IL BATTISTERO DI OSIMO SECONDA PARTE

A cura di Giulia Pacini

INTRODUZIONE

La seconda parte della trattazione sul Battistero di Osimo prenderà in esame l'apparato decorativo del soffitto ligneo, per poi concentrarsi sul fregio e sulla parete dietro l'altare.

IL BATTISTERO DI OSIMO: IL SOFFITTO LIGNEO

Il 27 settembre 1629 novembre venne rogitato dal notaio episcopale Prospero Tomassetti il contratto per la decorazione del soffitto ligneo del battistero di Osimo, contratto che si articola in una serie di dettagliate note tecniche, che entrane nel merito dello specifico assetto compositivo: lo schema, le figure, le storie, gli ornati, il tutto da sottoporre, attraverso disegni e cartoni, all'approvazione dell’illustre committente, il Cardinale Agostino Galamini. L’autorevolezza del committente emerge inoltre da alcune clausole contrattuali, come l’impegno ad un’ immediato avvio dell’opera “lunedì prossimo primo d’ottobre 1629”, l’assunzione, da parte dell’artista, degli oneri economici “a tutte le spese” ed infine l’obbligo a non accettare altri incarichi prima della completa realizzazione del lavoro: è evidente che il Galamini si fidasse poco del Santi, probabilmente preceduto dalla sua nomea poco affidabile, e noto per le sue stranezze ed intemperanze, oppure perché il Galamini stesso era impaziente di vedere il lavoro terminato. Accanto ad Antonio Sarti, esecutore delle pitture sul soffitto, nonché progettista e coordinatore dell’intero progetto decorativo, il medesimo documento contrattuale fa riferimento alla collaborazione di due altri pittori e doratori, Giovan Battista Gallotti di Roccacontrada e Teodosio Pellegrini di Castel d’Emilio per la messa in opera delle partiture decorative di complemento: cornicioni, rosoni, dentelli, membrature, modiglioni, accompagnato da una dettagliata descrizione dei motivi ornamentali, teste di cherubini, chiocciole, fogliami ed arabeschi, e da prescrizioni tecniche sull'uso e la qualità dei colori. Portata a termine con eccezionale tempestività appena cinque mesi dopo l’avvio dei lavori, il 4 marzo 1630, la scenografica ornamentazione del soffitto segna il coronamento di un programma unitario, iconografico e decorativo, concepito, promosso e realizzato dal cardinal Galamini, che comprendeva, oltre all'impresa del Sarti e collaboratori, il fonte battesimale bronzeo, opera dei fratelli Pietro Paolo e Tarquinio Jacometti di Recanati. L’antefatto più significativo per l’incarico nel battistero osimano va senza dubbio ravvisato nella documentata presenza del Sarti nella basilica lauretana, dove fu chiamato ad affrescare, nella Cappella del Sacramento tre storie sacre: La caduta della manna, Il sacrificio di Isacco e Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. Il soffitto del battistero di Osimo copre un’ampia superficie rettangolare di 117 mq. Realizzato in legno di abete, esso presenta un’incorniciatura, che corre lungo il perimetro, a dentelli alternati a rosoni dipinti a foglia d’oro e ornati con motivi vegetali. La superficie lignea è divisa in tre scomparti dipinti, compresi ciascuno entro cornici dorate a gola, dentelli e piccoli rosoni. Lo scomparto centrale, di forma quadrata, presenta le mezzo un ovale in cui è rappresentato il Miracolo della piscina probatica, circondato da quattro pannelli con gli Evangelisti, associati ai rispettivi simboli. Negli scomparti laterali, entro modanature mistilinee, i pannelli esagonali recano altrettanti episodi biblici: La guarigione di Naaman di Siria (vicino all'ingresso) e Mosè salvato dalle acque del Nilo (vicino all'altare). Negli interspazi intorno alle due formelle sono rappresentati angeli con simboli battesimali, una veste, un cero, una stola, un neonato, e angeli con gli oggetti caratteristici del battesimo, un’anfora, una brocca, un rituale ed una conchiglia con asciugatoio. Il tema dell’acqua purificatrice, strumento di eterna salvezza ed esemplare metafora del sacramento cristiano del battesimo, acquista nel testo pittorico del Sarti una centralità ideale e figurativa, attraverso la rappresentazione degli episodi della Guarigione di Naaman di Siria risanato dalla lebbra attraverso l’immersione nelle acque del Giordano e del Mosè salvato dalle acque del Nilo. Realizzati con pochi tratti grafici e con una singolare delicatezza cromatica ed atmosferica, sfocati brani di paesaggio scalano in profondità, lungo le morbide anse fluviali, rivelando un pittore di insospettata perizia nell'elegante impaginazione delle scene.

IL FREGIO

Lungo il perimetro del battistero, sulla sommità delle pareti, corre un fregio dipinto a fresco, naturale e quasi obbligato svolgimento del fastoso partito decorativo presente ne soffitto ligneo. La decorazione emerge da un fondo di un particolare colore azzurro pervinca, conseguenza di un originale blu scuro. La decorazione si esplica secondo un tema iconografico articolato con piccole varianti in sette sequenze modulari, sviluppate su una ritmica orditura di volute, girali vegetali, motivi spiraliformi intrecciati tra loro. La scansione dello spazio dipinto è affidata ad otto scultorei telamoni, nell'atto di sostenere allusivamente gli architravi su cui poggia il soffitto, posti all'estremità di ciascun modulo o sequenza decorativa ed affiancati da coppie di putti alati, atteggiati in armoniose movenze, che sostengono alternativamente una pigna ed una testa di toro, come germogliate da infiorescenze fantastiche. Al centro di ciascun modulo, entro una finta cornice a tabella, sorretta lateralmente da due putti, l’invenzione manieristica del “quadro riportato” replicata per sette volte, tre su ciascuno dei lati maggiori ed uno sulla contro-facciata, sopra la cantoria, interrompe la vivace teoria di putti e volute, riaffermando, pur nella diversità dei soggetti trattai, la centralità del tema religioso, attraverso la rappresentazione di sette santi oranti, sullo sfondo di scenari rupestri di invenzione, aperti su lontani orizzonti. Identificati dal nome scritto entro un cartiglio, posto al di sopra della finta cornice, sono raffigurati, nella parete sinistra a partire dall'altare, San Benedetto da Norcia, San Caritone, San Simeone; nella parte destra San Francesco d’Assisi, Sant’Egidio, Sant’Arsenio; nella controfacciata San Giacomo (vedi figura 16). Caratterizzata dal comune orientamento verso una scelta di vita solitaria e meditativa, indirizzata verso il romitaggio, l’ascesi o il monachesimo, l’iconografia dei sette santi, spesso associata a simboli della loro ascetica solitudine, la grotta il volto emaciato e barbuto,la natura selvaggia, si collega al tema del battista, primo “eremita” della storia del cristianesimo e, di conseguenza, alla genesi stessa del rito battesimale, inteso come purificazione del peccato; non è forse casuale la ricorrente presenza dell’acqua sotto forma di corsi fluviali, piccoli bacini lacustri, neve, torrenti o cascatelle, elemento iconograficamente unificante ed insieme forma allegorica del rito battesimale.

