LA BASILICA DI SAN VINCENZO DI GALLIANO

A cura di Michela Folcini

Introduzione: la valorizzazione delle pievi nell'epoca carolingia

La valorizzazione dei monasteri benedettini e delle pievi promossa dall' Imperatore Carlo Magno è considerata una delle politiche più importanti adottate durante l'Impero Carolingio, e fu promossa per ovvie motivazioni religiose: Carlo Magno capì che attraverso i monasteri e le pievi la sua politica e la religione cristiana avrebbero potuto diffondersi in modo equo in tutti i territori dominati, divenendo punti di snodo per l’amministrazione politica. In Italia uno dei luoghi religiosi che si inserisce in tali politiche è la Basilica di san Vincenzo di Galliano, presso Cantù in provincia di Como. Durante l’XI secolo le pievi, in cui avveniva il sacramento del battesimo, furono protagoniste di un profondo rinnovamento architettonico. Infatti è bene precisare che a partire dal X secolo, in particolare modo con il rinnovamento dell'abbazia di Cluny II, moltissime chiese, basiliche e abbazie furono rinnovate aggiornandosi alle più recenti ricerche strutturali-architettoniche.

La Basilica di San Vincenzo di Galliano: l'architettura

Una delle più interessanti pievi che venne rinnovata durante il corso del XI secolo fu la Pieve di Galliano dove sorse la Basilica di San Vincenzo, ad oggi considerata una delle testimonianze più celebri dell'architettura romanica lombarda. La Basilica di San Vincenzo venne ufficialmente consacrata il 2 luglio 1007 da Ariberto da Intimiano, futuro arcivescovo di Milano e custode della basilica in quanto proprietario delle terre su cui fu edificata. Dalle indagini archeologiche condotte attorno al complesso è possibile datare l’esistenza della basilica già prima dell’XI secolo, infatti furono ritrovate tracce di un insediamento umano risalente al periodo celtico e romano, attualmente testimoniate da iscrizioni.

Tuttavia il periodo più fiorente della struttura risale al momento del rinnovamento promosso da Ariberto all'inizio dell'anno Mille, egli dotò la struttura di un'architettura ad impianto basilicale e di un presbiterio rialzato sopra ad una cripta, all’epoca usuale luogo di sepoltura dei Santi. L'esterno di San Vincenzo è caratterizzato da una muratura non liscia, ma articolata secondo una scansione di piccoli archetti posti all'interno di arcate[1] che creano una sorta di decorazione esterna.

La stessa articolazione esterna è replicata anche nel battistero dedicato a San Giovanni Battista, il quale fu edificato adiacente a San Vincenzo e separato da quest’ultimo come imponevano le esigenze dell'antica liturgia. Al suo interno la basilica di San Vincenzo è suddivisa in tre navate separate da colonne, che vanno a replicare l'impianto basilicale ipostilo[2], inoltre la zona presbiteriale posta al di sopra della cripta ha la particolarità di essere sopraelevata. Particolarità della cripta è quella di essere sostenuta da volte a crociera, elementi strutturali che vengono sperimentati inizialmente proprio nelle cripte dei luoghi sacri.

Il ciclo pittorico della Basilica di San Vincenzo di Galliano

Di straordinario della Basilica di Galliano non c’è solo l'impianto architettonico, ma anche l'apparato decorativo che si trova al suo interno. Il ciclo di affreschi è considerato uno dei più vasti, importanti e affascinanti cicli murari dell'Italia settentrionale. Le pitture decorano completamente tutto l'interno dell'architettura ma, a causa della loro pessima conservazione durante il corso del tempo, è possibile coglierne solo pochi frammenti.
Il ciclo pittorico si estende lungo le pareti della navata centrale al di sopra delle colonne, nella zona absidale e nel catino absidale[1]; col fine di raccontare le vicende dei diversi personaggi legati alla storia della Basilica di San Vincenzo. Quest’ultime lasciano lo spettatore stupito per la loro grande bellezza, alimentata dalla compresenza di diversi influssi artistici giunti in questa zona della Lombardia; infatti è possibile riscontrare elementi artistici di derivazione paleocristiana, bizantina e ottoniana (tedesca).

Le pitture poste lungo le pareti della navata centrale presentano differenti storie distribuite su tre registri. La parete destra della navata centrale ospita pitture dedicate alle storie di S. Cristoforo e Sansone. Al contrario le pitture della parete opposta narrano le storie dell'Antico Testamento, come quelle dedicate ad Adamo ed Eva, ed infine quelle legate alla figura di Santa Margherita. Purtroppo il ciclo pittorico della navata centrale è uno dei più frammentari e meno conservati a causa della perdita di strato pittorico avvenuta con il trascorrere del tempo.

A completare questo straordinario ciclo di affreschi sono le pitture del catino absidale, che presenta la figura di Cristo racchiusa entro una mandorla e affiancata dai profeti Geremia ed Ezechiele con alle spalle i rispettivi arcangeli Michele e Gabriele. Questa rappresentazione del Cristo rimanda a modelli paleocristiani, infatti è proprio nell'arte tardo-antica che il Cristo è rappresentato in piedi e non seduto come avviene nell'epoca medievale. Al di sotto di questa rappresentazione si può cogliere una cornice pittorica che corre lungo il perimetro absidale, essa scandisce le scene pittoriche attraverso delle piccole finestrelle all'interno delle quali sono narrate le storie di San Vincenzo, il santo al quale Ariberto dedicò la chiesa. Da sinistra a destra troviamo: San Vincenzo di fronte all'Imperatore Daciano di Saragozza, il martirio di San Vincenzo e la leggenda della sepoltura. Infine, a conclusione di questa cornice pittorica, trova posto la raffigurazione di Ariberto da Intimiano che dona il modellino della chiesa di San Vincenzo a Dio, ponendosi come committente non solo dell'opera pittorica, ma anche di quella architettonica.

 

[1] La porzione a mezza sfera posta al di sopra delle pareti dell’abside.

[1] Motivo decorativo tipico della zona lombarda.

[2] Navate scandite da colonne.

 

Bibliografia
La pittura medievale in Lombardia in L'Altomedioevo: la pittura in Italia, Carlo Bertelli.

L'architettura medievale in Italia: 600 – 1200, Carlo Tosco. Galliano, pieve millenaria, M. Rossi.

 

Sitografia

https://sanvincenzocantu.it/

https://www.comune.cantu.co.it/

http://www.lombardiabeniculturali.it/

http://www.medioevo.org/


VAN GOGH I COLORI DELLA VITA

Recensione mostra "Van Gogh i colori della vita" a cura di Mattia Tridello
Introduzione
“Van Gogh non era pazzo”. Con questa breve ma intensa frase Marco Goldin (curatore della mostra) apre gli esiti delle ricerche e del lungo studio svolto sull’opera di uno dei più famosi artisti della storia dell’arte, di un personaggio per troppo tempo rilegato alla figura del genio matto e tormentato che ora, grazie alla mostra in oggetto, potrà essere osservato da un taglio inedito e ben più veritiero. Van Gogh, infatti, se si dovesse usare una metafora, fu come Icaro: si avvicinò in fretta al sole per carpirne, intravederne e comprenderne le cromie dell’umanità, con il suo abile pennello intrise di viva materia la tela facendone scaturire visioni di incredibile bellezza e autentica sperimentazione coloristica. Rimase attaccato a quel bagliore dorato delle soleggiate giornate vissute tra i campi di grano, a quelle ore passate accanto ai covoni, a quelle spighe che tanto appassionatamente raffigurò. Ancora, vedendo i suoi quadri, lo si può immaginare mentre errante passeggia con il suo cavalletto sulle spalle, attraversa distese assolate, colline, paesi e città riposandosi sotto il bagliore delle stelle del firmamento. Van Gogh, dunque, non era un semplice artista pazzo, ma fu un abile tessitore delle vicende della vita tramite quel colore che mai nessuno, prima di lui, seppe così egregiamente interpretare e rendere proprio.
In questa cornice si apre il 10 Ottobre, per chiudersi l’11 Aprile 2021, dopo una trepidante attesa, la mostra “Van Gogh, i colori della vita” presso il Centro culturale San Gaetano di Padova. Fornita di ben 82 capolavori del maestro olandese, l’esposizione apre i battenti dopo un lungo periodo di chiusura che a ha più volte messo in discussione l’affermarsi e la conferma dell’evento stesso. Tuttavia, trovarsi a distanza ravvicinata con alcune delle più conosciute opere dell’artista implica una domanda da porsi circa la loro presenza in una città antica e assai ricca di cultura come Padova. Ebbene, potrà risultare sorprendente ma è proprio lo stesso Van Gogh a raccontarlo dopo aver letto un articolo, indicatogli dal fratello Theo, sulla rivista “Dei due mondi”. In esso si narrava della visita che Boccaccio fece a Francesco Petrarca proprio a Padova presso la casa, accanto al Duomo, di quest’ultimo. Durante l’incontro i due capisaldi della letteratura italiana si intrattennero a conversare nel giardino dell’abitazione. Immaginando una situazione simile, pochi mesi prima dell’arrivo di Gauguin, Van Gogh volle ricreare alcuni quadri con vedute di giardini per arredare la futura stanza dell’amico, sperando che anche loro avrebbero potuto dialogare in serena tranquillità come i due poeti italiani. Comprendere, quindi, come l’artista avesse già avuto conoscenze della città veneta, permette all’esposizione di inserirsi non a caso nel tessuto culturale cittadino, anzi di essere un punto di riferimento per i visitatori e i turisti in cerca di una mostra che non sia solo un arido elenco di quadri ma un racconto cronologico della vita, attraverso la pittura, dell’artista olandese. Per questo motivo l’itinerario proposto mira a ricostruire non un unico tema, ma anzi un preciso e dettagliato percorso, l’intero cammino dell’attività di Van Gogh, concentrandosi dagli inizi fino alle ultime opere realizzate poco prima della scomparsa. L’ottantina di quadri e disegni riuniti eccezionalmente al San Gaetano sono frutto di importanti prestiti concessi da alcuni dei più autorevoli musei vangoghiani del mondo, basti citare il Van Gogh Museum di Amsterdam e il Kröller-Müller Museum di Otterlo. Avere la possibilità di visitare la mostra permette al visitatore, quindi, di immergersi nel racconto della vita dell’artista tramite la sottile ma fulgida narrazione di alcuni dei più famosi capolavori che, straordinariamente, sono visibili in una sede diversa da quella olandese, in un luogo che per la prima volta li riunisce e ne permette l’osservazione, concedendo così al visitatore di instaurare un rapporto diretto con ciò che fu, divenne e continuerà ad essere Van Gogh.
Il percorso di visita
Giunti al primo piano della sede espositiva, la mostra si presenta suddivisa in 7 sale che ricostruiscono cronologicamente la formazione e le tappe che diedero una significativa svolta all’opera pittorica dell’artista tramite una successione di disegni e quadri intervallati da alcune citazioni dal vasto e ricco epistolario intrattenuto da Vincent con il fratello Theo. Per consentire e garantire una visita in sicurezza, oltre agli ingressi scaglionati, la visita nelle prime sale è contingentata e prevede un tempo massimo di permanenza.
Sala 1
La prima sala della mostra si presenta al visitatore con un quadro riprodotto ma non più esistente. Si tratta dell’opera intitolata “Il pittore sulla strada di Tarascona” (Fig. 1), che venne distrutta da un bombardamento alleato su Magdeburgo durante la Seconda Guerra Mondiale. Il quadro, raffigurante lo stesso Vincent mentre è intento ad attraversare eroicamente la campagna di Arles per andare incontro al suo quotidiano lavoro, segnò e influenzò indelebilmente uno dei più importanti e innovativi artisti del secolo scorso, Francis Bacon, che decise di ispirarsi a quest’ultimo capolavoro per crearne ben sei reinterpretazioni, tre delle quali sono esposte proprio in mostra (Fig. 2).

Fig. 1: “Il pittore sulla strada di Tarascona” (perduto)
Le grandiose tele del pittore statunitense, realizzate tra la fine del 1956 e l’inizio del 1957, sono volte proprio ad enfatizzare la figura eroica di un uomo, Van Gogh, che in controcorrente e con uno stile personalissimo affrontò con i suoi colori l’esistenza terrena.

Fig. 2: Sala 1
Sale 2-3
La seconda e la terza sezione dell’esposizione (Fig. 3-4), attente nel ricostruire i primi approcci di Van Gogh con il disegno, mettono in luce il percorso molto breve (1880-1881) che vide l’artista cimentarsi con i primi schizzi realizzati al di fuori delle lettere indirizzate al fratello. Proprio nel medesimo periodo di soggiorno tra le miniere di carbone della zona del Borinage in Belgio, si assiste alla ripresa dell’epistolario con Theo che, precedentemente, aveva subito una battuta d’arresto. In una lettera Van Gogh comunica chiaramente, anche visto l’impegno utilizzato per i suoi primi disegni ispirati alla vita quotidiana, la volontà di compiere il mestiere dell’artista nella vita.

Sala 4
L’itinerario di formazione dell’artista olandese prosegue nella quarta sala (Fig. 5) dove, investigando il periodo trascorso da quest’ultimo a Nuenen nel Brabante, possono essere osservati i primi lavori che mostrano una maggiore affinità con il disegno e permettono di comprendere come l’artista, affascinato dalla teoria del colore di Charles Blanc, inizi a sperimentare il primo uso dei colori complementari. Tuttavia, almeno per questo periodo, Van Gogh continua ad essere legato alla narrazione degli episodi della vita giornaliera di contadini e tessitori, anticipando sia nello stile che nella scelta dei temi la pittura dei “Mangiatori di patate” (Fig. 6-7).

Dopo un breve soggiorno di tre mesi ad Anversa, Van Gogh si trasferisce finalmente a Parigi nel 1886, più precisamente a Montmartre, dove risiedeva il fratello, interrompendo per ovvi motivi la corrispondenza con lui e privandoci del racconto quotidiano della sua vita nella capitale francese. Quest’ultima, tuttavia, oltre ad essere teatro di scambio di influenze artistiche, sarà il luogo in cui Vincent vedrà per la prima volta dal vero un quadro impressionista. La vivida, nuova interpretazione della realtà portata avanti da esponenti quali Gauguin, Seurat e Signat (in sala sono esposte alcune tele) influenzerà profondamente la pittura del giovane olandese tanto da farne scaturire capolavori assoluti della sua neonata cifra stilistica, opere che sono esposte eccezionalmente in questa sezione (Fig. 8. Tra quest’ultime non si può non citare il celeberrimo “Autoritratto con il cappello di feltro” (Fig. 9) che, nella sua piccola dimensione, costituisce un punto di riferimento all’interno dell’esposizione stessa.

Sala 6
Il 19 Febbraio 1888 Van Gogh lascia Parigi per recarsi, alla ricerca del caldo sole del sud, ad Arles. I quindici mesi trascorsi nella cittadina furono determinanti per l’affermazione dello stile coloristico dell’artista. Sotto la luce del paese egli iniziò ad affrontare in pittura numerosi e svariati temi, da quelli legati alle nature morte e ai fiori a quelli ritrattistici ispirati, per lo più, alle poche persone che egli conosceva e con cui aveva stretto qualche contatto. Non a caso la sala (Fig. 10) vanta la successione dei quadri raffiguranti i cosiddetti “Amici di Arles”, tra questi, il postino Roulin (Fig. 11) e i coniugi titolari del Cafè de la Gare in Place Lamartine ubicato sotto l’abitazione di Van Gogh (Fig. 12).

 

Nella sala trova spazio anche un interessante confronto che permette di comprendere come l’artista non sia stato influenzato solamente dallo stile impressionista e post-impressionista, bensì anche da i grandi maestri realisti del passato come Millet. Non a caso proprio un quadro di quest’ultimo è stato collocato vicino all’opera intitolata “il seminatore” di Van Gogh (Fig. 13).

Fig. 13: il seminatore
Il periodo trascorso tra la città e i suoi dintorni venne segnato e caratterizzato dalla permanenza, dal 23 Ottobre al 23 Dicembre 1888, di Paul Gauguin. Gli esiti del contrastato rapporto di amicizia tra i due artisti si concretizzarono in una crisi profonda che coinvolse Van Gogh fino al famoso taglio dell’orecchio e alla decisione autonoma di rifugiarsi nell’istituto di malattie mentali di Saint- Remy.
Sala 7:
Gli ultimi quindici mesi dell’esistenza del tormentato ma geniale Van Gogh, dal Maggio del 1889 alla fine di Luglio del 1890, trascorsero prevalentemente sotto i cieli di Saint-Remy. Il periodo di un anno trascorso tra le mura della casa di cura per malattie mentali di Saint-Paul-de-Mausole, nel medesimo paese, costituisce sì un periodo intenso e complicato costellato da ben quattro crisi, ma anche un’incredibile stagione di puro colorismo che, attraverso i quadri ritraenti i covoni di grano (Fig. 14-15) e le nubi dense ma bianche e languide, costituiscono il testamento spirituale dell’artista. Gli ultimi 70 giorni della sua esistenza combaciano con la piena adesione al nuovo stile, una pittura carica di materia ma altamente luminosa e vibrante nelle forme, nuova nelle dimensioni e sorprendentemente vivace nei colori. La parte finale della sala è volta quindi, tramite pannelli fotografici, ad illustrare i campi di grano e quei paesaggi che accompagnarono Van Gogh fino alla morte, fino a quella tomba che, non a caso, è riprodotta sull’ultima parete dell’esposizione.

