IL PALAZZO DEL PRINCIPE A FASSOLO

Il Palazzo del Principe. La grande residenza dei Doria

Una delle principali ville storiche di Genova è quella, sontuosa, che l’ammiraglio Andrea Doria volle edificare  per la sua famiglia negli ultimi anni del terzo decennio del Cinquecento, immediatamente al di fuori della cinta muraria genovese, ossia il cosiddetto Palazzo del Principe, o Villa del Principe.

Per comprendere meglio il ruolo ricoperto da questa dimora, bisogna aver presente il ruolo storico-politico ricoperto da Andrea Doria e dai suoi discendenti, sin dagli anni ’30 del XVI secolo.

Andrea Doria (Oneglia, 1466 – Genova, 1560)nel 1528 siglò un “contratto di asiento” (attualmente potrebbe essere considerato un gentlemen agreement) con Carlo V d'Asburgo, re di Spagna dal 1516 e sacro romano imperatore dal 1519, offrendo la sua flotta in cambio di importantissimi vantaggi personali e pubblici.

L’accordo rese Andrea il cittadino più influente di Genova, il cui assetto politico istituzionale fu notevolmente riformato:la città venne trasformata in una repubblica oligarchica nobiliare[1], le famiglie aristocratiche vennero divise in 28 alberghi (simili a clan familiari), la cui iscrizione costituiva la conditio sine qua non per partecipare attivamente alla vita politica. L’ingresso tra i ranghi dell’aristocrazia non era precluso ai possessori di un cospicuo patrimonio personale e di uno stile di vita aristocratico.

Sebbene le istituzioni repubblicane rimanessero inalterate il dogato diventò una carica elettiva a durata biennale, e Andrea giocò un ruolo politicamente ambiguo perché venne nominato supremo sindacatore, pater patriae e garantì fedeltà agli Asburgo, ma al tempo stesso anche la libertà politico-economica della città. Genova, infatti, è fondamentale per la coesione dei possedimenti asburgici: dai territori spagnoli a Genova – bypassando il regno di Francia – da Genova a territori imperiali.

Questa alleanza segnò l’inizio del cosiddetto siglo de Los Genoveses, dagli anni Trenta del XVI secolo a tutto il Seicento, in cui Genova divenne una delle piazze finanziarie più ricche d'Europa, a tal punto che in quel periodo si diceva: "L'oro nasce in America, muore in Spagna e viene sepolto a Genova".

A differenza di altri assetti istituzionali simili, come Venezia, a Genova non vi era la distinzione politico-sociale tra aristocratici vecchi e nuovi, così che tra l’aristocrazia vigesse una assoluta democrazia – cosa che potrebbe almeno concettualmente stridere con la repubblica oligarchica.

Villa del Principe: costruzione

Il Palazzo del Principe venne costruito su un terreno acquistato nel 1521 di proprietà dei Lomellini, situato immediatamente al di fuori della cinta muraria cittadina così da godere di una giurisdizione extraterritoriale. La residenza originale della famiglia genovese venne distrutta durante l’assedio francese durante le guerre d’Italia e Andrea Doria ne ordinò la ricostruzione e affidò la decorazione a Pietro Bonaccorsi detto Perin del Vaga – allievo di Raffaello – e ai suoi collaboratori. L’artista iniziò a lavorare per Andrea nel 1529 e terminò, per quanto concerne gli interni, nel 1533, così da fornire una degna cornice a Carlo V, che soggiornò nel palazzo nel marzo di quell'anno. L’apparato decorativo periniano segnò un momento di passaggio fondamentale per la storia dell’arte genovese, introducendo in città il linguaggio artistico del Rinascimento maturo, post-raffaellesco.

L’intero palazzo era fino al XIX secolo chiuso sui lati meridionale e settentrionale da due giardini: quello sud è conservato e  oggi sorge di fronte all'autorità portuale (presenta al centro una fontana con Nettuno dai lineamenti di Andrea Doria), e quello nord, oggi perduto, la cui storia è particolarmente interessante.

Il giardino posto alle spalle del palazzo occupava tutta la collina, su cui oggi è distribuito il quartiere di Granarolo, creando una quinta scenografica di estremo impatto e forte suggestione. Il collegamento tra l’edificio e il terreno resta intatto fino alla metà del XIX secolo periodo in cui il comune di Genova acquista in maniera forzata dalla famiglia Doria parte di quel terreno per l’edificazione della linea ferroviaria Genova-Ventimiglia; nel corso degli anni poi sarà acquistato anche il terreno collinare sui cui verrà edificato il quartiere sopracitato, modificando inevitabilmente lo skyline genovese e togliendo dalla memoria collettiva la famosissima Grotta Doria che insieme al giardino costituì un esempio per i giardini pensili dei palazzi del Sistema dei Rolli edificati nelle Strade Nuove – le attuali via Garibaldi e via Balbi.

