IL SACRIFICIO DI ISACCO DI ORAZIO GENTILESCHI

A cura di Fabio d'Ovidio

Storia conservativa del dipinto: passaggi di proprietà, acquisizione e restauro

La tela, dipinta da Orazio Gentileschi (1563-1639) e raffigurante il Sacrificio di Isacco, conservata oggi nella Galleria Nazionale della Liguria di Palazzo Spinola, venne esposta per la prima volta nel 1947 all’interno della mostra intitolata Pittura del Seicento e del Settecento in Liguria. Nel 1956, dopo nemmeno un decennio, venne posto sull’opera il vincolo di interesse storico-artistico eccezionale, e nel 1986, tramite l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato, il Sacrificio di Isacco venne formalmente acquistato a titolo definitivo.

Questo soggetto di Gentileschi proviene dalla quadreria di Palazzo Cattaneo Adorno, ubicato in via Garibaldi, come viene confermato da una fonte databile al 1847. Prima di quella data, come ricorda l’Instruzione del 1780 di Carlo Giuseppe Ratti il dipinto figurava nella collezione privata di Pietro Gentile, all’interno della quale erano presenti altre tele dello stesso pittore; tuttavia almeno una di queste – secondo le ipotesi della critica – dovrebbe essere ascritta al catalogo di opere dipinte da sua figlia Artemisia. Continuando con la ricerca a ritroso nel tempo di più antichi proprietari, si deve segnalare nel 1678 all’interno della collezione dell’ormai defunto Gian Luca Doria la presenza di un Isacco del Gentileschi, il cui valore stimato non superava le 30 lire.

Nel corso del biennio 1986/1987, subito dopo l’acquisto dell’opera, il Sacrificio di Isacco venne immediatamente sottoposto ad un restauro che gli restituì le dimensioni originarie: in corso di lavori si evidenziarono importanti lacune della pellicola pittorica soprattutto in concomitanza con i bordi della tela – i margini e l’angolo in basso a destra, nello specifico – dove era presente, vicino al corpo di Isacco, la testa di un montone che dopo l’intervento divino sarà sacrificato al posto dell’unico giovane figlio del profeta biblico Abramo. Della rappresentazione della testa di questo animale oggi sopravvivono soltanto due particolari anatomici: l’occhio destro e la punta del muso.

Sul piano esecutivo – data l’assenza di fonti documentarie certe – non si può stabilire con assoluta sicurezza se il dipinto venne eseguito dal pittore durante il suo soggiorno genovese, collocabile storicamente tra il 1621 e il 1624, o arrivò nel capoluogo ligure secondo altre modalità; è inoltre impossibile instaurare in maniera inequivocabile una relazione tra questo soggetto e l’affresco di tema analogo realizzato al centro della volta di una delle due sale dipinte da Orazio Gentileschi dietro committenza di Marcantonio Doria per il casino di famiglia sito nell’attuale quartiere cittadino di Sampierdarena, andato poi distrutto – stando alle fonti storiche – in chiusura di Settecento.

Descrizione iconografica dell’opera

Quando Carlo Giuseppe Ratti descrisse l’affresco di Sampierdarena nel 1768 si soffermò su quanto fossero soavi le proprietà del colorito: proprio queste parole, possono essere reimpiegate – secondo l’opinione di chi scrive – nell’approcciarsi alla descrizione cromatica di questa tela, connotata da una precisissima e calibratissima scelta delle cromie e dal magistrale impiego dei partiti luministici, tipici della lezione di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, del quale Gentileschi era seguace.

Un elemento tipico che costituisce un espediente impiegato spesso anche in altre opere dal maestro – si pensi per esempio al Davide e Golia, conservato a Dublino presso la National Gallery of Ireland, o al ben più famoso Davide con la testa di Golia, presente nella raccolta di dipinti di Galleria Spada a Roma – è la folta vegetazione in secondo piano che si configura come quinta ombrosa dell’intero evento, mettendo in risalto i personaggi raffigurati in primo piano. A concludere l’intera scena è un fondo nuvoloso striato.

La disposizione dei personaggi – l’angelo, Abramo e il figlio Isacco – è inserita entro un asse verticale che occupa l’altezza intera del supporto, dettandone inoltre il ritmo e le modalità di osservazione.

Un altro elemento che colpisce immediatamente l’osservatore ne il Sacrificio di Isacco è il dialogo fisico ed ottico, non verbale (la bocca dell’angelo è chiusa, quella di Abramo nascosta dalla barba) tra i corpi, il cui viluppo delle masse è studiatissimo ed estremamente calibrato: nuovamente è quasi d’obbligo richiamare sotto il profilo compositivo il superbo dipinto di Davide e Golia presente a Dublino, in merito al quale sono state avanzate ipotesi circa una provenienza Genovese. Proprio questo insieme di corpi trova il suo fulcro nel braccio proteso dell’angelo verso Abramo, attraverso cui impone una fine a ciò che fino a pochi istanti prima era ormai un dato certo, ovvero il sacrificio del figlio. Questo gesto è poi rimarcato sul piano “narrativo” dal gioco di sguardi che si instaura tra i due, mentre sotto il profilo cromatico è evidenziato dalle luminosissime pieghe delle maniche arrotolate di Abramo stesso: questi, nella mano sinistra stringe ancora saldamente il coltello con cui avrebbe compiuto il sacrificio del figlio, mentre con la destra, aperta e tesa sulla nuca del ragazzo, la spinge in avanti così da tendergli il collo per riuscire a recidergli la giugulare.

In ultima analisi non resta che considerare proprio chi sarebbe dovuto essere la vittima-protagonista della scena, ovvero Isacco, dipinto dall’artista nell’angolo in basso a destra, seduto sulle sue ginocchia con occhi chiusi quasi rassegnati al suo destino e nella penombra.

 

 

Bibliografia

G. Ratti, Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scultura ed architettura, Genova 1766

G. Ratti, Instruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in Pittura, Scultura ed Architettura, Genova 1780

Genova nell’Età Barocca, Catalogo della mostra, 1992

Simonetti, G. Zanelli [a cura di], Galleria Nazionale della Liguria, Genova 2002


PALAZZO SPINOLA A GENOVA

A cura di Fabio d'Ovidio

Storia del palazzo: da abitazione privata a museo

Voltando le spalle al Porto Antico, in corrispondenza del molo Spinola, dove è edificato il notissimo Acquario di Genova, si può osservare l'intero intricato circuito dei vicoli del centro storico, dominati in parte da palazzi con facciate austere e in parte da residenze che testimoniano quella gloria politica, economica e culturale di cui godette la Serenissima Repubblica di Genova nel periodo compreso tra la metà del XVI secolo e quella del XVIII secolo.

Camminando per questi vicoli ci si imbatte in Piazza di Pellicceria, dove sorge uno dei 42 palazzi del sistema dei Rolli, ovvero Palazzo Spinola: una storica residenza che gli ultimi proprietari, i fratelli Paolo e Franco Spinola, stabilirono alla loro morte di donare alla Repubblica Italiana. Si posero così le basi per la nascita della Galleria nazionale della Liguria, che venne inaugurata al pubblico in memoria di quella cultura degli hospitaggi peculiare dell'antica Repubblica di Genova.

La totalità del patrimonio architettonico e artistico è il prodotto di un susseguirsi di operazioni nel corso dei secoli. Palazzo Spinola venne edificato in conclusione di Cinquecento su committenza di Francesco Grimaldi, e passò poi a diverse famiglie dell'aristocrazia genovese: i Pallavicino, i Doria, gli Spinola del ramo di San Luca e infine gli Spinola del ramo di Luccoli (i cui ultimi discendenti ed eredi furono i fratelli Paolo e Franco).

Grazie ad un vincolo testamentario imposto dai due fratelli relativo al mantenimento dell'aspetto pressoché originario del palazzo, e grazie ai restauri condotti nel secondo Novecento, chiunque entri può godere di una visita di Palazzo Spinola conservato nel suo composito insieme: mobilio, affreschi e quadreria, vasellame, argenteria.

Visitando l'intero palazzo è possibile, ad un occhio esperto, rintracciare gran parte degli interventi commissionati da ciascun proprietario nel corso dei secoli. Il progetto originario voluto dalla famiglia Grimaldi è ancora oggi rintracciabile nell’articolazione architettonica che connota ancora oggi il museo.

Gli elementi caratterizzanti di questo edificio riprendono il linguaggio in voga nel capoluogo ligure nel tardo XVI secolo, tuttavia rispetto ai palazzi di quel periodo, Palazzo Spinola si contraddistingue per la presenza di due differenti ingressi, definiti da un'eguale monumentalità. Sempre da ascrivere alle committenze Grimaldi è il primo grande ciclo decorativo delle sale, per realizzare il quale venne chiamato il pittore Lazzaro Tavarone (1556-1641), che riuscì attraverso il suo operato a raffigurare le vicende passate del casato: si pensi ad esempio alla conquista per mano dell'esercito spagnolo della città portoghese di Lisbona nel 1580, a cui contribuirono i Grimaldi, o al trionfo di Ranieri Grimaldi alla guida della flotta francese durante la conquista di Zierikzee nel 1304. Questa decorazione figurativa è accompagnata ed inserita in motivi ornamentali in marmo policromo, che scansionano la narrazione temporale dei singoli eventi.