LA PARETE DELL’ALTARE

La parete dell’altare presenta un’articolata trama decorativa, caratterizzata da un complesso di motivi ornamentali e di temi iconografici, combinati secondo un variegato repertorio figurativo, in cui si possono individuare due partiture orizzontali: quella superiore, sviluppata entro uno spazio centinato, è occupata dalla scena della Crocifissione, teatralmente eseguita da due angeli reggi cortina, che trattengono lateralmente le bande di un pesante sipario. Nella fascia sottostante, le immagini a figura intera di San Pietro, a sinistra, e San Paolo, a destra, inscritte entro finte nicchie dipinte, inquadrano simmetricamente l’altare, dove campeggia la pala raffigurante il battesimo di Gesù, fulcro ottico ed ideale dell’intero complesso decorativo. Nella bilanciata articolazione dell’impianto compositivo, emerge un fantasioso gusto scenografico, esaltato dalle stesure larghe e luminose del colore e dalla sapiente resa pittorica degli elementi ornamentali: finte cornici, finti stucchi, finti marmi policromi, finte statue a monocromo, in grado di simulare allusivi effetti tridimensionali, che testimoniano  la persistenza nelle zone marchigiane di repertori figurativi manieristici, esemplarmente esibiti nell'artificio del tendaggio sollevato, a sottolineare la teatralità della “sacra rappresentazione” del Golgota. Nel bizzarro connubio di cadenze arcaizzanti e di inserti moderni che caratterizza la sceneggiatura della crocifissione, l’evocazione dei modelli quattro – cinquecenteschi , affida all'idioma della vocazione popolare del sermo humilis, è attestata dai riferimenti figurativi tradizionali dei due ladroni legati sulle croci “a tau”, del soldato Longino che trafigge con la lancia il costato di Cristo, del gruppo di soldati che si giocano a dadi le vesti del Salvatore. Forti influssi seicenteschi rivelano invece l’opalescente brano di veduta urbanistica stilizzata in lontananza, con il canonico inserto del tempio circolare, metafora della Gerusalemme Celeste, ed il particolare curiosamente anacronistico del guerriero a cavallo che ostenta gagliardi mustacchi arricciati “alla spagnolesca”. Il principio salvifico e purificatore, motivo conduttore della complessa architettura iconografica del battistero, in cui si intrecciano paesaggi ed ornati, emblemi araldici e simboli religiosi, giustifica l’apparente incoerenza tematica della Crocifissione, metafora di redenzione dell’umanità dal peccato originale, perpetuata attraverso la liturgia battesimale. Sotto la scena della crocifissione, una scritta entro un cartiglio recita: “EX LATER CHRISTI, DORMIENTIS IN CRUCE / FLUXERUNT SACRAMENTA”, con evidente riferimento al sangue di Cristo, che gli fluisce dal fianco, simbolo del sacramento dell’eucarestia. Il cartiglio con la scritta, chiave di volta per la comprensione del significato della crocifissione nel contesto battesimale, è oggi  interdetto alla vista dall’addossamento dell’altare ligneo alla parete affrescata, che ha comportato l’improvvido occultamento dietro la cuspide del timpano, compromettendone in modo definitivo la leggibilità. All’esemplare intento teologico e dottrinario che governa l’intero programma iconografico non corrispondono tuttavia sul piano esecutivo esiti di pari impegno artistico. Prevale, nella narrazione sacra, un tono di spensierata vivacità che annulla ogni coinvolgimento emotivo: dramma e phatos non sfiorano i personaggi, manichini inespressivi segnati da vistose sproporzioni, come l’ingombrante gruppo dei dolenti in primo piano, attoniti in una fissità bonaria ed assente: una tipologia fisionomica che ricorre a tratti nei volti di alcuni angeli, cherubini, telamoni fino al prototipo del monumentale San Paolo, impaginato a figura intera, all'interno della finta nicchia di destra. Accanto ad esiti qualitativamente scadenti, vanno tuttavia segnalati alcuni brani di raffinata esecuzione, in particolare gli squisiti monocromi con le Virtù, posti negli angoli di risulta, sopra le finte nicchie: la Fede  e la Speranza sopra San Pietro, la Carità e la Fortezza sopra San Paolo, contrassegnate dai rispettivi simboli: il calice con la croce, l’ancora, la “Virgo lactans” e la colonna. Lo stile spigliato ed il tratto veloce e compendiario dei quattro piccoli monocromi denunciano una spiccata sensibilità artistica che nulla ha a che vedere con il modesto esecutore dei goffi fantocci della crocifissione, rivelando invece palesi tangenze con il pittore veronese Claudio Ridolfi, presente ad Osimo intorno al 1640. Tra le ipotesi avanzate della paternità degli affreschi parietali, c’è l’attribuzione ad un pittore di origine jesina, Arcangelo Aquilini (1623 – 1684), ma ad oggi non vi sono veritieri riscontri circa la sua avvenuta maestranza nella città di Osimo. Gli autori del blocco d’altare vengono individuati in Teodosio Pellegrini e Giovan Battista Gallotti, decoratori che avevano affiancato il Sarti negli ornati del soffitto. Il sofisticato gioco illusionistico degli ornati e delle pregiate incorniciature trova la sua più riuscita espressione nell’originale soluzione decorativa dell’altare, in cui l’elemento strutturale vero e proprio, un prospetto architettonico in legno dorato ed intagliato, di gusto tardo cinquecentesco, si imposta a ridosso di una raffinata decorazione trompe l’oeil, che riproduce nella parete la sagoma e gli ornati di un altare dipinto, sormontato da un monumentale timpano spezzato a più ordini di intaglio, prospetticamente definito. La difficoltà di conciliare sul piano critico e conoscitivo il momento decorativo dell’altare dipinto con l’intervento della struttura lignea sovrapposta impone una prima riflessione, che tende a privilegiare come originaria scelta progettuale la realizzazione di un sontuoso altare fittizio, dipinto al centro della parete, destinato ad inquadrare una pala d’altare. La conferma di questa ipotesi è emersa nel corso del recentissimo intervento di restauro sulla parete affrescata, che ha permesso di verificare, dietro il parziale occultamento dell’apparato ligneo, l’esistenza di una mostra d’altare compiutamente dipinta e minuziosamente definita nei dettagli decorativi di contorno, che lascia intravedere al centro una vistosa lacuna di intonaco grezzo, destinata ad una successiva stesura “a fresco” o ad essere mimetizzata sotto la pala d’altare. Non ci sono note le ragioni per il quale l’affresco dell’altare venne coperto dalla struttura lignea dell’altare vero, che tutt’oggi possiamo ammirare. Se, come si ritiene, l’altare ligneo, nella composta ed elegante solidità di linee architettoniche e decorative, rappresenta una scelta culturale più matura rispetto al più composito e variopinto palinsesto d’insieme, la pala d’altare con il Battesimo di Gesù si inserisce coerentemente nel contesto dell’altare come risposta ad un’istanza di decoro e di normalizzazione in senso “classicheggiante” seicentesco, che ha indotto a formulare una discutibile attribuzione al pittore Carlo Maratta. L’analisi fin qui compiuta sulla complessa genesi decorativa del battistero ci porta a confermare la sicura pertinenza del dipinto all’altare che lo ospita e la presunta collocazione cronologica in pieno XVII secolo. La studiata semplificazione compositiva della scena obbedisce ad un’esigenza di equilibrio spaziale, che isola i due protagonisti in primo piano, sullo sfondo di una suggestiva ambientazione paesistica, scalata lungo le rive di un immaginario e sinuoso fiume Giordano. L’attenzione prestata al lato naturalistico, accentuata anche dalla minuzia descrittiva delle fronde e del fogliame, degna di un fiammingo, pongono il dipinto in relazione con alcuni scomparti del soffitto, La guarigione di Naaman di Siria ed il Mosè salvato dalle acque. Ma accanto all’ineludibile mediazione del Sarti, il presunto  pittore del Battesimo rivela una pluralità di influenze diverse, riconducibili a quella brulicante koinè artistica che, nel vicino cantiere lauretano aveva espresso, alcuni decenni prima, un esempio similare di stilemi e di archetipi della cultura figurativa riformata di ascendenza romana, dal Pomarancio, allo Zuccari, fino allo stesso Bellini, maestro del Sarti.

 


IL BATTISTERO NELL'EPISCOPIO DI OSIMO

A cura di Giulia Pacini

INTRODUZIONE: IL BATTISTERO DI OSIMO

In relazione alle trattazioni sul complesso dell'Episcopio, oggi si andrà ad affrontare il tema relativo al Battistero di Osimo, altresì noto come chiesa di San giovanni Battista. In questa prima parte si illustreranno le fasi relative alla committenza, all'apparato iconografico e alla realizzazione pittorica dello stesso.

COMMITTENZE ED ARTISTI ATTIVI NELLA PROGETTAZIONE E REALIZZAZIONE DEL FONTE BATTESIMALE

Non si hanno notizie certe sulle origini del Battistero di Osimo, o Chiesa di San Giovanni Battista, che sorge accanto alla Chiesa Cattedrale. Si può ipotizzare che si tratti di un edificio indipendente, costruito proprio come chiesa battesimale fin da epoca tardo-antica. Ha una dimensione di m. 15,70 per m. 7,25. I restauri hanno rivelato nella parete nord l'antica porta, due grandi finestre e alcune tracce di antichi affreschi, mentre nella parete sud una grande porta e quattro finestre disuguali per misure. Di certo la chiesa fu destinata a tale funzione dagli inizi del sec. XVII, quando il vescovo di Osimo, Agostino Galamini (1620-1639), commissionò la decorazione del soffitto della chiesa, la realizzazione di un fonte battesimale in bronzo e un affresco sulla parete dell'altare come parti di un unitario programma iconografico, volto a rimarcare le proprietà salvifiche dell'acqua battesimale. La realizzazione del sontuoso soffitto, che rappresenta uno dei gioielli del nostro patrimonio culturale, fu commissionata nel 1629 al pittore Antonino Sarti di Jesi, che ne fu anche progettista e coordinatore dell'intero progetto decorativo. L'opera del soffitto fu portata a termine, con eccezionale rapidità, appena cinque mesi dopo l'inizio dei lavori, e cioè il 4 marzo 1630. La superficie lignea è suddivisa in tre scomparti incorniciati. Negli scomparti laterali, i pannelli esagonali recano episodi biblici: la guarigione di Naaman di Siria e Mosè salvato dalle acque del Nilo. Negli interspazi sono rappresentati Angeli con i simboli battesimali e con altri accessori per il Battesimo. Lo scomparto centrale, di forma quadrata, ha nel mezzo un medaglione ovale in cui è rappresentato il Miracolo della piscina Probatica, circondato da quattro pannelli con gli Evangelisti e i rispettivi simboli: l'angelo per Matteo, il leone per Marco, il bue per Luca e l'aquila per Giovanni. L'elegante impaginazione compositiva delle scene rivela nel Sarti un pittore di insospettata perizia, vicino, soprattutto nelle aperture paesistiche, alla scuola veneta di Claudio Ridolfi, presente nel territorio marchigiano e legato all'artista jesino. II soffitto presenta nel suo perimetro esterno un cornicione con rosoni dorati su fondo azzurro, alternati a mensoloni aggettanti con fogliame dipinto in ocra, decorato insieme alle cornici da collaboratori del Sarti, Giovan Battista Gallotti di Arcevia e Teodosio Pellegrini di Castel d'Emilio. Sotto il soffitto corre un ampio fregio in affresco di stile tardomanieristico, che rappresenta sette santi asceti: da sinistra dell'altare San Benedetto da Norcia, San Caritone, San Simone, San Giacomo, Sant’Arsenio, Sant’Egidio, San Francesco di Assisi, tutti riquadrati tra schiere di putti con fogliame ed arabeschi recanti al centro, alternativamente, teste di tori e pigne. La parete dell'altare si presenta con un'articolata trama decorativa a più mani, che possiamo distinguere in tre parti. La prima è dominata da un grande affresco della crocifissione, mostrata da due angeli che trattengono un grande sipario da teatro, in una specie di sacra rappresentazione.  In particolare dal costato di Gesù esce sangue ed acqua, con riferimento ai sacramenti dell'Eucarestia e del Battesimo. L'affresco è stato attribuito ad Arcangelo Aquilini di Jesi o agli stessi decoratori del fregio, Pellegrini e Galeotti. Pur nella sua semplicità e a volte rozzezza, pur nella sua mancanza di pathos, l'affresco è, tuttavia, una splendida espressione di un’interessante cultura tipica della pietà popolare. La seconda parte presenta gli apostoli Pietro e Paolo con i simboli che li caratterizzano, le chiavi e la spada, e quattro Virtù (Fede, Speranza, Carità e Fortezza), in bianco e nero, di raffinata esecuzione, che rivelano spiccata sensibilità artistica. La terza parte è costituita dalla pala d'altare con il Battesimo di Gesù, fulcro ottico e ideale dell'intero complesso decorativo. E’ databile alla seconda metà dei sec. XVII ed è stata attribuita erroneamente a Carlo Maratta. La tela è incastonata in un bell'altare ligneo di successiva fattura.

