrale leggermente più ampia e due laterali per parte più ristrette) intervallate tra loro da sei paraste in cotto di ordine tuscanico con fascia basamentale e alto stilobate in marmo rosso di Verona. Il fronte esterno, grazie alla presenza delle porte d’accesso, permette di intuire la suddivisione in tre navate interna. Il portale centrale è decorato da una cornice, numerose modanature e un timpano in marmo sorretto da due mensole e da un fregio recante un’epigrafe che commemora la figura di Vincenzo Malmignati  ovvero il committente che eresse il portale suddetto  a sue spese. Sopra il timpano citato si presenta una lapide marmorea che commemora la data di consacrazione del tempio. Le due porte laterali, identiche tra loro, si articolano grazie a una cornice con timpano architravato sorretto da due mensole. Il livello inferiore della facciata si relaziona con il soprastante e modula il passaggio dalle ali laterali allo spazio centrale grazie alla collocazione di due strette volute terminanti, alle estremità, da due pinnacoli in cotto. La parte superiore del fronte è anch’essa scandita da quattro paraste in laterizio entro le quali si aprono tre campate ospitanti, quella centrale il rosone novecentesco con ghiera in cotto che sostituì la precedente finestra rettangolare  e quelle laterali, le nicchie ospitanti le statue, a destra di San Benedetto Abate e a sinistra della Beata Vergine con il Bambino. A coronamento del fronte si innesta un fregio recante l’iscrizione latina “NATIVITAS TUA MARIA GAUDIUM ANUNTIAVIT UNIVERSO MUNDO” al di sopra del quale poggia un timpano di ispirazione classica scandito internamente dal prolungamento delle medesime paraste sottostanti e terminante con tre pinnacoli svettanti verso il cielo.

Fig. 1

I lavori di costruzione della torre campanaria iniziarono nel 1738 e terminarono tre anni dopo su committenza di Melchiorre Sabini, il progetto, opera presumibilmente di Francesco Santini, si articola su quattro livelli sovrapposti. Al livello più basso si posiziona il basamento in laterizio con angolari in pietra d’Istria levigata che sorregge l’alto fusto decorato esternamente da tre cornici mistilinee intonacate, piccole finestre e l’orologio. Al di sopra di quest’ultimo si inserisce la cella campanaria caratterizzata da aperture a bifora intervallate da lesene ioniche e balaustre sempre in pietra d’Istria. Il livello più alto del campanile è occupato dalla cupola “a bulbo” che, con la svettante palla dorata con croce alla sommità, termina lo sviluppo verticale della torre.

Fig. 2

La chiesa cinquecentesca si sviluppava longitudinalmente su di un’unica navata con copertura a volta a botte decorata, i lati dell’aula erano occupati da sei altari, rispettivamente tre per parte e si completavano di un’abside molto profonda. La Sacra Immagine della Vergine, originariamente, era posta nell’altare di sinistra della navata mentre le altre pareti erano semplicemente decorate da alcuni quadri. I numerosi interventi di ampliamento del santuario iniziarono sul finire del ‘700 per poi proseguire fino al XX secolo. E’ proprio all’inizio dell’800 che la chiesa, per essere adattata al sempre crescente numero di fedeli e pellegrini, venne ampliata tramite l’aggiunta di due navate laterali, la tribuna absidale preesistente risultò ridotta per far spazio alla collocazione di due cantorie e dell’organo (anticamente collocato nella controfacciata), una volta innalzato il presbiterio vi si collocò l’altare con il Simulacro della Vergine e infine l’ultimo altare della navata destra venne ricostruito con le stesse dimensioni di quello di sinistra per ottenere così un transetto simmetrico. L’ultimo intervento di completamento della struttura, promosso da don Romualdo Zilianti, avvenne nel 1937 e portò alla costruzione di un deambulatorio attorno all’abside per consentire ai fedeli di venerare a distanza ravvicinata la Sacra effige della Madonna , che nel frattempo, venne staccata, insieme alla cornice marmorea, dall’altare maggiore per essere collocata nella parete di fondo del deambulatorio in corrispondenza dell’asse dell’altare. Per accedere al percorso sopraelevato vennero costruite due rampe di scale ai lati del presbiterio.