Anche il secondo proprietario di questo palazzo, Ansaldo Pallavicino, contribuì a conferire lustro alla dimora trasferendovi parte della sua quadreria. Il passaggio di proprietà tra la famiglia Grimaldi e quella Pallavicino avvenne intorno al 1650, quando Ansaldo ripagò un ingente debito economico del figlio di Tommaso Grimaldi, fratello di sua moglie Dorotea. Grazie a questa compravendita entrarono nel palazzo dipinti di Giovanni Benedetto Castiglione, noto come il Grechetto (1609-1664), del fiammingo Antoon Van Dyck (1599-1641), probabilmente l’artista prediletto di Ansaldo (così come era stato per il padre Agostino). Van Dyck, giunto a Genova nel 1621, venne eletto dall'intera aristocrazia cittadina come ritrattista ideale, e proprio Agostino lo aveva incaricato di raffigurarlo con le vesti delle varie cariche pubbliche da lui ricoperte all'interno della sua carriera politica, culminata con la carica dogale assunta a partire dal 1637. Proprio al più bravo allievo di Rubens, Agostino Pallavicino fece eseguire un proprio ritratto con le vesti di ambasciatore della Repubblica di Genova a Roma durante il pontificato di Gregorio XV; attualmente tale dipinto è conservato al Getty Museum di Los Angeles, ma in Galleria Nazionale a Palazzo Spinola è conservata comunque una preziosa copia. Sempre Van Dyck, su committenza di Agostino Pallavicino, eseguì un ritratto nel 1625 per celebrarne l’elezione a protettore del Banco di San Giorgio: in questa occasione però, Agostino si fece raffigurare a fianco del piccolo Ansaldo. Oggi, a causa di un taglio secentesco subito dalla tela, si conserva in galleria solamente la sezione di Ansaldo. All'interno del percorso museale è presente un terzo ed ultimo ritratto di Agostino Pallavicino, questa volta eseguito dal pittore genovese Domenico Fiasella (chiamato dopo che Van Dyck aveva lasciato la città nel 1627 per la corte inglese degli Stuart), che raffigura l’aristocratico con tutte le vesti e le insegne dell'ambasciatore, carica che ricoprì presso la corte francese di re Luigi XIII; anche in questa tela egli compare a fianco del figlioletto Ansaldo.

Lo stesso Domenico Fiasella ricevette la commissione da parte di Agostino per l’esecuzione di un ritratto in abiti dogali, di cui oggi nelle sale di Palazzo Spinola è presente una copia.

Fu Maddalena Doria, proprietaria del palazzo dal 1734, ad imprimere all’edificio i primi significativi cambiamenti e a legare il nome dello stesso per la prima volta alla famiglia Spinola, nello specifico al ramo di San Luca, grazie al suo matrimonio con Nicolò Spinola. Gli interventi di Maddalena si concentrano prevalentemente sul secondo piano del palazzo: fece realizzare in luogo di una terrazza una galleria degli specchi, chiamando per la decorazione ad affresco e a stucco il pittore Lorenzo De Ferrari, e coinvolgendo il pittore Giovan Battista Natali a cui affidò il rinnovamento dell’impostazione degli affreschi tardo cinquecenteschi del Tavarone; Sebastiano Galeotti realizzò poi affreschi dal gusto leggero.

In relazione all’importanza rivestita da Ansaldo Pallavicino e Maddalena Doria nella creazione della quadreria, i proprietari di Palazzo Spinola nel pieno XVIII secolo e in quelli successivi non portarono significativi ampliamenti al patrimonio artistico attualmente esposto. Al di là di ciò, bisogna ricordare che con l’estinzione della famiglia Spinola di San Luca nel 1824, il palazzo entrò all’interno delle proprietà della famiglia Spinola di Luccoli e nello specifico i primi ad abitarlo furono Giacomo Spinola di Luccoli e sua moglie Violantina Balbi: la coppia trasferì all’interno dell’attuale Galleria Nazionale la ricca collezione di dipinti presenti nella dimora Spinola a Luccoli e una parte della famosa collezione di Costantino Balbi. Entrarono così nel Palazzo Spinola di Piazza Pellicceria opere quali l’Allegoria della Guerra e della Pace di Luca Giordano (1634-1705), la Maddalena orante di Joos van Cleve (1485-1540), e dipinti di Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio (1639-1609). In questi anni della prima metà dell’Ottocento si registrarono anche uscite dalla collezione, tra cui il preziosissimo ritratto di Van Dyck raffigurante Agostino Pallavicino che lasciò Genova per Los Angeles.

Da questo momento in avanti non si verificarono eventi degni di nota, almeno fino ai drammatici bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale: nello specifico, durante il 1942 l’aviazione americana sganciò una bomba incendiaria che danneggiò il sottotetto destinato all’alloggio della servitù, il terzo piano riservato alle stanze private dei proprietari, e in parte anche gli affreschi di Tavarone.

La struttura venne ricostruita e ristrutturata dal Genio Civile, ma solo nel 1992 vennero definitivamente aperti gli ultimi due piani come sede espositivo-museale, compiendo in maniera definitiva le volontà testamentarie di Franco e Paolo Spinola.

Nel corso degli anni, attraverso acquisizioni del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali il patrimonio artistico in esposizione venne ampliato. Fu così che entrarono opere come la Giustizia di Giovanni Pisano (1248-1315), la Santa Caterina d’Alessandria di Barnaba da Modena (1328-1386), il Sacrificio di Isacco di Orazio Gentileschi (1563-1639), l’Ecce Homo di Antonello da Messina (1430-1479) il ritratto equestre di Gio Carlo Doria di Pieter Paul Rubens (1577-1640) e altre opere di incommensurabile valore.

Il Palazzo Spinola di Pellicceria: una breve visita virtuale

Entrando nel museo da piazza di Pellicceria, lo spettatore si trova davanti ad una facciata caratterizzata da una vivace cromia e da una superba decorazione realizzata dallo stuccatore Carlo De Marchi e dal pittore Colombino. L’intervento dei due servì per restituire quell’uniformità decorativa successiva ai cambiamenti settecenteschi voluti da Maddalena Doria tra 1734 e 1736, che modificarono la decorazione documentata dalla serie di incisioni Palazzi antichi di Genova raccolti e disegnati da Pietro Paolo Rubens (1602) pubblicata ad Anversa nel 1622.

Oltrepassata la monumentale porta di ingresso, si può osservare come architettonicamente il piano terreno sia suddiviso in portale, cortile e atrio coperto, in corrispondenza del quale si apre un secondo portale esattamente in asse con il primo. All’interno dell’atrio coperto è presente sulla sinistra il grande scalone monumentale che consente l’ascesa ai piani nobili, mentre sulla parete destra è conservata parte del monumento funebre in onore di Francesco Spinola (XV secolo).

Salendo lo scalone monumentale si accede al primo piano nobile del palazzo, che conserva ancora pressoché intatta la decorazione ad affresco delle imprese passate dei primi proprietari del palazzo, i Grimaldi, realizzati come già detto da Lazzaro Tavarone. La prima sala di questo piano conserva sulla superficie del soffitto l’impresa compiuta da Francesco Grimaldi durante L’assedio di Lisbona (1580), che venne realizzata nel 1614 circa su committenza di Tommaso Grimaldi in memoria del padre, che aveva fatto erigere tale dimora a fine XVI secolo. All’interno di questo primo piano si trovano conservati alcuni ritratti dei Pallavicino eseguiti da Antoon van Dyck, tra questi si distinguono quello di Ansaldo Pallavicino da Bambino, e quello di Domenico Fiasella in cui Ansaldo ancora Bambino comprare con il padre quando era ambasciatore presso la corte francese, la monumentale tela di Luca Giordano raffigurante l’Allegoria della Guerra e della Pace. Sempre in queste sale sono presenti elementi di arredo, mobilio e stoviglie dorate che assurgono al ruolo di testimoni diretti di quella cultura dell’abitare e degli hospitaggi che caratterizzò la Repubblica di Genova tra la seconda metà del Cinquecento e almeno la prima metà del XVIII secolo.

Proseguendo la visita all’interno del museo si arriva alle sale del secondo piano nobile, quello principalmente interessato dagli interventi di Maddalena Doria, cui si deve l’ingresso nel palazzo secondo del più aggiornato gusto Rococò risalente a metà degli anni ’30 del Settecento. Nel salone di questo piano, sulla volta del soffitto è presente l’affresco di gusto barocco realizzato dal Tavarone per celebrare il trionfo di Rainieri Grimaldi durante la battaglia di Zierikzee; i salotti a seguire mostrano poi l’intervento pittorico ad affresco settecentesco con la raffigurazione di temi e soggetti mitologici. Nello specifico si rimanda alla sala con le Nozze di Amore e Psiche di Sebastiano Galeotti (1675-1741). Altra grande area di questo piano in cui è protagonista la scenografia rococò è la Galleria degli specchi realizzata da Lorenzo De Ferrari con sulla volta differenti personaggi della mitologia classica, tra cui Bacco, Venere e Amore addormentatoPan battuto da Amore e il Trionfo di Galatea.