Quella lastra che custodisce il corpo di uno dei più geniali artisti del XIX secolo ancora alimenta e continua ad emanare intense suggestioni che mai smetteranno di essere accolte. Un esempio è ancora il fascino che la pittura di Van Gogh ha esercitato su una serie di artisti contemporanei che, in concomitanza con la mostra, hanno realizzato alcune reinterpretazione dell’opera vangoghiana tramite quadri, disegni e addirittura capi d’abbigliamento. Questo dunque non è altro che il chiaro, indiscutibile risultato dell’eredità culturale e pittorica che l’artista olandese ci ha lasciato, di quell’intimo e profondo sentimento umano che nei suoi quadri ha voluto far trasparire, di quel girasole che, sulla sua tomba, evoca e continuerà per l’eternità a tramandare il testamento di una vita, il colore.
Informazioni per la visita:
VAN GOGH. I COLORI DELLA VITA
Padova, Centro San Gaetano
10 ottobre 2020 - 11 aprile 2021
CALL CENTER PER INFO E PRENOTAZIONI
TEL 0422 429999
[email protected]
E' VIVAMENTE CONSIGLIATA LA PRENOTAZIONE
PER LA MIGLIORE GESTIONE DEGLI INGRESSI IN MOSTRA

ORARIO MOSTRA
(ultimo ingresso 70 minuti prima della chiusura)
da lunedì a giovedì: 10 - 18
venerdì: 10 - 19
sabato: 9 - 20
domenica: 9 – 19
BIGLIETTI
(prezzi comprensivi di diritto di prenotazione)
Intero € 17,00
Ridotto € 14,00 studenti maggiorenni e universitari fino a 26 anni con tessera di riconoscimento, oltre i 65 anni, giornalisti con tesserino
Ridotto € 11,00 minorenni (6-17 anni)
BIGLIETTI CON VISITA GUIDATA
(prezzi comprensivi di diritto di prenotazione)
Intero € 24,00
Ridotto € 21,00 studenti maggiorenni e universitari fino a 26 anni con tessera di riconoscimento, oltre i 65 anni, giornalisti con tesserino
Ridotto € 18,00 minorenni (6-17 anni)
Per i titolari di biglietto gratuito (bambini fino a 5 anni compiuti - accompagnatore di persone non abili) la visita guidata resta a pagamento (€ 7).
GRUPPI
(15 persone)
Intero € 13,00
Ridotto € 10,00 minorenni (6-17 anni)
SCUOLE
Le scuole interessate a una visita guidata sono pregate di contattare, a partire dall'1 settembre, il nostro call center (0422 429999 - [email protected]).
INGRESSO GRATUITO
Bambini fino a 5 anni compiuti, accompagnatore di persone non abili.
Per i disabili che necessitino di accompagnatore e per chi accompagna in mostra bambini fino a 5 anni, è necessario fare la prenotazione tramite call center 0422 429999.


IL BATTISTERO DI SAN GIOVANNI DI AGRATE

A cura di Marco Roversi

“Basilica Sancti Victoris infra castro Agredade”

Introduzione: la Parrocchiale di San Vittore ed il Battistero di San Giovanni di Agrate Conturbia

L’attuale territorio del Comune di Agrate Conturbia, nel Medio Novarese, è frutto della fusione, avvenuta poco dopo l’unificazione d’Italia, tra le due antiche comunità di Agrate e di Conturbia. Nonostante le diverse vicende storiche e i diversi trascorsi come comunità disgiunte, il territorio è comunemente caratterizzato da una rilevante antichità, con i primissimi insediamenti nell'area risalenti all'Età Neolitica, per proseguire con le successive tracce abitative dell’Età del Bronzo, della Prima e Seconda Età del Ferro, con l’occupazione gallica prima e romana poi. Due terzi o più delle tracce archeologiche rinvenute in loco risalgono proprio all'Età Romana, specialmente tra il I e IV d.C., epoca in cui le comunità erano ormai assai ricche di presenza umana con anche due o tre luoghi di culto attestati e intitolati a Diana e Marte. A romanizzazione avvenuta si facilitò ancor di più l’edificazione di fattorie e latifondi lontano dai due villaggi principali, presenze che sopravvissero al crollo della romanità nel territorio, quando, con l’ingresso nell'Epoca “Barbarica” e Altomedievale, castelli, chiese e battisteri divennero i nuovi centri di potere e di aggregazione delle due comunità di Agrate da una parte (che deriverebbe il proprio nome dal latino Ager, ossia “campo”, e il suffisso –atum, non escludendo in alternativa la derivazione dal nome proprio Acrius), e di Conturbia dall'altro (il cui nome deriverebbe, invece, dal latino Caput Torbidae, ossia “Fine delle Torbiere”, a ricordare la natura estremamente paludosa del suo territorio primigenio, con distese di torbiere e paludi che, partendo dall'Area dei Lagoni di Mercurago, coinvolgevano anche i vicini insediamenti di Revislate e Borgoticino, terminando proprio nell'area dell’attuale Conturbia).

Fig. 1 Il Battistero di San Giovanni di Agrate Conturbia oggi.

Tra le più note e rappresentative testimonianze dell’Agrate altomedievale spicca certamente il Battistero di San Giovanni di Agrate, poco noto ai più, ma ad oggi uno dei più rappresentativi esempi di architettura romanica di notevole interesse artistico e storico. L’edificio è fronteggiato dal sagrato dell’antistante Parrocchiale di San Vittore, la cui prima notizia risale all’anno 976. Di questa non possiamo ricostruire la struttura originaria, anche se possiamo immaginarla come una piccola chiesa andata poi trasformandosi nel corso dei secoli in seguito a lavori di restauri e successivi ampliamenti, specialmente a fine 500 ed inizi 600. Allo stato attuale, nella chiesa odierna, quanto si può ammirare di maggior pregio storico artistico sono certamente l’affresco della Deposizione, seppur con parti mancanti, e sulla parete nord del complesso un affresco con scena di Crocifissione attribuibile a Tommaso Cagnoli, pittore del novarese operante a inizi 500. Importante ricordare come l’area ove attualmente sorgono la chiesa ed il battistero sia stata individuata quale terrapieno artificiale di antica realizzazione: ad oltre un metro di profondità, infatti, alcuni interventi di indagine e di scavo hanno portato all’individuazione di alcune strutture murarie forse facenti parte dell’antico “castro” di età romana, in ogni caso presenze certamente pertinenti ad un’epoca precedente a quella di realizzazione dell’attuale sagrato. Ulteriori recenti scavi (2003) intorno all’area di fondazione del battistero non hanno, tuttavia, apportato rilevanti novità in merito.

Fig. 2 Facciata della Parrocchiale di San Vittore.

Circa la datazione del Battistero di San Giovanni di Agrate ogni ipotesi circa una precisa e corretta data di realizzazione entro il X-XI e XII secolo resta alquanto vaga. Esse sono spesso contrastanti, ma si tende oggi a segnalare due principali epoche di costruzione, più un’ulteriore terza fase, qualora si tenga conto dei resti di una muratura diversa, più rozza, nei primi 40 cm dal suolo, il che darebbe valore all’ipotesi dell’edificazione del complesso sacro al di sopra dei resti di un precedente sacello pagano. Attualmente, in seguito all’eliminazione dei rifacimenti e delle aggiunte architettoniche di fine 500 (ossia un portichetto antistante l’ingresso e una cappella laterale), la struttura si presenta nel suo aspetto basso medievale, con la parte inferiore circolare e quella superiore ottagonale. Il vano inferiore internamente si presenta in pianta di forma circolare, con nicchie parietali a disposizione radiale. Sul lato est, ove si innesta il portale maggiore di ingresso, nonché l’unico accesso presente nella fase originaria, si trova una rientranza oblunga di non elevate dimensioni, utile all’individuazione volumetrica dei semi pilastri che separano le nicchie adiacenti. Queste ultime hanno una forma pressoché trapezoidale, con l’unica eccezione di quella posta a sud, di pianta semiellittica e di profondità maggiore rispetto alle altre. Tutte le nicchie sono inoltre separate tra loro da risalti murari quadrangolari, con le facce laterali di questi ultimi che coincidono con le pareti laterali delle nicchie stesse. Per quanto concerne l’elevato dell’interno i semi pilastri che separano le singole nicchie si raccordano con alte arcate a tutto sesto attraverso la mediazione di capitelli in muratura a forma di parallelepipedo piuttosto schiacciato. Al di sopra delle arcate si innalza una slanciata copertura a cupola dal profilo a spicchi, quest’ultima incastonata nella porzione superiore dell’edificio, ossia un possente tiburio ottagonale, la cui prismaticità è visibile solo esternamente, dalla regolare scansione degli otto lati che sorreggono la copertura dell’edificio a otto spioventi ribassati. Il sostegno della possente struttura di tamburo/tiburio è internamente affidato alla muratura del piano terreno, dallo spessore notevole, che esternamente non fu dotata di contrafforti, ma di sottili lesene. Uniche fonti di luce erano invece, almeno in origine, le due monofore a doppia strombatura e a terminazione arcuata del tiburio, le quali sono oggi visibili al di sotto delle trifore dei lati est ed ovest, quindi simmetricamente l’una con l’altra. Tuttavia, in seguito ai vari e continui rifacimenti dei paramenti murari esterni, non siamo in grado di stabilire se queste fossero le uniche fonti di illuminazione di tutto il battistero, oppure se vi si aprissero altre piccole trifore o soprattutto monofore.

Fig. 3 Sezione del Battistero.

Esternamente i paramenti murari della porzione inferiore evidenziano l’impiego di ciottoli posti a spina di pesce per il retro e le porzioni laterali del complesso, mentre la parte frontale con la porta e la sovrastante lunetta risultano in blocchi di pietra squadrata a corsi regolari, al pari del soprastante tiburio ottagonale. Nel corso dei secoli, ad ogni modo, i paramenti in ciottoli sono stati oggetto di rifacimenti e integrazioni, nonché di ispessimenti dei letti di malta, i quali rendono a oggi difficile l’interpretazione e la ricostruzione di come apparisse realmente all’esterno l’edificio originario romanico. È stata, inoltre, considerata l’ipotesi che nella sua fase iniziale il battistero fosse costituito dalla sola parte inferiore, e che quella superiore fosse poi stata aggiunta in seguito ad un terremoto che nel 1117 avrebbe distrutto parte della struttura, una tesi avvalorata anche da una nuova consacrazione operata da parte del vescovo Litifredo tra il 1122 e il 1148. I paramenti murari esterni presentano, infine, alcuni elementi decorativi, principalmente archetti pensili che si appoggiano direttamente alle cornici che mediano con le sovrastanti falde del tetto. Tali archetti, realizzati sia in pietra sia in cotto, sono così visibili nel sottogronda sia della parte inferiore sia del superiore tiburio. Completano l’ornamentazione esterna una serie di trifore cieche disposte nella porzione sommitale di tutti gli otto lati del tiburio e due strette e lunghe monofore a doppia strombatura, presenti lungo i lati est ed ovest e già sopracitate come le due possibili uniche fonti di illuminazione dell’originario battistero del XII secolo.

Fig. 4 Particolari dei paramenti murari esterni del tiburio.

Il Battistero di San Giovanni di Agrate: la decorazione interna

Pertinenti a rifacimenti successivi al XII secolo sono certamente gli affreschi visibili nelle nicchie interne, datati tra il XV e il XVII secolo e disposti a corona attorno alla centrale vasca battesimale, di forma ottagonale e ribassata di tre gradini rispetto al piano di calpestio (un tempo occupata dall’originaria vasca ad immersione in uso sino al Concilio di Trento), al centro della quale si erge a sua volta una più recente fonte in marmo bianco dalla vasca ellittica, unico piede a colonna e base a parallelepipedo schiacciato. Analizzando le nicchie più rilevanti ed i relativi affreschi si procede partendo dalla nicchia 1, posta sul lato ovest, la prima visibile frontalmente appena varcato l’ingresso della struttura. Qui l’attenzione è catturata dal grande affresco settecentesco che occupa la nicchia quasi per intero, le cui due paraste laterali che racchiudono l’immagine sono le uniche decorate a colonna tortile sormontata da un capitello lavorato. Soggetto è una scena del Battesimo di Gesù per mano di San Giovanni, unico tra tutti gli affreschi che presenti una fattura assai recente: lo stile dell’artista è ancora in parte barocco, con attrazioni verso un tratto ancora tipicamente seicentesco, il tutto riproducente il battesimo del Cristo al quale presenziano sulla sinistra un angelo, intento a trattenere nelle mani le vesti di Gesù, mente dall’alto incombe potente l’immagine di Dio Padre, ben visibile su di uno sfondo di nubi dai tratti quasi evanescenti.

Proseguendo in senso orario si incontrano la nicchia 2, che non presenta tracce di affreschi, e la nicchia 3, decorata, invece, con uno splendido affresco riproducente nuovamente un Battesimo di Gesù, tuttavia diviso in due registri: quello superiore, di fine 400, in cui è visibile il Battesimo del Cristo al quale presenziano, oltre al Battista, anche San Grato e Santa Apollonia (affresco che rientra nell’indirizzo dei maestri dominanti la scena del novarese tra la fine del XV e l’inizio del XVI, quali Giovanni Antonio Merli e Angelo de Orello, noto anche come “Anonimo di Borgomanero”); quello inferiore, invece, si presenta privo di tracce pittoriche, ma le analisi condotte in occasione degli ultimi lavori di restauro (2011-2013) hanno evidenziato tracce di un rifacimento pertinente al XVII secolo che, in occasione della stesura dello strato di intonaco, portò alla perdita pressoché totale del precedente affresco a graffito in continuità con il registro superiore. Di notevole interesse artistico sono poi gli affreschi della nicchia 6, relativi a due fasi di vita differenti del battistero: durante i lavori di restauro sono, infatti, stati portati in luce due strati pittorici differenti, uno risalente agli inizi del XVI secolo, e limitato alla sola immagine di una Madonna con Bambino, probabilmente la pala dell’antico altare cinquecentesco; il secondo, invece, di pieno XVI secolo, ritraente un San Giovanni monocromo che occupa tutto il volume della nicchia stessa, forse disegno preparatorio di un’ipotetica opera incompiuta. Coeva è, infine, la decorazione della volta, costituita da un clipeo con la raffigurazione centrale dell’Agnus Dei reggente il vessillo crucisignato, il tutto delimitato da una cornice intrecciata e dai raggi di un sole radiante, a oggi riportato ad un ottimale stato di conservazione in seguito ai più recenti lavori di restauro.

 

Crediti Fotografici: Chiara Del Sale, fotografie 2,4, 5, 6, 7, 8, 9, 10.

Bibliografia:

- “ANTIQVARIUM, G.A.S.M.A., Studi e Ricerche per i trent’anni di attività”, Gruppo Archeologico Storico Mineralogico Aronese, Arona, dicembre 2003.

- “Agrate e il suo battistero. Una storia millenaria”, testi di Giancarlo Andenna, Simona Gavinelli, Simone Caldano, Ivana Teruggi, Sergio Monferrini, Maria Grazia Porzio, Remo Julita, Giorgia Corso, Silvia Angiolini, Corrado Gavinelli, Raffaella Vecchi e Federico Barbieri, Interlinea Editore, luglio 2015.

 


IL PALAZZO DELLA RAGIONE DI BERGAMO

A cura di Michela Folcini

Introduzione: il Palazzo della Ragione e il Museo dell'Affresco di Bergamo Alta

Città Alta e Piazza Vecchia

Una delle caratteristiche più particolari della città di Bergamo è la presenza al suo interno di ben due “città”: Città Alta, conosciuta anche come la città antica e Città Bassa, la città più moderna.

L'antica città domina dall'alto tutti i territori bergamaschi fin dai tempi dell'Impero Romano,adagiata sopra i suoi alti colli ed incorniciata per 6 lunghi km dalle possenti e spettacolari mura difensive, progetto finanziato dalla Repubblica di Venezia a partire dall'anno 1561 e attualmente riconosciute come Patrimonio Mondiale dell'Umanità. Passeggiando lungo le caratteristiche vie dell'antica città il tempo sembra quasi essersi fermato, dando l'opportunità di ammirare con stupore negli occhi tutte le meravigliose opere storiche, artistiche e architettoniche di questo luogo sorprendentemente magico.

Cuore pulsante dell'antica città bergamasca è l'attuale Piazza Vecchia, la quale comincia a definire le proprie forme durante il corso del 1300, per poi assumere definitivamente la dignità di piazza municipale, indipendente ed ecclesiastica. Infatti è proprio attorno al perimetro di Piazza Vecchia che prendono forma e vita molteplici edifici promossi dai due principali poteri della città: il potere del Comune e il potere della Chiesa.