Fig. 3
Fig. 4

 

Al seguito di tali interventi la chiesa si presenta attualmente con un tipico impianto basilicale a tre navate voltate a botte e separate tra loro da arcate a pieno centro con intradosso dipinto e sorrette da pilastri rivestiti da riquadri in marmo e coronati da capitelli di ordine corinzio.  Una trabeazione con modanature e dentelli sottende la volta del soffitto cingendo così tutti i lati perimetrali del luogo sacro.  Appena sotto la suddetta cornice trovano spazio, in corrispondenza della chiave di volta delle arcate, due aperture finestrate circolari che, a destra attingono la luce direttamente dall’esterno mentre, a sinistra, si aprono su un ambiente sopraelevato (facente parte dell’antico monastero) chiamato “Coro degli ammalati” poiché permetteva una visione delle funzioni dall’alto per gli ammalati e i monaci. Le navate laterali sono ritmate dalla presenza di quattro altari, due per parte, dedicati a S. Corrado Confalonieri, S. Antonio Abate, all’Ascensione di Cristo e a San Francesco d’Assisi. Il transetto fronteggia e si innesta nello spazio tramite  due archi a tutto sesto leggermente rialzati rispetto a quelli presenti ai lati della navata centrale. In questo sono presenti due ulteriori altari dedicati a S. Antonio di Padova e S. Giovanni Battista. Un arco trionfale di notevoli dimensioni introduce al presbiterio e reca alla sommità l’iscrizione “LENDINARIENSIUM THESAURUS” (Tesoro dei Lendinaresi).

 

Fig. 5

 

Fig. 6

Lo spazio celebrativo, elevato dal piano di calpestio delle navate grazie a tre gradini in marmo rosso di Verona, è racchiuso ai lati da colonne corinzie e da altri due pilastri  in prossimità dell’Altare Maggiore. Quest’ultimo, di gusto tardo barocco è composto da doppie colonne binate in marmo rosso di Francia, un’apertura centrale con cornice mistilinea (che permette la visione del Simulacro della Madonna) e da una cimasa mistilinea incorniciata da due angeli inginocchiati con turibolo rappresentati nel momento dell’incensazione e da due putti reggenti il globo crucigero. A coronamento della costruzione si trova un angelo recante un cartiglio con l’iscrizione “Altare privilegiato”. Ai lati della mensa in marmo di Carrara si ergono due graziose statue rappresentanti rispettivamente, a destra l’Umiltà e a sinistra la Verginità. La prima, con il capo coperto e lo sguardo chino, tiene tra le mani un candido agnello mentre, con il piede, nasconde una corona, la seconda, vestita con una lunga tunica, stringe tra le mani il nodo del cingolo che le fa aderire la veste attorno ai fianchi.

Fig. 7

Al di là dell’altare maggiore, incastonato nella parete di fondo si trova la nicchia chiamata “Gloria marmorea” che ospita il Simulacro della Madonna con il Bambino. Questa, racchiusa in una cornice mistilinea, è sorretta da un angelo inginocchiato che si staglia in primo piano sulla sinistra dal fondo in bardiglio. Dall’immagine sacra si diramano numerosi raggi marmorei dorati in rilievo. Tra soavi cherubini e putti che emergono da viluppi di nuvole, risaltano due angeli, quello a destra trattiene i bordi superiori della custodia mentre , quello a sinistra, sorregge la corona argentea. La paternità di questa splendida opera è attribuita, finora, alla mano di Giovanni Marchiori. Al centro della meravigliosa composizione scultorea si staglia la Sacra effige.

Fig. 8

 