IL FONTE BATTESIMALE: LE VICENDE DELL'OPERA

Per quanto riguarda la scelta dell’artista che doveva eseguire il fonte battesimale nel Battistero di Osimo, si tenga presente che il Galamini era stato vescovo di Loreto dove aveva avuto modo di apprezzare la scuola di scultura di Antonio Lombardi e dei suoi figli, dalla quale uscirono i fratelli scultori Tarquinio e Pietro Paolo Jacometti, nipoti di Antonio. Ben sette rogiti del notaio Prospero Tomassetti, che vanno dal 16 luglio 1622 al 18 dicembre 1629, documentano la storia della commissione del Battistero che fu fatta inizialmente dal Galamini attraverso un suo rappresentante, Bernardino Mariani, al figlio di Antonio Lombardi, Paolo, che perciò deve essere considerato l’ideatore del disegno, ispirato probabilmente allo stesso committente. Non è chiaro altresì perché il lavoro fu eseguito dai fratelli Jacometti. L’impegno preso dal Lombardi prevedeva che l’opera sarebbe stata pagata 1550 scudi e sarebbe terminata a messa in opera a due anni di distanza dal contratto. Invece il lavoro andò per le lunghe. Fu stipulato un secondo contratto, in cui venivano modificate le condizioni del primo, riducendo le proporzioni del monumento e fissando un pagamento differente: 700 scudi più 5000 libbre di bronzo. Tale contratto fu stipulato tra Pietro Paolo Jacometti ed il garante, un tale Fabrizio Lepretti di Recanati, che era apparso anche nel primo contratto. La nuova stipula venne tenuta nascosta al cardinale, che ne venne a conoscenza solo all'atto della consegna: dapprima si trovò contrario a tale gesto, ma poi accettò l’opera e, inoltre, versò allo Jacometti cento scudi in più rispetto alla somma pattuita. L’opera, di evidente impronta manieristica, è posteriore di una ventina d’anni al fonte battesimale del Vergelli nella Basilica di Loreto, al quale aveva lavorato anche Tarquinio Jacometti. Entrambe le opere sono “spettacolari per mole e per virtuosismo”, ma rispetto a quella di Loreto, questa di Osimo appare più contenuta ed essenziale nella struttura, meno affastellata con elementi decorativi e certamente più matura nella facilità del modellato, nello sfruttamento delle convessità dove la luce gioca effetti dinamici e nervosi, di notevole effetto pittorico: una tecnica, quella del fonte di Osimo, che nelle statue si distanzia da quella del maestro Antonio Lombardi per una certa semplificazione delle forme ed una più ampia scansione delle superfici. Tradizionalmente l’opera è attribuita ai due fratelli Tarquinio e Pietro Paolo, ma nei contratti appare sempre Pietro Paolo e non Tarquinio. Tuttavia statue e pannelli non sembrano usciti dalla stessa mano, perché tra le une e gli altri non c’è solo una sostanziale differenza di tecnica, ma anche una visione notevolmente differente: alla ricerca esasperata di pittoricismo e dinamismo evidente nei riquadri, dove è facile sentire il riflesso della tecnica del maestro Antonio Lombardi, sono dissonanti le statue, con la loro forma plastica, compatta e levigata, dall'intonazione manieristica che raggiunge il suo culmine nella figura del Redentore sulla sommità del monumento, trasposizione tipica di tante realizzazioni pittoriche trionfali di Ascensioni e di Assunzioni del ‘500 e del ‘600. Si consideri inoltre che Pietro Paolo è autore della targa sulla torre di Recanati, con la Traslazione della Santa Casa di Loreto (1634), abbastanza vicina stilisticamente a questi pannelli del Battistero di Osimo.

IL FONTE BATTESIMALE E LA SUA ICONOGRAFIA

Tutto il complesso del fonte battesimale bronzeo del Battistero di Osimo poggia su una base a forma di quadrifoglio: una evidente rivisitazione e semplificazione della fontana nel piazzale della Madonna di Loreto, di Carlo Maderno e Giovanni Fontana alla quale hanno lavorato, per la parte decorativa, anche i fratelli Jacometti; ma anche un altrettanto evidente riferimento al plurimo valore simbolico del numero quattro, allusione ai quattro fiumi del paradiso, alle quattro virtù cardinali, ai quattro evangelisti. Su ogni lobo del quadrifoglio si innalza un torello con il muso rivolto verso l’esterno (fig 1). La presenza del toro non è soltanto legata alla simbologia delle Sacre Scritture (libro dei Re), ma è anche un richiamo allo stemma del committente.  Sui dorsi e sulle teste dei quattro animali, ognuno dei quali guarda verso uno dei quattro punti cardinali, poggia un carino guarnito di ghirlande unite tra di loro da testine di putti alati sorridenti, alternati a nodi di nastri, fermati al centro da un fiore. Sul catino si innalza il fonte vero e proprio, a pianta circolare e corredato di cupolini, alle estremità dei diametri del cerchio di base del tempietto compaiono quattro statue: tre sedute, di donna, raffiguranti le virtù teologali, Fede (fig 9), Speranza (fig 10) e Carità (fig 11) e la quarta, in piedi, raffigurante San Giovanni Battista (fig 8), rivolta verso l’ingresso della chiesa. Quattro riquadri incrostati a bassorilievo sulla superficie circolare del tempietto sono divisi tra loro da lesene, decorate in altro con teste di putti e bucrani, alle quali si addossano le quattro statue. Com'è nella tradizione decorativa dei battisteri, anche nel Battistero di Osimo in tre dei quattro riquadri si svolgono scene legate alla presenza dell’acqua e le stesse scene, dipinte, figurano anche negli scomparti del soffitto: La guarigione di Naaman di Siria nel Giordano (fig 4); La piscina probatica (fig 5); il battesimo di Cristo (fig 3). Questo ultimo riquadro decora uno sportello che protegge una delle due parti di cui è formato un bacino interno, e precisamente quella nella quale è contenuta l’acqua lustrale. La quarta scena è La predicazione di San Giovanni (vedi figura). Qui lo sportello custodisce la parte del bacino entro la quale si amministra il battesimo. Il cupolino è diviso in settori: quattro spicchi in corrispondenza dei riquadri sottostanti, e quattro fasce longitudinali in corrispondenza delle statue, anch'esse sottostanti. I settori che contengono vari motivi decorativi a bassorilievo, nelle fasce torelli rampanti attestati ad un pino, fiori, fogliame e teste di putti negli spicchi, si raccordano in alto in un piccolo tamburo terminale che è adornato da quattro testine di putti alati e sul quale si erge la statua del Redentore a braccia levate (fig 7). Tutta la costruzione è poggiata su una base di 3 metri di diametro ed è sopraelevata dal pavimento della chiesa con una serie di tre scalini alti complessivamente circa 40 centimetri da terra. Anche qui si noti il valore simbolico del numero tre. L’acqua lustrale contenuta nel bacino, una volta usata, scende da uno scolo e corre internamente lungo una delle zampe di un torello, per poi finire sotto il pavimento. A considerare il monumento nel suo insieme, l’elemento che lo caratterizza è la forte simmetria, un elemento ancora decisamente rinascimentale. È possibile ritrovare in esso il riflesso di quella visione propria dell’arte rinascimentale nella quale il manufatto artistico è l’espressione di un’armonia scenografica di motivi architettonici, plastici, pittorici. Le forti membrature che suddividono lo spazio della piccola volta e le lesene aggettanti della superficie tamburata; le figure a tutto tondo che si addossano a queste ultime esaltando la scansione della superficie stessa; i riquadri che rinserrano scene a bassorilievo dalla valenza fortemente pittorica; tutto rientra in una visione nella quale forme architettoniche e forme plastiche si associano a forme pittoriche: in questo caso, a quello che può essere inteso come il surrogato della rappresentazione pittorica, il bassorilievo.

Qui si conclude la prima parte relativa alle trattazioni sugli arredi ecclesiastico del Battistero di Osimo. Nel prossimo articolo si affronterà invece il tema degli apparati decorativi e del soffitto ligneo.

 

-G. Catino Wataghin, M.Cecchelli, L. Pani Ermini, L'edificio battesimale in Italia. Aspetti e problemi, Bordighera, 2001

-G. Marchini, Marche, Milano 1965.

-A. Ricci, Memorie storiche delle arti e degli artisti della Marca di Ancona, Macerata 1834.