Grotta Doria

Dimenticata dalla città a causa delle trasformazioni urbanistiche di metà Ottocento, nel corso del secolo successivo la Grotta venne danneggiata dai bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale (i cui segni sono ben visibili) e dopo fu adibita a cantina del palazzo edificato alla sua sinistra. Ciò creò danni alla decorazione, senza fortunatamente intaccarne la stabilità e, infine, dopo il suo ritrovamento da parte di Lauro Magnani, professore di storia dell’arte moderna dell’università di Genova, la famiglia Doria-Pamphilj l'ha riacquistata.

Vasari nelle Vite indica come architetto di questa struttura il perugino Galeazzo Alessi che scelse come tema centrale l'acqua, inserendo nelle due absidi d’ingresso (oggi perdute per i bombardamenti) e in quelle interne alla grotta fonti d’acqua corrente,che, per questo motivo,fecero diventare famosa la struttura con il nome la Fonte.

L’interno richiama l’elemento acquatico grazie al mosaico polimaterico composto da conchiglie di varia tipologia applicate in differenti posizioni per sfruttare al meglio riflessione e rifrazione luminosa.

Tali conchiglie si dispongono per formare un ricco ciclo iconografico sulla volta, tratto da episodi delle Metamorfosi ovidiane quali il ratto di Europa, Deianira con il centauro, e Perseo che libera Andromeda. Sulle pareti, invece tra le nicchie, si riconosce il fiume Nilo antropomorfo con i suoi figli (gli Egizi) entro un ambiente dove sullo sfondo compaiono architetture serliane .

Il Palazzo del Principe: descrizione

Il complesso palaziale venne costruito da Andrea Doria e fu ampliato da suo nipote Giovanni Andrea, diretto erede data l’assenza di figli maschi.

L’ingresso è posto in corrispondenza di un loggiato coperto da volte a tutto sesto sorrette da colonne corinzie a fusto liscio. Nella volta dell’atrio, entro il riquadro centrale, tra decorazioni con motivi a grottesca, sono dipinte in quattro rettangoli Scene di Trionfo. Tre di esse raffigurano altrettanti momenti del Trionfo di Lucio Emilio Paolo, il generale che scacciò i Galli dalla Liguria, un richiamo alla cinquecentesca cacciata dei Francesi da Genova, cui Andrea Doria aveva partecipato. Il quarto raffigura il Trionfo di Bacco in India, scena volta a sottolineare il ruolo di pacificatore dell’ammiraglio genovese.

Sala della Carità Romana

E' situata subito dopo l’atrio d’ingresso e prende il nome dall'affresco presente sulla volta del soffitto che raffigura un episodio tratto dalla Storia di Roma di Valerio Massimo: si tratta della storia esemplare di una donna, Pero, che allatta segretamente il padre Cimone dopo la sua incarcerazione e condanna a morte per stenti, lei viene scoperta da un secondino, ma il suo atto di pietas impressiona i funzionari responsabili a tal punto da concedere il rilascio del padre. La scena è circondata da decorazioni ad affresco in terzo stile pompeiano riprese dalle ville romane che iniziavano ad essere scoperte a Roma.

Al suo interno si trovano anche i disegni degli arazzi raffiguranti alcune fasi della Battaglia di Lepanto, uno stemma araldico della famiglia in legno affisso su una delle navi di Giovanni Andrea durante la Battaglia di Lepanto stessa, un olio su tavola in cui viene raffigurata l’intera famiglia Doria con Andrea che attua il passaggio di consegne al nipote Giovanni Andrea; al di sotto del quadro si trovano in una teca una serie di diplomi e onorificenze tra cui il Toson D’oro, la carica più prestigiosa conferita sia ad Andrea che al nipote da parte di Carlo V e Filippo II d’Asburgo.

Dalla sala della Carità romana, per accedere al piano superiore, si percorre una scalinata la cui volta presenta una decorazione a riquadri geometrici e grottesche a richiamo dei soffitti della Domus Aurea neroniana, lodate dal Vasari nelle sue Vite; tuttavia queste ultime sono riemerse solo dopo un complesso restauro del 1999, che ha consentito il recupero parziale di quella decorazione ricoperta da uno strato pittorico con semplici incorniciature geometriche nel 1805, in occasione del soggiorno di Napoleone a Palazzo.