Salendo ancora di un piano, si entra in quelle aree un tempo adibite agli alloggi della servitù e alle stanze private dei proprietari. Proprio questo piano risulta essere quello più devastato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale a tal punto da prevedere in occasione del lascito Spinola nel 1958 allo Stato, che i vani di del terzo e del successivo quarto piano potessero essere ricostruititi per accogliere la Galleria Nazionale della Liguria a Palazzo Spinola. Oggi questi due piani ospitano circa una cinquantina di dipinti di artisti di Età Moderna (terzo piano), una raccolta di tessuti e ceramiche (quarto piano).

Bibliografia

Rotondi, La Galleria Nazionale di Palazzo Spinola a Genova, Genova 1967.

Rotondi Terminiello, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola a Pellicceria, Genova 1976.

Gavazza, L. Magnani, Pittura e decorazione a Genova e in Liguria nel Settecento, Genova 2000.

Simonetti, Palazzo Spinola di Pellicceria: da dimora a museo, Genova 2001.

Simonetti, G. Zanelli, Galleria Nazionale della Liguria, Genova 2002.

Simonetti, M. Listri La Galleria Nazionale di Palazzo Spinola a Genova, Moncalieri 2009.

Grifoni, L. Marras, F. Simonetti, I dipinti "svelati" di Agostino Pallavicino della Galleria Nazionale di Palazzo Spinola: aspetti storico-conservativi e indagini diagnostiche, Pisa 2015.


RITRATTO EQUESTRE DI GIO CARLO DORIA

A cura di Fabio d'Ovidio

Il ritratto equestre di Gio Carlo Doria si trova nella Galleria Nazionale della Liguria, nella sede di Palazzo Spinola di Pellicceria.

Storia collezionistica del ritratto equestre di Gio Carlo Doria

Il dipinto, realizzato da Pieter Paul Rubens per il banchiere Gio Carlo Doria, venne citato per la prima volta in un catalogo dei beni di Agostino Doria junior redatto nel 1644 relativi ad un palazzo cittadino della famiglia Doria.

Il primo ad inserire la magnifica tela all’interno della letteratura artistica fu Carlo Giuseppe Ratti, che nel 1766 lo descrisse come un ritratto di un signore a cavallo, dopo averlo osservato nel palazzo Doria di cui si parlava a proposito dell’inventario.

L’opera restò a Genova – passando di Doria in Doria (bisogna ricordare però che a Genova esistevano più rami distinti della famiglia Doria, quindi il ritratto venne acquisito e poi passato in eredità solo dai successori di questo Gio Carlo Doria) – fino al XIX secolo, quando venne ereditato da un ramo cadetto della famiglia di stanza a Napoli, i Doria d’Angri, che lo cedettero ad una casa d’aste la quale a sua volta lo vendette tramite una seduta nel 1940 a Maria Termini. Nel 1941 Benito Mussolini impose alla nuova proprietaria di cedere il dipinto ad Adolf Hitler, che lo fece esporre con molta probabilità presso il Museo di Linz. Fortunatamente, a differenza di altri capolavori che durante il secondo conflitto mondiale caddero in mano dei nazisti (il Ritratto d’uomo di Raffaello in primis o capolavori delle avanguardie storiche) – il Ritratto di Gio Carlo Doria non andò distrutto, né perduto e né danneggiato; nel 1948 ritornò in Italia dove fu accolto nel deposito di Palazzo Vecchio a Firenze fino al 1985. Fu poi esposto al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, per giungere infine – dietro volontà dello Stato – nella propria città natale tre anni più tardi, dove fu collocato all’interno delle collezioni della Galleria Nazionale della Liguria. Oggi il Gio Carlo Doria a cavallo è ancora qui conservato come una delle opere più importanti del museo.

Una osservazione del tutto personale di chi scrive è che, data la peculiarità dell’opera, questa viene fin troppo spesso concessa in prestito in occasione di mostre nazionali ed estere.

Storia critica

Il dipinto venne pubblicato in seno all’ambiente scientifico per la prima volta in tempi relativamente recenti: per la precisione nel 1939 da Roberto Longhi, che lo vide presso la dimora della famiglia Doria d’Angri a Napoli. Molte considerazioni di Longhi (che è stato una figura centrale nella formazione della storia e della critica d’arte italiana), sono ancora oggi punti di riferimento imprescindibili quando ci si approccia allo studio di questa tela. Fu infatti Longhi a identificare nel soggetto ritratto un rampollo dei Doria, basandosi su una storia estranea alla tela e sulla presenza dell’aquila raffigurata sopra l’albero in secondo piano – simbolo di tutti i rami della famiglia Doria. L’identificazione precisa dell’uomo ricadde su uno dei figli di Agostino Doria (1534-1607): Giacomo Massimiliano (1571-1613) o Gio Carlo (1576/77- 1625). A far propendere per il secondo fu un passaggio contenuto nel testamento di Marcantonio Doria, in cui veniva lasciato al figlio Gio Francesco il ritratto di un certo Gio Carlo Doria a cavallo di Rubens.

Tali ipotesi vennero immediatamente suffragate dalla critica contemporanea e successiva sia nel dibattito critico nazionale che in quello internazionale. Nello specifico la conferma definitiva dell’identificazione giunse attraverso la pubblicazione di un ritratto a mezzo busto raffigurante lo stesso Gio Carlo Doria realizzato dal pittore francese di sensibilità caravaggesca Simon Vouet (1590-1649), presente a Genova nel biennio 1620-1622, conservato attualmente presso il Museo del Louvre (Parigi)

Per quanto riguarda la datazione Longhi fece notare come il dipinto presenti, già ad inizio XVII secolo, “una soluzione genialissima e fondamentale per tutto lo svolgimento del Barocco”. Confrontandolo con un’opera del Prado di Madrid di analogo tema iconografico (il Ritratto Equestre del Duca di Lerma, ancora legato al linguaggio del Manierismo internazionale), Longhi ritenne che Rubens avesse eseguito il ritratto nel 1606 circa. A questa data Rubens stava svolgendo il suo secondo soggiorno genovese, durante il quale eseguì bellissimi ritratti di donne dell’aristocrazia cittadina, anche questi assolute novità, fondamentali per lo sviluppo futuro del linguaggio artistico secentesco.

Il ritratto di Gio Carlo Doria: iconografia ed iconologia

A differenza dei ritratti equestri dipinti nei due secoli precedenti da illustri artisti[1], in cui il soggetto era solitamente rappresentato di profilo o di tre quarti, Rubens optò per una soluzione estremamente ardita; scelse infatti di raffigurare il committente in posizione frontale, sconvolgendo sostanzialmente i canoni compositivi di una tipologia iconografica ormai consolidata da secoli, e conferendo così allo spettatore la sensazione che il protagonista del ritratto possa raggiungerlo con la sua cavalcatura.

Gio Carlo Doria si è fatto ritrarre da Rubens in questo superbo dipinto non tanto per celebrare la sua persona o un suo successo in campo economico-finanziario, quanto più per rimarcare ancora una volta lo stretto legame instauratosi sin dal 1528 tra il casato degli Asburgo e la famiglia Doria: pochi anni prima dell’esecuzione della tela, Gio Carlo ottenne dal monarca spagnolo Filippo III d’Asburgo l’ingresso entro l’ordine di Santiago (o San Giacomo all’italiana)[2]

L’uomo è solidamente in sella al proprio destriero bianco rampante. Gio Carlo Doria, all’epoca sulla trentina d’anni, indossa una raffinatissima armatura da cerimonia nera avente sulla corazza, impressa a contrasto, la croce color rosso corallo che simboleggia l’Ordine di San Giacomo. La stessa tonalità cromatica si ritrova nella stola – probabilmente in velluto – annodata sul braccio sinistro e svolazzante, mossa dalla rapidità con cui possiamo supporre che avanzi il cavallo.

Ammirando quest’opera è opportuno soffermarsi su alcuni elementi iconografici che aiutano a comprendere meglio la personalità ed il ruolo ricoperto da Gio Carlo Doria all’interno della città di Genova e sullo scacchiere politico internazionale.

Il primo elemento su cui focalizzare l’attenzione è la grazia dell’uomo di stringere le briglie del cavallo con una mano sola, con il nastro che passa dolcemente tra le dita a simboleggiare la sua fermezza.

Tra i rami della quercia raffigurata sulla sinistra in secondo piano è presente un’aquila, animale presente nello stemma araldico della famiglia Doria. Un attributo del potere imperiale detenuto dal casato degli Asburgo, simbolo di forza e di potere politico-militare, che già in età classica veniva riferito a Giove/Zeus, padre degli dei.