IL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO

A cura di Giulia Pacini

STORIA DELL'EPISCOPIO

BREVI CENNI STORICI SULL'EDIFICAZIONE DEL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO

Il complesso monumentale del duomo di Osimo, chiamato anche complesso dell’Episcopio, è stato creato nel corso del tempo dagli interventi dei vescovi osimani che ne hanno voluto la realizzazione, e che hanno dato vita alla attuale diocesi. Gli interventi che caratterizzano questo insieme sono vari, perché riflettono appunto le varie fasi storiche che ne hanno visto la graduale realizzazione. La documentazione che racchiude in sé la storia di questo edificio è stata raccolta e sistemata da Monsignor Carlo Grillantini, uomo di chiesa e storico, a cui si deve la più completa indagine storiografica riguardante la città di Osimo e la sua cattedrale. La residenza vescovile, edificata, si ipotizza, dal vescovo Leopardo e diventata poi dimora del vescovo Berardo (1283-1288), crollò, venne ricostruita e poi crollò nuovamente. Tra il 1295 ed il 1320, sotto Giovanni Ugoccione, vescovo al tempo di Bonifacio VIII, furono compiuti i lavori di rifacimento, in quanto alcune parti del palazzo vescovile erano andate distrutte in seguito a eventi naturali (si registrarono scosse di terremoto che distrussero tale area). Non abbiamo tuttavia alcuna notizia di restauri o di ampliamenti consistenti. I grandi lavori che invece portarono la struttura ad essere quella che oggi conosciamo sono dovuti a due vescovi della nota famiglia osimana Sinibaldi, ossia Antonio (1498-1515) e Giovan Battista (1515-1547): dopo la ribellione di Boccolino di Guzzone, nel 1484, e i danni all'Episcopio che ne seguirono, al loro servizio episcopale fu riservato il compito della ricostruzione della cattedrale in primo luogo, e successivamente dell’Episcopio. Tale impegno ed operosità fu riconosciuto affiggendo una lapide con lo stemma Sinibaldi all'esterno delle mura a nord, all'altezza del Presbiterio, dove tuttora si trova (fig. 1 e 2).

Giovan Battista Sinibaldi si occupò in special modo dei lavori dell’Episcopio, che consistettero nell'unione dei due corpi di fabbrica già costruiti da Berardo ed Ugoccione, e cioè quello caratterizzato dai grandi finestroni che anche oggi sono visibili da nord-est e quello che corrispondeva alla cucina ed al tinello dei vescovi finché vi ebbero la loro abitazione. Furono costruiti anche altri corpi di fabbrica facilmente individuabili per la presenza di scritte e di stemmi dei Sinibaldi: l’architrave di una finestra del cortile interno del duomo, altri architravi delle finestre rivolte verso il palazzo comunale e, all'interno del palazzo, stipiti in pietra del piano nobile. Il Cardinal Anton Maria Gallo (1591-1620) fece costruire la parte che unisce il fabbricato dei Sinibaldi alla cattedrale; costruì anche la sacrestia con balcone a nord. Il Cardinale Agostino Galamini (1620-1639) ingrandì a nord il palazzo vescovile, innalzò un torrione per venerare la Basilica della Santa Casa di Loreto, costruì la cancelleria: l’opera del Galamini riguarda il corpo di fabbrica addossato al battistero da ogni lato. Lo stemma del Cardinale, collocato nella lunetta di ferro battuto che sovrasta l’attuale portone di entrata dell’episcopio, testimonia che la sua opera ha riguardato, sia pur marginalmente, anche il corpo centrale del fabbricato. Opera del Vescovo Pompeo Compagnoni (1740-1774) è il portone in legno massiccio, come indicano i due stemmi in legno e l’anno (1770). Un documento di eccezionale importanza per comprendere meglio le fasi di costruzione e la storia del complesso Duomo-Episcopio-Battistero, è stato rintracciato a Jesi, presso la Biblioteca comunale. Si tratta di un disegno che mostra nel dettaglio la planimetria del Duomo, del Battistero e del Palazzo Episcopale di Osimo, così da farci notare le differenze e le modifiche che sono state apportate all'antico complesso al tempo del Cardinal Bichi (1656-1691). Sulla base degli studi effettuati da Claudia Barsanti, è possibile pensare che la planimetria della nuova ala fosse stata eseguita su richiesta dello stesso Cardinal Bichi e destinata forse a suo fratello, Vescovo di Todi, che, non a caso, ebbe come successore Mons. Giuseppe Painetti, di cui ampiamente trattano i documenti jesini. La datazione di questo intervento pertanto si propone intorno al 1680.

IL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO: PRINCIPALI INTERVENTI ARCHITETTONICI

Da un confronto dei dati acquisiti attraverso l’attenta lettura del disegno e di quelli già noti, emergono significative novità, come ad esempio la collocazione dell’altare maggiore del Duomo in posizione sopraelevata di alcuni gradini all'interno dell’abside, una sistemazione questa tra l’altro inedita. Solo qualche decennio dopo il Cardinale Giacomo Lanfredini (1734-1740) lo farà spostare verso la fronte del Presbiterio sostituendo quello del Bichi con un sontuoso manufatto incrostato di marmi policromi. Si deve al Cardinal Bichi anche lo spostamento della cattedra-trono episcopale che nel disegno compare addossata all'angolo sud dell’abside. Va inoltre segnalata la presenza di sei altari addossati alle pareti delle navate laterali, rimossi alla fine del XIX secolo, e di una scala esterna, addossata al campanile ed in parte alla parete sud del Duomo, attribuibile con ogni probabilità agli interventi del Card. Galamini: si notino i due archetti “faccia a vista” della parete attuale della Curia verso il cortile dell’Episcopio che potrebbero denunciare una relazione con tali rifacimenti. Altre novità, ma non di natura architettonica, riguardano il disegno, fino ad oggi sconosciuto, del giardino, con la esatta ripartizione degli spazi, dall'altezza della costruzione sopra Porta S. Giacomo. Anche se in forma schematica, il disegno appare piuttosto accurato ed è accompagnato da legende esplicative, corrispondenti ai numeri arabi posti nella planimetria. Troviamo riscontro dei lavori, specie per quanto riguarda il Palazzo episcopale, grazie alle informazioni che ci lascia Flaminio Guarnieri (1604-1684), il quale descrive nel dettaglio i lavori fatti eseguire dal Cardinal Bichi, a completamento di quelli precedentemente realizzati dal Cardinal Galamini, al cui nome si deve infatti ricondurre l’erezione di tutto il corpo di fabbrica meridionale addossato al Battistero, destinato al Vicariato ed alla Cancelleria. Non è difficile, commenta Grillantini, individuare quel nuovo corpo di fabbrica: Bichi costruì infatti il piano superiore che sovrasta la vecchia sacrestia del Vescovo Gallo, dando nuovo assetto agli ambienti settentrionali dell’ Episcopio fatto costruire dal Sinibaldi, creando una serie di stanze sopra le mura castellane, corrispondenti agli ambienti a nord segnati nella pianta al n. 24. Per quanto riguarda i sotterranei Grillantini fa notare che in quei camminamenti vi era uno stemma dei Bichi su una colonna di tufo. Viene infine descritto tutto il corpo di fabbrica annesso all'Episcopio che guarda la piazza del Comune, cioè l’alto palazzo addossato a levante del giardino, dove ora hanno sede gli uffici e gli ambulatori dell’ Unità sanitaria locale e la Banca Popolare di Ancona. Sullo spigolo sud-orientale di quella sorta di sperone che fronteggia il lato occidentale del Palazzo Comunale, risalta un’iscrizione fatta porre proprio dal Bichi che così recita: PARTEM HANC ARCIS / IAM DIRUTAE NOVUM / REDEGIT IN OPUS / ANT(onius) BICHIUS / EP(iscop)US AUX(imanus) / 1668 (Antonio Bichi Vescovo di Osimo ha trasformato in una nuova costruzione questa parte della Rocca già demolita Anno 1668). Un’altra iscrizione, posta in passato verso l’interno del giardino ed ora nell'androne della Curia, recita: D(eo) O(ptimo) M(aximo) / AD SUCCESSORUM COMMODA / HORREA CRIPTAS EQUILIA CARCERES / NOVAE MOLIS ACCESSIONE CONSTRUXIT / / ANTONIUS CARD BICHIUS EP(iscop)US / ANNO MDCLXX (A Dio Ottimo Massimo. Il Vescovo Antonio Cardinal Bichi costruì, con l’aggiunta di nuovi grandi edifici, i magazzini, le cantine, le scuderie, le carceri, per utilità dei Successori Anno 1670). Dopo il Bichi non furono realizzate altre grandi costruzioni: l’intervento dei vari Vescovi riguardò solo lavori complementari, tra i quali ricordiamo alcuni interventi significativi: il Cardinal Guido Calcagnini (1776-1807) abbellì l’interno dell’ Episcopio e fece costruire la loggia che dal giardino guarda la Piazza del Comune; Michele Seri-Molini (1871-1888) destinò il piano superiore dell’Episcopio a sede di un piccolo seminario da lui direttamente curato; Egidio Mauri (1888-1893) trasformò il piano superiore dei magazzini del Bichi in teatro. Qualche intervento lo fece anche Monalduzio Leopardi (1926-1944); si devono al Vescovo Domenico Brizi (1954-1964) un completo restauro, la ristrutturazione interna della parte dell’edificio vicina all'ingresso e la nuova sistemazione del cortile interno del Duomo, abbassato con il ripristino della vera da pozzo.