Tale scalone porta al piano superiore, ed in particolare al centro della loggia, nota come Loggia degli Eroi, oggi finestrata per motivi conservativi, con funzione di raccordo tra gli appartamenti di Andrea e quelli della moglie Peretta Uso di Mare-Doria. La decorazione principale presenta la raffigurazione di dodici antenati illustri salvatori della patria con ai loro piedi scudi raffiguranti lo stemma araldico della famiglia – un’aquila nera di profilo su sfondo oro e argento. Interessante è notare come Perin del Vaga, dietro volontà del Doria, rappresenti un omino in armi secondo il costume cinquecentesco, mentre i restanti secondo quello romano, al fine di mostrare la Repubblica di Genova come novella Roma di Età classica.

Questi uomini sono specificamente identificati come eroi del casato dall'iscrizione che li sovrasta: PRAECLARAE FAMILIAE MAGNI VIRI MAXIMI DUCES OPTIMA FECERE PRO PATRIA (“I grandi uomini dell’illustre famiglia, capi supremi, fecero cose ottime per la patria”) e, attraverso una fine e ritmica sequenza di gesti, sono legati uno all'altro. Inoltre, i modi e le pose ricordano le statue che Michelangelo realizzò per Lorenzo duca di Urbino e Giuliano duca di Nemours nella Sagrestia Nuova in San Lorenzo a Firenze.

Nelle volte delle cinque arcatelle,che sormontano tale loggiato, si trovano gli stucchi con grottesche a rilievo con divinità olimpiche e figure tratte dalla storia mitica di Roma: a livello iconologico si stabilisce una connessione tra i Doria salvatori della patria e gli eroi romani che hanno a loro volta salvato la città, una di queste raffigura Marco Curzio, generale romano di origine patrizia, che secondo la leggenda narrata da Livio, si sarebbe gettato nel 382 a.C. dentro la voragine che si era aperta nel foro romano, le altre Orazio Coclite, Tito Manlio Torquato, Furio Camillo e Muzio Scevola.

Gli stucchi che decorano le volte presentano un’esuberanza modellata sugli antichi esempi della Domus Aurea di Nerone.

Sala della caduta dei giganti

Immediato è il confronto con Giulio Romano, non solo perché negli stessi anni dedica a questo tema una sala di Palazzo Te a Mantova ma anche perché insieme con Perin del Vaga erano i migliori allievi diretti di Raffaello. A livello iconologico si attua una lettura che identifica in Giove Carlo V e nei giganti i suoi nemici come i Francesi (tra Spagna e Impero) e i Turchi (lungo il confine orientale dei territori imperiali).

Il tema viene relegato alla parte centrale della volta del soffitto senza creare quel vortice complesso che coinvolge lo spettatore come avviene nel palazzo mantovano. Perin del Vaga riprese per la realizzazione della scena la bipartizione eseguita da Raffaello nella Disputa del Sacramento (Stanza della Segnatura), ponendo al di sopra di una nuvola orizzontale in maniera fisica gli dei con Giove che brandisce la folgore al centro, mentre per quanto riguarda le posizioni, le torsioni e la fisicità si riscontrano quelle linee tipiche di Michelangelo. In particolare, un gigante ormai sconfitto ricorda nella posa il Noè ebbro della volta della Cappella Sistina.

L’intero ciclo decorativo di Perin del Vaga è integrato da un ricco apparato di stucchi riconducibili alla sua bottega per l’esecuzione e al maestro stesso per l’ideazione. L’esuberanza di queste decorazioni, in calce e polvere di marmo, si ispira agli esempi romani delle Logge Vaticane e di Villa Madama, e mostrano l’abilità acquisita a Roma dall'artista attraverso lo studio dell’arte antica.

Nella sala sono presenti anche due arazzi con episodi del Romanzo di Alessandro con l’idea che si aveva del macedone durante l’Età medievale. Questi arazzi sono tra gli esemplari più antichi e meglio conservati del secondo XV secolo, vennero prodotti nelle Fiandre, a Tournai, intorno al 1440 su commissione di Carlo il Temerario o in suo onore, entrarono poi nel patrimonio di Carlo V che, secondo le parole degli stessi Doria-Pamphilij, li portò a Genova come regalo giunse in città nel 1533, ma probabilmente furono acquistati a fine XIX secolo durante il revival dei primitivi. Questi arazzi vennero studiati da Aby Warburg nel 1913 quando erano ancora conservati presso la Galleria Doria-Pamphilj di Roma, sono poi stati portati nel Palazzo nel 2000 per volontà degli attuali discendenti.

Entrambi raffigurano differenti eventi della vita di Alessandro, tra questi si riconosce l'episodio in cui il condottiero macedone entro una gabbia ascende al cielo con l’ausilio di quattro grifi, quello in cui discende fino agli abissi entro una botte di vetro e quello in cui sconfigge i mostri con il volto sul petto.