Fig. 9

Questa, alta poco più di 30 cm, originariamente era ottenuta da un unico pezzo di legno d’ulivo, di colore scuro quindi, da cui il nome Madonna Nera con il quale la Vergine di Lendinara prese ad essere chiamata e invocata dalla popolazione cittadina. Il Simulacro consiste nell’immagine di Maria come Vergine e Regina che, seduta in trono, sorregge in braccio il Bambino Gesù, anch’Egli, come la Madre, incoronato e in atto benedicente. Grazie a numerose fonti si apprende che, già dal 1576, la statua appariva vestita sia in segno d’onore e rispetto sia, probabilmente, per nascondere il rustico incavo presente nella figura dalle spalle alla base del trono. La venerata statuetta, tuttavia, è conosciuta anche con il nome di Madonna del Pilastrello (titolo ripreso anche nel nome del Santuario). Documentariamente questa intitolazione compare dal 1577, anno di inizio della costruzione della chiesa e si è prestata per numerose ipotesi interpretative. Secondo alcuni, infatti, il nome potrebbe derivare dalla versione in dialetto veneto di capitello (sul quale venne posta la statua), chi, invece, sostiene che la statuetta della Madonna sia stata sistemata su un pilastrello, prima della traslazione al santuario, per renderla maggiormente visibile ai fedeli. L’ipotesi più accreditata vede l’origine del termine dalla lingua spagnola, più precisamente, dal vocabolo pilar in quanto, nel corso del ‘500, soggiornavano nella città numerosi soldati spagnoli ( impegnati nella Lega Santa e di Cambrai) che avrebbero ravvisato nella Madonna di Lendinara una notevole somiglianza con la Madonna del Pilar di Saragozza, già patrona della Spagna. Ad avvalorare ulteriormente questa interpretazione è presente l’approvazione che la Santa Sede fece di una messa propria alla Madonna lendinarese, consigliando di seguire quella già approvata per la Madonna di Saragozza. Purtroppo, il 4 Settembre 1981, ignoti malviventi rubarono, attratti dalla quantità di collane, spille, ex - voto d’oro di cui era rivestita , la Sacra statua che non fu più ritrovata. Della statua originale si conservò solamente la mano benedicente del Bambino Gesù, che probabilmente si staccò durante la fuga. Per riparare all’atto sacrilego venne intagliata un’altra statua, identica all’originale, in legno di cirmolo dallo scultore gardenese Ferdinando Prinoth. Il Papa San Giovanni Paolo II, durante l’udienza generale del mercoledì 30 Dicembre 1981, benedì e baciò la nuova immagine che, 1 Gennaio 1982, venne ricollocata solennemente nella sua nicchia dove ancora oggi si trova.

Fig. 10

 

Fig. 11

Anche la decorazione pittorica della chiesa, come per la sua struttura architettonica, subì numerose modifiche nel corso dei secoli. Le prime tracce di una decorazione ad affresco risalgono al 1794 quando la municipalità di Lendinara affidò il compito della decorazione della volta a botte centrale della navata a Flaminio Minozzi. Tuttavia l’opera di tale artista non sopravvisse poiché, tra il 1895 e il 1905, Giovanni Battista Baldi sostituì completamente gli affreschi esistenti con nuove pitture, delle quali, rimane solamente la decorazione della piccola cupola della cappella sinistra del transetto. L’ultimo intervento di decorazione del santuario risale al 1937 quando l’abate Zilianti incaricò Giuseppe Chiacigh di rimaneggiare e sostituire la decorazione pittorica preesistente della basilica. I lavori, iniziati nel 1938, terminarono nel 1942. L’artista incentrò la decorazione pittorica in tre zone, nella navata centrale egli dipinse scene ispirate ai Miracoli compiuti della Vergine a Lendinara mentre, nelle navate laterali, tramite un magistrale uso del chiaroscuro e dei toni monocromatici, dipinse elementi araldici sorretti da putti, cornici, volute e festoni di chiaro gusto tardo barocco. La volta della navata centrale si può quindi dividere idealmente in tre scene, a sinistra la preservazione della città, per intercessione della Madonna, dalla rotta del fiume Adige, a destra la liberazione di Lendinara dalla peste del 1630 e in centro la raffigurazione, tra strati di nuvole attorniate da evanescenti cherubini, della Vergine con il Bambino che, apparsa in tutta la sua gloria tra uno squarcio di nubi, fa scendere dalla propria mano un raggio luminoso che conferisce potere taumaturgico alla Sacra statuetta posizionata nella parte inferiore della volta al di sopra della siepe dove, nel 1509, fu ritrovata sfolgorante di luce. Dal punto di vista stilistico le figure, nella loro plasticità, si stagliano dallo sfondo perlopiù monocromatico creando così giochi di luce e accesi contrasti chiaroscurali. Nella controfacciata è collocata la raffigurazione di un gruppo di malati, sofferenti e soldati di diverse epoche, unanimi nel rivolgersi con profonda fede, in un ultimo gesto di affidamento, verso la Madonna dipinta al centro del soffitto.

Fig. 12

La decorazione prosegue nella cupola che sovrasta il presbiterio e nel catino absidale di quest’ultimo. Gli affreschi rappresentano rispettivamente due episodi della vita di Maria e misteri mariani, il primo, la Natività e l’ultimo, l’Incoronazione celeste. Al centro della cupola, da uno squarcio nel cielo denso di nubi, appare l’immagine della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo nell’atto di incoronare la Vergine. Maria, sottostante è attorniata da tre figure in estasi difronte alla visione celeste, S. Benedetto, il Beato Bernardo Tolomei e S. Francesca Romana. La decorazione continua nel catino absidale ove viene narrata la Natività di Maria. La scena, ambientata all’apice di una scalea presenta la Trinità inquadrata nella lanterna in trompe l'oeil che irradia la luce divina dall’alto. L’alto basamento in bassorilievo sul quale poggiano i personaggi dell’episodio principale richiama un altro simbolo della Natività: il peccato di Adamo e Eva al quale si richiama nuovamente il serpente che, in basso a destra, fugge dalla scalinata alla vista della Vergine. Ai lati della scena, come se fossero statue monolitiche, vengono rappresentati i quattro profeti Isaia, Osea, Michea e Sofonia mentre ai piedi della scalinata emergono tre figure di papi e vescovi astanti in atto di venerazione difronte all’evento sacro.