Fig. 4 - Pianta del Duomo di Osimo ritrovata a Jesi, nella biblioteca comunale. Archivio Pianetti, Fondo piante e disegni, 3/2
1. scale e loggia del Domo; 2. Chiesa del Domo; 3. Choro;
4. Sedia trono episcopale; 5. Stallo sedie de canonici; 6. Sedie de benefitiati;
7. Sedie de Magistrati; 8. Loco da far Credenza 9. Per li coristi – Scala di mezzo per andar al presbiterio, scale laterali per andare al medesimo e per di sotto di una chiesa sotterranea devota;
10. Ingresso al palazzo; 11. Cortile dove gira la muta; 12. Sala de staffieri;
13. Anticamera; 14. Cappella; 15. Camera d’udienza;
16. Retrocamera; 17. Screteria; 18. Camerini d’estate e d’inverno;
19. Appartamento da levante bono in ogni tempo per dormire nell’ultima camera verso il giardino; 20. Studiolo secreto; 21. Camera per la guardia;
22. Camera per robba da vestir; 23. Libraria senza libri; 24. Anticamera forestaria;
25. Corritore vicino alla sacrestia dove si va in chiesa nei tempi cattivi, e di dove si cala segretamente di sotto alle officine 26. Sacrestia della chiesa; 27. Stanza del capitolo;
28. Cortile; 29. Cimiterio; 30. Cancelleria del piano;
31. Di sopra appartamento per il vicario; 32. Galleria sopra vi sono tre camerini da sole; 33. Chisa di San Giovanni con un battistero di bronzo singolare;
34. Campanile; 35. Salone da passeggio, e per comedie, e per granaro; 36. Porta della città di San Jacopo. Dalla detta porta e strada sarà alto il detto piano delli detti appartamenti , circa quattro picche per esser nel colle. Sopra il numero 12, 14, 19 sino al 24 verso il cortile vi è commodo per tutti li cortigiani, di sotto le officine. Il giardino al piano nobile, come si è detto è attorniato di pergole di ferro;
37. Cortile basso; 38. Archivio secreto; 39. Pollaro e gallinaro;
40. Granari e per le biade; 41, Stalle capaci, e sopra pagliare e fenile; 42. Cortile della stalla. Sotto il numero 35, 38, 39 vi è un magazzeno detto de pilastri e più sotto habitat ione per li sbirri e carcere civili, e più sotto altre carcere e secreti al pian del cortile della stalla, dal quale per una scaletta è commodo pubblico si va al cortile del n. 11;
43. Altre rimesse per le carrozze. Sotto il palazzo vi è una grotta riguardevole, è con la cantina vi era circa cento botti. Stanze solide appararsi sono del numero 15, 16, 19, 24.

LO STATO ATTUALE DELLA STRUTTURA: IL MUSEO DIOCESANO

Nel 1978-79 furono rinnovati tutti i tetti; qualche anno dopo, nel piano superiore furono ricavati alcuni piccoli appartamenti per il Clero, usati poi per finalità di solidarietà e di carità, mentre nei primi anni ’90 alcuni importanti interventi hanno trasformato i piani seminterrati in accogliente sede per l’esperienza scoutistica, giovanile ed adulta; negli anni 1995-98 il piano nobile fu totalmente restaurato e dotato degli impianti a norma di legge per ricavarne la sede del Museo Diocesano, inaugurato il 24 ottobre 1998: sono 15 sale più un atrio ed un salone per il Museo e per gli usi pastorali della Parrocchia. La finalità museale degli ambienti recuperati ha guidato fin dall'inizio la progettazione del restauro, l’inserimento degli impianti negli ambienti e la predisposizione dei percorsi e dei servizi nel modo più funzionale possibile alle problematiche espositive delle opere del Museo, evitando le relazioni di conflittualità tra contenuto e contenitore tipiche di questo genere di realizzazioni in edifici storici a forte caratterizzazione architettonica. L’intervento architettonico progettato per l’ex sede vescovile, luogo naturale per la storia della Chiesa osimana e dei suoi vescovi, è stato intrapreso quindi dopo uno studio attento della collezione, avendo già stabilito percorsi, organizzazione degli spazi, ed una sufficiente definizione di quello che sarebbe stato l’allestimento, permettendo una precisa e corretta realizzazione del restauro. La situazione delle sale prima di tale intervento era quella di ambienti disomogenei e fortemente compromessi da precedenti modifiche ed alterazioni negli anni settanta, soprattutto nei pavimenti, con materiali diversi ed incongrui su tutta la superficie. Nel progetto di recupero, quindi, oltre al restauro conservativo delle decorazioni, pittoriche dei soffitti delle sale è stato introdotto, con l’applicazione di un pavimento di legno posato a secco dalle coloriture neutre a calce delle pareti, quell'elemento ulteriore che potesse costruire un contesto di continuità il più possibile omogeneo per lo svolgersi dell’esposizione. Per l’allestimento, il lavoro di ricerca storica e di selezione dei materiali svolto dalla committenza osimana è stato la base per la prima fase del progetto, svolto insieme ai progettisti con la precisa volontà di rendere comunicativa la nuova organizzazione delle opere da esporre, con le caratteristiche dimensionali ed architettoniche degli spazi, con l’unico obiettivo di rendere armonica la presenza dei materiali storici ed artistici all'interno degli ambienti recuperati. Un certo principio di mimesi sembrava essere, in questo caso, l’unico modo per poter superare l’innaturalità della raccolta museale in stanze di palazzo, e chiave di accesso alla relazione simbolica tra i materiali della storia religiosa osimana e la sede vescovile che li ospita. L’esposizione è organizzata in modo da indurre il visitatore a muoversi, da opera in opera, lungo lo sviluppo del racconto storico e gli spazi che furono della sede vescovile. Lungo il percorso compaiono i ritratti dei principali vescovi osimani, esposti con un pannello – cornice per contraddistinguerli dalle altre opere, contestualizzando la fruizione estetica con un ulteriore spunto di analisi in relazione alle figure della committenza. Tutte le strutture espositive e le vetrine sono state eseguite su misura e disegnate in modo da costituire un fondo neutro per il maggior risalto delle opere e, al tempo stesso, per una loro armoniosa presenza all'interno del museo, così fortemente caratterizzati dal punto di vista architettonico. Il coordinamento in fase di progettazione e realizzazione delle strutture espositive ha permesso di ottenere una perfetta omogeneità degli elementi che vi sono contenuti al suo interno.

Bibliografia

M. Massa, E. Carnevali Opere d' Arte nella città di Osimo, Ancona, 1999.
C. Grillantini Storia di Osimo, Recanati, 1985.


VAN EYCK E IL 2020: UN ANNO DI RINASCITA

Finalmente il 2020.

Finalmente l’anno di JAN VAN EYCK.

Quanto ho atteso questo momento!

Sabato, 1 febbraio 2020, all’ MSK – Museum of Fine Arts Gent  è stata la giornata inaugurale dell’ attesissima mostra “Van Eyck. An Optical Revolution”,  in essere sino al 30 aprile 2020.

Se ben ricordate, già a ottobre del 2019 vi ho accompagnato alla scoperta delle Fiandre, dandovi un assaggio di ciò che sarebbe successo quest’anno per l’arte fiamminga: infatti “Van Eyck. An Optical Revolution”  è la più grande mostra mai realizzata sul grande artista fiammingo, volta a celebrare la sua vita e il suo operato e a mettere in risalto la vasta campagna di restauro svolta per riportare alla luce lo splendore del POLITTICO DELL’ AGNELLO MISTICO. Non solo! Sono state richiamate da varie collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, almeno la metà delle opere d’arte prodotte dal grande VAN EYCK.

Questa è una grandissima occasione per vedere più da vicino un mondo e un’epoca ormai lontani, ma vicini nell’immaginario dei più affezionati all’arte e alla cultura. La mostra fa parte del festival “Oh My God. Van Eyck was here” che la città di Gent ha organizzato per celebrare il suo Maestro.

ph:Visit Flanders

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Vi voglio dire due parole sulla fase di restauro che, come saprete, ho avuto modo di vedere da vicino nel mio ultimo viaggio nelle Fiandre: posso dire, da spettatrice diretta, che è una grandissima emozione trovarsi dinnanzi a uno dei capolavori più maestosi e importanti di tutti i tempi. Infatti, la grande maestria di VAN EYCK sta proprio nel far brillare i colori utilizzati, così da rendere prezioso il dipinto.

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Infine, vi lascio con questa supernews di due opere che in precedenza non erano state conteggiate nel novero di quelle selezionate, ma che invece faranno parte dell’esposizione: il RITRATTO DI MARGARETHA e i due famosi pannelli del polittico raffiguranti ADAMO ed EVA.

ph: Visit Flanders

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Anche l’Italia ha partecipato a questa fantastica mostra, prestando opere di grande spessore per la storia dell’arte, come quella di Benozzo Gozzoli, proveniente dall’Accademia di Carrara di Bergamo, due tavole di Beato Angelico provenienti entrambe dai Musei Vaticani, che si vanno ad unire al novero di grandi prestatori come la Galleria Sabauda di Torino e i Musei Civici di Padova. E ancora Pisa, Roma, Firenze, Verona e Venezia. Tra questi, anche nominativi internazionali di spicco, come il Rijksmuseum di Amsterdam, la National Gallery e il Victoria and Albert Museum di Londra, il Prado di Madrid, il MET di New York, il Louvre di Parigi… potrei andare avanti all’infinito! Immaginate di effettuare una visita con questi presupposti: io non ci penserei due volte. Anzi sono già lì!

Quindi ecco che dovete fare: prendere nota che dal dal 01/02/2020 al 30/04/2020 inizi ” Van Eyck. An Optical Revolution”, prenotare un soggiorno a GENT e immergervi nella storia.

BUON VIAGGIO!

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BEATO ANGELICO: LA VITA E LE OPERE

A cura di Giulia Pacini

Frà Giovanni da Fiesole, meglio noto come BEATO ANGELICO, nasce a Vicchio di Mugello, Firenze, tra il 1396 ed il 1400, e muore a Roma nel 1455. Viene considerato come una figura fondamentale nella pittura italiana del XV secolo, fra le più discusse e, forse, più incomprese.

La critica romantica lo vedeva come ultimo erede della tradizione giottesca e, quindi, antagonista di Masaccio. Da qui il passo è breve a considerarlo un “reazionario”

Eppure l’ Angelico, sotto l’apparente fedeltà alla tradizione pittorica religiosa, è un uomo nuovo. Comprende i problemi dell’umanità in terra, ma li risolve con la fede nella giustizia divina. La posizione del pittore, del tutto particolare rispetto a quella degli altri artisti del primo ‘400, non è dunque reazionaria: l’Angelico pone l’uomo al centro della sua attenzione, sa che l’uomo può giungere a Dio comprendendolo, con la ragione prospettica, il creato, ma sa anche che questa comprensione è voluta da Dio stesso: perciò, nelle sue pitture, il dramma non esplode mai e anche gli episodi, per gli altri più dolorosi, come le Crocifissioni ad esempio, vengono contemplati da lui con la serenità che gli proviene dalla sicurezza che tutto è finalizzato.