Sala di Perseo

Chiamata così per il ciclo figurativo dedicato all'eroe greco, la sala si caratterizza da lunette che tuttavia oggi non godono di uno stato di conservazione ottimale a causa dei  bombardamenti durante il secondo conflitto mondiale. Nel 2008, però, grazie ad un importante intervento di restauro si è riusciti a conferire ad esso una maggiore leggibilità, consentendo di capire la volontà dell'artista di esaltare il ruolo svolto da Andrea Doria per la stabilità e libertà politica di Genova, attraverso l'esempio di Perseo che liberò Andromeda.

In corrispondenza di un lato corto si trova un ritratto eroico di Andrea Doria, in veste di Nettuno, con posa che ricorda il David di Michelangelo, attribuito ad Agnolo Bronzino con remo in mano: alla Pinacoteca di Brera ne è conservata una versione realizzata da Bronzino stesso in cui compare un tridente per lectio facilior anche se dalle radiografie si è riscontrata la presenza di un remo.

Salone del naufragio

Situato nelle stanze di pertinenza di Peretta Uso di Mare Doria è il luogo da cui Perin del Vaga iniziò a dipingere il ciclo ad affresco. Il tema del soffitto era in origine dedicato al Quos Ego, parole tratte dall'Eneide di Virgilio, che rimanda all'episodio in cui si narrano le vicende degli esuli fuggiti da Troia sconfitta, ostacolati nel loro viaggio da Giunone. In favore della sorte dei Greci, la dea aveva chiesto a Eolo, dio dei venti, di scatenare una tempesta contro le navi dei Troiani, ma Nettuno, supportando proprio questi ultimi, intervenne per placare la tempesta. Poiché nel corso dei secoli venne molto danneggiato, a metà ‘800 venne sostituito da uno sfondato architettonico.

Sulle pareti invece si trovano gli arazzi che narrano le vicende della battaglia di Lepanto: partenza delle navi da Genova, incontro con le navi alleate, disposizione degli schieramenti, battaglia ed infine ritirata dei Turchi. Ogni episodio della battaglia è racchiuso ai lati da quinte architettoniche con affianco allegorie di alcune Virtù.

Ultimo ambiente, che si incontra durante il percorso di visita al Palazzo del Principe, è la Galleria Aurea edificata per volontà di Giovanni Andrea I Doria. La forma è fortemente allungata e risulta aperta su due lati attraverso una successione di finestre che permettevano di godere la vista di entrambi i giardini della villa. Questo luogo, a fine Cinquecento, sostituì il Salone dei Giganti come  ambiente di rappresentanza nella vita cerimoniale della dimora. Dal contratto di costruzione si deduce che i maestri Battista Cantone e Luca Carlone costruirono attaccato al palazo di Fassolo dalla parte di ponente una Galarea… con una Cappella e che i lavori dovevano essere terminati entro il luglio 1595.

Negli anni immediatamente successivi, Marcello Sparzo, un noto maestro stuccatore di Urbino, eseguì la decorazione della volta connotata da quadri riportati centrali, lunette e larghi peducci. Su di essi si impostano figure in piedi vestite come guerrieri antichi, raffiguranti membri illustri della casata, in parallelo con i personaggi della Loggia degli Eroi; tra di essi è compreso Andrea Doria, che calca col piede la testa di un turco sconfitto. Nella galleria – detta “Aurea” per l’estesa presenza, in origine, della doratura – sono conservati tavoli da parete secenteschi, opera del celebre scultore genovese Filippo Parodi.

E’ giusto ricordare la Stanza dello zodiaco, realizzata da Perin del Vaga, il cui stato di conservazione è stato compromesso da una bomba caduta proprio nei pressi del palazzo, oggi sono leggibili nelle lunette solo il segno dei pesci, dell’acquario e del capricorno.

Altra stanza interessante è quella privata di Peretta Uso di Mare Doria, moglie di Andrea, le cui lunette raffigurano il mito di Aracne; in questa stanza è conservato un secondo ritratto di Andrea Doria, realizzato da Sebastiano del Piombo, da cui si pensa Caravaggio possa aver tratto semplice ispirazione per il volto di Ponzio Pilato nel suo Ecce Homo conservato presso il Museo di Palazzo Bianco, facente parte del circuito dei Musei di Strada Nuova.

Come ha fatto Caravaggio a vedere questo ritratto? Semplice, è venuto a Genova ed è stato ospitato presso il Palazzo del Principe. Il soggiorno di Michelangelo Merisi nel capoluogo ligure è datato tra il luglio e l’agosto del 1606, periodo in cui era esule da Roma in quanto aveva ferito il notaio Pasqualoni.