All’interno della scena è presente anche un cane, raffigurato in basso a sinistra in primo piano al di sotto del cavallo: anche questo, come l’animale protagonista, incede con le zampe anteriori sollevate e quelle posteriori poggiate sul terreno. Il cane di consuetudine è un simbolo di fedeltà, solitamente è presente in opere aventi come soggetto figure femminili a testimonianza di fedeltà coniugale[3]. In questa occasione però il cane rappresentato esprime una fedeltà di tipo politico pubblico-privata tra i Doria, la Repubblica di Genova e gli Asburgo sia di Spagna che dell’Impero: quando Andrea Doria firmò nel 1528 il gentleman agreement con Carlo V d’Asburgo, tra le differenti implicazioni venivano specificati un solido legame interpersonale tra le due famiglie (Doria e Asburgo) ed una forte alleanza tra le due configurazioni politiche. Un accordo importante soprattutto dopo l’uscita dal quadro politico dello stesso Carlo V d’Asburgo (1550 circa) per collegare i territori asburgici, quelli ormai separati della corona spagnola e di quella imperiale.

 

Note

[1] Si pensi ad esempio a quelli quattrocenteschi di Paolo Uccello e Andrea del Castagno rispettivamente in onore di Giovanni Acuto e Niccolò da Tolentino (affreschi in Santa Maria del Fiore a Firenze), o quello di pieno XVI secolo dipinto da Tiziano in onore di Carlo V.

[2] Dati forniti durante le lezioni di storia dell’arte presso l’università di Genova e nel corso della visita guidata presso i Musei Reali di Torino in occasione della mostra Van Dyck. Pittore di corte dove era anche esposto il ritratto equestre in questione.

[3] Si noti a tal proposito il cane ai piedi del letto di Ilaria del Carretto nel monumento funebre di Jacopo della Quercia nella cattedrale di San Martino a Lucca.

 

Bibliografia

1766

G. Ratti, Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scultura ed architettura, Genova 1766

1780

G. Ratti, Instruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in Pittura, Scultura ed Architettura, Genova 1780

1939

Longhi, Un ritrattto equestre dell’epoca genovese del Rubens, 1939

1977

Rubens a Genova, Catalogo della mostra, Genova 1977

1988

Rotondi Terminiello, Acquisizioni per la Galleria Nazionale della Liguria; Acquisizioni e aggiornamenti criticiper Palazzo Spinola a Pellicceria; Quaderni della Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, Genova 1988

1989

Jaffé, Rubens. Catalogo completo, Milano 1989

1990

Pietro Paolo Rubens (1577-1640), Catalogo della mostra, 1990

1992

Genova nell’Età Barocca, Catalogo della mostra, 1992

2002

Simonetti, G. Zanelli [a cura di], Galleria Nazionale della Liguria, Genova 2002

2016

Rubens e la nascita del Barocco, Catalogo della mostra, Milano 2016

2018

Van Dyck. Pittore di corte, Catalogo della mostra, Torino 2018


HOKUSAI AL MUSEO CHIOSSONE PARTE II

A cura di Fabio d'Ovidio

Dopo aver introdotto nel precedente articolo il museo di arte orientale di Genova <<Edoardo Chiossone>>, e la storia dell’artista Katsushika Hokusai, in questo approfondimento si vedranno nel dettaglio alcune preziose opere facenti parte della collezione del museo genovese.

Tre belle donne (1798-1799; dipinto a rotolo verticale realizzato a inchiostro e colori su seta). La parte inferiore del dipinto è occupata da tre cortigiane, raffigurate di tre quarti a ricordare i rami di una composizione floreale nota come ikebana. In questo genere di composizione i rami, qui personificati nelle tre raffinate figure femminili, simboleggiano un piccolo-cosmo: la donna in piedi è la metafora del cielo, la seconda il mondo umano e l’ultima rappresenta il terreno. In alto si trovano tre poesie, il cui contenuto elogia la bellezza, l’eleganza, e il fascino delle arti di seduzione delle cortigiane di Edo, Kyoto e Osaka. Eccelsa, sebbene l’artista al tempo di questa pittura fosse ancora un apprendista presso Katsukawa Shunsho, è la raffinatezza con cui riuscì a realizzare le decorazioni, le fantasie e le differenti tonalità cromatiche dei kimono delle tre donne.

Il divino poeta Kakinomono no Hitomaro (1802 circa – dipinto a rotolo verticale, colori e inchiostro su seta) Hokusai rappresenta il poeta impiegando l'iconografia tradizionale impostasi sin dal XIII secolo. Hitomaro è raffigurato mentre raggiunge la massima ispirazione poetica, ispirazione esplicitata dagli occhi socchiusi. Seduto vicino al mare, abbigliato come un funzionario di corte, con la mano destra tiene un pennello pronto per essere intinto nell'inchiostro già preparato. La baia di Akashi, raffigurata in secondo piano sullo sfondo, è avvolta da una coltre di nebbia, entro cui si intravedono due imbarcazioni a vela. Quasi fluttuanti sono i versi che il poeta si accingere a comporre, quelli della sua celebre poesia che recita: Indefinitamente / tra le nebbie del mattino / sulla baia di Akashi / i miei desideri rintracciano le vele / che svaniscono dietro l'isola. Kakinomono no Hitomaro è ritenuto uno dei fondatori della poesia giapponese. Della sua vita è si conosce poco, ma dalla lettura dei suoi versi che spesso parlano della lontananza dagli affetti e dalle terre natie, si può concludere che fu inviato svolgere differenti incarichi nelle province ed infine venne mandato in esilio oltre i gorghi di Naruto.

Tigre fra i bambù osservante la luna piena (1818) Nell’opera viene raffigurata una tigre intenta ad osservare la luna piena nel cielo notturno, accovacciata tra due canne di bambù, che sono dipinte in diagonale per conferire dinamicità alla composizione. Dipinta con una raffinatezza straordinaria, quest’opera racchiude dettagli estremamente espressivi: si vedano ad esempio le modalità di rappresentazione di pelo e sottopelo. In questa circostanza il pittore si firmò con il nominativo di Hokusai Taito.

Sotto il profilo iconografico ed iconologico, la raffigurazione della tigre in mezzo ai rami di bambù deriva dall’antica Cina, e affonda le radici su una credenza popolare, per la quale tra tutti gli animali solamente le tigri riescono a entrare a fondo nei boschi di bambù: questo costituisce l'immagine evocativa di una creatura forte (la tigre) che riesce a trovare un riparo presso il debole (le canne di bambù). Poiché in Giappone la tigre non è un animale autoctono, era impossibile osservarla dal vivo: la sua fisionomia, per tale motivazione, è basata in parte su copie di tigri dipinte in opere cinesi, in parte è creata tramite immaginazione del singolo artista.

Elementi specifici di questi grandi felini dipinti dagli artisti nipponici sono il naso stretto e molto schiacciato, le piccole e appuntite orecchie, gli occhi enormi e le zampe con le unghie sono sovradimensionati.

Secondo la tradizione allegorica presente in Cina, la tigre era considerata non solo la personificazione della forza e del coraggio, ma apparteneva anche ad un’importante fisionomia leggendaria: è infatti – assieme all’uccello vermiglio, alla tartaruga con serpente e al drago – una delle Quattro Creature Sacre, simboli dei quattro punti cardinali, delle quattro stagioni, dei colori, degli elementi (fuoco, terra, aria e acqua) e delle costellazioni. Nello specifico, l’animale protagonista di questo dipinto è collegata all'ovest, all'autunno, al bianco, all’aria e a tre costellazioni (Orione, Toro e Andromeda). In ultima istanza, la tigre è un segno zodiacale cino-giapponese.

Gallo e gallina appollaiati su un tamburo da guerra (1826-1833, dipinto a rotolo verticale realizzato con inchiostro su seta) nelle opere di Hokusai, il gallo è un elemento ricorrente, dipinto sempre con estrema minuzia e raffinatezza: in quest’opera è realizzato con limitate tonalità di nero diluito e brevi elementi rossi per creste e bargigli. Hokusai raffigura gallo e gallina sopra un kankodori (tamburo da guerra), simbolo in Cina di pace e buon governo. Nell’antichità, in Cina, nei pressi del portale del palazzo imperiale si trovava un grande tamburo, al cui suono si radunavano i militari per la battaglia, tuttavia sotto il regno dell'imperatore Yao (2324 a.C. – 2206 a.C.) si visse un lungo periodo di pace che fece cadere in disuso tale strumento, riqualificato così in un posatoio per animali da giardino. Anche il gallo – come la tigre sopra citata – è uno dei simboli zodiacali della tradizione orientale. Secondo la tradizione dell’arcipelago giapponese il gallo è un animale che simboleggia forza e coraggio; inoltre viene collegato al culto di Amaterasu-o-mi-kami (Grande dea che splende nei cieli), dea del Sole e massima divinità del pantheon shintoista, dal momento che secondo la mitologia fu proprio il canto di questo animale a riportare Amatersu fuori dalla caverna in cui si era rifugiata, facendo imperare sull’universo buio e gelo.