ANNUNCIAZIONE E ADORAZIONE DEI MAGI (1425): il tabernacolo con l’ Annunciazione e l’Adorazione dei Magi sembra appartenere alla prima maturità del pittore, attorno al 1425. Nella cuspide, il piano di fondo è costituito da un parametro riccamente ornato, come la decorazione del pavimento, che, se non fosse per la diversa direzione della fascia sottostante, sembrerebbe quasi verticale. La bidimensionalità e la ricchezza decorativa richiamano alla pittura medioevale, a certe raffinatezze cromatiche, forse più senesi che fiorentine. Le figure dei protagonisti, sebbene non trovino uno stabile appoggio nel terreno, hanno una loro consistenza volumetrica, una loro pensosa umanità. Nella sottostante Adorazione gli uomini si distribuiscono spazialmente, vivono, non coralmente, ma da persone, l’evento del quale sono attori.

 

Tabernacolo con l' Annunciazione e l' Adorazione dei Magi, 1425, Museo di San Marco, Firenze

GIUDIZIO UNIVERSALE (1425-1430): sicuramente successiva all'opera di cui sopra è il Giudizio universale, in cui il senso dello spazio appare più maturo. La stessa forma trilobata della cornice superiore, di origine gotica, serve all’Angelico per creare una profondità semicircolare nel disporsi dei Santi, del Battista, della Vergine, attorno a Cristo giudice, contenuto dentro la mandorla formata da cherubini e circondata da angeli. Questa visione contemporanea di terra e cielo, e soprattutto questa espansione semicircolare della corte divina, avranno largo seguito nei decenni successivi: dal Ghirlandaio a Frà Bartolomeo, a Raffaello. Mentre a sinistra gli eletti si avviano verso la “città di Dio”, a destra, nell’inferno, chiuso da rocce simboliche e diviso in grotte, i dannati sono puniti secondo una iconografia medioevale comune in Italia ed in Francia, di origine popolare, con scopi didattici. L’opera mostra l’alta religiosità del pittore e la sua volontà educatrice.

Giudizio Universale, 1425 - 1430, Museo di San Marco, Firenze

VISITAZIONE (1433-1434): la scena fa parte della predella di una pala con l’ Annunciazione, dipinta per la chiesa di San Domenico a Cortona. Tra le molte tavole dedicate a questo tema dal Beato Angelico, questa è una delle più belle per lo smagliante fulgore dei colori che , accostandosi reciprocamente – in particolare i primari: rosso, giallo e blu-, generano un’intensa luminosità. Sulla destra si svolge il fatto sacro,mentre, sulla sinistra, una donna giunge salendo faticosamente, sullo sfondo di un paesaggio reale e riconoscibile: il Trasimeno con Castiglione del Lago, avvolti, per la distanza, in una leggera nebbiolina, come spesso appare nelle campagne umbre.

Visitazione, 1433 - 1434, Museo Diocesano di Cortona, Arezzo

TABERNACOLO DEI LINAIOLI (1433): IL Tabernacolo è definito così perché commissionato dall'Arte dei Linaioli, una delle potenti associazioni mercantili fiorentine che hanno avuto un peso non indifferente nella commissione di opere d’arte. Nell'opera si nota una definitiva adesione del Beato Angelico al Rinascimento, per la monumentalità della Madonna, le gambe della quale, con il manto, formano una solida base di appoggio, per il Bambino benedicente. Tuttavia, qualche concessione al passato è ancora visibile: dall'impostazione che deriva dalle Maestà due- trecentesche, a certa fluidità lineare gotica.

Tabernacolo dei Linaioli, 1433, Museo di San Marco, Firenze

L’IMPOSIZIONE DEL NOME AL BATTISTA (1435): in quest’opera possiamo notare come Zaccaria sia costretto a scrivere su una tavoletta il nome che desidera dare al figlio neonato, perché secondo il racconto del vangelo di Luca egli aveva perso l’uso della parola per punizione divina, non avendo creduto all'angelo che gli annunciava che lui e la moglie Elisabetta, ormai vecchi, avrebbero avuto un figlio. C’è qui una comprensione profonda dell’ umanesimo fiorentino, non soltanto per l’ “esattezza ed il rigore” ma, ancor più, per aver inteso il significato dello spazio delimitato, chiuso, ove si svolge la vita dell’uomo, e, al tempo stesso, aperto, sopra il muro di cinta, verso il mondo esterno.

L' imposizione del nome del Battista, 1435, Museo di San Marco, Firenze

Nel gennaio del 1436 il Papa Eugenio IV cedette ai domenicani di Fiesole l’antico convento silvestrino di San Marco in Firenze. Tra il 1437 ed il 1452, su commissione di Cosimo de Medici, Michelozzo lo ricostruì interamente. A Partire dallo stesso momento Beato Angelico si trasferì da Fiesole nella nuova casa domenicana, rivestendola di affreschi via via che procedevano i lavori di architettura. È un'opera monumentale: per la quantità delle pitture, per la complessità tematica, e soprattutto, per il livello qualitativo. L’intento predicatorio domenicano, il fine popolare qui è scomparso: l’opera infatti non si rivolge alla massa indifferenziata dei fedeli in chiesa, ma ai soli confratelli: il richiamo alla meditazione sui fatti sacri.

ANNUNCIAZIONE (1438 - 1440) : la scena si svolge sotto un portico rinascimentale. L’ambiente è completamente spoglio e privo di ogni decorazione superflua, di ogni arredamento, per accentuare l’essenzialità dello spazio. Il Santo domenicano che compare a sinistra non turba l’intimità del colloquio sacro fra l’Angelo, perché posto al di fuori delle linee prospettiche fondamentali e quindi dallo spazio in cui avviene il miracolo.

Annunciazione, 1438 - 1440, cella 3, Museo di San Marco, Firenze

CROCIFISSIONE (1441 - 1442): la Crocifissione viene trasformata, da descrizione del fatto drammatico, in meditazione pacata e profonda. L’affresco si trova nella “Sala del Capitolo” del Convento di San Marco ed occupa la parete di fronte all'ingresso. Ai piedi delle tre croci vi sono non soltanto le figure tradizionalmente unite nell'iconografia del tema in oggetto, ma anche i Santi di varie epoche per indicare la continuità secolare del cristianesimo e, soprattutto, i fondatori di vari ordini religiosi, fra cui quello dei domenicani stessi.  Al centro vi è Cristo crocifisso in mezzo ai due ladroni. In basso, da sinistra, i Santi Damiano, Cosma, Lorenzo, Marco, Giovanni Battista, la Vergine con Giovanni Evangelista e le pie donne; a destra, inginocchiati, i Santi Domenico, Gerolamo, Francesco, Bernardo, Romualdo, Tommaso. Nella cornice lunettata, al centro, sopra il Crocifisso, vi trova spazio un pellicano, simbolo della redenzione, ai lati i busti di nove patriarchi e della sibilla Eritrea. Nella cornice sottostante troviamo l’albero genealogico dell’ ordine domenicano con sedici Santi e Beati che affiancano il fondatore.

Crocifissione, 1441 - 1442, Museo di San Marco, sala Capitolare, Firenze

Attorno al 1445 Beato Angelico si reca a Roma. Nell'estate del 1447 inizia i lavori della Cappella San Brizio nel Duomo di Orvieto, che saranno poi proseguiti e compiuti da Luca Signorelli. Verso il 1450 rientra a Firenze, dove viene nominato Priore del convento di San Domenico di Fiesole. Tra il 1453 ed il 1454 torna a Roma, dove muore nel 1455.

A Roma affresca con aiuti, tra i quali Benozzo Gozzoli, la Cappella Niccolina per volontà del nuovo pontefice Niccolò V.

STORIE DI SANTO STEFANO E SAN LORENZO: per i protomartiri, l’angelico assume un tono maestoso, romano, per esprimere il significato storico della chiesa e della sua saldezza. Inserisce i personaggi in scenari complessi, davanti a colonnati in prospettiva, con le figure spesso in primo piano. La Cappella affrescata dall’ Angelico, prende il nome dal nuovo pontefice, Niccolò V, il Papa umanista a cui si deve il superamento delle polemiche tra i più rigorosi “osservanti” dell’antica fede ed i sostenitori delle nuove idee, con l’affermazione di un nuovo “umanesimo cristiano”, il cui perno è la riscoperta della “ romanità”.

Elemosina di San Lorenzo, 1447, Vaticano, Cappella Niccolina, Roma

Il Beato Angelico è considerato più un pittore rinascimentale che medioevale: la sua concezione della luce ha avuto un ruolo fondamentale non solo per i suoi immediati collaboratori e seguaci: senza di lui non sarebbero mai emersi Domenico Veneziano e Piero della Francesca.


FILIPPO LIPPI

Filippo Lippi nasce a Firenze nel 1406 e muore a Spoleto nel 1469. Entrato giovanissimo nell’ordine dei Carmelitani, aveva una ventina d’anni quando Masaccio affrescava le pareti della Cappella Brancacci, stesso luogo in cui Filippo Lippi esercitava il suo ruolo religioso.

Deve essere stato tra i primi e più attenti osservatori di una pittura così nuova, così rivoluzionaria entro quell’ambiente fiorentino che, pochi anni prima, aveva ammirato la ricca ed elegante fantasia tardo-gotica di Gentile da Fabriano.