Perché proprio Genova e non una città più vicina al capoluogo laziale? Perché una delle sue protettrici era Costanza Colonna di Palliano, moglie di Andrea II Doria, figlio di Giovanni Andrea. Mentre è nel capoluogo ligure rifiuta di affrescare la futura Galleria Aurea di Villa del Principe, per la quale gli erano stati offerti 6000 ducati, in quanto desiderava tornare al più presto a Roma. Tale notizia è giunta a noi grazie ad un ambasciatore estense di stanza nella città ligure che riferì a Ferrara tramite una lettera … Caravaggio è uno cervello stravagantissimo … relativa al rifiuto di affrescare la volta.

Bibliografia utile

https://www.doriapamphilj.it/genova/

Lezioni corso Storia dell’Arte della Liguria in Età Moderna a.a. 2018/2019 tenuto dalla professoressa Laura Stagno

Piero Boccardo Andrea Doria e le arti – committenza e mecenatismo a Genova nel Rinascimento

Laura Stagno Due principi per un palazzo. I cicli decorativi commissionati da Andrea e Giovanni Andrea I Doria a Perino del Vaga, Lazzaro Calvi e Marcello Sparzo per il Palazzo del Principe.

 

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PALAZZO BALBI SENAREGA DI GENOVA

Palazzo Balbi Senarega: una vera e propria strada di famiglia

La famiglia Balbi,proveniente dalla Val Polcevera, entroterra genovese, si trasferì in città nel corso del Quattrocento, dove impegnò le proprie risorse nel campo della concia e della seta:quest’ultima attività pose le basi della rapida ascesa sociale che, nei due secoli successivi, li vedrà diventare uno dei gruppi familiari più rappresentativi, autorevoli e prestigiosi della nobiltà genovese.

Ciò che permetterà a questa famiglia di compiere il vero e proprio salto di qualità entro la società genovese sarà la costruzione di un asse viario che, parallelo alla medievale via Prè, collegasse Genova – in particolare l’area del Vastato – con il Ponente ligure: l’attuale Via Balbi. Il progetto, per onor di cronaca, era già stato messo in opera dalla Repubblica nel 1601, ma aveva incontrato l’ostacolo dei proprietari terrieri della zona. Tale situazione di stallo perdurerà fino al 1605 anno in cui la famiglia Balbi acquisterà i terreni dai contadini e non solo porterà a termine la costruzione della nuova strada, ma la sceglierà come propria zona residenziale.

I lavori iniziarono proprio nel 1605 e proseguirono a più riprese fino alla completa lastricatura del manto stradale terminata nel 1656. L’architetto protagonista dell’impresa edilizia e non solo è il lombardo Bartolomeo Bianco, già al servizio della Repubblica per altre importanti opere pubbliche e residenze private.

In parallelo con la realizzazione di questo asse viario, furono aperti i cantieri dei vari palazzi che, ancora oggi, costituiscono il principale elemento architettonico della strada.

Palazzo Balbi Senarega: evoluzione architettonica e sviluppo decorativo

Le prime notizie circa la costruzione di questo risalgono al biennio 1618-1619, periodo in cui il già citato architetto Bartolomeo Bianco avrebbe progettato la dimora dei due fratelli, Giacomo e Pantaleo Balbi.

L’architetto, non potendo realizzare le due canoniche dimore adiacenti, consuetudine per le residenze di due fratelli,  adottò una soluzione innovativa e inusuale nel panorama urbano genovese: decise di edificare due differenti piani nobili sovrapposti,imprimendo nella struttura una forte tensione verticale. Ponendo l’uno sull’altro i due piani nobili, Bianco riuscì a sopperire alla mancanza di terreno edificabile, dovuta alla presenza di lotti adiacenti già occupati in strada Balbi, senza perdere in rappresentanza e prestigio.

Nel 1644 Francesco Maria Balbi, figlio di Giacomo e nipote di Pantaleo, unico erede, divenne proprietario esclusivo del palazzo e diede il via per un importante rinnovamento architettonico e decorativo, senza però snaturare il progetto originario: chiuse con un sistema di finestre il secondo piano nobile, dove concentrò le sue committenze decorative, e ampliò a sud il palazzo tramite un ninfeo e aranceto.