Vedute rare di ponti famosi nelle province (1832-1833, tre stampe) Elemento peculiare delle vedute appartenenti a questa serie è la raffigurazione di ponti il cui aspetto architettonico si integra perfettamente con l’ambiente ed il contesto naturale in cui essi sono stati edificati. A questo lavoro appartengono circa 11 fogli che vennero realizzati nel 1831, ma furono commercializzati dal 1834: questo dato cronologico è testimoniato dalla presenza nella serie della collinetta Tenpozan alla foce del fiume Aji nel Settsu che venne costruita nel 1831.

L’artista giapponese iniziò a realizzare questa serie senza stabilire a priori il numero totale di fogli, e la interruppe con ogni probabilità per un imprevisto; decise infine di non ritornare più su questo lavoro. Escludendo il caso del Tenpozan sopracitato, per la cui raffigurazione Hokusai usufruì della più recente documentazione figurativa, i vari ponti sembrano essere realizzati impiegando largamente l'immaginazione. Nonostante ciò, il Ponte appeso alle nuvole del Monte Gyodo ad Ashikaga sembrerebbe corrispondere ad una località reale: sarebbe infatti il ponte di legno che collega il tempio Joinji – una capanna da tè costruita su uno Sperone roccioso – a Shimotsuki nella prefettura di Tochigi.

 

Bibliografia

Donatella Failla, La rinascita della pittura giapponese. Vent'anni di restauri al museo Chiossone di Genova. Catalogo della mostra, Genova, 27 febbraio-29 giugno 2014.

Donatella Failla, Dipinti e stampe del mondo fluttuante: capolavori Ukiyoe del Museo Chiossone di Genova, Genova 2005.

Donatella Failla, Capolavori d’Arte Giapponese dal periodo Edo alla Modernizzazione. Catalogo della mostra. Genova, 25 Luglio 2001 - 16 Giugno 2002.

Donatella Failla (a cura di) Edoardo Chiossone, un collezionista erudito nel Giappone Meiji. Catalogo mostra, Roma, 31 gennaio - 16 marzo 1996.

Visite guidate presso il Museo Chiossone tenute dalla professoressa Donatella Failla, già curatrice del museo.

Lezioni universitarie del corso Storia dell’arte dell’Asia orientale tenuto dalla professoressa Donatella Failla.


HOKUSAI AL MUSEO «EDOARDO CHIOSSONE»

A cura di Fabio d'Ovidio

Genesi di una raccolta

L’importante collezione di stampe e pitture ukiyo-e presenti nell’attuale museo di arte orientale di Genova, intitolato a Edoardo Chiossone (Arenzano 1933 – Tokyo 1898) andò costituendosi, assieme all’intero patrimonio di questo ente, in un arco temporale di circa 23 anni (1875-1898), grazie proprio alla sua importante figura.

Chiossone, formatosi come incisore presso l’Accademia Ligustica di belle arti ed esperto nel settore dell’incisione e delle stampe delle carte valori, si trasferì nell’attuale capitale giapponese su diretto invito del governo stesso durante la restaurazione Meiji, al fine di presiedere alla direzione della nuova Officina Carte e Valori del Ministero delle Finanze; qui lavorò fino al pensionamento nel 1891, e rimase nel paese del Sol levante fino alla morte. Oltre allo svolgimento di questo compito, si occupò personalmente di realizzare le filigrane per banconote, francobolli, obbligazioni e titoli di stato che conferirono una precisa identità all’intero mondo della finanza in Giappone.

Fig. 3 - Edoardo Chiossone.

Il periodo storico in cui Edoardo Chiossone visse in Giappone si colloca cronologicamente tra il 1867 e il 1912, in un momento cruciale per la storia di questa nazione. Dopo il declino della famiglia Tokugawa a capo dello shogunato – che amministrò politicamente il Giappone tra 1603 e 1867 – il nuovo governo capì che per entrare in competizione industriale, tecnologica e finanziaria con le principali potenze occidentali, doveva aggiornarsi prendendo a modello quelle stesse potenze; per fare questo vennero chiamati da tutto il mondo studiosi occidentali, specializzati in vari settori, noti con il nome di Oyatoi gaikokujin (onorevoli stranieri noleggiati), con il fine di trasformare l’impero giapponese da un paese agricolo-feudale ad uno industrializzato. In realtà, l’apertura del Giappone al mondo occidentale era avvenuta a metà Ottocento, quando l’ammiraglio statiunitense Perry nel 1853 aveva obbligato il Paese a tale apertura, pena il bombardamento via mare della baia di Edo (la futura Tokyo, sede allora del governo shogunale): in seguito a questo evento si verificarono le firme di alcuni trattati con Olanda, Francia, Gran Bretagna, USA e Russia.

L'intera raccolta del museo fu inizialmente regalata attraverso testamento all'accademia di belle Arti della città di Genova, affinché l'intero patrimonio raccolto da Chiossone fosse esposto e reso accessibile al pubblico.

Tralasciando tutti i bronzi, le lacche, le stoffe, i libri e le armi esposti, le stampe e le pitture ukiyo-e appartenenti ai periodi Edo e Meiji costituiscono la più importante collezione di questo tipo presente sul suolo italiano; inoltre questa raccolta di opere figurative è conosciuta nel mondo come una tra le più corpose di esemplari antichi e rari in ottimo stato di conservazione, selezionati da Edoardo Chiossone stesso grazie alla sua conoscenza in campo grafico.

Sotto il profilo iconografico, l'intero insieme di stampe e dipinti qui presenti abbracciano l'intero corpus di soggetti e temi raffigurati, andando così a testimoniare e a ricostruire tutte le tappe dell'evoluzione stilistica di questo particolare linguaggio artistico tra la metà del XVII secolo sino alla fine del XIX.

Per formare questa collezione l'incisore genovese si appoggiò e sfruttò la conoscenza del pittore Kawanabe Kyosai (1831-1889), il quale raccoglieva in sé non solo l’eredità della scuola classica di pittura Kano, ma anche quello della scuola ukiyo-e tramandatogli da Utagawa Kuniyoshi (1798-1861), che seppe indirizzarlo nell’acquisto delle differenti opere d’arte oggi presenti a Genova.

Storia del museo e delle sue sedi

Non appena l'intera collezione che Edoardo Chiossone aveva raccolto durante il suo periodo in Giappone raggiunse la città di Genova, nel 1905, trovò sistemazione al piano nobile della sede dell'Accademia di belle Arti. Durante questo periodo venivano esposti in maniera permanente circa 150 dipinti ukiyo-e e decine di stampe dei principali artisti di questo movimento.

Seguendo le condizioni che Chiossone aveva inserito nel proprio testamento in merito all'esposizione di questa raccolta, il comune del capoluogo Ligure nel 1948 approvò la progettazione e costruzione di una sede ad hoc stabile e definitiva per raccogliere il museo. L'area ad esso dedicata venne rintracciata all'interno del parco cittadino dove sorge villetta Di Negro, una residenza ancora presente in città, ma inagibile a causa dei bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale. L’edificio, ideato dall'architetto Mario Labò, venne costruito nel corso di tutti gli anni ’50 e ’60, per poi essere inaugurato nel maggio 1971. Sotto un profilo meramente estetico il complesso museale presenta una struttura di gusto razionalista con all'interno un grande piano terreno rettangolare da cui si innalzano cinque gallerie a sbalzo che seguono la lunghezza dei due lati maggiori dell'edificio.

Nell’esposizione del piano terreno sono presenti una serie di grandi statue in bronzo, fuso a cera persa, che raffigurano un Buddha nella posizione del loto, un karashishi (animale mitico della tradizione orientale, dalle forme canine, protettore delle abitazioni), e un gruppo di gru.

Nelle prime quattro gallerie, conservati in teche, si trovano una serie di manufatti e prodotti artistici dell’Asia orientale: specchi, statue raffiguranti il Buddha storico in differenti posizioni dello yoga e realizzate in differenti materiali, maschere del teatro classico dei no armature complete da guerrieri samurai, servizi da tè e armi.

Nell’ultima galleria invece sono presenti teche che sovente sono vuote: questo non è dovuto ad una dimenticanza dei vari curatori nell’esposizione delle opere presenti né ad una penuria di oggetti, quanto al fatto che queste teche servono per accogliere le punte di diamante della collezione, ovvero i dipinti e le stampe che per motivi di conservazione posso essere esposti circa 60 giorni in 2 anni, a temperatura, umidità e luce controllata onde evitare che le singole opere si danneggino, anche perché sono per natura sprovviste di una cornice – in senso occidentale – di supporto. Questa particolare procedura espositiva non è solo dettata da motivazioni di conservazione artistica, ma anche dalla modalità tradizionale con cui i giapponesi espongono le proprie opere d’arte: questi infatti – a differenza degli occidentali che espongono le opere in maniera perpetua – decidono a seconda del periodo dell’anno di esporre determinate opere e di celarne altre, che vengono riposte in appositi contenitori conservati in stanze estremamente sicure.