Nel 1432 Filippo dipinge la sua prima opera documentata: il “Conferimento della Regola Carmelitana” (1432 – 1433). Nella parte conservata vediamo un paesaggio iniziale, con volumetrici frati in conversazione: non sarebbe possibile una simile concezione, a meno di dieci anni dall’Adorazione dei magi di Gentile da Fabriano, senza lo studio delle opere di Masaccio. Ma la prospettiva degli edifici non è così ferma, così certa, così umana come nel maestro. Né gli uomini posseggono la coscienza e l’eroica dignità di quelli che vivono sulle pareti della Cappella Brancacci. La luce chiara, non contrastata, dona serenità umana, terrena.

Grazie a quest’opera si va delineando lo stile di Filippo Lippi. È lo stesso stile che troviamo sia nella “Madonna dell’ Umiltà” che nella “Madonna di Tarquinia”.

Nella “Madonna dell’umiltà” (1432) la madre accoglie tra le braccia un florido ed impetuoso Bambino in uno spazio prospettico serrato dalle linee di fuga e affastellato di elementi. Il panneggio della Madonna si fa metallico, come quello di una scultura, e la luce diventa, insieme alla linee, protagonista.

Nella “Madonna di Tarquinia” (1437)la scena è rappresentata entro un ambiente descritto con scrupolosa attenzione ai particolari. Sulla sinistra, attraverso una finestra, si intravede un panorama naturale. Sul fondo un portone ci introduce in un cortile, caratteristico delle ville toscane.

 

Nell'“Incoronazione della Vergine” (1441 – 1447) Filippo Lippi si attiene ad uno schema già fissato dall’Angelico, e in base a criteri di gerarchia dottrinale addensa le figure in masse prospettiche, che formano piani inclinati ai lati del trono; la luce scende lungo la fitta gradinata delle teste degli angeli e dei santi, ma il fondo, che agisce come superficie riflettente, è formato da strisce alternate chiare e scure. Poiché l’artista punta a rappresentare una luce che si propaga, il suo interesse si concentra sugli elementi più animati, che permettono vivaci passaggi chiaroscurali: i volti, i veli agitati dai movimenti del corpo.

Un'opera in cui emerge una certa tendenza alla raffinatezza è il cosiddetto “Tondo Bartolini” o “Madonna col Bambino” (1452): in quest’opera possiamo notare come le forme si raffinano per uno studio condotto sull’Angelico che, tuttavia, risente degli sviluppi che l’artista ha ottenuto in seguito ai suoi esperimenti pittorici con la luce. Il segno è più sensibile, lo spazio diventa più scuro, realizzato grazie alla scacchiera dei pavimenti e dei soffitti, oltre che con la convergenza delle numerose linee delle pareti, del letto, della scala. In quest’opera, una delle migliore dove cogliere la natura di Filippo Lippi, non si raggiunge un’espressione religiosa: il fatto sacro diventa narrazione di un evento lieto, la nascita, entro un ambiente borghese.

È tra il 1452 ed il 1464 che vengono eseguiti gli “Affreschi per il Duomo di Prato”:  in questo ciclo pittorico l’artista riesce a sviluppare pienamente la sua nuova concezione del rapporto tra sentimento e pittura, e tra pittura e spazio – luce.

“I funerali di Santo Stefano”: la scena si svolge in un ambiente basilicale, monumentale, ma la monumentalità non esprime grandiosità interiore, è piuttosto una parata di dignitosi borghesi che assumono una posa consona al momento, senza una diretta ed autentica partecipazione. La linea del Lippi, carezzevole e sinuosa, prelude a quella del Botticelli, ma non ne possiede la forza espressiva.

Tra le opere più tarde, poco prima della partenza da Firenze, si deve con ogni probabilità collocare la “Madonna col Bambino e due angeli” (1465 circa): viene espresso, in quest’opera, l’amore per la bellezza raggiungendo, con la linea, una straordinaria eleganza nella Vergine nel tenero bambino e nell’angelo di destra. La luminosità dei colori, i lievi trapassi chiaroscurali, rendono la serenità con cui vivono i personaggi, malgrado una certa pensosità della madre. Il gruppo è rappresentato dinnanzi ad una finestra aperta, su un ampio panorama che riceve e riflette luce. Per farne apprezzare la vastità il punto di vista è rialzato.


DOMENICO VENEZIANO

 

L’artista che con ogni probabilità ha portato a Firenze le prime, inquietanti notizie dell’arte fiamminga è Domenico Veneziano (Venezia, 1406 circa – Firenze, 1461).

La descrizioni che il Vasari da del Veneziano risponde bene alla luminosità, alla raffinata eleganza delle sue figure, alla fresca atmosfera primaverile in cui le fa vivere.

“L’Adorazione dei Magi” è la pala di partenza da cui capire il percorso pittorico che egli compie da Venezia a Firenze. Tre componenti culturali convergono nella coerenza di questo capolavoro: Masaccio, nella Madonna e nei cavalli, a sinistra; Gentile da Fabriano, nei personaggi vestiti coi ricchi costumi del tempo e Pisanello, nei volatili, nell'elegantissimo pavone nella minuscola figura dell’impiccato; i Fiamminghi, nella panoramica del paesaggio. Domenico Veneziano tende ad una sintesi delle varie esperienze: il paesaggio è si una panoramica ad orizzonte alto, in cui tutte le cose trovano il loro posto, ma è anche un grande canale che convoglia la luce dal cielo al primo piano, dove si immedesima con le masse delle figure. La grande intuizione dell’artista è che non c’è antitesi tra spazio teorico e spazio delle cose e, meno che mai, tra prospettiva e luce: la luce non è separazione ma unitarietà, l’elemento comune che può saldare i due sistemi della visione.

Il primo documento sicuro che abbiamo di lui è una lettera, scritta di suo pugno il primo aprile del 1438 in cui chiede a Piero de Medici di intercedere presso il padre Cosimo affinché gli commissioni una tavola.

La “Pala di Santa Lucia de Magnoli” è ciò che ne consegue: l’opera ci permette di capire il significato dell’arte di Domenico Veneziano ed il suo peso nell’ambito culturale fiorentino. I quattro santi si dispongono su una linea triangolare convergente nella Vergine. Essi vivono, saldamente, occupando il loro “posto” umano, nello spazio antistante, realizzato con la spartizione geometrica del pavimento; ciascuno è individuato psicologicamente e volumetricamente. La Madonna siede sul trono, sotto l’arco centrale di un portico, al di la del quale vi è un cortiletto con archi e nicchie; sopra il muro che lo cinge si vedono spuntare le punte degli alberi di arancio. È dunque uno spazio prospettico fiorentino, malgrado il residuo gotico del sesto acuto degli archi anteriori, che, tuttavia, snelliscono la composizione. Nei pennacchi troviamo delle profilature di origine romanica, che comprovano l’attenzione posta dal Veneziano nello studio della tradizione locale.

“L’Annunciazione”: i due protagonisti occupano un posto, che è il loro: ciascuno vive, da persona, l’evento e, al tempo stesso, per via dei legami prospettici, in relazione all'altro. Essi vivono uno spazio intimo. Vi è, tuttavia, un passaggio graduale dal chiostro, parzialmente aperto, al giardino, chiuso intorno, ma libero verso il cielo e naturalisticamente ornato di piante e, infine, al mondo esterno, di cui si intuisce l’esistenza, al di la del basso muro merlato e dalla porta chiusa da un paletto.

Il pittore viene considerato a ragione parte integrante dell’ambiente artistico fiorentino, pur non rinunciando al tenero colorismo veneto. La presenza di Domenico Veneziano a Firenze, oltre al valore intrinseco della sua arte, è stata di importanza determinante. Senza di lui sarebbero impensabili la sintesi spazio – luce – colore di Piero della Francesca e, in gran parte, l’indirizzo della pittura fiorentina nella seconda metà del secolo, causato dalle novità che egli ha portato a Firenze.

 


ANDREA DEL CASTAGNO

Fig. 1: Cenacolo di Sant'Apollonia a Firenze

 

Andrea di Bartolo nasce nel 1421 a Castagno da un piccolo coltivatore. Due anni dopo la sua nascita ha inizio una guerra tra Firenze e Milano e Bartolo, seguendo l'esempio di altre famiglie, conduce in salvo la moglie ed i figli a Corella, un paesino a pochi chilometri protetto dalla fortezza di Belforte. Al cessare delle ostilità segue il ritorno a Castagno dove Andrea "cominciò per le mura e su le pietre co carboni o con la punta del coltello a sgraffiare ed a disegnare animali e figure si fattamente che si moveva non piccola maraviglia in chi le vedeva" (Vasari). Nel 1440 Andrea è già a Firenze da qualche tempo e già abbastanza noto perché gli fossero commissionate nella facciata del Palazzo del Podestà le immagini "ad uso di impichati" dei traditori che si erano adoperati "per macular lo stato di Firenze". Resta da determinare a quando risalga la sua venuta a Firenze e le origine della sua formazione che doveva essere già compiuta nel 1440 dato che l'artista era in grado di accettare un pubblica commissione. Nell'agosto del 1442 Andrea firma a Venezia la decorazione della cappella di San Tarasio in San Zaccaria. Nel 1444 la sua presenza è nuovamente documentata a Firenze da alcuni pagamenti per il cartone della Deposizione, il ritratto, perduto, di Leonardo Bruni. Il 30 maggio dello stesso anno Andrea si immatricola nell'Arte dei Medici e Speziali dichiarando di essere del popolo di Santa Maria del Fiore. Nel 1446 esegue piccoli lavori per l'opera del Duomo dalla quale ottiene per il padre l'incarico di guardia della foresta di Campigna. Al 1449 risale l'incarico per una pala per la chiesa di San Miniato fra le torri e dal 1451 lavora per l'ospedale di Santa Maria Nuova nella Cappella Maggiore della chiesa di Sant'Egidio continuando il ciclo di affreschi iniziato da Domenico Veneziano e Piero della Francesca con tre momenti della vita della Vergine: l'Annunciazione, la Presentazione al Tempio e la Morte. Nel 1453 sospende i rapporti con Santa Maria nuova senza portare a termine gli affreschi. Nel 1455 lo troviamo ad affrescare nella SS. Annunziata la cappella di Orlando de Medici con Lazzaro, Marta e Maria in una composizione perduta; nell'ottobre dello stesso anno vene incaricato di un'altra pubblica commissione in Santa Maria del Fiore: il monumento a Nicolò da Tolentino. Nel 1457 nonostante la peste rimane a Firenze, per saldare qualche debito, intento a dipingere un Cenacolo nel refettorio di Santa Maria Nuova. L'8 Agosto gli muore la moglie e Andrea la segue nel 19 Agosto 1457.