Fig. 1: Piazza Vecchia, Città Alta Bergamo. Fonte: Wikipedia 

Il Palazzo della Ragione: storia e architettura

Testimonianza ufficiale dell'architettura municipale e civile è il Palazzo della Ragione, antica sede del Comune di Bergamo e attualmente conosciuto come il più antico palazzo comunale d'Italia. Dal momento della sua costruzione, precisamente tra il 1183 e il 1198, questo edificio incarna per eccellenza tutti i valori e i simboli di libertà, di giustizia e del potere comunale. Proprio per questo la struttura è conosciuta ancora oggi come “palazzo della Ragione”, dove la parola ragione fa riferimento al fatto che in questo luogo veniva amministrata la giustizia e ospitate tutte le assemblee pubbliche della città di Bergamo. Dal punto di vista architettonico sorprende che l'attuale facciata principale dell'edificio si presenti completamente rivolta verso Piazza Vecchia, andando in questo modo a costituire quasi uno sfondo prospettico molto suggestivo che permette di fungere da cornice alla piazza; tuttavia è bene precisare che nell'originale progetto di epoca medievale il fronte principale era rivolto sul lato opposto, verso l'attuale Basilica di Santa Maria Maggiore, e questo testimonia quanto la struttura sia cambiata durante il corso dei secoli. Infatti sono molti gli interventi che hanno modificato l'originale volto del palazzo: nel 1453 vengono aperti i fornici (aperture rivolte verso la piazza) e le due trifore ogivali (finestre a tre aperture) verso Piazza Vecchia e costruito lo Scalone dei Giuristi che permette di accedere al piano superiore del complesso; in seguito ad un grave incendio del 1513, che causò gravi danni alla struttura, nell'anno 1520 prendono avvio i lavori di ristrutturazione e di ampliamento ad opera di Pietro Isabello. All'architetto viene commissionato il progetto di costruzione della loggia voltata del piano superiore, usata dal governo della Repubblica di Venezia per le comunicazioni cittadine, e della sala superiore della struttura, oggi conosciuta come Sala delle Capriate e raggiungibile attraverso lo Scalone dei Giuristi. Il fronte (facciata) architettonico principale viene completato con l'aggiunta di un finestrone centrale di gusto veneziano, il quale si presenta sormontato dal leone di S. Marco donato dalla Repubblica di Venezia nel 1554.

La Sale delle Capriate e il Museo dell'Affresco

La Sala delle Capriate, conosciuta con questo nome per le sette capriate lignee che sorreggono gli spioventi del tetto, non sorprende solo dal punto di vista architettonico, ma anche per la bellezza delle opere d'arte che conserva. Infatti non tutti sanno che la famosa Sala delle Capriate del Palazzo della Ragione è sede del Museo dell'Affresco della città (o Museo degli Affreschi bergamaschi).

Fig. 6. Sala delle Capriate, Palazzo della Ragione, Bergamo Alta. Fonte:https://www.archiportale.com/

Il Museo dell'Affresco ospita e conserva quasi un centinaio di affreschi, realizzati tra il Trecento e il Cinquecento, provenienti da differenti luoghi di culto e da case nobiliari della provincia di Bergamo. Gli affreschi sono stati letteralmente strappati dai loro supporti originali (lo strappo è una tecnica di restauro che consente di togliere l'ultimo strato pittorico dell'affresco dal supporto originale e trasferirlo su un secondo supporto) e a seguito di diversi interventi di restauro sono stati collocati in modo permanente all'interno di questo luogo. Passeggiando all'interno di questa sala lo sguardo si posa sui volti di Madonne e di Santi e sui gesti dei differenti personaggi che animano i paesaggi in cui essi sono collocati, andando ad arricchire con differenti sfumature cromatiche le quattro pareti dell'ambiente. Gli affreschi provengono da differenti luoghi collocati sia in Città Bassa, che in Città Alta: alcuni di essi facevano parte della decorazione dall'ex monastero domenicano di Santa Marta in Città Bassa, fondato nel XIV secolo e attualmente parte del complesso della Banca Popolare di Bergamo; altri originariamente conservati nella chiesa di Sant'Antonio in foris (in foro) di Bergamo Bassa; dell'antica città sono gli affreschi dell'ex convento francescano di Piazza del Mercato del Fieno ed infine quelli provenienti dall'antico Palazzo del Podestà. Ad ampliare la raccolta di affreschi presenti nella Sala delle Capriate sono i frammenti degli affreschi realizzati da Donato Bramante, scelto da Sebastiano Badoer come artista prediletto per la realizzazione di quest'opera pittorica. Bramante arriva nella città di Bergamo nel 1477 e lavora sulle pareti del Palazzo del Podestà, esaltando attraverso la sua arte la superiorità della Repubblica di Venezia. Dopo la caduta del dominio veneto avvenuta nel 1797, il Palazzo viene adibito a teatro e poi a biblioteca civica dal 1843 al 1928 e tutte le testimonianze della potenza della Serenissima vengono eliminate definitivamente.

Oltre a queste straordinarie testimonianze artistiche, il Museo dell'Affresco ospita un'altra opera altrettanto eccezionale: si tratta dell'Ultima Cena di Alessandro Allori (noto come il Bronzino e originario di Firenze), realizzata nel 1582 e commissionata da Don Calisto Solari nei due anni precedenti, collocata originariamente in un monastero bergamasco attualmente soppresso. L'Ultima Cena è un'opera dalle dimensioni monumentali e caratterizzata da una raffinata cromia, oggi visibile proprio grazie agli ultimi interventi di restauro.

Il Museo dell'Affresco viene tutt'oggi utilizzato come spazio per esposizioni e mostre, quasi sottolineando ancora di più il legame tra l'arte antica e l'arte contemporanea. In particolare modo le due istituzioni museali di Bergamo, l'Accademia Carrara e la GaMEC – Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea , promuovono molti eventi artistici durante il corso dell'anno, capaci di stimolare la posizione di Bergamo come città aperta all'arte e alla cultura, e allo stesso tempo di promuovere e valorizzare gli affreschi del Palazzo della Ragione. I tesori racchiusi all'interno di questo luogo testimoniano il percorso ricco di arte e di cultura della città di Bergamo, una città che vuole sempre di più far conoscere le proprie bellezze e la propria storia a tutto il mondo.

 

 

Bibliografia:

Gelmi B., Sacchiero V. Bergamo nella storia, nell'arte. Nuova guida pratica della città, Bergamo, Grafica & Arte, 2009.

Gelmi B., Sacchiero V. Bergamo passo passo, Bergamo,Grafica & Arte, 2008.

Rossi F., Lodola, Bergamo capolavori, Bergamo, Grafica & Arte, 2001 Bergamo e provincia. Le Orobie, le valli e la Bassa. Castelli, abbazie e terme. Guide d'Italia. Touring Club.

 

Sitografia:

https://www.comune.bergamo.it/

https://www.in-lombardia.it/it

http://www.lombardiabeniculturali.it/

https://cosedibergamo.com/

http://monasteroastino.smilevisit.it/

 


GATTEO: UN ANTICO BORGO

A cura di Jacopo Zamagni

INTRODUZIONE

Gatteo è un piccolo paese situato in provincia di Forlì-Cesena, nato come stanziamento romano e sorto in vicinanza dell’antico Compitum (l’attuale San Giovanni in Compito); a conferma di ciò sono i numerosi reperti archeologici (mattoni, marmi, metalli, monete e antiche statue) ritrovati in tutta la zona circostante.

Fig. 1: il castello di Gatteo

Una pergamena ritrovata nell’archivio del soppresso monastero benedettino di San Pietro di Rimini riporta che nel marzo del 1140 Arduino, Abate del Monastero, concesse in enfiteusi (diritto reale di godimento che attribuisce al titolare, enfiteuta, lo stesso potere di godimento che spetta al proprietario) un “manso in fundo Catei” nella Pieve di San Giovanni in Compito. Il “fondo Gatteo” viene nominato in un’altra carta dello stesso archivio, datata 7 ottobre 1197, che rivela che fino a quell’epoca esisteva la Terra di Gatteo. Nel XIII – XIV sec. Gatteo diventò Comune medievale, una forma politica autonoma di governo cittadino con poteri conferiti ai Consoli Bulgarello nel 1233 e Ritio nel 1308. Nel 1371 Gatteo viene citata dal Cardinal Anglico nella “Descriptio Provintie Romandiole” come “Castrum Gatthei” con i suoi 70 focolari (famiglie composte mediamente da cinque o più persone) per un totale di oltre 350 abitanti. Nel 1452 Papa Niccolò V diede in concessione tutto il territorio di Gatteo in feudo ai Conti Guidi di Bagno e il 19 agosto 1452 vennero stabiliti i confini territoriali fra il Comune di Cesena e quello di Gatteo, indicando il limite nell’attuale fiume Rigossa.

Agli inizi del XVI secolo Gatteo faceva parte del Ducato di Romagna del Valentino, che però ebbe vita breve in seguito all’invasione dei Veneziani; dopo ciò, nel 1516 iniziò il dominio su Gatteo dei Conti Guidi di Bagno, i quali rimasero al potere fino al 1656 quando il Feudo di Gatteo tornò nelle mani del Pontefice.

Il 1° agosto 1849 Giuseppe Garibaldi, per dare man forte alla resistenza di Venezia attraversò la Romagna passando per Gatteo, per poi giungere a Cesenatico e salpare alla volta di Venezia. Con la nascita del Regno d’Italia Gatteo issò trionfalmente la bandiera tricolore, e il 30 marzo 1860 divenne Comune autonomo.

ORATORIO DI SAN ROCCO

Fig. 2. Facciata esterna di S. Rocco

La Chiesa (o Oratorio) di San Rocco è situata sul margine meridionale della parte storica di Gatteo. L’edificio portava scritta la propria data di fondazione, 1484, in una pietra collocata nell’ingresso, ma la chiesa è probabilmente più antica perché la dedica a San Rocco era avvenuta nel secolo precedente in ricordo di quando il santo passò da Gatteo, dopo la terribile peste nera del 1348. Nell’anno 1484 si ricostruì quindi la cappella del santo e si iniziò il ciclo degli affreschi votivi che si datano tra il 1484 e il 1508.

Il primo documento che registra la presenza degli affreschi è il verbale della visita pastorale, redatto dal Vescovo di Rimini nel 1577. Gli affreschi furono successivamente coperti con una mano di calce e riscoperti solo alla fine dell’Ottocento.

Attiguo alla chiesa si trovava il cimitero per gli appestati (malati di peste o altre epidemie contagiose), e sotto il pavimento della stessa era collocato un ampio ossario.

All’interno dell’Oratorio di San Rocco si trovano una serie di affreschi devozionali dipinti tra fine ‘400 e primo ‘500, realizzati in tempi diversi e in successione in base alle grazie ricevute, che riportano spesso il nome del committente. Nella Sacra Conversazione la Madonna in trono è collocata al centro (la Madonna indica con la mano il sesso del bambino a sottolineare la verità dell’incarnazione), a destra S. Elena con la croce (simboleggia l’accettazione della propria croce) e S. Gregorio Magno (che debellò la peste), mentre a sinistra è collocato S. Giovanni Battista (il Santo della Pieve di San Giovanni in Compito). Nella cornice dipinta in basso si può ancora leggere «Queste figure a fato fare il 30 de ma(gio) (1508)».

Fig. 3. Madonna in trono con Bambino e ai lati S. Elena, S. Gregorio Magno e S. Giovanni Battista

Insieme a questa “Sacra Conversazione”, si trova un altro affresco: al centro sta Maria con il Bambino in braccio, a sinistra S. Caterina da Siena e a destra S. Rocco che mostra la piaga nella coscia.

Fig. 4. Madonna, Bambino, S Rocco e S. Caterina da Siena

In un grande scomparto della fascia di affreschi che decora S. Rocco si possono ammirare S. Giorgio che uccide il drago (la peste), S. Lucia martire che mostra gli occhi strappati, e un’affollata Crocifissione che si innalza tra le figure citate sopra, tra cui il committente - quasi umile intruso col berretto in mano. Il Cristo barbuto è dipinto con energia popolaresca e arcaica, come pure l’angelo che raccoglie nel calice il prezioso sangue di Gesù. Le figure hanno tutte la consueta fissità, indice di ardente preghiera, tranne la Maddalena che abbraccia la Croce, poiché rappresenta l’umanità dolorante.

Successivamente si possono ammirare S. Caterina d’Alessandria e S. Sebastiano, martirizzato con frecce, simbolicamente identificato con gli appestati coperti di ulcere e piaghe. L’ultimo affresco (mutilo) di S. Rocco è molto enigmatico e rappresenta il papa con la mitria in capo, nudo e legato ad una colonna, flagellato da spietati energumeni. Potrebbe essere un’immagine simbolica delle terribili prove a cui, secondo le profezie dell’Apocalisse, verrà sottoposta la Chiesa sotto il regno dell’Anticristo.

IL CASTELLO DI GATTEO

Il castello di Gatteo (Castrum Gatthei) rappresenta un esempio pregevole di castello – recinto romagnolo di pianura; una citazione riferita al castello – recinto risale al 1290 in un libro delle Decime, dove la chiesa di San Lorenzo di Gatteo è situata «entro il recinto del castello».

Le origini del castello di Gatteo sono avvolte nell’oscurità delle lacune documentarie. Luigi Renato Pedretti mette in relazione l’origine del castello con l’Agger (fortificazione o accampamento a forma quadrata dell’esercito romano, delimitato da una staccionata e da un fossato), dunque l’«Aggero Gatthei» sarebbe una delle poche testimonianze dell’epoca romana rimaste in pianura. In ogni caso il castello di Gatteo, trovandosi nelle vicinanze del Compito e lungo una strada di collegamento tra le due arterie Emilia e Litoranea (o Popilia), aveva un importante ruolo strategico militare.

Fig. 10. Ricostruzione del castello di Gatteo

Il castello, di origine Malatestiana, si presenta con una pianta a rettangolo irregolare, con il fronte principale lungo il lato est che misura 83,50 metri e il lato ovest di 80,50 metri, mentre il lato nord è di 61,50 metri e il lato sud di 60 metri. Le mura, che contano una torre e cinque baluardi (torricini atti a formare una valida difesa), sono circondate da un largo fossato che in passato era pieno d’acqua. Le due torri angolari presentano una pianta esagonale con un lato verso l’interno e gli altri lati rivolti verso l’esterno; ciò era utile per non avere angoli morti ai fini del tiro difensivo operato dalle torri medesime.

La Seconda Guerra Mondiale ha lasciato ingenti danni al castello di Gatteo, poiché la torre sud-est (l’antica prigione) così come gran parte del fronte d’ingresso sono stati completamente rifatte. La torre centrale (sopralzata nel corso del Settecento) ha due ingressi, uno carraio e l’altro pedonale, entrambi dotati di ponte e passerella che scendono nel “fossone”.

La rimanente fronte lunga, a nord-ovest, è in gran parte mancante o assorbita da vecchie case sopravvissute. Di particolare interesse sono invece le due torri angolari che fanno capo al fronte nord-ovest: la torre occidentale è originale e ben conservata, e la torre settentrionale è diversa da tutte le altre torri perché presenta una pianta a forma di puntone, la cui punta è rivolta verso l’interno del recinto (fatto inconsueto e difficilmente spiegabile).

Fig. 15. Fronte nord-ovest delle mura

L’ingresso del castello, posto nel lato orientale della cinta, è costituito da un arco a tutto sesto, fiancheggiato da una piccola porta secondaria posta sul lato destro dell’entrata maggiore e sormontata da una torre quadrata, il cassero. Sopra il cassero si trova una torre civica seicentesca che fungeva sia da fortezza che da abitazione. Attorno alla torre principale erano presenti vecchie abitazioni, demolite durante l’ultima guerra.

Il castello al suo interno presenta poco di interessante; da un esame delle vecchie fondamenta risulta che al cassero fossero collegati gli alloggiamenti della guarnigione e delle scuderie. Nella piazza interna del castello era presente un pozzo «a commodo pubblico» e coloro che volevano servirsene dovevano partecipare alle spese.

Dalla seconda metà del Settecento in poi le mura del castello furono abbassate per rendere l’aria all’interno del castello più salubre e respirabile: come conseguenza di ciò il fossato fu svuotato dall’acqua e il ponte levatoio fu sostituito con un ponte in pietra.

Fig. 16. Ponte in pietra che collega il centro di Gatteo al castello

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

GIOVANNA MARONI, Terra uomini religioni, tra chiesa e castello, a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Gatteo, Stilgraf Cesena, Novembre 1988

EDOARDO M. TURCI, Il secolo e il millennio, La storia millenaria di Gatteo e del suo territorio nel primo centenario della Banca di Credito Cooperativo di Gatteo, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 1997

FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI CESENA, Oratorio di San Rocco in Gatteo, i restauri, Wafra litografia, Cesena, Luglio 2002

EDOARDO TURCI, Il Castello di Gatteo, già dei Malatesta e dei Guidi di Bagno, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 2004


TORRE AQUILA E IL "CICLO DEI MESI"

A cura di Beatrice Rosa

INTRODUZIONE: PORTA DELL'AQUILA E TORRE AQUILA

Nel Duecento fu costruita la cinta muraria che circondò Trento fino al 1830-1850, quando si prese la decisione di demolire le mura; l’accesso alla città era al tempo garantito da quattro porte, tra cui porta dell’Aquila.

La porta, in prossimità del Castello del Buonconsiglio, era in origine sormontata da una semplice torre di difesa che venne modificata nel Trecento da Giorgio di Liechtenstein; il vescovo si impossessò di questa parte di mura e della porta per trasformare l’edificio duecentesco in uno spazio privato. Questo evento creò un forte malumore nei cittadini, i quali rivendicavano il possesso comune della torre e delle mura. Solo nel 1407 la torre venne restituita al controllo dei cittadini, grazie all'emanazione di un atto ad hoc durante la sommossa popolare con l’intervento del duca d’Austria e conte del Tirolo Federico IV, che mise fine al potere del vescovo[i].