Katsushika Hokusai (1760-1849): biografia e opere

Hokusai, grazie alla fama di cui gode in Occidente, merita di essere inserito nel novero dei maggiori pittori della storia dell’arte mondiale. Condusse la sua esistenza e la sua attività artistica prevalentemente nella capitale amministrativo/shogunale Edo (oggi Tokyo). Venne introdotto al mondo della cultura borghese da Katsukawa Shunsho, ma si ritiene abbia anche frequentato gli atelier di altri artisti ukiyo-e.  Durante la sua attività artistica realizzò migliaia di opere impiegando tecniche differenti: xilografia, disegno, pittura, grafica editoriale e manualistica per artigiani e futuri pittori. Il suo operato ha dato origine a composizioni innovative, e i suoi colori hanno una risonanza non solo tra gli artisti nipponici a lui successivi, ma anche tra quelli occidentali: nei decenni dopo la sua morte – complice anche l’apertura del Giappone alle potenze Occidentali – si assistette in tutta Europa alla moda del giapponismo al punto tale che molti artisti, soprattutto impressionisti, collezionarono stampe giapponesi o ne eseguirono copie pittoriche (vedere tra gli altri Van Gogh).

Hokusai, che significa Atelier del Nord, non è il suo vero nome ma l’artista iniziò ad impiegarlo dal 1796, il che dimostra, con gli altri nomi da lui impiegati, un’immensa devozione al culto dell'Orsa Minore. Nel corso dei suoi 90 anni di vita, l'artista scelse di assumere nomi diversi, al fine di rimarcare le differenti fasi del suo operato e del suo linguaggio artistico. Sebbene nel corso della sua vita cambiò oltre 120 nomi circa, la critica ha stabilito per convenzione di suddividere la sua produzione attorno a soli sei.

Il nome impiegato per indicare l’artista durante la produzione giovanile e la sua formazione sotto Katsukawa Shunsho è Shunro (1778-1795) che significa splendore di primavera. A questa prima fase risalgono le stampe che hanno come soggetti gli attori kabuki[1]  e le cortigiane di Yoshiwara[2].

Dopo la morte del maestro, l’artista decise nel biennio 1795-1797 di assumere il nome di Sori Hokusai: durante questi due anni, Hokusai iniziò a frequentare sempre più assiduamente i circoli letterari di Edo. Sotto il profilo artistico incominciò ad eseguire illustrazioni per antologie diverse e stampe per una cerchia di clienti raffinata, colta e sensibile. In queste opere, l’artista cominciò ad esprimere un proprio stile originale, al punto che la sua produzione iniziò ad essere tenuta in gran conto dagli ambienti letterari e soprattutto dai poeti.

Dal 1798 al 1805 l’artista prese il nome di Katsushika Hokusai. A cavallo tra i due secoli, continuò con la produzione di opere che avevano segnato la fase precedente. Maturò nuove esperienze ed interessi tra cui il gusto per l'eccentrico e per le tecniche di rappresentazione dello spazio usate in Occidente, come la prospettiva geometrico-lineare. Al 1804 risale la pubblicazione della serie di stampe Le 53 stazioni del Tokaido: con quest'opera si affermò in maniera definitiva e univoca la fama della sua arte al grande pubblico.

In tutto il terzo decennio del XIX secolo (1810-1820) Hokusai è noto come Katsushika Taito. Questi furono gli anni in cui si dedicò principalmente alla manualistica, tra le varie pubblicazioni si possono citare le Istruzioni per disegni rapidi e il primo dei dodici volumi del Manga (1819), una vera e propria enciclopedia dedicata al disegno, l’ultimo volume sarà edito nel 1832.

Nei 14 anni successivi (1820-1834) assunse il nome di Iitsu (nuovamente uno), a manifestare un totale rinnovamento. Questa fase è ricchissima di opere rilevanti, tra queste la serie delle Trentasei vedute del monte Fuji (di cui fa parte la Grande Onda 1830-1832).

Negli ultimi 15 anni della sua vita, si fece chiamare Gakyorojin Manji (Il vecchio pazzo per la pittura). A questo fase è datata l’edizione in tre volumi delle Cento vedute del monte Fuji (1835-1847/1849).

 

Note

[1] Il kabuki è il teatro borghese, nato nel corso del ‘600 e avente come soggetto l’esaltazione della vita dei borghesi.

[2] Yoshiwara era il quartiere dei piaceri della capitale amministrativo-shogunale Edo. Il termine cortigiana è un false friend, non indica una donna di corte, ma una prostituta; solitamente con questo termine si fa riferimento ad una prostituta colta in grado di intrattenere il proprio cliente non solo sessualmente, ma anche sotto un profilo intellettuale. Da non confondere assolutamente con geisha che era una mera intrattenitrice, sebbene anche loro spesso instaurassero con i loro clienti relazioni carnali.

 

Bibliografia

Donatella Failla, La rinascita della pittura giapponese. Vent'anni di restauri al museo Chiossone di Genova. Catalogo della mostra, Genova, 27 febbraio-29 giugno 2014

Donatella Failla, Dipinti e stampe del mondo fluttuante: capolavori Ukiyoe del Museo Chiossone di Genova, Genova 2005

Donatella Failla, Capolavori d’Arte Giapponese dal periodo Edo alla Modernizzazione. Catalogo della mostra. Genova, 25 Luglio 2001 - 16 Giugno 2002

Donatella Failla (a cura di) Edoardo Chiossone, un collezionista erudito nel Giappone Meiji. Catalogo mostra, Roma, 31 gennaio - 16 marzo 1996

Visite guidate presso il Museo Chiossone tenute dalla professoressa Donatella Failla, già curatrice del museo

Lezioni universitarie del corso Storia dell’arte dell’Asia orientale tenuto dalla professoressa Donatella Failla

 


PALAZZO GIO CARLO BRIGNOLE A GENOVA

A cura di Fabio D'Ovidio

Il palazzo Gio Carlo Brignole venne edificato dall’architetto Bartolomeo Bianco al termine degli anni ’20 del XVII secolo per la committenza di Giovan Battista Brignole di fronte ad un palazzo di proprietà della famiglia Grimaldi, abitato all’epoca da Gerolamo Grimaldi; con questi Giovan Battista Brignole stipulò un accordo affinché il futuro edificio non superasse in altezza Palazzo della Meridiana, nome con cui è nota questa residenza Grimaldi.

Nel corso degli anni ’70 dello stesso secolo, Gio Carlo Brignole – figlio di Giovanni Battista – avviò i primi grandi rinnovamenti estetici: commissionò a Pietro Antonio Corradi una revisione architettonica, e allo scultore genovese Filippo Parodi un ciclo scultoreo per conferire magnificenza al portale d’ingresso. Questo era – ed è tuttora – fiancheggiato da due possenti Telamoni quasi a proteggere coloro che entrano nel palazzo; al di sopra dell’architrave stava una coppia di putti con in mezzo lo stemma araldico della famiglia Brignole, oggi perduto a causa di modifiche all’intera architettura del palazzo e al successivo passaggio di proprietà, avvenuto nel 1854 a favore della famiglia Durazzo.

Questa famiglia genovese, che ancora oggi è proprietaria del palazzo, commissionò al pittore Giuaseppe Isola (1808-1893) gli affreschi del sontuoso atrio d’ingresso, realizzati secondo un linguaggio pittorico meramente accademico.

La volta ribassata, posta a copertura di questa prima sezione dell’atrio è stata pensata per omaggiare non solo alcuni viri illustres liguri –  ai lati, ma anche la volontà di indipendenza dell’ormai defunta Repubblica di Genova – al centro del soffitto. Tra gli uomini qui dipinti si possono citare Guglielmo Embriaco (1040-1102), eroe genovese durante la Prima Crociata (1096-1099) che stando agli annali cittadini fu il primo ad entrare a Gerusalemme, mentre secondo il poeta Torquato Tasso si distinse tra i vari cavalieri presenti durante la presa della Città Santa per le doti ingegneristiche. A seguire Caffaro di Rustico da Caschifellone (1080-1164) autore degli Annali, fonte storica principale per la ricostruzione degli eventi che segnarono la nascita e i primi anni di vita del Comune di Genova. Proseguendo in ordine cronologico sono presenti Simone Boccanegra, che nel 1339 istituì la carica dogale; il famosissimo navigatore Cristoforo Colombo (1451-1506); il pontefice Giulio II (1443-1513) che a Roma commissionò a Michelangelo la decorazione ad affresco della volta della Cappella Sistina, mentre a Raffaello  affidò il cantiere delle Stanze vaticane; Andrea Doria (1466-1560); e da ultimo si riconosce il massimo pittore genovese di secondo Cinquecento, Luca Cambiaso (1527-1585), i cui capolavori sono conservati nei musei cittadini, e nelle volte dei saloni dei palazzi Rolli e delle ville aristocratiche fuori Genova.

Al centro del soffitto invece si trova la scena dedicata ad Ottaviano fregoso che fa distruggere la fortezza della Briglia, roccaforte francese costruita per volontà di Re Luigi XII al tempo della dedizione francese, che fu impiegata come avamposto di controllo politico-militare di Genova diventando così un segno tangibile dell’oppressione straniera, con un richiamo al periodo storico coevo al pittore: nel 1849, i bersaglieri guidati da Alfonso La Marmora avevano represso nel sangue un’insurrezione indipendentista contro il Regno di Sardegna [2].