Fig. 13

La decorazione ad affresco delle volte lascia spazio a quella pittorica su tela che si presenta nelle pale degli altari laterali. Si ritiene giusto segnalare, tra tutte, due opere: S. Bartolomeo in gloria e L’Ascensione di Cristo. La prima, eseguita da Domenico Robusti detto il “Tintoretto” intorno al 1590, occupa la parte superiore del primo altare della cappella di S. Corrado Confalonieri della navata di destra. Nell’opera, fra le nuvole, emerge S. Bartolomeo con lo sguardo rivolto verso la luce divina proveniente dall’alto, nell’ascendere alla gloria celeste ecco che regge, con la mano destra, il coltello e la pelle scorticata durante il suo martirio (in questa alcuni storici hanno intravisto un presunto autoritratto del Tintoretto, forse memore dell’esempio dello stesso soggetto raffigurato nel Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina). In fianco al Santo compaiono quattro angeli disposti simmetricamente due a due attorno alla figura centrale. Uno di questi, quello di destra, regge la mitria di S. Bernardo Tolomei, raffigurato in basso nella veste dell’ordine con le mani incrociate al petto in segno di venerazione difronte alla visione del Santo. Vicino a quest’ultimo emerge S. Benedetto. Nella parte bassa della pala, a mezzo busto, vengono raffigurati i due committenti dell’opera: Bartolomeo e Battista Malmignati.

Fig. 14

La seconda tela, opera di Paolo Cagliari detto il “Veronese”,  è ubicata nella cappella dell’Ascensione nella navata sinistra della basilica. Realizzata intorno al 1580, il dipinto presenta e riassume lo stile pittorico più tardo dell’artista, fortemente influenzato dalla spinta controriformista della Chiesa al seguito del Concilio di Trento. Il tema iconografico rappresenta il momento dell’Ascensione di Cristo in cielo tra lo stupore degli Apostoli, il Signore, circondato da due angeli e sette teste di cherubini, si innalza verso il cielo colmo di luce. Al di sotto, i dodici apostoli increduli e estasiati dall’evento sacro, sono accompagnati da una figura a mezzo busto che indica la scena, è il committente dell’opera, ovvero, il cavaliere Vincenzo Malmignati, tra l’altro, promotore della costruzione della chiesa stessa. Come accennato l’uso di colori accesi e l’ideazione dell’albero inclinato a sinistra (che crea instabilità alla scena supportata dalle movenze stupite degli Apostoli) sono caratteri comuni nell’opera dell’ultimo Veronese. Risulta, inoltre, interessante notare come, al di sotto della mensa dell’altare, siano presenti le reliquie di S. Vincenzo. Queste, provenienti dalle Catacombe di Priscilla a Roma, vennero donate al santuario nel 1823 e rivestite successivamente con un calco in cera riproducente i connotati del Santo. Di notevole interesse artistico compare anche la piccola tavoletta raffigurante San Pietro custodita all’interno del vano destro a fianco del presbiterio (l’antica sagrestia), ora Cappella dedicata all’abate Celestino Colombo. L’opera, secondo recenti attribuzioni, venne realizzata dal pittore ferrarese Dosso Dossi e sembrerebbe, visto le piccole dimensioni, una delle porte laterali di un polittico. San Pietro, vestito con i tipici abiti blu e dorati, indica il cielo mentre tiene tra le mani le chiavi del Regno dei Cieli.

Fig. 15

Il luogo dove nel ‘500 avvennero i fatti miracolosi legati alla fonte di acqua prodigiosa non è custodito all’interno dello spazio basilicale del santuario ma in un corpo di fabbrica attiguo a quest’ultimo. L’odierna composizione architettonica è frutto dei rimaneggiamenti del rettore don Giacomo Baccari avvenuti tra il 1816 e il 1818. L’intervento portò alla costruzione di due locali distinti: l’atrio e la Cappella del “Bagno”.