Tra Trecento e Quattrocento, Giorgio di Liechtenstein[ii] con i suoi interventi di ristrutturazione, sopraelevazione e con la commissione della decorazione pittorica[iii], trasformò la torre di difesa in un luogo privato e isolato; come disse Enrico Castelnuovo, in un “domestico giardino del paradiso” [iv]. Tramite un lungo cammino coperto voluto dal vescovo stesso, si accede tuttora dal Castello del Buonconsiglio al secondo piano della torre, dove si trova il locale più interessante dell’edificio: una saletta alta cinque metri e mezzo, larga sei e lunga otto. Varcata la porta di questa sala, non si può che rimanere stupiti dalle pareti che recano “il ciclo dei Mesi”, uno dei più importanti e significativi cicli d’affreschi profani del gotico internazionale[v].

IL CICLO DEI MESI DI TORRE AQUILA

La decorazione pittorica della sala ha per soggetto, come detto, “il ciclo dei Mesi”: la raffigurazione dei mesi dell’anno, tramite l’illustrazione di temi aristocratici e popolari. Si tratta di undici scene - marzo è infatti andato perduto con la distruzione della scala – scandite da alte colonne tortili che presentano i lavori e i passatempi di ogni mese[vi];  sono tutte ambientate all'aperto con personaggi della vita signorile e contadini occupati nelle loro attività agricole.

La narrazione comincia sulla parete est con i mesi di gennaio e febbraio (fig. 1 e fig. 2). La scena di gennaio si svolge in un paesaggio nevoso, con due gruppi signorili che stanno combattendo a palle di neve in primo piano, mentre in secondo piano ci sono due cacciatori con i cani che avanzano nella neve, uno dei quali già con la cacciagione sulla spalla destra. Lo sfondo dell’episodio è dominato da un castello, e un visitatore sta bussando alla porta; l’edificio, un complesso di costruzioni di diversi stili e periodi, è stato riconosciuto da Nicolò Rasmo con il castello di Stenico, rinnovato proprio ai tempi di Giorgio di Liechtenstein. In alto a destra dell’affresco si può inoltre apprezzare la raffigurazione di un bosco con due volpi caratterizzate molto attentamente[vii]. Sopra la finestra c’è invece febbraio, con due squadre di quattro cavalieri che si sfidano in un torneo ai piedi delle mura - riconoscibili come quelle che collegano il Castello del Buonconsiglio proprio a torre Aquila. Il tema del torneo è legato al mese di febbraio probabilmente per il rapporto con le giostre che si tenevano a carnevale. Oltre ai cavalieri, il mese è connotato dalla presenza di giovani che assistono al torneo dalle mura, ma di nuovo anche di un’attività della “plebe”, con il fabbro nella sua bottega in basso a destra nell'affresco[viii].

Il mese di marzo occupava in origine l’angolo sud-est della stanza, ma a causa di un incendio che ha distrutto la scala a chiocciola in legno, è andato perduto. Il ciclo prosegue quindi sulla parete meridionale con i mesi di aprile, maggio e giugno. Aprile (fig. 3) è una delle scene più complesse del ciclo: il tutto si svolge in un terreno in parte coltivato o arato, a tratti invece boscoso e roccioso. In primo piano a sinistra si vedono due contadini impegnati nell’aratura di un campo, mentre sulla destra stanno passeggiando due dame, abbigliate alla moda del tempo. La cresta rocciosa sulla sinistra della scena è occupata da un bosco dove si vede un cane che insegue una lepre su un terreno costellato di funghi bianchi. Più in alto due donne annaffiano un giardinetto sotto gli occhi di un altro contadino che conduce un carro trainato da buoi; probabilmente il personaggio proviene dal mulino che occupa la parte in alto a sinistra dell’affresco. Sulla destra un uomo abbigliato di giallo sta seminando mentre un altro a cavallo sta lavorando il campo con un erpice[i]. A connotare il mese di maggio (fig. 4), c’è un prato cosparso di fiori su cui giovani aristocratici e dame stanno passando il loro tempo con le più svariate attività; molto probabilmente questi personaggi hanno raggiunto il campo dalla cittadina cinta da mura con la chiesa gotica presente nella parte in alto a sinistra dell’opera. Fuori dalle mura quattro persone stanno attorno a un tavolo rotondo mentre discutono e si cibano di ciò che hanno sulla tovaglia. Questo mese primaverile presenta solo personaggi aristocratici e nessuno della plebe, è importante però sottolineare che questa è una delle scene più ridipinte di tutta Torre Aquila[i].

L’estate comincia nella scena successiva con giovani coppie aristocratiche che danzano su un prato rigoglioso a ritmo di musica dei cinque musicanti che stanno suonando in basso a sinistra. Tornano a giugno (fig. 5) anche le attività del popolo: in alto a destra le mucche accovacciate sono al pascolo, una donna sta mungendo mentre altre trasportano il latte e lavorano il burro nelle malghe in legno. A sinistra di nuovo due nobili che escono dalle mura, la donna con una coroncina di fiori in testa, l’uomo abbigliato di rosso che osserva il suo cane correre libero sul ponte. Come la scena di aprile, anche qui ci sono vari interventi cinquecenteschi tra cui uno dei musici che ha le armi del Clesio sul suo abito[i]. La parete occidentale ospita luglio e agosto (fig. 6 e fig. 7). Le attività umili dominano la prima delle due scene, con in alto il taglio del fieno e sulla destra quattro contadini raccolgono l’erba tagliata con forconi e rastrelli. L’unica attività aristocratica della scena è legata ai falchi: si vede uscire dal bosco vicino alla città un falconiere con i trespoli su cui sono assicurati tre falchi, mentre un altro ammaestratore ha già percorso il ponte e prosegue con il telaio in mano su cui sono appoggiati sei falchi. Sopra questo personaggio un’altra scena molto curiosa, con tre uomini in barca in uno stagno intenti nella pesca. I falchi tornano poi nell’unico dettaglio di vita cortese della scena, dove si vede un gentiluomo inginocchiato che offre un falco ad una dama abbigliata alla moda con la consueta coroncina di fiori in testa[i]. Anche agosto è caratterizzato da attività agricole, con quattro contadini in un campo di grano che tagliano le spighe, legano i fasci e li ammucchiano poi in catasta. Un contadino con il suo carro di buoi si dirige verso il villaggio di capanne in cui spicca la casa in muratura del prete che sta leggendo alla finestra. Nella parte bassa dell’opera torna poi l’attività aristocratica con due dame e un gentiluomo, ognuno con un falco che discutono fuori dalla porta di un castello[i]

L’edificio di colore rosso prosegue poi nel mese di settembre (fig. 8), dove le scene di vita signorile occupano maggiore spazio. Gentiluomini a cavallo al centro della composizione stanno cacciando con il falco, mentre due dame e un signore, appena usciti dal castello, passeggiano a cavallo nei boschi popolati da animali nella parte bassa dell’opera. In alto ritroviamo le figure di contadini, una abbigliata di bianco sta raccogliendo le rape mentre altri tre sanno arando il campo con buoi e cavalli[i].

L’autunno prosegue con ottobre (fig. 9), una scena incentrata sulla vendemmia, la spremitura dell’uva e la preparazione del mosto. Nel vigneto stanno lavorando diversi personaggi mentre due contadini sulla sinistra utilizzano il torchio necessario per la spremitura dell’uva. Nella parte bassa a destra dell’affresco due nobili assaggiano il mosto[ii].

Comincia così l’inverno, a novembre le attività si concentrano maggiormente in città e non più nei campi, vediamo infatti i pastori che fanno entrare il gregge dalle mura. Alcuni cacciatori sono in montagna, impegnati nella caccia all’orso, mentre altri quattro, al centro della composizione, si stanno scaldando le mani davanti a un focolare. Anche in questa scena non manca l’elemento signorile, si vedono infatti due elegantissime figure a cavallo risalire la montagna, entrambi con una lancia in mano[i]. La scena di dicembre è dominata dalla città dotata di mura: all’interno si vedono un contadino con i suoi due asini carichi, due uomini che stanno entrando con i carri trainati da coppie di buoi, portando la legna appena tagliata dai taglialegna che ancora lavorano sulla montagna già un po’ innevata[ii].

L’unico elemento costante nelle scene è la presenza del sole, sempre in alto e al centro dell’opera; esso è ogni volta posizionato in una diversa casella zodiacale in base al mese trattato[i].

IL MAESTRO DEI MESI DI TORRE AQUILA

Dopo aver analizzato le scene del ciclo, viene spontaneo chiedersi chi abbia realizzato queste meravigliose opere a Torre Aquila a Trento. Ciò che è certo è che gli affreschi sono stati realizzati prima del 1407; sono tuttora attribuiti al Maestro Venceslao, un pittore del vescovo di Trento arrivato in città nel 1397, nonostante lo stile di questo ciclo sembri molto più avanzato rispetto agli affreschi autografi dell’artista nella cappella del cimitero di Riffiano a Merano[i]. Che sia o meno il Maestro Venceslao, il Maestro dei Mesi è molto probabile fosse di origine boema; confrontando infatti i paesaggi trentini, caratterizzati da monti rocciosi e colori irreali, con la miniatura boema dell’ultimo decennio del Trecento non si possono che notare innumerevoli affinità.

Gli affreschi non hanno solo elementi boemi, bensì anche lombardi, lo si vede per esempio nel fabbro del mese di febbraio, nel campo di rape nel mese di settembre o nel torchio di ottobre… la costante attenzione naturalistica per gli elementi vegetali nelle scene sembra provenire indiscutibilmente dalla lezione dei Tacuina (ndr i Tacuina sanitatis erano manuali di scienza medica scritti e miniati, la loro divulgazione avviene in area lombarda tra XIV e XV sec.)[ii]. Allo stesso tempo il pittore dei Mesi non è sicuramente un lombardo o un italiano, lo si vede dal modo arcaico di rappresentare lo spazio e la scala dei personaggi[iii].

La sala dei Mesi subì un restauro per volontà di Bernardo Clesio negli anni Trenta del Cinquecento; il cardinale incaricò Marcello Fogolino di modificare parzialmente la sala, intervenendo nei volti e nelle vesti dei personaggi, nei paesaggi e introducendo il tendaggio a balze bianche e rosse sotto la cornice, che in origine era diversamente decorata. L’intervento del Clesio non fu avventato o fuori luogo: il Maestro dei Mesi aveva infatti optato per la decorazione in maggior parte a fresco, ma con alcuni ritocchi a tempera, questo aveva comportato che già nel XVI sec. alcune parti di pittura erano cadute ed era quindi necessario risanarle[iv].

IL CICLO DEI MESI E IL GOTICO INTERNAZIONALE

Sia l’idea della camera dipinta, che dell’iconografia legata alla vita cavalleresca, al mondo dei contadini e dei pastori, non erano inusuali nell’Europa del XIV sec., anzi erano tendenze rilevabili soprattutto in Francia e in Germania. Il ciclo dei Mesi di Torre Aquila è un’importantissima testimonianza della vita economica e sociale tra la fine del Trecento e del secolo successivo con la descrizione delle attività umane, sia dei nobili che dei popolani. Con la descrizione così sensibile dei mestieri e della natura, quest’opera si inseriva perfettamente nel fenomeno del gotico internazionale, uno stile pittorico che ebbe fortuna nelle grandi corti europee (Parigi, Praga, Digione, Bourges, Milano…), grazie allo scambio di idee e alla diffusione dei manufatti, soprattutto quelli facilmente trasportabili[v].

 

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12.

[ii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12.

[iii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12

[iv] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 14.

[v] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 20-21.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  1. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, Trento 1990
  2. Castelnuovo, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, a cura di E. Chini, Trento 1987

 

CREDITI FOTOGRAFICI

  1. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  2. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  3. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  4. http://senzadedica.blogspot.com/2013/04/il-ciclo-dei-mesi-aprile.html
  5. https://tramineraromatico.wordpress.com/2016/10/12/una-meraviglia-medioevale-il-ciclo-dei-mesi-di-venceslao-nella-torre-dellaquila-castello-del-buonconsiglioa-trento/
  6. https://tramineraromatico.wordpress.com/2016/10/12/una-meraviglia-medioevale-il-ciclo-dei-mesi-di-venceslao-nella-torre-dellaquila-castello-del-buonconsiglioa-trento/
  7. http://senzadedica.blogspot.com/2013/07/il-ciclo-dei-mesi-luglio.html
  8. https://www.pinterest.it/pin/502432902164865107/
  9. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  10. http://senzadedica.blogspot.com/2013/10/il-ciclo-dei-mesi-ottobre.html
  11. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  12. https://www.pinterest.it/pin/360358407662234172/

 

 

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 10.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 215.

[ii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 233.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 181.

[ii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 195.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 163.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 145.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 125.


[i]
E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 104.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 85.

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 9

[ii] Per capire meglio chi fosse Giorgio di Liechtenstein e il suo ruolo nella Trento tra Trecento e Quattrocento rimando al mio articolo del mese di Agosto riguardo il Castello del Buonconsiglio (https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/)

[iii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p.9

[iv] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 10.

[v] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p.9

[vi] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, pp. 10-11.

[vii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p.57.

[viii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p.71.


LA REGIONE DELLE MADRI. I PAESAGGI DI OSVALDO LICINI

Recensione mostra "La regione delle madri. I paesaggi di Osvaldo Licini" a cura di Matilde Lanciani

INTRODUZIONE

Ti scrivo dalle viscere della terra, la regione delle madri forse, dove sono disceso per conservare incolumi alcuni valori immateriali, non convertibili, certo, che appartengono al dominio dello spirito umano. In questa profondità ancora verde, la landa dell’originario forse, io cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo. Cessato il pericolo, non dubitate, riapparirò in superficie con la ‘diafanità sovra essenziale’ e ‘senza ombra’. Solo allora potrò mostrarti le mie prede: i segni rari che non hanno nome; alfabeti e scritture enigmatiche; rappresentazioni totemiche, che solo tu con la tua scienza potrai decifrare”.

La mostra “La regione delle madri. I paesaggi di Osvaldo Licini”, aperta dal 25 luglio all’8 dicembre 2020, celebra l’artista ed il comune di Monte Vidon Corrado, sua terra natale. Con queste parole, che l’artista scrisse in una lettera del 1° febbraio 1941 all'amico Franco Ciliberti, è possibile rievocare la profondità interiore della sua arte. Esponente dell’astrattismo novecentesco, rimase sempre intensamente legato alle sue origini marchigiane, tanto da stabilirsi proprio a Monte Vidon Corrado insieme alla moglie Nanny Hellström, conosciuta a Parigi nel Café du Dôme.

La collezione comprende 90 oli e 30 disegni, di cui 33 del periodo figurativo degli anni ‘20, 9 dipinti astratti degli anni ’30 e i restanti degli anni ’40-’50, provenienti da importanti collezioni come il Museo Novecento di Firenze, il Museo d’Arte Contemporanea di Ca’Pesaro a Venezia, il Centre Pompidou di Parigi, la Galleria d’Arte Contemporanea di Ascoli Piceno, il Museo Palazzo Ricci di Macerata, il Museo Civico di Palazzo Chiericati di Vicenza, il Museo Civico Città di Monclavo e da collezionisti privati. Alcune delle opere non sono state mai esposte prima come ad esempio Paesaggio italiano (1921) del Centre Pompidou, Studio per angelo su fondo giallo (1956), Personaggio della collezione M.Carpi, e Colline marchigiane (1926) del Comune di Moncalvo.

BIOGRAFIA DI OSVALDO LICINI

Osvaldo Licini nacque a Monte Vidon Corrado nel 1894 da una famiglia di “contadini proprietari” come dichiarò l’artista nel questionario per riprodurre le sue opere nella collana “Arte Moderna Italiana” predisposto dall’editore Scheiwiller nel 1929. Ben presto i suoi genitori, portando con loro solo la sorella di due anni più piccola, Esmeralda, lasciarono le Marche per recarsi nella Ville Lumière. Il talento di Osvaldo fu dunque lasciato alle cure del nonno Filippo, che lo indirizzerò presso l’Accademia di Bologna cogliendo da subito le sue doti artistiche con molta sensibilità. Durante le estati Licini tornò nel luogo natale e compose nel 1913 i “Racconti di Bruto”, opera letteraria di ispirazione simbolista, successivamente si iscrisse all'Accademia di Firenze ma fu chiamato alle armi interrompendo gli studi. Passò un periodo tra la Francia e le Marche, dal 1917 al 1926, durante il quale espose le sue opere al Salon d’Automne, al Salon des Indépendent e alle Cloiserie de Lilas, frequentando il Caffè di Montparnasse dove ebbe modo di venire a contatto con alcuni degli artisti più importanti del suo tempo (Picasso, Modigliani, Cocteau, insomma tutto l’ambiente effervescente parigino) e dove coltivò le amicizie del circolo fermano dei fratelli Catalini e Arcuto Vitali.