La seconda parte dell’atrio è coperta da una serie di volte a crociera tutte decorate con il motivo della grottesca, che si ricollega così stilisticamente alle decorazioni dei palazzi genovesi di pieno XVI secolo, realizzate da Federico Leonardi, pittore specializzato in questo motivo ornamentale.

Affreschi del primo piano nobile di palazzo Gio Carlo Brignole

Della grande decorazione ad affresco citata nelle guide cittadine di XVIII e XIX secolo restano oggi le scene mitologiche realizzate da Gregorio e Lorenzo De Ferrari (1647-1726; 1680-1744). Eseguiti sui soffitti dei quattro salottini che circondano il grande salone centrale, gli affreschi sono ascrivibili alla piena maturità di Gregorio e al momento in cui Lorenzo si fece interprete di un linguaggio figurativo estremamente elaborato, soprattutto nella finzione pittorica. Nonostante si sia privi di documenti d’archivio che attestino l’identità del committente e gli anni in cui i pittori si occuparono di tale cantiere, gli studiosi del sito hanno ipotizzato di collocare cronologicamente i lavori entro gli anni ’20 del Settecento, identificando il committente nella figura di Giovanni Carlo Brignole junior, che diventò poi senatore della Serenissima Repubblica di Genova nel 1721.

Dei quattro salotti sopracitati, tre si devono attribuire alla mano del De Ferrari più anziano. Nello specifico, i due vani che si aprono su Strada Nuova mantengono una decorazione perfettamente conservata non solo sotto il profilo dei colori ma anche sotto quello ideologico conferitogli da Gregorio stesso. Leggermente differente è invece lo stato conservativo del salotto dedicato alla Primavera, poiché a causa di infiltrazioni è stato oggetto di ridipinture di qualità non eccezionale nel XIX secolo; tuttavia la decorazione risulta ancora leggibile e si pone in un dialogo ideale con le altre scene.

Seguendo il tradizionale percorso di visita istituito durante i weekend dedicati ai Rolli Days, la visita del piano nobile ha inizio in un salotto le cui decorazioni si datano agli anni centrali del XVIII secolo: sia le pareti che la volta sono dipinte di verde, a conferire un tocco di brillantezza sono gli inserti in legno dorato posti nelle zone di congiunzione tra i muri perimetrali e il soffitto; ad adornare lo spazio delle pareti sono alcuni dei quadri che costituiscono parte dell’ormai dispersa quadreria Brignole, tra cui si possono osservare due ritratti di esponenti della famiglia – la loro identità ad oggi è ignota – e un’Adorazione dei Pastori di Francesco Bassano e allievi (1549-1592).

A questa piccola stanza segue il cosiddetto salotto di Prometeo, opera magistrale di Lorenzo De Ferrari, dipinto negli anni ’30 del XVIII secolo. Raffigurata al centro della volta, dentro una cornice mistilinea prospetticamente aggettante, la scena mostra Prometeo, abbigliato con vesti sgargianti, che con la fiamma del fuoco rubato agli dei infonde la vita ad una statua che sarà l’Uomo. A sovrintendere l’intero evento sta Minerva, dea protettrice dell’ingegno umano capace di domare e superare le avversità, che nella scena è personificato e simboleggiato dal titano stesso. La figura di Prometeo viene dipinta dall’artista con un particolare avvitamento; come se lui stesso fosse una lingua di quella fiamma che a contatto con la pietra marmorea ne trasforma il freddo grigio in rosa carne. Dando le spalle alla finestra che si trova nella stanza, il visitatore può osservare la personificazione del Valore: un giovane ragazzo alato, appoggiato al cornicione, con addosso la leonté erculea e un braccio teso nell’atto di porgere una corona di alloro. Dalla parte opposta dell’illusoria cornice, si trova una seconda figura maschile, questa volta stante con le gambe leggermente divaricate, che regge un globo armillare e un compasso: è l’allegoria dell’Ingegno. Questi due aspetti della mente umana, qui rappresentati dai due giovani, connotano come eccezionale il gesto di Prometeo, che pagherà cara la sua insubordinazione con una punizione esemplare, qui non raffigurata: incatenato ad un monte, un’aquila in eterno gli mangerà il fegato, che ogni notte si rigenererà per poter così ripetere quotidianamente il castigo.

L’intera scena vuole omaggiare attraverso il ricorso all’allegoria il ruolo e la figura del self-made man incarnato dalla famiglia Brignole, i cui membri furono ammessi all’interno dell’aristocrazia genovese non per lignaggio e sangue ma per merito, qualità che concerne anche il rischio: i loro esponenti sono quindi tutti novelli Prometeo, capaci di modificare il destino della città di Genova, così come la figura mitologica protagonista della scena ha influito sulla storia dell’umanità.

Il salotto contiguo, che si affaccia su via Cairoli (già Strada Nuovissima), è quello della Primavera, realizzato da Gregorio De Ferrari nella sua maturità artistica, collocabile tra il primo e il secondo decennio del Settecento. La scena presenta un impianto prospettico molto meno illusionistico rispetto a quello del salotto precedente. Al centro dell’intera scena si può osservare la personificazione dell’Abbondanza, una giovane ragazza bionda adagiata su una nuvola che tiene sotto il braccio la cornucopia – suo tipico attributo – da cui si intravede ogni genere di ricchezze, in particolare monete d’oro, a simboleggiare la potenza economica ottenuta con il duro lavoro dalla famiglia Brignole. In una sezione meno centrale della volta è presente una seconda giovane donna, in questo caso con i capelli castani, raffigurata con una corona di fiori a cingerle il capo, adagiata anch’essa come l’Abbondanza su una nuvola, mentre con le mani cinge un festone floreale che le passa dietro la schiena. A completare l’intera scena troviamo alcuni putti di pieno gusto barocco disposti lungo il cornicione, intenti a giocare con differenti animali: tra i vari rappresentati – soprattutto animali da compagnia – compare il pavone, animale esotico (dall’elevato valore economico), che nell'antica simbologia cristiana rappresentava la rinascita e la vita eterna.

Sulle pareti di questo raffinato salottino trovano posto alcuni quadri, tra questi si possono notare due paesaggi realizzati da due differenti pittori olandesi secenteschi, una Guarigione di Tobia e un Eracle e Onfale.

A concludere l’intero tour del palazzo durante i weekend dedicati all’evento è la visita del grande salone di rappresentanza; sotto il profilo artistico questo presenta sulle pareti più lunghe due grandi arazzi risalenti al XV secolo circa, la cui cromia risulta alterata (in particolare i rossi hanno virato ad un marrone pieno, mentre il rosa degli incarnati oggi risulta molto sbiadito e tendente al beige). Al di là di ciò le due scene – tratte dalla storia antica – risultano nel complesso leggibilissime. L’arazzo della parete destra (dando il volto verso Strada Nuova) raffigura Cambise intento ad uccidere il bue Api; secondo il mito e la tradizione storica, il re persiano fu colpito da una particolare malattia mentale che lo portò appunto a sacrificare il sacro animale; sulla parete opposta invece si può osservare l’incontro tra Cesare e Cleopatra. All’interno di questo ampio salone sono stati poi collocati i busti di Giovanni Battista Brignole di Giacomo Antonio Ponzanelli (1654-1735); di Giovanni Luca Durazzo, opera di Filippo Parodi (1630-1702); di Eugenio Durazzo, di Francesco Maria Schiaffino (1688-1783; di Marcello Durazzo ad opera di Nicolò Traverso (1745-1823). I busti degli esponenti della famiglia erano conservati in quello che è oggi noto come Palazzo Reale, proprietà dei Durazzo sino a quando i Savoia – dopo l’annessione dell’ex-Repubblica di Genova al Regno di Sardegna – non lo acquistarono per farne il loro palazzo ufficiale durante i periodi di residenza nel capoluogo ligure; così la famiglia genovese, tutt’ora proprietaria del palazzo sito in piazza della Meridiana, collocò questi tre busti nel salone del piano nobile.

 

Note

[2] Con il Congresso di Vienna (1° novembre 1814 - 9 giugno 1815), la Repubblica di Genova – o come era meglio nota al tempo, Repubblica Ligure – non riottenne la sua indipendenza in quanto fu annessa direttamente ai territori governati da casa Savoia che da secoli cercavano uno sbocco sul mare, ottenendo così uno dei principali porti del Mediterraneo.

 

Bibliografia

Alizeri, Guida illustrativa della città di Genova, Genova 1845

Colmuto, Palazzo Brignole-Durazzo, in Genova, Strada Nuova, a cura di Vagnetti, Vitali e Ghianda, Genova 1967

Gavazza, Lorenzo De Ferrari, Milano 1965

Gavazza, Lo spazio dipinto. L’affresco genovese del ‘600, Genova 1989

Poleggi, Una reggia repubblicana. Atlante dei palazzi di Genova 1530-1664, Torino 1998

Gavazza, L. Magnani, Pittura e decorazione a Genova in Liguria nel Settecento, 2000

Ciotta (a cura di), Genova. Strada Nuovissima. Impianto urbano e architetture, Genova 2005

Franzone, G. Montanari, Palazzo Brignole Durazzo alla Meridiana in Genova, 2018


IL POLITTICO DELLA CERVARA

A cura di Fabio d'Ovidio

Uno dei massimi capolavori conservati all’interno dei Musei Civici di Strada Nuova a Genova – nello specifico a Palazzo Bianco – è il cosiddetto Polittico della Cervara realizzato dal pittore fiammingo Gerard David (1460-1523), presente entro le collezioni del Palazzo a partire dal 1892.