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Fig. 17

Il primo, realizzato per creare un filtro tra il luogo sacro della chiesa e quello della purificazione, si presenta con un impianto a tre navate, delle quali, quella centrale conduce alla Cappella attigua mentre le due laterali, separate tramite quattro colonne che sorreggono tre archi a tutto sesto, ospitano il Pilastrello e l’entrata al cortile del monastero. Il Pilastrello in marmo finemente lavorato, posto nel lato sinistro dell’atrio, racchiude quattro nicchie al cui interno, dalla bocca di quattro angeli, sgorga l’acqua della sorgente miracolosa. Su progetto dell’architetto veneziano Domenico Rupolo, l’opera sostituì nel 1909 la precedente fonte realizzata con un semplice e monolitico blocco di marmo rosso veronese. Lo scultore Policranio Cadetti è l’autore materiale del progetto e della statua della Madonna con Bambino, in bronzo dorato, collocata a coronamento della struttura.

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Il secondo ambiente, la Cappella del Bagno, presenta un impianto basilicale a tre navate ritmato da dieci colonne di ordine composito con basamento che sostengono le volte a crociera con nervature della navata centrale e le ridotte volte a botte che si aprono sulle navate laterali. La successione della copertura centrale a crociera si interrompe in corrispondenza della fonte miracolosa ove trova collocazione una piccola cupola che segna fisicamente il luogo sacro insieme alle quattro colonne che la sorreggono, da nere, in questo punto, diventano di marmo grigio. L’antica sorgente, anticamente realizzata in marmo rosso di Verona con un muretto per impedire la vista ai fedeli degli infermi che vi si immergevano,  si presenta attualmente come un basso recinto marmoreo bianco  di forma ottagonale ( rimando alla forma del Battistero e quindi al rito della purificazione battesimale). La vasca, progettata da Rupolo nel 1909, venne abbellita tramite l’aggiunta di quattro angeli con brocche sgorganti d’acqua nel 1929. Attorno allo spazio sacro si inseriscono, al di sotto delle dodici volte a botte della navata, dodici tele raffiguranti i miracoli della Madonna realizzate da Giovanni Baccari in sostituzione degli affreschi di Giovanni Fassini poiché rovinati dall’effetto dell’umidità. Sul fondo della navata si staglia un altare marmoreo contenente un’antica tavola che raffigura la Madonna di Lendinara mentre benedice gli ammalati e gli infermi atti nell’immergersi nella fonte.

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Infine, per terminare il viaggio all’interno di questo meraviglioso luogo non si può non citare il costante e duraturo legame che i pontefici intrattennero con il Santuario lendinarese. Questo fu infatti meta preferita di numerose visite da parte di Papa San Giovanni XXIII quando era Patriarca di Venezia e del papa veneto Albino Luciani, Papa Giovanni Paolo I anch’egli in veste di Patriarca veneziano. Tuttavia, anche dopo il corso di numerosi anni, questo luogo continua ad attrarre folle di fedeli e pellegrini, semplici visitatori, turisti o affascinati cultori dell’arte, continua a trasmettere un profondo silenzio di spiritualità e fiducia divina. Non a caso proprio il vescovo della Diocesi di Adria Rovigo, Pierantonio Pavanello, si è recato al cospetto della Sacra effige per affidare, in questi tempi difficili, il popolo polesano alla protezione della Vergine, una affidamento sincero che, come noi, i nostri predecessori avevano già sperimentato costruendo, innalzando, onorando il Cielo con opere, edifici e testimonianze preziose, testimonianze destinate ad attraversare i secoli per essere contemplate e osservate dai nuovi volti del domani.

Bibliografia essenziale:

  • Monaci Olivetani, Santuario di Nostra Signora del Pilastrello di Lendinara, realizzato in occasione dell’Anno Santo 2016;
  • Pignatti, F. Pedrocco, 'Veronese', Milano 1995, II, p. 512-513, n. A36;
  • Rovigo e la sua provincia, guida culturale, Amministrazione Provinciale di Rovigo, 1991;
  • Rovigo, I luoghi e il tempo, Signumpadova editrice, 2008;

 

Fotografie:

Immagini di dominio pubblico tratte dal sito web del Monastero Olivetano di Lendinara, Google Maps e dal libro  “Santuario di Nostra Signora del Pilastrello di Lendinara, realizzato in occasione dell’Anno Santo 2016”;

 

Disegni delle piante realizzati da Mattia Tridello con il programma Autocad