Incontrò nel 1925 Nanny Hellström, pittrice di Göteborg che studiava all’Académie Julian e seguiva le lezioni di André Lothe, con la quale si fidanzò e si trasferì proprio a Monte Vidon Corrado nel 1926, dove i due si sposarono e condivisero il clima di arcaica naturalità.

La sua produzione è caratterizzata dalla rappresentazione del paesaggio marchigiano en plain air in chiave interiore e può essere suddivisa in tre fasi distinte: il figurativismo degli anni ’20, l’astrazione geometrica degli anni ’30 e le creature fantastiche degli anni ’40.

LA PAROLA ALLA CURATRICE DELLA MOSTRA "LA REGIONE DELLE MADRI", DANIELA SIMONI

- Osvaldo Licini. Qual è il suo legame con le Marche e da cosa è nata l’idea, come avete pensato alla realizzazione della mostra?

Daniela Simoni: “Il Polo Licini è formato dal Centro Studi, che è un centro di documentazione con una biblioteca specializzata, e dalla Casa Museo, dove l’artista è vissuto ed è morto che è stata restaurata, acquisita dal comune ed aperta al pubblico dal 2013. La mostra quindi rientra nelle attività svolte dal Centro Studi, sia in sede che all’esterno, come nel caso della collaborazione esterna all'ultima mostra del Guggenheim di Venezia curata da Luca Massimo Barbero.

La mostra "La regione delle madri" nasce dopo il successo di Venezia, e la regione Marche ha deciso di scegliere il suo paese natale. Una mostra ad hoc per questo luogo, una mostra dei paesaggi di Licini, nella sua casa, è possibile solo qui. Una casa dalla quale ha guardato quel paesaggio e si è lasciato ispirare e che costituisce un inevitabile legame tra contenuto e contenitore”.

Continua la curatrice: “Nonostante avesse numerose altre opportunità Licini ha deciso di rimanere a vivere a Monte Vidon Corrado, dove era nato nel 1894: la sua famiglia, infatti, si trasferì a Parigi quando era piccolo e lui rimase qui con il nonno Filippo, contadino abbastanza colto per il tempo, perito agronomo, il quale capì le sue inclinazioni e lo indirizzò agli studi artistici. “Conosce poi la pittrice Nanny e vengono a vivere qui: la dimensione leopardiana silenziosa era il suo habitat naturale per creare. Ispirazione costante tratta dal paesaggio, proprio come Cézanne che era suo riferimento, ma al contempo una riflessione intellettuale continua, un paesaggio che non è mai solo realistico ma interiorizzato e sublimato.

-Per quanto concerne le fasi di strutturazione della mostra invece come è pensata a livello di percorso e di andamento?

“La mostra è articolata nelle due sedi, divisa in due parti, con 9 sezioni – spiega Simoni - La prima sezione nel Centro Studi è quella dedicata ai dipinti figurativi. Licini lavora per serie: Monte Falcone, Appennino, Massa Fermana, Servigliano. Quelle vedute diventano come Sainte-Victoire per Cézanne. Per questa prima sezione l’allestimento è giocato sul verde, quindi sulla naturalità.

La seconda parte è allestita al pianterreno e simboleggia il passaggio alla fase geometrico-astratta e poi alla genesi delle creature fantastiche. Ogni sezione si apre con un dipinto figurativo. Il Birolli ha definito la sua una temporalità circolare: non c’è cronologia rettilinea, Licini riprendeva le opere e si metteva sempre in discussione. Lui ritorna sui temi e sulla struttura compositiva delle opere. Nell’ultima parte, nella cantina, nelle cosiddette “viscere della terra”, troviamo la dimensione siderea con gli Angeli Ribelli, le Amalassunte, gli Olandesi Volanti.”.

“Lo svolgimento è cronologico ma anche tematico. Abbiamo enfatizzato il “ritornare”, la circolarità. Volevamo far comprendere al visitatore il titolo “La regione delle madri”. Infatti  Licini, alla fine degli anni ‘30, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, si chiude a Monte Vidon Corrado e ha contatti epistolari con gli intellettuali, non espone in questo periodo per lutto – specifica la curatrice -Contemporaneamente aderisce al primordialismo, movimento fondato da Franco Ciliberti, filosofo comasco, che aveva come scopo capire l’origine della civiltà contemporanea attraverso la metafisica spiritualistica, capire l’origine delle religioni, insomma la dimensione aurorale della civiltà. Licini trova a Monte Vidon Corrado lo specchio di ciò”.

IL PERCORSO DELLA MOSTRA "LA REGIONE DELLE MADRI"

La mostra "La regione delle madri. I paesaggi di Osvaldo Licini" si colloca nella prima sezione all’interno del Centro Studi, adiacente alla Casa-Museo, dove è possibile ammirare una serie di paesaggi (Fig. 1, 2 e 3), italiani e non, in cui traspare tutto l’amore dell’artista per la natura e soprattutto per la sua terra natale e per la sua regione di origine, dove sembra davvero aver trovato la chiave della sua ricerca teorica sul significato dell’esistenza.

La seconda sezione, all’interno della Casa-Museo (Fig.4 ) dove visse l’autore, è caratterizzata da una sorta di riassunto delle due fasi dell’autore, rispettivamente figurativa degli anni ’20 e astratta degli anni ’30. Il passaggio tra questi due periodi è sancito inevitabilmente dalle esperienze francesi ed è presagito in opere come Paesaggio marchigiano del 1925 (Fig.5) o in Studio per archipittura (1935-36) (Fig.6), rielaborato in Archipittura del 1936 con elementi irregolari, asimmetrici e decentrati e con la caratteristica dicotomia tra alto-basso, cielo-terra. L’inclinazione delle sue composizioni deriva sicuramente dal paesaggio collinare di Monte Vidon Corrado, i piani obliqui su cui sono giocate le sue opere sono evidenti in Paesaggio in grigio del 1925 (Fig.7), Il Bilico del 1933 (Fig.8) o Uccello n.4 (1932), quest’ultima con il tema del volo a sua volta anticipatore di quelle che saranno poi le creature fantastiche.

Dal paesaggio, sempre punto di partenza, dopo l’adesione al movimento dei primordiali, si sviluppano i temi fantastici come in Personaggio nella luna (Fig.9) detto anche Olandese Volante o Barone di Münchausen o ancora Bocca, di eco surrealista. Un’estensione del paesaggio in chiave primordialista è anche L’Uomo di neve (Fig.10) accompagnato da Omaggio a Cavalcanti (Fig. 11).

 

Fig. 9: Personaggio nella luna, 1946

Nella cantina della Casa-Museo, dove si conclude il percorso della mostra "La regione delle madri", troviamo alcune delle opere appartenenti proprio a questa dimensione legata al senso dell’origine, con uno sguardo sulla natura dominato da antropomorfismo ed erotizzazione del paesaggio. In Paesaggio fantastico (Il capro) (Fig.12) lo sguardo dell’artista si identifica con quello dell’animale protagonista e con lo spettatore stesso, forse il monte raffigurato allude al monte Corno, del gruppo del Gran Sasso o ancora al monte Sibilla, legato alla dimensione infera, notturna e profetica del capro stesso. L’Eros come motore del mondo è tema ereditato dal surrealismo, espresso in maniera molto evocativa nelle opere come le Amalassunte e gli Angeli ribelli (Fig.13 e 14).

 

Fig. 12: Paesaggio fantastico (Il Capro),1927

Il legame con la natura e l’abbandono ad essa, invece, appare evidente, in Marina (Fig.15) del 1922, un dinamico paesaggio francese eseguito con una pennellata vivace ad arabesco. Numeri e lettere appaiono e scompaiono nei dipinti dell’artista: “La natura sfuggirà sempre ai nostri calcoli”, aveva scritto Licini in “Natura di un discorso”.

Fig. 15: Marina, 1922

Ancora l’artista scriveva nella “Lettera aperta al Milione” del 1935: “Dubitare non è una debolezza, ma un lavoro di forza, come forgiare, ha detto Cartesio”. Ciò si evince dai suoi disegni e bozzetti (Fig.16), dallo studio che ritorna ciclicamente a porre il focus sugli elementi già trattati per indagarli ancora, per migliorarne l’espressione e renderla ancora più intensa. I suoi disegni vengono accostati da Licini stesso alla poesia ermetica, ad un simbolismo criptico denso di significati allegorici. I supporti vanno dai blocchi da disegno a inviti di mostre, a tabelle stampate sino a lettere, pagine di libri e copertine di riviste.

Fig. 16: Personaggio fantastico, Personaggio (1945), Personaggio (1945)

LA CERTOSA DI SAN LORENZO A PADULA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Fondata nel 1306 da Tommaso Sanseverino conte di Marsico, la Certosa di San Lorenzo è chiamata così in onore del santo martirizzato sulla graticola, e la tradizione orale vuole che essa stessa sia stata costruita a forma di graticola; sorge in un’area a sud della provincia di Salerno, Padula, vicinissima alla Basilicata e alla Calabria. È frutto di continui rimaneggiamenti che ne hanno notevolmente ampliato e arricchito la struttura originale; il suo chiostro centrale, che copre un’estensione pari a due campi di calcio, è il più grande d’Europa. Nel 1998 l’UNESCO l’ha inserita tra i 55 siti italiani Patrimonio dell’Umanità.

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L’articolo che segue è il primo di una serie dedicata a questo splendido monumento: in particolare, in esso si tratteggerà il contesto in cui la Certosa di San Lorenzo fu immaginata e posizionata e il primo ambiente che si incontra entrando, ossia la cosiddetta casa bassa o domus inferior.

Il contesto

La Certosa di San Lorenzo a Padula è ubicata nel Vallo di Diano, un piccolo altopiano campano situato ai piedi del monte Cervati che funge da zona di transizione fra la Campania e la Basilicata; in epoca preistorica tale conca era in realtà un mare, come dimostrano i sedimenti marini ritrovati sulle alture circostanti. Successivamente, nel Pleistocene, il mare divenne un lago per poi prosciugarsi completamente, facendo emergere le colline su cui sono stati fondati i 15 paesi che lo compongono. Il Vallo, per la sua posizione strategica, è stato inglobato al centro di un complesso sistema di vie di comunicazione: già in epoca romana, infatti, la zona era attraversata da un’importante via consolare, la “Regio-Capua”, che collegava appunto Capua con Reggio Calabria. Su questa strada, in pratica una diramazione dell’Appia, transitarono molte personalità illustri, come ad esempio Cicerone, che aveva una villa nei dintorni. Dall’epoca romana si succedettero poi una serie di dominazioni ed invasioni fino ad arrivare al 1100, quando sul luogo dove poi sarebbe sorta la Certosa fu costruito dai monaci benedettini un piccolo cenobio dedicato a San Lorenzo. Il motivo è semplice: così come succedeva in altre parti della Campania, anche qui si tentava di porre un argine alla diffusione dei monaci basiliani attraverso la costruzione di chiese e monasteri di rito latino, che si opponeva al rito greco praticato dai basiliani. Questi ultimi erano malvisti dai benedettini che, invece, potevano contare sul sostegno della casata francese dei D’Angiò, che favorì anche la nascita e la diffusione di altri ordini monastici come ad esempio i certosini, maestri nel bonificare zone paludose come all’epoca era Padula. Questo intreccio religioso si rispecchiava nella politica: i Sanseverino, ossia i maggiori feudatari del territorio valdianese, scelsero di fondare la Certosa di San Lorenzo proprio per ingraziarsi gli Angioini, approfittando di varie condizioni favorevoli quali, ad esempio, l’acquisto o la proprietà di vasti latifondi nei pressi del sito prescelto per la costruzione, che potessero garantire quindi il sostentamento dei monaci.

Nel 1306 Tommaso Sanseverino, conte di Marsico, diede avvio ai lavori di costruzione della Certosa. Due anni dopo fu nominato Gran Contestabile del Regno da Carlo lo Zoppo; la lungimiranza politica aveva dato i suoi frutti.

La Certosa di San Lorenzo: l'impianto

Tutte le Certose hanno il medesimo impianto compositivo: sono divise infatti in casa bassa o domus inferior, l’ambiente ove possono accedere anche i laici, e la casa alta o domus superior, riservata ai religiosi. Può essere vieppiù suddivisa in altre tre zone:

  • la prima zona che si incontra, ossia la corte esterna, ove avvenivano gli scambi commerciali con il mondo circostante e che si presenta ruotata rispetto all’asse principale che collega prospetticamente tutti gli ingressi del monumento;
  • una zona “di transizione”, che fungeva da cuscinetto fra il mondo esterno e la zona eremitica e che comprende sia gli ambienti ove i monaci potevano incontrarsi, come la chiesa o il refettorio, sia alcune zone ove anche i laici erano ammessi, come ad esempio la foresteria;
  • la zona eremitica vera e propria, ove potevano accedere solo i monaci e che era consacrata al silenzio, alla solitudine e alla meditazione personale.
1-chiostro della foresteria; 2-chiesa di San Lorenzo; 3-chiostro dei procuratori;4-chiostro del cimitero antico; 5-cella del priore; 6-giardino del priore;7-cella con giardino; 8-scala ellittica; 9-cucina; 10-refettorio; 11-sacrestia. https://www.latanahotelmaratea.it/index.php/it/maratea/certosa-di-padula

Le tre corti esterne (della spezieria, centrale e dei mulini, situate a destra nella pianta in alto) rappresentano il primo ambiente che si incontra appena varcato il sontuoso portone d’ingresso, che dà accesso ad una piccola galleria voltata a botte con lacerti di grottesche.

https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fpadulafoto.it%2Fcertosa-san-lorenzo%2F&psig=AOvVaw3KJSHQgvDRPLB_Y8S5a8Yy&ust=1598101960059000&source=images&cd=vfe&ved=0CAMQjB1qFwoTCKDHqYKwrOsCFQAAAAAdAAAAABAf
Lacerti di affreschi

Questa sorta di corridoio, da cui poi si spalanca l’immensità della corte esterna chiusa in fondo dalla facciata barocca della Certosa a guisa di quinta scenica, presenta due ambienti ben distinti, ossia la spezieria (a sinistra) e l’alloggio per il custode (a destra). Un enorme portone veniva chiuso ogni sera dai padri certosini (un particolare del chiavistello è raffigurato nell'immagine sottostante), e gli armigeri lo sorvegliavano da una vicina torre.

La Spezieria

Oltrepassando la lunga facciata della Certosa in cui si apre il succitato portone e la facciata della piccola chiesa di San Lorenzo,

il primo ambiente che si incontra è la Spezieria, ossia il luogo ove i monaci della Certosa preparavano medicine ed unguenti che potevano essere somministrati, dietro modesta elemosina, anche a coloro che non facevano parte dell’ordine monastico, come ad esempio fornitori, esterni o ospiti. Una sorta di farmacia ante litteram. L’ambiente si compone di una stanza a pianterreno, oggigiorno adibita a bookshop, introdotto da un’anticamera stretta e lunga con un bell’affresco sul soffitto, probabilmente raffigurante Cristo che guarisce gli infermi. Ai due lati dell’affresco vi sono due scene in bianco e nero di attribuzione e soggetti ignoti, inseriti in un sistema di decorazioni a giragli fitomorfi.

La Spezieria vera e propria presenta invece, lungo tutte le pareti, delle scaffalature ove un tempo si sarebbero potuti osservare vasi di varie dimensioni (ne sono stati calcolati circa 45) contenenti medicamenti e unguenti, alcuni più semplici altri più complessi; il soffitto conserva tracce di affreschi con paesaggi.

Dalla stanza in questione si accede ad una loggia esterna con un piccolo porticato, ove spicca una fontana a conchiglia appoggiata ad una tartaruga, simbolo di longevità; una scala laterale conduce nell’appartamento dello speziale al piano superiore, purtroppo non visitabile, che dovrebbe conservare ancora tracce di decorazioni originali. Recentemente sono stati inoltre recuperati gli archivi contenenti l’inventario degli “ingredienti” utilizzati per comporre le medicine. Si trova di tutto, sia ingredienti tradizionali sia ingredienti “mitici”, come la polvere di smeraldo per curare gli occhi o la canfora usata come anafrodisiaco, ossia per tenere lontane le tentazioni della carne. Negli ingredienti tradizionali vi sono invece le piante e le essenze naturali, coltivate dai monaci stessi nel cosiddetto “Orto dei Semplici”: al momento della raccolta, tramite vari procedimenti, venivano poi estratti i principi attivi utilizzati nella preparazione di decotti e medicamenti, utili per curare patologie come l’artrite, la gotta etc.

Dalla Spezieria si accede ad una piccola corte esterna a forma di rettangolo, parallela alla principale.

Qui si trovavano i fienili e, disposte ad angolo retto, le stalle per gli animali da soma, la cui particolarità è il pavimento zigrinato per impedire che gli zoccoli degli animali scivolassero.

Al centro di questo ambiente è possibile notare come il pavimento sia lievemente riabbassato di pochi cm formando una sorta di piccola vasca. Una ipotesi sul suo scopo è che in tale “vaschetta” scorresse un piccolo rivolo d’acqua corrente che lavasse via gli escrementi degli animali, quasi “parcheggiati” sui lati dell’ambiente e intenti a mangiare. Tale supposizione è suffragata dalla presenza da una parte di una sorta di imbocco per un tubo e, dalla parte opposta, di quello che sembra un foro di scarico. Proseguendo oltre, nella piccola corte rettangolare si affacciano anche la fonderia delle campane e la peschiera, ossia uno spazio riempito di acqua dolce destinato ad allevare i pesci che poi finivano sulla tavola dei monaci.