Il ninfeo

Palazzo Balbi Senarega, ereditato da Francesco Maria, si presentava decorativamente piuttosto spoglio e privo di un giardino tipico di molti palazzi nobiliari genovesi. Appare evidente che un vero e proprio giardino non si sarebbe potuto mai edificare a meno di non voler demolire alcuni edifici limitrofi al palazzo in questione. Si optò per una soluzione che ancora oggi possiamo interamente apprezzare nella visita di questo edificio: appena al di là del cortile interno, venne progettato un Hortus Conclusus, chiuso da un ninfeo dove si trovano figure mitologiche realizzate tra il 1659 e il 1661 dallo stuccatore Giovanni Battista Barberini.

Le dimensioni monumentali delle due statue più esterne contribuiscono ad attirare lo spettatore che, portato ad avvicinarsi al Ninfeo, viene accolto nella più intima area della struttura, caratterizzata dallo scrosciare dell’acqua e dalla presenza di statue di cui è ancora controversa l’interpretazione iconografica.

La nicchia centrale ospita un inequivocabile Nettuno che regge le briglie due cavalli marini sulla sommità di una scalinata dove scorreva copiosa l’acqua, un giovane uomo in abiti regali (nicchia orientale) e una giovane donna (nicchia occidentale). Indicati in primo tempo come Orfeo ed Euridice, attualmente sembra più corretto vederli come Plutone e Proserpina, nel momento in cui la dea abbandona gli inferi per tornare a donare alla terra fioritura e ricchezza di messi: questa deduzione verrebbe anche avvalorata dalla presenza sullo stesso lato di un monumentale barcaiolo Caronte. Sul lato orientale, quello dove è situato Plutone, campeggia Giove che dapprima approvato il “ratto” da parte del signore degli inferi, per poi stabilire che Proserpina avrebbe potuto tornare per metà dell’anno a vivere sulla terra:permettendo il naturale ciclo delle stagioni.

La Grande Sala e i Salotti del secondo piano nobile

Il merito della famiglia Balbi è quello di aver innovato lo stile della grande decorazione genovese di metà Seicento, grazie alla scelta di pittori Valerio Castello e Domenico Piola, impegnati accanto a quadraturisti d’area bolognese, maestri nel realizzare grandi scenari illusionistici. Entro architetture dipinte, si dispongono figure mitologiche e allegoriche che caratterizzano il gusto barocco locale.

Dalla seconda metà del 1654, Valerio Castello viene contattato da Francesco Maria per allestire emozionanti scenografie barocche. Il pittore è infatti impegnato nella decorazione di numerosi ambienti al secondo piano nobile, accanto ad Andrea Sighizzi, prospettico e quadraturista bolognese.

Nel 1656 divampa a Genova una terribile pestilenza, che impone l’interruzione di qualsiasi attività, lasciando un senso di sgomento e profondo turbamento in tutti i sopravvissuti. Tra la fine dell’epidemia e il 1659,si data il completamento dei decori del palazzo, portati avanti da Domenico Piola.

Secondo il Soprani, le fasi decorative che interessano il palazzo sono ipotizzabili in questa sequenza: la galleria del Ratto di Proserpina, la sala con Leda, la sala con la Pace con Allegrezza e Abbondanza e, infine, la sala centrale con il Carro del Tempo, anche se non sono tutte contigue.

Galleria del Ratto di Proserpina – Valerio Castello.

Questo vano, limitato nelle dimensioni, viene illusionisticamente ampliato dalla decorazione della volta e dagli sfondati sulle pareti di testa che fingono, su ciascun lato, altre prospettive architettoniche. Il mito entra con impeto nella decorazione della galleria con due scene affrescate proprio in corrispondenza di queste due pareti terminali: la Caduta di Fetonte e il Ratto di Proserpina. I due episodi sono in relazione con i personaggi e le vicende narrate nella volta, piena di figure che compongono il Mito di Cerere e Proserpina, Giove e gli dei dell’Olimpo.

L’architettura virtuale è in parte nascosta dalle figure e dalle nuvole, ma è fondamentale per raggruppare i vari personaggi. Le divinità sembrano intrecciare immaginari colloqui sugli eventi in corso. La dinamicità della decorazione della volta è ottenuta grazie a linee oblique presente sia nelle divinità sia nelle strutture architettoniche.

L’affresco del Ratto di Proserpina è collegato al tema della natura e della mutazione attraverso il susseguirsi delle stagioni e in accordo con il programma iconografico della decorazione delle sale del palazzo e con il giardino sottostante.

La narrazione inizia da levante con Apollo tra le Muse, si prosegue con Cerere che addita la vicenda di Proserpina mentre Plutone scatena i venti sotto la inarrestabile spinta della freccia che Cupido sta dirigendo verso di lui. Diana, Minerva e Venere partecipano al fatto, seguono giovinette che recano ghirlande di fiori.

La narrazione prosegue con  un gruppo di divinità maschili tra cui risaltano Giove, Nettuno e Saturno, i cui gesti rimandano tutti all’episodio della caduta di Fetonte dal carro del Sole, trainato al posto del padre Apollo.