Fig. 2: particolare del Cenacolo di Sant'Apollonia a Firenze

Le scarse notizie, tutte posteriori di almeno sessant'anni alla morte dell'artista, che furono alla base della ricostruzione storica del personaggio che ne fece Vasari mostrano un tono di raccapriccio e di aperta condanna per la vicenda di un artista che dal suo tetro debutto aveva ricavato il soprannome di Andreino degli Impiccati e che in punto di morte aveva confessato di aver ucciso Domenico Veneziano. Questo fu sufficiente a suggerire al Vasari l'invenzione di un carattere forte che dalla confessione del delitto traeva le tinte più cupe per un'interpretazione romanzesca, mentre studi più recenti hanno dimostrato che fu il Vasari ad interpretare in maniera del tutto errata un fatto dell'epoca, tant'è vero che nel 1878 il Milanesi rintracciò la data di morte del Veneziano di quattro anni posteriore a quella del Castagno, dissipando definitivamente la leggenda del delitto. Alla valutazione favorevole dell'opera si opponeva il biasimo per l'assassinio a tradimento con il pericolo di interpretare la sua opera alla luce della sua vicenda privata. Questa fama perdurò fino a metà dell'Ottocento momento in cui di suo erano visibili solo il Monumento equestre di Nicolò da Tolentino e il primo Crocifisso di Santa Maria degli Angeli, riscoperto nel 1700. Al Cavalcaselle si deve nel 1847 la riscoperta degli Uomini illustri di Legnaia e in seguito la prima Crocifissione di Santa Maria degli Angeli e l'intero ciclo di Sant'Apollonia. Nel corso del Novecento l'identificazione della tavola di San Miniato fra le Torri con l'Assunta di Berlino, il rinvenimento del David, quello del San Sebastiano, l'attribuzione degli affreschi di San Zaccaria hanno allargato la conoscenza della sua poetica di Andrea. Trovatosi ad esordire alla ribalta dell'arte fiorentina attorno al 1440 Andrea dimostra ai suoi inizi nella Crocifissione di essere suggestionato dal nuovo verbo stilistico di Masaccio.

Fig. 2: Crocifissione

Nell'abside della Cappella di San Tarasio, nella Chiesa di San Zaccaria a Venezia, la prima opera firmata e datata, gli Evangelisti a fianco del Battista e di San Zaccaria ostentano ai lati del Padreterno un modellato a forte aggetto secondo modi che tengono ad innervare una vitalità ed una corporeità esasperante. Ciascun personaggio è ritratto completamente assorto nella rappresentazione del proprio decoro in pose che ricalcano quelle visibili a Firenze nelle porte della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo. Andrea del Castagno rifiuta l'apporto della luce come elemento di amichevole raccordo ed isola le figure con l'aiuto dei costoloni in vere e proprie fortezze. In una Venezia agli inizi del quinto decennio non si erano mai viste figure ammantate in panni dalle pieghe così tese e taglienti prendere possesso di un soffitto gotico con tanta rustica fierezza; mai un fregio di putti si era arrampicato sull'arco di un'abside tradendo la chiara eco donatellesca fin nello sbalzo risentito del modellato.

Qualunque fosse stata la produzione di Andrea a Firenze precedente al viaggio veneziano nel 1444 con la commissione del cartone per l'occhio della cupola di Santa Maria del Fiore gli si offriva l'occasione di competere direttamente con Paolo Uccello al quale negli stessi anni erano affidate altre due vetrate. L'impegno di Andrea si concentra sulla distribuzione delle masse dei dolenti in flessioni precise e controllate tenendo come fuoco il volto del Cristo Deposto, ai fini di una combinazione formale insolitamente armoniosa: anche i colori sono piacevoli e per una volta il sentimento di pietà è reso senza gesti esteriori e violente deformazioni.

Fig. 3: Nostra Signora dell'Assunta con i Santi Miniato e Giuliano

Ma dove Andrea tenta una soluzione di un problema di armonia di forme a scapito del caratteristico e addirittura del veristico è nel ciclo superiore degli affreschi nel refettorio delle Benedettine di Sant'Apollonia. Per la sua composizione ariosa costituisce senz'altro l'esempio più rappresentativo di un temperamento avvenuto nel suo gusto per potersi adeguatamente calare in forme di più attento controllo stilistico dove la luce plasma, modella ed intride. Il racconto si svolge in una successione di tre episodi: quello centrale della Crocifissione ed i due laterali della Resurrezione e della Deposizione che hanno come sfondo un suggestivo paesaggio di colline ed il cielo aperto solcato da angeli. Nella scena di sinistra il Cristo risorto, trasognato e malinconico sotto i ricci della frangia e l'ombra dell'aureola sovrasta le sentinelle che dormono in primo piano appoggiate al sepolcro dispiegando lo stendardo agli occhi stupefatti del soldato che lo fissa, in un insieme rigoroso ed equilibrato di intonazione quasi elegiaca. La spericolata invenzione compositiva dei tre episodi raccordati dall'elemento paese-cielo in virtù della capacità di sintesi della luce è mortificata da una sconcertante contraddizione, come se Andrea, una volta pervenuto ad una posizione di aggiornata e spontanea modernità ne abbia dubitato inserendo gli angeli legamento cari alla tradizione iconografica.

Fig. 4: Resurrezione

Il percorso di Andrea continua ad allontanarlo dalle suggestioni di Piero della Francesca creando il terreno sul quale si muoveranno da un lato gli Uomini Illustri di Legnaia e il Cenacolo di Sant'Apollonia e dall'altro gli affreschi della SS. Annunziata e l'ultima Crocifissione di Santa Maria degli Angeli. Nell'Assunta che è del 1449 - 50 il rapporto naturale delle figure con l'atmosfera fluttuante e mutevole è definitivamente perduto, sostituito da uno spazio convenzionale che annulla ogni rapporto vitale. Questo gruppo di opere conclude definitivamente il momento in cui l'artista scopre il valore innervante della luce con la dimostrazione del ciclo superiore di Sant'Apollonia e per la ricchezza dei rinvii annuncia il trapasso ai difficili episodi stilistici degli Uomini Illustri e del Cenacolo.

Fig. 6: ciclo degli Uomini Illustri, Pippo Spano

In queste ultime composizioni Andrea non esita a congelare il virtuosismo formale. Gli Uomini illustri dipinti a Legnaia, nel salone della casa di campagna dei Carducci, campiscono con grande piglio monumentale entro nicchie marmoree rettangolari e spartite da pilastri ornati. L'atteggiarsi in gesti di parata distoglie questi personaggi dall'impaccio di una vitalità interiore: mancano del trasognamento delle figure di Piero ed il loro distacco dalle vicende umane si risolve soprattutto nel decoro di un comportamento pago di se stesso. Soltanto Pippo Spano (in foto) ha una vivezza che gli deriva da un'impostazione più realistica in alcuni particolari, nella mano che artiglia la spada, nella testa spiritata. Venendo ai personaggi femminili viene a mancare la certezza del riferimento fisionomico a favore di una più classica astrazione e risultano meno inerti nonostante le pose convenzionali. Nel Cenacolo di Sant'Apollonia è conferito all'impianto architettonico, di bellissima applicazione prospettica, l'insolito ruolo di protagonista. In questa architettura così razionale Andrea ha voluto rappresentare una scena intellegibile che avviene fra uomini negando ruoli di protagonisti e comparse. Ma nell'intento di caricare al massimo le entità morali dei personaggi le ha irrimediabilmente isolate in una fisica monumentalità: l'effetto di unitaria chiusura viene così frantumato dalla mancanza di conversazione fra Cristo e gli Apostoli, tanti monumenti ognuno per se stante.

Dopo queste impegnative composizioni l'arte di Andrea registra una svolta negli affreschi della SS. Annunziata databili al 1454 in cui si presentano al massimo dell'esasperazione quei caratteri di aspro naturalismo che già più volte erano affiorati in opere precedenti. Termine di passaggio e di incontro tra le due tendenze dovettero essere gli affreschi di Sant'Egidio: perduti purtroppo nella lettura diretta.

Fig. 7: monumento equestre a Niccolò da Tolentino

Nell'affresco col Nicolò da Tolentino in Santa Maria del Fiore, l'ultima opera eseguita da Andrea (1456) che ci rimanga, un vero monumento equestre è racchiuso in un rigore architettonico di impaginazione che ricorda quello del Cenacolo. Ma il cavallo del Tolentino, specie se paragonato a quello metafisico dell'acuto di Polo Uccello, ha un piglio più realistico, favorito dallo studio della muscolatura e delle vene, e il volto del condottiero, nella minuzia delle rughe e nell'espressione ben marcata, ha i segni dell'inasprito naturalismo delle ultime opere. Si uniscono così nella stessa composizione le due aspirazioni dominanti dell'arte più matura di Andrea: la tendenza al monumentale e l'avida, feroce esplorazione dei dati di natura.