Il secondo ambiente, situato esattamente difronte alla Spezieria, era l’alloggio per il custode; l’impianto attuale purtroppo non permette di capire quale fosse la sua disposizione originaria.

La corte centrale

Parallela a questa prima corte è la cosiddetta corte esterna, ossia un rettangolo fiancheggiato da corpi di fabbrica ai due lati lunghi, di cui quello di destra aggiunto successivamente rispetto all'altro. Sulla parte sinistra vi erano gli alloggi dei conversi, mentre sulla parte destra altri ambienti commerciali quali magazzini e fienili.

La corte è attraversata dall’acciottolato originale, scandito al centro da una sorta di viale che visivamente collega il portale l’ingresso alla corte esterna alla porta d’accesso al monumento vero e proprio e che indirizza l’occhio di chi guarda verso un ideale punto di fuga, costituito dalla porta d’ingresso al monumento. Solo di recente la pavimentazione originale è stata ripristinata, in quanto fino agli anni ’90 i detriti provenienti dalle ripetute inondazioni del torrente Fabbricato che scorre lì vicino avevano raggiunto un’altezza di due metri, coprendo completamente il pavimento della corte esterna e parzialmente gli edifici che in essa affacciano. Grazie ad un intervento sull’alveo del fiume si è inoltre scongiurato il pericolo di ulteriori tracimazioni di un torrente non particolarmente grande, ma che durante le piogge veniva ingrossato dalle acque e dai rivoli che scendevano dal paese soprastante.

Sul lato destro della corte esterna si trova una straordinaria fontana: non si sa chi sia l’autore, ma sicuramente era perfettamente a conoscenza della tipologia della grotta artificiale di cui l’espressione massima si trova nel Giardino di Boboli a Firenze.

Si tratta infatti di una complessa macchina scenografica: la fontana in questione si sviluppa in altezza ed è costituita da una cassa rettangolare chiusa da una spalliera e sormontata da una sorta di struttura a pigna, metà in pietra e metà in breccia, inserita in una nicchia profonda anch’essa in brecciolino dove ancora sono evidenti tracce di decorazione ottenuta con i gusci vuoti di molluschi quali le cozze.

La fontana si trova inserita in un arco a tutto sesto ai cui lati vi è una coppia di paraste lisce affiancate che si riuniscono alla base in un piedistallo da cui emergono due fontanelle con mascheroni. L’arco è inserito in una struttura coronata da una balaustra lapidea con ai lati esterni due pinnacoli conici, la raffigurazione di due conversi, altri due pinnacoli e San Lorenzo al centro, come dimostra l’attributo della graticola presente al suo fianco.

Sulla spalliera vi è la raffigurazione di due leoni posti dorso a dorso intenti a sbranare l’uno un vitello, l’altro un toro, iconografia molto diffusa (i leoni) anche se inconsueta (non si capisce bene il motivo della presenza del toro);

vicino al leone di destra vi sono due serpenti di fronte, probabile riferimento all'arte medica di cui i certosini erano maestri. Un’ipotesi sulla loro presenza riguarda infatti l’allusione ai due serpenti che si intrecciano sul caduceo, il bastone che è il simbolo di Esculapio, dio greco della medicina.

Al centro della spalliera vi è una formella piuttosto abrasa, che indica la presenza di una decorazione fitomorfa, forse un fiore.

L’ultima corte, quella più a destra, era la cosiddetta corte dei mulini, su cui affacciavano altre attività produttive. Attualmente non è visitabile in quanto ospita parte degli uffici della Comunità Montana, ma ricalca in pieno le altre due corti. L’unica differenza è che dalla pianta si evince che sia quadrata anziché rettangolare.

 

Nelle prossime uscite si tratteranno gli ambienti interni che conducono alla zona eremitica vera e propria.

 

BIBLIOGRAFIA

Terre Lucane. Frammenti di storia e di civiltà lucana osservati nel più ampio quadro storico meridionale e nazionale, Booksprint edizioni, 2016

G. Alliegro, La reggia del silenziocenni storici ed artistici della Certosa di San Lorenzo in Padula, A.G.A.R., 1963

SITOGRAFIA

https://cartusialover.wordpress.com/tag/spezieria/

http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/la-certosa-padula

 

 


IL BATTISTERO DI OSIMO SECONDA PARTE

A cura di Giulia Pacini

INTRODUZIONE

La seconda parte della trattazione sul Battistero di Osimo prenderà in esame l'apparato decorativo del soffitto ligneo, per poi concentrarsi sul fregio e sulla parete dietro l'altare.

IL BATTISTERO DI OSIMO: IL SOFFITTO LIGNEO

Il 27 settembre 1629 novembre venne rogitato dal notaio episcopale Prospero Tomassetti il contratto per la decorazione del soffitto ligneo del battistero di Osimo, contratto che si articola in una serie di dettagliate note tecniche, che entrane nel merito dello specifico assetto compositivo: lo schema, le figure, le storie, gli ornati, il tutto da sottoporre, attraverso disegni e cartoni, all'approvazione dell’illustre committente, il Cardinale Agostino Galamini. L’autorevolezza del committente emerge inoltre da alcune clausole contrattuali, come l’impegno ad un’ immediato avvio dell’opera “lunedì prossimo primo d’ottobre 1629”, l’assunzione, da parte dell’artista, degli oneri economici “a tutte le spese” ed infine l’obbligo a non accettare altri incarichi prima della completa realizzazione del lavoro: è evidente che il Galamini si fidasse poco del Santi, probabilmente preceduto dalla sua nomea poco affidabile, e noto per le sue stranezze ed intemperanze, oppure perché il Galamini stesso era impaziente di vedere il lavoro terminato. Accanto ad Antonio Sarti, esecutore delle pitture sul soffitto, nonché progettista e coordinatore dell’intero progetto decorativo, il medesimo documento contrattuale fa riferimento alla collaborazione di due altri pittori e doratori, Giovan Battista Gallotti di Roccacontrada e Teodosio Pellegrini di Castel d’Emilio per la messa in opera delle partiture decorative di complemento: cornicioni, rosoni, dentelli, membrature, modiglioni, accompagnato da una dettagliata descrizione dei motivi ornamentali, teste di cherubini, chiocciole, fogliami ed arabeschi, e da prescrizioni tecniche sull'uso e la qualità dei colori. Portata a termine con eccezionale tempestività appena cinque mesi dopo l’avvio dei lavori, il 4 marzo 1630, la scenografica ornamentazione del soffitto segna il coronamento di un programma unitario, iconografico e decorativo, concepito, promosso e realizzato dal cardinal Galamini, che comprendeva, oltre all'impresa del Sarti e collaboratori, il fonte battesimale bronzeo, opera dei fratelli Pietro Paolo e Tarquinio Jacometti di Recanati. L’antefatto più significativo per l’incarico nel battistero osimano va senza dubbio ravvisato nella documentata presenza del Sarti nella basilica lauretana, dove fu chiamato ad affrescare, nella Cappella del Sacramento tre storie sacre: La caduta della manna, Il sacrificio di Isacco e Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. Il soffitto del battistero di Osimo copre un’ampia superficie rettangolare di 117 mq. Realizzato in legno di abete, esso presenta un’incorniciatura, che corre lungo il perimetro, a dentelli alternati a rosoni dipinti a foglia d’oro e ornati con motivi vegetali. La superficie lignea è divisa in tre scomparti dipinti, compresi ciascuno entro cornici dorate a gola, dentelli e piccoli rosoni. Lo scomparto centrale, di forma quadrata, presenta le mezzo un ovale in cui è rappresentato il Miracolo della piscina probatica, circondato da quattro pannelli con gli Evangelisti, associati ai rispettivi simboli. Negli scomparti laterali, entro modanature mistilinee, i pannelli esagonali recano altrettanti episodi biblici: La guarigione di Naaman di Siria (vicino all'ingresso) e Mosè salvato dalle acque del Nilo (vicino all'altare). Negli interspazi intorno alle due formelle sono rappresentati angeli con simboli battesimali, una veste, un cero, una stola, un neonato, e angeli con gli oggetti caratteristici del battesimo, un’anfora, una brocca, un rituale ed una conchiglia con asciugatoio. Il tema dell’acqua purificatrice, strumento di eterna salvezza ed esemplare metafora del sacramento cristiano del battesimo, acquista nel testo pittorico del Sarti una centralità ideale e figurativa, attraverso la rappresentazione degli episodi della Guarigione di Naaman di Siria risanato dalla lebbra attraverso l’immersione nelle acque del Giordano e del Mosè salvato dalle acque del Nilo. Realizzati con pochi tratti grafici e con una singolare delicatezza cromatica ed atmosferica, sfocati brani di paesaggio scalano in profondità, lungo le morbide anse fluviali, rivelando un pittore di insospettata perizia nell'elegante impaginazione delle scene.

IL FREGIO

Lungo il perimetro del battistero, sulla sommità delle pareti, corre un fregio dipinto a fresco, naturale e quasi obbligato svolgimento del fastoso partito decorativo presente ne soffitto ligneo. La decorazione emerge da un fondo di un particolare colore azzurro pervinca, conseguenza di un originale blu scuro. La decorazione si esplica secondo un tema iconografico articolato con piccole varianti in sette sequenze modulari, sviluppate su una ritmica orditura di volute, girali vegetali, motivi spiraliformi intrecciati tra loro. La scansione dello spazio dipinto è affidata ad otto scultorei telamoni, nell'atto di sostenere allusivamente gli architravi su cui poggia il soffitto, posti all'estremità di ciascun modulo o sequenza decorativa ed affiancati da coppie di putti alati, atteggiati in armoniose movenze, che sostengono alternativamente una pigna ed una testa di toro, come germogliate da infiorescenze fantastiche. Al centro di ciascun modulo, entro una finta cornice a tabella, sorretta lateralmente da due putti, l’invenzione manieristica del “quadro riportato” replicata per sette volte, tre su ciascuno dei lati maggiori ed uno sulla contro-facciata, sopra la cantoria, interrompe la vivace teoria di putti e volute, riaffermando, pur nella diversità dei soggetti trattai, la centralità del tema religioso, attraverso la rappresentazione di sette santi oranti, sullo sfondo di scenari rupestri di invenzione, aperti su lontani orizzonti. Identificati dal nome scritto entro un cartiglio, posto al di sopra della finta cornice, sono raffigurati, nella parete sinistra a partire dall'altare, San Benedetto da Norcia, San Caritone, San Simeone; nella parte destra San Francesco d’Assisi, Sant’Egidio, Sant’Arsenio; nella controfacciata San Giacomo (vedi figura 16). Caratterizzata dal comune orientamento verso una scelta di vita solitaria e meditativa, indirizzata verso il romitaggio, l’ascesi o il monachesimo, l’iconografia dei sette santi, spesso associata a simboli della loro ascetica solitudine, la grotta il volto emaciato e barbuto,la natura selvaggia, si collega al tema del battista, primo “eremita” della storia del cristianesimo e, di conseguenza, alla genesi stessa del rito battesimale, inteso come purificazione del peccato; non è forse casuale la ricorrente presenza dell’acqua sotto forma di corsi fluviali, piccoli bacini lacustri, neve, torrenti o cascatelle, elemento iconograficamente unificante ed insieme forma allegorica del rito battesimale.

LA PARETE DELL’ALTARE

La parete dell’altare presenta un’articolata trama decorativa, caratterizzata da un complesso di motivi ornamentali e di temi iconografici, combinati secondo un variegato repertorio figurativo, in cui si possono individuare due partiture orizzontali: quella superiore, sviluppata entro uno spazio centinato, è occupata dalla scena della Crocifissione, teatralmente eseguita da due angeli reggi cortina, che trattengono lateralmente le bande di un pesante sipario. Nella fascia sottostante, le immagini a figura intera di San Pietro, a sinistra, e San Paolo, a destra, inscritte entro finte nicchie dipinte, inquadrano simmetricamente l’altare, dove campeggia la pala raffigurante il battesimo di Gesù, fulcro ottico ed ideale dell’intero complesso decorativo. Nella bilanciata articolazione dell’impianto compositivo, emerge un fantasioso gusto scenografico, esaltato dalle stesure larghe e luminose del colore e dalla sapiente resa pittorica degli elementi ornamentali: finte cornici, finti stucchi, finti marmi policromi, finte statue a monocromo, in grado di simulare allusivi effetti tridimensionali, che testimoniano  la persistenza nelle zone marchigiane di repertori figurativi manieristici, esemplarmente esibiti nell'artificio del tendaggio sollevato, a sottolineare la teatralità della “sacra rappresentazione” del Golgota. Nel bizzarro connubio di cadenze arcaizzanti e di inserti moderni che caratterizza la sceneggiatura della crocifissione, l’evocazione dei modelli quattro – cinquecenteschi , affida all'idioma della vocazione popolare del sermo humilis, è attestata dai riferimenti figurativi tradizionali dei due ladroni legati sulle croci “a tau”, del soldato Longino che trafigge con la lancia il costato di Cristo, del gruppo di soldati che si giocano a dadi le vesti del Salvatore. Forti influssi seicenteschi rivelano invece l’opalescente brano di veduta urbanistica stilizzata in lontananza, con il canonico inserto del tempio circolare, metafora della Gerusalemme Celeste, ed il particolare curiosamente anacronistico del guerriero a cavallo che ostenta gagliardi mustacchi arricciati “alla spagnolesca”. Il principio salvifico e purificatore, motivo conduttore della complessa architettura iconografica del battistero, in cui si intrecciano paesaggi ed ornati, emblemi araldici e simboli religiosi, giustifica l’apparente incoerenza tematica della Crocifissione, metafora di redenzione dell’umanità dal peccato originale, perpetuata attraverso la liturgia battesimale. Sotto la scena della crocifissione, una scritta entro un cartiglio recita: “EX LATER CHRISTI, DORMIENTIS IN CRUCE / FLUXERUNT SACRAMENTA”, con evidente riferimento al sangue di Cristo, che gli fluisce dal fianco, simbolo del sacramento dell’eucarestia. Il cartiglio con la scritta, chiave di volta per la comprensione del significato della crocifissione nel contesto battesimale, è oggi  interdetto alla vista dall’addossamento dell’altare ligneo alla parete affrescata, che ha comportato l’improvvido occultamento dietro la cuspide del timpano, compromettendone in modo definitivo la leggibilità. All’esemplare intento teologico e dottrinario che governa l’intero programma iconografico non corrispondono tuttavia sul piano esecutivo esiti di pari impegno artistico. Prevale, nella narrazione sacra, un tono di spensierata vivacità che annulla ogni coinvolgimento emotivo: dramma e phatos non sfiorano i personaggi, manichini inespressivi segnati da vistose sproporzioni, come l’ingombrante gruppo dei dolenti in primo piano, attoniti in una fissità bonaria ed assente: una tipologia fisionomica che ricorre a tratti nei volti di alcuni angeli, cherubini, telamoni fino al prototipo del monumentale San Paolo, impaginato a figura intera, all'interno della finta nicchia di destra. Accanto ad esiti qualitativamente scadenti, vanno tuttavia segnalati alcuni brani di raffinata esecuzione, in particolare gli squisiti monocromi con le Virtù, posti negli angoli di risulta, sopra le finte nicchie: la Fede  e la Speranza sopra San Pietro, la Carità e la Fortezza sopra San Paolo, contrassegnate dai rispettivi simboli: il calice con la croce, l’ancora, la “Virgo lactans” e la colonna. Lo stile spigliato ed il tratto veloce e compendiario dei quattro piccoli monocromi denunciano una spiccata sensibilità artistica che nulla ha a che vedere con il modesto esecutore dei goffi fantocci della crocifissione, rivelando invece palesi tangenze con il pittore veronese Claudio Ridolfi, presente ad Osimo intorno al 1640. Tra le ipotesi avanzate della paternità degli affreschi parietali, c’è l’attribuzione ad un pittore di origine jesina, Arcangelo Aquilini (1623 – 1684), ma ad oggi non vi sono veritieri riscontri circa la sua avvenuta maestranza nella città di Osimo. Gli autori del blocco d’altare vengono individuati in Teodosio Pellegrini e Giovan Battista Gallotti, decoratori che avevano affiancato il Sarti negli ornati del soffitto. Il sofisticato gioco illusionistico degli ornati e delle pregiate incorniciature trova la sua più riuscita espressione nell’originale soluzione decorativa dell’altare, in cui l’elemento strutturale vero e proprio, un prospetto architettonico in legno dorato ed intagliato, di gusto tardo cinquecentesco, si imposta a ridosso di una raffinata decorazione trompe l’oeil, che riproduce nella parete la sagoma e gli ornati di un altare dipinto, sormontato da un monumentale timpano spezzato a più ordini di intaglio, prospetticamente definito. La difficoltà di conciliare sul piano critico e conoscitivo il momento decorativo dell’altare dipinto con l’intervento della struttura lignea sovrapposta impone una prima riflessione, che tende a privilegiare come originaria scelta progettuale la realizzazione di un sontuoso altare fittizio, dipinto al centro della parete, destinato ad inquadrare una pala d’altare. La conferma di questa ipotesi è emersa nel corso del recentissimo intervento di restauro sulla parete affrescata, che ha permesso di verificare, dietro il parziale occultamento dell’apparato ligneo, l’esistenza di una mostra d’altare compiutamente dipinta e minuziosamente definita nei dettagli decorativi di contorno, che lascia intravedere al centro una vistosa lacuna di intonaco grezzo, destinata ad una successiva stesura “a fresco” o ad essere mimetizzata sotto la pala d’altare. Non ci sono note le ragioni per il quale l’affresco dell’altare venne coperto dalla struttura lignea dell’altare vero, che tutt’oggi possiamo ammirare. Se, come si ritiene, l’altare ligneo, nella composta ed elegante solidità di linee architettoniche e decorative, rappresenta una scelta culturale più matura rispetto al più composito e variopinto palinsesto d’insieme, la pala d’altare con il Battesimo di Gesù si inserisce coerentemente nel contesto dell’altare come risposta ad un’istanza di decoro e di normalizzazione in senso “classicheggiante” seicentesco, che ha indotto a formulare una discutibile attribuzione al pittore Carlo Maratta. L’analisi fin qui compiuta sulla complessa genesi decorativa del battistero ci porta a confermare la sicura pertinenza del dipinto all’altare che lo ospita e la presunta collocazione cronologica in pieno XVII secolo. La studiata semplificazione compositiva della scena obbedisce ad un’esigenza di equilibrio spaziale, che isola i due protagonisti in primo piano, sullo sfondo di una suggestiva ambientazione paesistica, scalata lungo le rive di un immaginario e sinuoso fiume Giordano. L’attenzione prestata al lato naturalistico, accentuata anche dalla minuzia descrittiva delle fronde e del fogliame, degna di un fiammingo, pongono il dipinto in relazione con alcuni scomparti del soffitto, La guarigione di Naaman di Siria ed il Mosè salvato dalle acque. Ma accanto all’ineludibile mediazione del Sarti, il presunto  pittore del Battesimo rivela una pluralità di influenze diverse, riconducibili a quella brulicante koinè artistica che, nel vicino cantiere lauretano aveva espresso, alcuni decenni prima, un esempio similare di stilemi e di archetipi della cultura figurativa riformata di ascendenza romana, dal Pomarancio, allo Zuccari, fino allo stesso Bellini, maestro del Sarti.