La presenza di Apollo che presiede alla vicenda di Fetonte, sul lato di levante, introduce invece alla contigua, decorata con il successivo intervento di Domenico Piola.

Apollo e le Muse – Domenico Piola

La galleria è luogo di snodo nella disposizione degli ambienti di Palazzo Balbi Senarega e nel ciclo decorativo concepito come un unicum sin dal principio: la decorazione dell’intero secondo piano nobile presenta una perfetta unità tra l’intervento di Castello e quelli di Domenico Piola e Gregorio De Ferrari.

La sala con Apollo e le Muse vuole paragonare il committente con Apollo evidenziandone il ruolo di protettore delle arti. Il passaggio tra Domenico Piola e Valerio prenderebbe avvio proprio da questa stanza, in continuità con l’opera del predecessore. La sala aveva in principio due finestre:una sulla parete est e l’altra sulla sud, la quale collegava otticamente il lata su Strada Balbi con il tessuto urbano a mare.

Lo spazio della stanza è dilatato verso l’alto dalla finta architettura che decora la volta aperta su un cielo azzurrino. Alla base è situata una balaustra su cui si dispongono varie figure in un rapporto di tensione e di equilibrio.Spicca il ruolo di Apollo, posto al centro del lato sud.

Il lato Nord si apre e si chiude con le figure a grisaille di Mercurio e Minerva. La finta statua di Mercurio è seguita dalla musa Clio (Storia) e da una curiosa figura di scimmia intenta dipingere la propria effige: questa, in virtù della propria somiglianza con l’uomo, ne rappresenta una sorta di doppio. La scimmia è un’allegoria della Pittura: imita l’uomo e imita il fare del pittore, a sua volta seguace dell’arte “imitatrice”. Seguono Euterpe e Melpomene, muse della Musica e della Tragedia.

La parte a levante si apre con Calliope, la musa della Poesia, riconoscibile dalla corona di alloro che reca e dai pesanti libri di cui è circondata. L’ultima musa è Talia, la Commedia, identificabile tramite la maschera teatrale e il groviglio di aspidi che reca.

Il lato a sud si apre con la finta statua ad angolo di Giove, riconoscibile dall’attributo dell’aquila, seguito da Tersicore (Danza) e da Apollo che ostenta la propria bellezza olimpica e tiene la lira, simbolo dell’armonia dei Cieli. Segue Erato (Canto corale) mentre a chiudere la parete si trova Ercole a grisaille.

L’ultima parete, quella a ponente, vede Polimnia, musa della Retorica, riconoscibile dal libro,seguita da Urania (Astrologia).

Le pareti in principio erano scandite da nicchie dipinte, di cui si conserva solo quella di levante:raffigura a grisaille un Ercole ammantato da una leonté con un aspide stretto fra le mani. I bombardamenti del secondo conflitto mondiale causarono significativi danni nell’ala di levante e la sala di Apollo rimase per molto tempo priva degli infissi esponendola alle intemperie.

Il Carro del Tempo – Valerio Castello

La volta del salone centrale ospita l’allegoria del Carro del Tempo, capolavoro di Valerio Castello, sua ultima fatica in palazzo Balbi Senarega. Tra le finte architetture volteggiano le figure, secondo un ritmo ben modulato e coinvolgente. Il senso del colore di Valerio si esprime in questi affreschi attraverso una caleidoscopica gamma di note cromatiche.

Al centro della volta Saturno-Cronos, l’anziano canuto con la falce in mano, porta inesorabilmente a distruzione uomini, cose e ricchezze – come lascia intendere il motto VOLAT IRREPARABILE (TEMPUS) presente sul cartiglio tenuto da tre putti – ma da intendersi “in direzione tutta positiva”, dato l’incedere verso l’Eternità identificabile grazie al cerchio e alla corona tra le mani. Dunque, un tempo che corre verso l’eterno e non solo un disgregarsi e perdersi senza un fine se non l’oblio.

I personaggi sopra il cornicione, secondo questa visione, sarebbero le diverse fasi della vita dell’uomo: l’Infanzia evocata dalla presenza del centauro Chirone; la Giovinezza simboleggiata dalla fanciulla allo specchio assistita da due ancelle; la Virilità riconoscibile nell’uomo colto nell’atto di comando e la Vecchiaia rappresentata nei due uomini anziani pugnalati e uccisi.  Al di sotto si riconoscono sui lati brevi i segni singoli di Capricorno, Acquario, Cancro e Leone; mentre sui lunghi, a coppia, Pesci-Ariete, Toro-Gemelli, Vergine-Bilancia, Scorpione-Sagittario.