 


VILLA DELLA REGINA A TORINO II PARTE

A cura di Francesco Surfaro

INTRODUZIONE PARTE SECONDA

Dopo aver delineato il contesto storico che ha visto l'edificazione di Villa della Regina e ricostruito le trasformazioni che essa ha subito nel corso dei secoli, in questo nuovo articolo si tratterà degli appartamenti reali e delle architetture del giardino interno rivolto verso la collina.

VILLA DELLA REGINA: L'APPARTAMENTO DEL RE

L'appartamento di Sua Maestà è suddiviso in stanze private affacciate verso la città e sale preposte all'intrattenimento che si aprono verso i giardini e la collina. A partire dal 1868, le sue favolose camere accolsero le allieve più diligenti dell'Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari e furono riconvertite in aule scolastiche.

In foto: Daniel Seiter, “Il Trionfo di Davide”, ultimo quinquennio del XVII secolo, olio su tela. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Così denominata per la presenza in antico di un tavolo da biliardo per la pratica di un gioco simile a quello delle boccette, il "trucco" per l'appunto, la Camera verso Levante detta "del Trucco" è la prima delle sale dell'appartamento regio che dà sulla collina. Al centro del soffitto campeggia un dipinto ad olio di forma ovale collocato entro una cornice in stucco bianco intitolato "Il Trionfo di Davide", opera del Primo Pittore di Sua Maestà Claudio Francesco Beaumont, riferita in passato a Daniel Seiter. La scena veterotestamentaria, costruita con un'ardita prospettiva da sottinsu e giocata sui toni drammatici del rosso, mostra il giovane Davide trionfante che, mentre viene acclamato dagli israeliti, ostenta con fierezza il suo macabro trofeo: la testa mozzata, ancora sanguinante, del gigante Golia. La scelta di questo tema è verosimilmente tutt'altro che casuale: vi si può leggere una neanche tanto velata celebrazione encomiastica di Vittorio Amedeo II il quale, nel 1706, dopo aver respinto le truppe franco-spagnole che avevano assediato Torino per centodiciassette giorni, assunse il titolo regio nel 1713 con la firma del Trattato di Utrecht. Il sovrano, secondo le interpretazioni formulate dagli studiosi, verrebbe qui paragonato al patriarca biblico, divenuto re d'Israele dopo aver sconfitto il temuto comandante dell'esercito filisteo.

In foto: Interno della Camera del Trucco - All'estrema sinistra: Étienne Allegrain (attribuito a), Veduta del Castello di Saint-Cloud, 1675-77, olio su tela. A destra: Paolo Emilio Morgari: “Ritratto di Sua Maestà Vittorio Emanuele II di Savoia, re d'Italia”, 1874, olio su tela. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Sulla parete ovest è collocata una tela ad olio di grandi dimensioni raffigurante una veduta del Castello di Saint-Cloud, residenza non lontana da Parigi dove la regina Anna Maria di Borbone-Orléans, figlia del Duca d'Orléans e nipote di Luigi XIV, era nata e cresciuta. Attribuita ad Étienne Allegrain e databile tra il 1675 e il 1677, è una replica desunta da un originale custodito a Versailles che, con molta probabilità, era parte del corredo matrimoniale della prima monarca sabauda, come dimostrato dalla rappresentazione di un corteo nuziale in primo piano assente nel prototipo. La parete est ospita i ritratti di Maurizio di Savoia, della già citata Anna Maria d'Orléans e di Vittorio Amedeo III. Sulle pareti nord e sud sono appesi, uno difronte all'altro, due quadri del 1874 di Paolo Emilio Morgari, ritraenti Vittorio
Emanuele II, primo re d'Italia, che reca in mano l'atto di cessione di Villa della Regina all'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari, e la sua consorte scomparsa anzitempo, Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena. Della mano di Giovanni Battista Crosato sono le sovrapporte e le soprafinestre decorate con scene tratte dalle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone, due delle quali sono state oggetto di furto nel 1979. Risalgono agli interventi juvarriani le consolles e le specchiere in stile rocaille, dorate a foglia ed ornate con girali di foglie d'acanto e chinoiserie.

La Regina Adelaide, Villa della Regina

ANTICAMERA VERSO LEVANTE

In foto: Anticamera verso Levante – interno.

L'Anticamera verso Levante, adibita nel Settecento a sala giochi, custodisce una nutrita raccolta di ritratti familiari e tre nature morte floreali di ambito fiammingo. Tra le personalità sabaude effigiate è possibile riconoscere Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, seconda moglie di Carlo Emanuele III, Vittorio Amedeo III e Maria Clotilde di Borbone-Francia, sposa di Carlo Emanuele IV e sorella di Luigi XVI. Primeggia fra tutti per le sue imponenti dimensioni il ritratto di Umberto I, realizzato da Costantino Sereno nel 1878. Si segnala in questa sala la presenza di una targa bronzea commemorativa, su cui è inciso il bollettino militare con cui il generale italiano Armando Diaz annunciò, nel 1918, il termine della Grande Guerra. Un tempo, al centro della volta ornata con stucchi di maestranze luganesi, era collocato un olio su tela di argomento biblico realizzato da Claudio Francesco Beaumont, "Il Sacrificio di Jefte", che oggi risulta disperso. Uniche superstiti dei trafugamenti del 1979, durante i quali furono portate via tutte le sovrapporte di questo ambiente, sono le due soprafinestre di Giovanni Battista Crosato raffiguranti burle e giochi di putti.

GABINETTO VERSO LEVANTE "ALLA CHINA"

L'inventario del 1755 descrive questo raffinatissimo cabinet come interamente rivestito da tappezzerie in taffetas chiné à la branche, tacendo sulla presenza della pregevole boiserie impreziosita da pannelli simulanti carte cinesi, realizzata - forse non per questo ambiente - da Pietro Massa in collaborazione con la sua bottega tra 1732 e 1735. Nel 1868 la boiserie venne smontata dalla sede per cui era stata concepita nei progetti juvarriani e messa in deposito al Castello di Moncalieri. Nel 1888 i vari pannelli furono inviati al Quirinale ed installati nell'appartamento destinato ad ospitare il kaiser Guglielmo II. Il soffitto presenta motivi ispirati alle porcellane cinesi e la pavimentazione si compone di pregiate tarsie lignee. L'originale rivestimento con papiers-peint delle pareti è oggi riproposto grazie a sottili teli ignifughi in garza stampata.

BIBLIOTECA DEL PIFFETTI

In foto: Pietro Piffetti, Biblioteca, 1735-40, legno di pioppo con intarsi in palissandro, ulivo, bosso, tasso, avorio, tartaruga e inserì in foglia d'oro. Roma, Palazzo del Quirinale – Presidenza della Repubblica Italiana (già a Villa della Regina). Copyright fotografico: Archivio della Presidenza della Repubblica Italiana.

Ultima stanza rivolta verso la collina, nel XVIII secolo la biblioteca detta "del Piffetti" era, a dispetto delle sue esigue dimensioni, una delle sale più sfarzose di tutto l'appartamento di Sua Maestà. Risalente agli anni 1735-40, questo fulgido esempio di ebanistica rococò venne trasferito, nel 1879, alla Presidenza del Quirinale - dove si trova tutt'oggi - per ornare una delle camere dell'appartamento della regina Margherita di Savoia, moglie di Umberto I. L'autore di questo prezioso ambiente fu Pietro Piffetti, "ebanista del re e re degli ebanisti" attivo alla corte sabauda dal 1731 all'anno della sua morte, avvenuta nel 1777. La biblioteca presenta un corpo in legno di pioppo con alta zoccolatura e scansie per contenere i libri, rivestito nella sua interezza in palissandro, ulivo, bosso e tasso. La struttura è arricchita da elaborati intarsi in avorio. Le scaffalature sono coronate da otto vasi in maiolica all'orientale e da quattro sculture lignee dorate a foglia raffiguranti le quattro stagioni. Accompagnano l'arredo fisso due piccole consolles foderate in testuggine con tarsie eburnee a trompe-l'oeil simulanti fogli e stampe. Sopra uno di questi fogli d'avorio Piffetti volle apporre la propria firma. In origine, erano parte dell'arredo anche sei sgabelli e due sputacchiere alla cinese. In loco sono rimasti soltanto lo splendido pavimento ligneo piffettiano con decorazioni floreali e gli affreschi sommitali. Sulla volta, sono riferibili a Giovanni Francesco Fariano (attivo anche a Rivoli e a Stupinigi) le grottesche blu e oro su fondo bianco avorio che emulano i motivi delle porcellane cinesi, riprese dal Piffetti sullo zoccolo della libreria e sulla fascia di raccordo fra gli scaffali e il soffitto. Il medaglione centrale vede come protagonista Atena-Minerva, dea della Sapienza nel pantheon greco-romano, colta nell'atto di scacciare i Giganti dall'Olimpo, allegoria facilmente interpretabile come il trionfo della cultura sulla violenza e sull'istinto bruto. Il capolavoro dell'ebanista torinese è rievocato sulle nude pareti della saletta grazie ad una scenografica ricostruzione virtuale voluta dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.

CAMERA DA LETTO

In foto: Camera da letto di Sua Maestà – interno. Fonte: consultaditorino.it

In affaccio sulla città, la camera da letto del re di Villa della Regina si distingue da tutte le altre sale per il suo strepitoso apparato decorativo realizzato in più fasi. Sul soffitto, la grande tela da plafond (1718-1719), posizionata al centro di un'elaborata cornice in stucco di maestranze luganesi, è opera di Claudio Francesco Beaumont ma, fino a tempi recenti, è stata impropriamente attribuita a Daniel Seiter. In essa il protagonista è Apollo che, alla guida del carro solare trainato da due cavalli bianchi, solca la volta celeste introdotto da Aurora, raffigurata mentre sparge delle rose aiutata da un putto in volo (allusione erudita al celebre verso formulare omerico "ῥοδοδάκτυλος Ἠώς", ossia "Aurora (Eos) dita di rosa"). Nella sezione inferiore, in primo piano, si trova - accanto a figure dormienti - un simpatico puttino sorpreso nell'atto di sbadigliare. Secondo uno schema molto caro ai monarchi europei, in questa composizione pittorica Vittorio Amedeo II viene accostato ad Apollo, divinità inscindibilmente legata al disco solare. Nella concezione assolutistica dell'Ancien Régime, infatti, il sovrano - al pari del Sole con i pianeti - veniva considerato il centro nevralgico dello Stato attorno a cui ruotano tutti i poteri, siano essi legislativo, esecutivo o giudiziario.

In foto: Volta della Camera da letto di Sua Maestà, pitture murali di Daniel Seiter e Claudio Francesco Beaumont, stucchi e dorature di maestranze luganesi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Le quattro specchiature laterali, dipinte ad olio sull'intonaco secco, ospitano le rappresentazioni allegoriche delle Stagioni sia dell'anno solare che della vita umana, dovute anch'esse al Beaumont, e le figure di Bacco, Cerere e dell'Allegoria dei Venti eseguite, tra 1694 e 1695, da Daniel Seiter nell'ambito di una precedente impresa pittorica. Agli angoli, entro quattro scudi dorati sostenuti da putti in candido stucco, vi sono le personificazioni delle quattro Virtù Cardinali con i rispettivi attributi iconografici: la Fortezza abbracciata ad una colonna, la Giustizia appoggiata ad una spada, la Prudenza che si guarda allo specchio e la Temperanza intenta a versare dell'acqua in un bacile.

Le soprafinestre e le sovrapporte (queste ultime sono presenti solo in copia fotografica dal momento che, nel tardo Ottocento, le originali furono installate al Quirinale), attribuibili a Corrado Giaquinto o alla sua scuola e databili attorno al 1735, raffigurano con rara grazia le vicende del pius Enea, rese celebri presso la corte torinese dal dramma di Pietro Metastasio intitolato "Didone Abbandonata", accolto con grande successo e replicato per ben quattro volte al Teatro Regio nel 1727. A ridosso della parete, dove ora è presente il ritratto giovanile di una pensosa regina Margherita di Savoia fasciata da un abito rosa, realizzato da Luigi Biagi nel 1879, era collocato, con ogni probabilità, il letto a baldacchino. La stanza presenta attualmente un rivestimento in taffetas chiné à la branche che differisce da quello descritto nell'inventario del 1755. L'originaria tappezzeria in seta bianca bordata di verde presentava dei paesaggi cinesi idealizzati con palmizi, sinuosi corsi d'acqua solcati da imbarcazioni in giunco e padiglioni popolati da personaggi indaffarati nelle proprie attività quotidiane.

GABINETTO DEL RE VERSO MEZZANOTTE E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto del Re verso Mezzanotte e Ponente – interno. Copyright: Beppe - vbs50.com

Tutti gli inventari settecenteschi non riportano alcuna informazione riguardante gli ornamenti parietali di questo splendido salottino privato. La prima menzione della boiserie, evidentemente non destinata in origine a tale ambiente, risale al 1812, anno in cui all'interno della villa venne fatta una ricognizione e stilato un catalogo dei vari complementi d'arredo mobile e fisso. Sia in questa data che nel 1845 furono qui censite tre consolles oggi mancanti, descritte come «finemente intagliate e dorate col piano superiore dipinto alla Chinese a colori diversi avente caduna di esse un piccolo tiratojo con serratura e chiave (...) e medaglioni al centro». Il rivestimento ligneo della parete, che porta le iniziali di Pietro Massa, è composto da otto pannelli a fondo giallo inseriti all'interno di montanti bianco avorio con ramages blu e da tre specchiere. Il tutto è impreziosito con delicate cornici dorate. I vari riquadri sono arricchiti da rilievi variopinti raffiguranti soggetti molto cari alla produzione artistica cinese, quali paesaggi idealizzati con abitazioni, alberi, animali esotici, uccelli e cortei di improbabili figure orientali dai fantasiosi abiti multicolore. Sullo zoccolo sono dipinte diverse specie di volatili acquatici e fiori esotici. I motivi della boiserie sono puntualmente riproposti negli stucchi sulla volta, riferiti negli inventari ottocenteschi ad un tale Pierre Wartz ed attualmente attribuiti al maestro luganese Giovanni Maria Andreoli.

In foto: particolare della boiserie di Pietro Massa e bottega. Copyright: Beppe - vbs50.com

IL GUARDAROBA

Il guardaroba del re è un ambiente di servizio dalle dimensioni piuttosto esigue attiguo al gabinetto cinese. Custodisce degli armadi in legno di noce impiallacciato con radica di olmo, destinati a contenere gli abiti del sovrano. A causa di infiltrazioni d'acqua gli affreschi a "grotteschi" che decoravano la volta sono completamente andati perduti.

ANTICAMERA VERSO PONENTE

Gli inventari stilati nel XVIII secolo attestano sulle pareti di questa anticamera, prima stanza a sinistra rispetto al Salone d’Onore, la presenza di oltre ottanta dipinti tra scene di genere, nature morte, ritratti, tele storiche e mitologiche, oggi quasi totalmente perduti. Fino al 1943 sulla volta, ornata da cornici in stucco bianco su fondo azzurro dell'atelier di Pietro Somasso, campeggiava una tela da plafond raffigurante Diana ed Endimione, andata distrutta nel corso dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale. Si ammirano tuttora in loco le sovrapporte di ambito del Giaquinto, apprezzabili per il modellato delle figure associato ad una ricca varietà di vibranti cromie; e la pregevole tappezzeria settecentesca in taffetas chiné à la branche di manifattura francese.

VILLA DELLA REGINA: L'APPARTAMENTO DELLA REGINA

Speculare a quello regio, l'appartamento di Sua Maestà la Regina è diviso in camere private affacciate su Torino e stanze rivolte verso la collina dedicate a momenti di intrattenimento e convivialità. Le sue sale, trasformate – come quelle dell'appartamento del re - nella seconda metà dell'Ottocento in aule scolastiche o in ambienti al servizio della direttrice dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, furono quelle che sortirono maggiormente i devastanti effetti dei bombardamenti aerei del Secondo Conflitto Mondiale.

In foto: Anticamera verso Ponente – interno. Copyright: Beppe - vbs50.com

L'assetto ornamentale dell'Anticamera verso Ponente fu realizzato in più fasi e per diversi committenti. Risalgono al primo ciclo di lavori voluti, tra 1694 e 1698, da Anna Maria di Borbone-Orléans le variopinte grottesche “alla Bérain” con inserti dorati del soffitto, riprese negli anni ’30 del Settecento da Minei o, più probabilmente, da Giovanni Francesco Fariano, e la tela centrale di Daniel Seiter, sulla quale è effigiato un tema allegorico molto caro ai sovrani assoluti d'Europa: “Il Tempo e la Fama”. Sono frutto dei progetti juvarriani per Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg la zoccolatura lignea, il copricamino, le specchiere con le cornici intagliate e dorate in stile rocaille e le sovrapporte ovali di Giovanni Domenico Gambone rappresentanti fantasiose rovine architettoniche. Infine, sono di epoca napoleonica le pitture parietali con «arabesques, et figures uniformes à la peinture de la voute y existante sur le gout d'Erculan, et chinois», eseguite a tempera sull'intonaco secco dal pittore genovese Carlo Pagani nell'agosto del 1811. Così come nell'omonima stanza dell'appartamento del re, anche in questa anticamera nel Settecento risultavano censiti alle pareti oltre ottanta dipinti di vario soggetto e formato, ora mancanti.

In foto: Daniel Seiter, “Il Tempo e la Fama”, ultimo quinquennio del secolo XVII secolo, olio su tela. Copyright: Beppe - vbs50.com

CAMERA DA LETTO

In foto: Camera da letto della regina – interni. Copyright: Beppe - vbs50.com

Nel corso del bombardamento alleato che funestò quest’area del piano nobile l'8 agosto del 1943, andò distrutta la quasi totalità degli arredi mobili e fissi posti all'interno della camera da letto della regina. Originariamente la volta era dominata da un grande affresco di Corrado Giaquinto, “il Trionfo degli dei”, dipinto tra 1736 e 1737; e alle pareti era posizionata una tappezzeria di manifattura francese in seta blu con ramages e motivi floreali. Buona parte dell'arredamento fisso progettato da Juvarra negli anni '30 del XVIII secolo è oggi riproposto da copie degli anni '50 del Novecento, che si distinguono dai complementi originali superstiti per l'assenza di dorature. Quando la villa ospitava la sezione umanistica per le alunne meritevoli dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, la stanza fu adibita ad aula di musica, come testimoniato dalla presenza del pianoforte verticale tardo-ottocentesco.

In foto: Camera da letto della regina – interni. A destra: pianoforte verticale della fine del XIX secolo. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

GABINETTO VERSO MEZZOGIORNO E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China” – interno con boiserie e specchiera.

Differente per il suo arredamento fisso dagli altri cabinet “alla China” presenti alla villa, il Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente presenta una bassa zoccolatura con scene di genere orientaleggianti e porte con medaglione centrale istoriato sul modello degli acquerelli cinesi, eseguite dall’atelier di Pietro Massa su progetto di Filippo Juvarra e Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano nel terzo decennio del Settecento. Agli angoli, tra le porte e nelle sovrapporte, sono inseriti, entro elaborate cornici lignee dorate a foglia con i monogrammi di Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, degli specchi di varie forme e dimensioni. Inquadrato da un fregio in stucco dorato a volute e ghirlande, il soffitto è caratterizzato da lacerti di pitture a fresco - risultanti perdute in gran parte già dagli anni '30 del XX secolo - con grottesche, ornati vegetali, uccelli, scimmie e figure maschili in foggia orientale, che rispondono allo stile di Filippo Minei. Del raffinato mobilio (tavolini, sgabelli e una consolle in stile rocaille) e delle preziose suppellettili (porcellane cinesi, argenteria e servizi da tè, caffè e cioccolata) storicamente documentati in questo salottino privato di gusto spiccatamente esotico, rimane soltanto un piccolo doppio corpo ligneo in “lacca povera”, ornato ad imitazione delle costose lacche orientali con una tecnica non dissimile dal découpage. Le bombe sganciate su quest’ala della villa nel 1942 non diedero alcuno scampo al rivestimento parietale settecentesco in taffetà, che rimase carbonizzato. Quest'ultimo è attualmente riproposto in copia.

IL GUARDAROBA

Gli inventari redatti nel Settecento documentano all'interno del guardaroba della regina due armadiate in radica di olmo con tarsie in noce, dietro le quali erano celati – fra le altre cose – una “cadrega di servizio” e un montavivande che consentiva di trasportare le pietanze dalle cucine al piano nobile. “Botti” in maiolica con decori blu e bianchi in armonia con i variopinti arabeschi sulla volta impreziositi da venature dorate fungevano da coronamento per i mobili. In un vano nascosto dietro le ante di un armadio sono ancora visibili le tracce dell'impianto idraulico realizzato per trasformare questo luogo nella toilette della direttrice dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari.

ANTICAMERA VERSO LEVANTE

In foto: Anticamera verso Levante – interni. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Ripetutamente danneggiata fino alla quasi totale distruzione durante le incursioni aeree avvenute tra l'8 e il 9 dicembre del 1942 e l'8 agosto del 1943, l’Anticamera verso Levante è – per come possiamo ammirarla oggi – quasi interamente frutto del ripristino architettonico del secondo dopoguerra posto in essere nel 1952. Anticamente, prima che nella seconda metà del XIX secolo fosse trasferita al Quirinale nel Salone d'Onore dell’Appartamento Imperiale, era possibile ammirare al centro del soffitto una tela di un anonimo pittore di scuola bolognese del Seicento raffigurante Re Salomone che riceve la Regina di Saba. Sia le pareti che le superfici concave della volta erano state completamente affrescate probabilmente da Filippo Minei in stile pompeiano con colori vivaci impreziositi da tocchi di foglia d'oro. Un documento datato luglio 1811 attesta che il pittore Giovanni Battista Pozzo fu pagato 1200 franchi dal governo francese per aver ridecorato «les murs [...] en figures, animaux, fleurs, et autres ornemens sur le gout de Raphael uniformes a la peinture de la Voute y existante». I dipinti novecenteschi che attualmente decorano la sala, compiuti imitando in maniera fedele gli originali, si devono a Francesco Chiapasco. La sovrapporta in carta dipinta a fiori e uccelli attribuita a Francesco Rebaudengo, unica superstite di una serie che fu oggetto di furto nel 1979, costituisce una preziosa testimonianza della fase tardo-settecentesca di Villa della Regina, quando era la dimora settembrina di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna. Le poltrone, le sedie e il divano in stile Impero furono realizzate appositamente per questo palazzo dall'ebanista Francesco Bolgi nel 1812. L'inventario del 1755 attesta in questa stanza la presenza di ben 43 ritratti di esponenti delle famiglie Savoia, Borbone-Francia, Asburgo-Lorena, Stuart e Assia-Rheinfels-Rotenburg.

GABINETTO VERSO LEVANTE DETTO "DELLE VENTAGLYNE"

In foto: Volta del Gabinetto delle Ventaglyne. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Passaggio obbligato fra l'Anticamera verso Levante affacciata sul giardino e il Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China”, il Gabinetto detto “delle Ventaglyne” deve il suo nome all'antica presenza di una ricca collezione di preziosi ventagli in carta dipinta montati sui tavolati della boiserie e inquadrati da cornici intagliate e dorate secondo un preciso progetto ornamentale, ancora intuibile grazie alle impronte dei riquadri rinvenute sulle pareti nel corso dei restauri. Alle sopracitate “ventaglyne”, si alternavano 26 piccole effigi di personalità di stirpe regale legate ai Savoia da vincoli di parentela. La volta, rifatta in gesso nella sua parte plastica e ridipinta ad olio nel 1952, riproduce fedelmente gli articolati partiti in stucco dorato e avorio nonché i fortunati motivi bianchi e blu “a graticcio” che circondano padiglioni abitati da figurine prese in prestito dai repertori della grottesca e della commedia dell'arte; presenti nell’originario progetto realizzato sotto la regia juvarriana. Mancante è il tondo centrale con “Amore che suona la cetra”.

In foto: Gabinetto delle Ventaglyne – interni. Fonte: rocaille.it

GABINETTO VERSO MEZZOGIORNO E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China” – interni.

Tra gli ambienti più raffinati e fastosi dell'appartamento della regina, se non addirittura dell'intera villa, questo gabinetto cinese è lo strepitoso risultato di un progetto unitario per la boiserie e la volta, disegnato probabilmente da Baroni di Tavigliano (anche se non si possono escludere degli accorgimenti apportati da Juvarra) ed eseguito materialmente da Pietro Massa e dai suoi collaboratori tra 1733 e 1736. All'interno di un'articolata struttura in legno di pioppo massello a fondo nero, ornata da decori policromi ad olio con vasi di fiori, fenici e figure in vesti esotiche, sono inserite delle tavolette a fondo rosso e arancio in materiali preziosi (argento, ottone, stagno, legno di melo) di varia natura e provenienza lavorati con tecniche differenti, che mostrano motivi floreali, paesaggi fluviali puntellati di casette e popolati da pescatori indaffarati in attività ittiche o in ozioso colloquio, uccelli, personaggi stanti o seduti comodamente su cuscini con ventagli e aquiloni. Fra queste numerose figurine all'orientale una, posizionata sulla parete sud, mostra una ventaglina ricamata con le iniziali “PM”, interpretabili come uno sfraghís di Pietro Massa. Arricchiscono ulteriormente la boiserie tre grandi specchiere. Agli angoli sono collocate, al di sopra di mensole, quattro figure femminili chiné con teste e mani separabili dal corpo rivestito con un lungo abito pieghettato, scolpite in scagliola da maestranze piemontesi del XVIII secolo e dipinte in modo tale da riprodurre perfettamente la lucentezza della porcellana cinese. L'effetto ottenuto è tanto credibile che nell'inventario del 1755, dove vengono definite «grosse pagode bianche con berretta negra in capo», le si considera realmente in porcellana. Sotto queste curiose statue trovano posto quattro piccole consolles angolari terminanti a zoccolo di capra. Il repertorio iconografico delle specchiature a fondo rosso sulle pareti è ripreso pari pari nelle variopinte pitture del soffitto. Il grave furto che si registrò alla villa nel 1979 fu la causa della perdita di alcune preziose tavolette rosse e nere.

IL GIARDINO VERSO LA COLLINA E IL TEATRO D'ACQUE

In foto: Il Teatro d'Acque. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

La creazione dello scenografico impianto del Teatro d'Acque comportò laboriose e costanti operazioni di sbancamento, rimodellazione e contenimento della bassa collina su cui sorge la villa, protrattesi per buona parte del Seicento e per tutto il Settecento. Sul retro del palazzo, uscendo dal Salone d'Onore, si estende un giardino ad anfiteatro impostato su tre livelli scanditi da filari di siepi di bosso e coronato dal Bosco dei Camillini. Il primo livello è costituito dal Cortile d'Onore in forma di esedra, caratterizzato al centro da una piccola vasca marmorea quadrilobata animata da piccolo gioco d'acqua e delimitato da due pareti concave segnate da una successione di 20 nicchie con piedistalli ora orfani, ora sovrastati da sculture. Per mezzo di una scalinata introdotta da due obelischi laterali, una volta superato il Giardino dei Fiori - collegato alla villa tramite terrazze con sottarchi - si raggiunge un’ulteriore vasca di dimensioni maggiori in confronto a quella precedentemente descritta, collocata in posizione frontale rispetto alla Grotta del Re Selvaggio.

Grotta del Re Selvaggio — particolare della nicchia centrale. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Questa finta spelonca - che deve la sua denominazione alla singolare scultura posta entro la nicchia centrale - altro non è che un parallelepipedo marmoreo tripartito, rivestito all'interno da specchiature e rilievi musivi in ciottoli di fiume, conchiglie e mursi. Salendo al livello successivo, tre terrazze emicicliche concentriche delineano il profilo del Giardino en forme de théâtre, cuore pulsante del Teatro d’Acque. In mezzo ad esso scorre la Cascatella della Naiade, una cascata a dodici gradoni paralleli in pietra dominata da un gruppo scultoreo in marmo raffigurante una naiade (ninfa d’acqua dolce) e un fauno distesi.

Cinta lateralmente da una scala a tenaglia che conduce al punto più alto della villa, la Vasca del Mascherone alimenta, grazie alle acque di una sorgente che sgorga dalla collina, tutte le fontane e i giochi d'acqua sottostanti con l'ausilio di un complesso sistema di canalizzazioni. Il Belvedere superiore juvarriano, quinta scenografica e culmine dell'intero complesso, presenta una facciata curvilinea definita da un'elegante bicromia giocata sul contrasto tra il grigio tenue della finitura degli intonaci e il colore naturale dei rustici bugnati in pietra calcarea. Nella fascia inferiore si aprono tre nicchie abitate da statue in marmo bianco dovute allo scalpello del regio scultore Giovanni Battista Bernero. All'estrema sinistra e all'estrema destra trovano posto aperture ovali foderate in murso nobilitate dalla presenza di mezzibusti. Sul fastigio, coronato da balaustre scandite da urne, troneggia lo stemma di Anna Maria di Borbone-Orléans.

IL PADIGLIONE DEI SOLINGHI

In asse con il corpo centrale della dimora, alla destra del giardino per chi guarda la collina e in posizione laterale rispetto al Teatro d'Acque sorge il Padiglione dei Solinghi, un edificio alto e stretto ripartito in due livelli architettonici, frutto dei disegni di Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano. Nella sezione inferiore è situata una terrazza semicircolare concava decorata da balaustre in marmo all'apice, specchiature in murso e una grande nicchia centrale contenente una scultura marmorea del dio Bacco attribuibile al Bernero. Percorrendo una scalinata laterale affiancata da un fondale leggermente curvo rivestito in pietra calcarea si raggiunge il secondo livello, un costruito a due piani i cui prospetti principale e laterali ripropongono il gioco cromatico a fasce orizzontali visibile nelle testate del Belvedere. Fungono da inusuali capitelli per le lesene laterali due mascheroni, ricostruiti nel 1836 ad opera di Giuseppe Corsaro. All'interno del padiglione – detto “dei Solinghi” in memoria dell'accademia di dotti fondata dal Cardinal Maurizio di Savoia, primo possessore del compendio, nel Seicento – il frammentario impianto idraulico, vittima delle pesanti manomissioni postume subite dal fabbricato, suggerisce la presenza di giochi d'acqua interni di cui, attualmente, rimane solo una conchiglia bivalve in stucco inserita nell'elaborato repertorio ornamentale musivo della nicchia centrale, articolato in tre ripartizioni separate da cornici ad ovuli, nastri intrecciati e lacunari con fiori molto aggettanti.

In foto: Il Padiglione dei Solinghi – esterno. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

LA ROTONDA

In foto: La Rotonda vista dal Cortile d'Onore in forma di esedra.

Agli antipodi del Padiglione dei Solinghi (di cui peraltro riprende le fattezze), la Rotonda è figlia di un progetto rimasto incompiuto difficile da ricondurre ad una piena autografia juvarriana. Questa terrazza offre un punto di vista privilegiato sulla città di Torino e sulle aree produttive dell'area DOC del Freisa di Chieri.

 

Bibliografia:
Paolo Coneglia, Andrea Merlotti, Costanza Roggero: Filippo Juvarra, architetto dei Savoia, architetto in Europa. Vol.1, Roma, Campisano Editore, 2014.
Cristina Mossetti: Villa della Regina, Torino, Allemandi, 2007.
Lucia Caterina, Villa della Regina: il riflesso dell'Oriente nel Piemonte del Settecento, Torino, Allemandi, 2005.
Cristina Mossetti, Paola Manchinu, Maria Carla Visconti: Juvarra a Villa della Regina, Roma, Campisano Editore, 2014.

Sitografia:
http://www.cultorweb.com/VR/VilladellaRegina.html
https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-grottesche-con-figure-uccelli-e-architetture-pozzo-giovanni-battista-notizie-dal-1811-01-00206489/316489
https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-ritratto-di-cristina-polissena-d-assia-rheinfels--01-00197787/316739
https://www.academia.edu/42720796/Juvarra_a_Villa_della_Regina
http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_28007
http://www.amicidivilladellaregina.com/la-villa/
http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_28008
http://palazzo.quirinale.it/luoghi/pdf/it/piffetti.pdf