Infine, al centro dei lati brevi, trovano posto le allegorie della Fama, che con la tromba esaltala scena centrale, e della Fortuna, instabile per definizione e capace di distribuire ricchezze come testimonia la cornucopia accanto. Sulla valenza e il significato di questa decorazione è tornato Lauro Magnani, sottolineando come la realizzazione dell’affresco dovette coincidere con un momento drammatico:già nel settembre del 1656 si era diffusa un’epidemia di peste che lasciò la città in ginocchio e allentò ogni attività non indispensabile. Alla luce di queste considerazioni la positività con cui l’affresco veniva letto sembra lasciare il posto a una lettura ben più amara. Il Carro del Tempo, guidato dalle Ore che alzano le clessidre, sono un segno dello scorrere di ogni istante abbattendosi anche su quei corpi caduti, forse precisa evocazione dei morti di peste tra cui si contò anche Giovanni Battista Balbi, giovane cugino di Francesco Maria. E così, sempre secondo questa lettura, la Fortuna in precario equilibrio non riverserebbe i suoi beni, ma i simboli di una vanità terrena. Continuando con questa logica i gruppi al di sopra del cornicione mostrerebbero una diversa identità, andando a rappresentare tutte un episodio che si conclude con la morte del personaggio protagonista.

Pace tra Allegrezza e Abbondanza – Valerio Castello

La magnificenza della famiglia Balbi trova celebrazione nel formidabile e festoso salotto di Pace tra Allegrezza e Abbondanza.

Valerio Castello raffigura le tre leggiadre figure tra nuvole e puttini. Pace, al centro della scena, stringe nella mano un ramo di ulivo stretto nella mano destra,Allegrezza, alla sua destra dipinta come una magnifica fanciulla mentre sparge fiori, e dall’altro lato Abbondanza, riconoscibile dalla cornucopia al suo fianco. Intorno gli Amorini partecipano e celebrano questo clima di armonia e serenità, garantito dalla presenza delle tre Virtù.

Il resto della decorazione ricco e ben equilibrato alterna elementi di quadratura, ornati e figure:si possono notare le quattro finte statue dorate di Virtù ai quattro angoli mentre sorreggono il cornicione, connotato da una vivace struttura architettonica.

Apoteosi di Ercole – Gregorio de Ferrari

In questa stanza l’attenzione dell’osservate si concentra interamente sul soffitto dove nel riquadro centrale si trova Ercole e la clava. Un putto gli porge i pomi delle Esperidi segno del passaggio verso l’età adulta. Fama ed Eternità, in volo sopra l’eroe, gli porgono una corona aurea e una d’alloro.

Negli angoli alla base della volta si trovano affrescate la Virtù eroica, incarnata da Ercole che uccide il serpente Ladone, la Fortezza d’animo, personificata da una donna armata, la Virtù insuperabile, una giovane donna con corona d’alloro vicino ad una cornucopia e una lancia, e infine la Virilità, rappresentata da una figura femminile con scettro e seduta su un leone. Ogni allegoria si poggia poi su cartelle a monocromo dorato, su cui sono raffigurate piccole scene di noti episodi mitologici: Pan e Siringa, Arianna abbandonata, Diana e Atteone, e Amore sul carro. L’affresco si presenta come un emblema delle virtù di Francesco Maria ma più in generale della virtù maschile. Sullo stesso livello, entro piccole nicchie a conchiglia, trovano posto quattro finti busti marmorei maschili e femminili, che vivaci putti sono intenti a inghirlandare e decorare con fiori e veli.

Al di sotto del cornicione corrono per tutto il perimetro quattro lunghe tele il cui soggetto mitologico non si  riferisce ad un mito preciso.

Leda e il cigno – Valerio Castello

In questa stanza, l’ultima visitabile, l’architettura illusionistica trasforma lo spazio rettangolare in ovale grazie ad una volta dorata, sorretta da coppie di colonne intervallate a vasi pieni di fiori poggianti su un’alta balaustra marmorea. La calotta è dedicata a ospitare Leda, moglie di Tindaro amata da Giove, circondata da putti.

Lungo il sottostante cornicione coppie di putti reggono, come quadri, le cornici che ospitano le effigi di Venere, Diana, Minerva e Mercurio, riconoscibili dai loro attributi. Le virtù di queste quattro figure meglio delineano le qualità di Leda, al centro del quadro della volta.

Gli amorini, in pose di estrema naturalezza e gesti vivaci, conferiscono spazio fisico alla volta. Valerio tiene conto della posizione delle finestre e organizza di conseguenza i contrasti chiaroscurali.

 

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