L’opera – prima di giungere nel capoluogo ligure – era conservata presso l’abbazia di San Gerolamo della Cervara, una località situata sulla costa di Levante, tra gli attuali centri di Santa Margherita Ligure e Portofino.

L’intero dipinto, per il nome dell’autore, le dimensioni, la connotazione psicologica conferita ai personaggi, ha suscitato da sempre l’interesse e l’ammirazione dei massimi critici e storici d’arte, anche perché alcune questioni fondamentali come datazione precisa, committenza, configurazione originale del polittico, iconologia e luogo di esecuzione restano ancora questioni non totalmente chiare.

Un’importante notizia storica circa il polittico della Cervara è contenuta entro la cronistoria del convento redatta a partire dal 1420: a proposito dell’opera, nel 1790 don Giuseppe Spinola descrisse la composizione l’iconografia del polittico e poi – basandosi su un’iscrizione presente nel dipinto stesso – ricordò che Vincenzo Sauli nel 1506 terminò di far dipingere una tavola per il coro del convento di San Gerolamo della Cervara, composta da sette tavole dipinte entro una maestosa carpenteria lignea. La composizione è suddivisa in questo modo: al centro la Vergine col Bambino, alla destra San Gerolamo e alla sinistra San Benedetto da Norcia; al di sopra del gruppo centrale una crocifissione che divide la Vergine Annunciata dall’arcangelo Gabriele, infine in corrispondenza dello scomparto centrale la raffigurazione di Dio Padre.

Data l’informazione, il primo ad utilizzarla per ricostruire parzialmente l’opera fu Gian Vittorio Castelnovi che mise assieme soltanto i tre scomparti principali: la Vergine col Bambino, detta Madonna dell’uva, e i due santi Gerolamo e “Benedetto”. Le tre tavole erano presenti nei depositi del Museo di Palazzo Bianco dal 1892 dopo che erano passate per Palazzo Tursi (1830, sede oggi come allora del Municipio) e ancor prima per Palazzo Ducale, (noto ad inizio XIX secolo come Palazzo Imperiale poiché sede della prefettura francese, dove arrivarono nel 1805 in seguito alla rivolta giacobina scoppiata nell’antica Serenissima Repubblica di Genova nel 1797 che non risparmiò i territori più periferici, nemmeno il monastero della Cervara). Sempre Castelnovi capì immediatamente – basandosi sulla nota dello Spinola – che le tre tavole erano parte dell’antico polittico di David e, proseguendo le sue ricerche sull’opera, identificò le due tavole separate dell’Annunciazione – oggi al Metropolitan di New York – in una collezione privata, mentre quella di Dio Padre in una lunetta presente entro i depositi del Museo del Louvre.

Committenza

Sempre partendo dall'appunto di Don Giuseppe Spinola, si può capire che l’opera ci è giunta priva di carpenteria, perdendosi così l’iscrizione che precisava la commissione del dipinto al pittore da parte di Vincenzo Sauli in data 7 settembre 1506, probabilmente termine post quem per l’esecuzione avvenuta probabilmente l’anno successivo così come la messa in posa da datarsi o alla fine del 1507 o agli inizi del 1508.

Di Vincenzo Sauli non si ha una biografia completa e precisa, tuttavia i pochi dati in possesso degli storici dell’arte consentono di delineare la figura di un uomo cresciuto saldamente entro l’establishment politico, economico e culturale genovese, in un periodo contraddistinto da forti tensioni entro la città: l’inizio del XVI vide il passaggio di Genova dalla dedizione alla signoria di Ludovico il Moro a quella verso Luigi XII di Francia presso cui venne inviato nel 1499 in qualità di ambasciatore, in un periodo in cui i rapporti tra corona francese e famiglia Sauli erano alquanto stretti dato che questi ultimi erano i banchieri di fiducia dell’intero regno di Francia. Non si può affermare con estrema certezza che il Sauli si recò direttamente a Bruges dove Gerard David aveva la sua bottega-atelier, quanto più è plausibile che il pittore abbia ottenuto la committenza da parte di emissari della famiglia Sauli lì di stanza a Bruges per questioni economico-commerciali, come di tradizione per molte altre famiglie genovesi. Vincenzo, infatti, nei mesi centrali del 1506 venne impiegato dal Senato genovese come diplomatico recandosi a Milano e a Roma. Il nome di Vincenzo Sauli e della sua famiglia si legarono per decenni a quel monastero, investendovi ingenti risorse economiche sostituendosi alla famiglia Pallavicino e nello specifico a Giovanni Pallavicino, morto nel 1498.

Il polittico della Cervara: pittore, località di esecuzione, questioni di stile

In seguito all'attribuzione delle tre tavole maggiori da parte di Castelnovi a Gerard David che superarono definitivamente i nomi proposti in precedenza come quelli di Frans Floris, Hans Holbein e Albrecht Dürer, nessuno mise più in dubbio la paternità del dipinto. Tuttavia il nome di Floris fu considerato il punto di partenza per avviare una ricerca attribuzionistica sulla Crocifissione: scartando la mano di quest’ultimo, dapprima la tavola venne considerata semplice scuola olandese, poi venne addirittura attribuita al pennello di Filippo Lippi ed infine Jacobsen la restituì al catalogo di Gerard David. Questo fu anche il punto di partenza per ricostruire l’Annunciazione e il Dio Padre Benedicente, già attribuite ad un pittore seguace di Jan Van Eyck o Jan Gossaert o Hugo van der Goes.

Interessante sotto il profilo stilistico è vedere come nella letteratura artistica le tavole conservate a Genova siano lette in chiave italianizzante, mentre ciò non accade con quelle conservate al Met e al Louvre. Questo è spiegato dal fatto che le parti portanti del polittico recepiscono maggiormente il rinnovamento linguistico tipico del Rinascimento italiano (si veda ad esempio attraverso il pavimento dei due santi laterali l’impianto prospettico brunelleschiano), mentre quelle – che si potrebbero definire minori – sono ancora legate alla tipica tradizione stilistica fiamminga.

Solitamente questa differenza viene spiegata con un viaggio eseguito da Gerard David in Italia, collocato in un arco cronologico compreso tra 1503-1507 oppure tra 1511-1515. In generale, senza addentrarsi in studi troppo specifici e ricerche estremamente puntuali, basterà ricordare che ancora oggi è in discussione se il pittore realizzò l’opera a Bruges per poi inviarla all’abbazia della Cervara oppure realizzò l’opera mentre compì il viaggio in Italia che, stando agli studi sul pittore, ebbe come tappa la città di Genova. La questione è per lo più giocata sulle motivazioni che spinsero il pittore fiammingo a realizzare un polittico ad ante fisse – tipico della tradizione italiana – anziché uno ad ante mobili in linea con la tradizione nordica.

Iconografia ed iconologia

L’intero polittico venne collocato sopra l’altare maggiore, la cui architettura costituiva un suppedaneo alle tre grandi tavole, oggi conservate a Genova. Questi tre scomparti – seppur originariamente separati dalla carpenteria lignea – creano uno spazio pittoricamente unitario grazie all'impianto prospettico scorciato del pavimento, agli elementi architettonici del trono della Vergine dalla cui sommità cadono due sontuosi e lussuosi arazzi millefiori i cui  motivi fanno anche da sfondo ai santi negli scomparti laterali. La presenza di questi ultimi elementi connota come arcadico lo spazio in cui sono dipinti tutti i personaggi.

Conducendo un’analisi più approfondita, partendo dalle tre tavole maggiori e dallo scomparto di sinistra, si riconosce San Girolamo, abbigliato in questa occasione con un anacronistico abito cardinalizio – il santo visse tra IV e V secolo d.C., il rango cardinalizio venne istituito non prima di quattro secoli dopo – con al suo fianco il leone che, secondo la sua agiografia,  riuscì ad addomesticare estraendogli una spina conficcata sotto una zampa, e mentre sta tenendo in mano un librone aperto: questo è la Vulgata, ovvero la traduzione da lui attuata dell’Antico Testamento dal greco al latino, traduzione che ancora oggi è quella adottata come ufficiale dalla Chiesa cattolica. La sua persona in questo polittico è giustificata non solo dal fatto che a lui fosse dedicato l’antico monastero della Cervara, ma anche come exemplum di vita monastica: al di sotto del prezioso abito da cardinale si può intravedere un frammento del saio nero, tradizionale indumento dei monaci.

Dalla parte opposta dell’opera è presente una figura più enigmatica, la cui identificazione è ancora incerta. Il giovane uomo imberbe qui dipinto in saio nero è certamente un santo appartenente all’ordine dei benedettini, anche lui con in mano un libro, ma a differenza di San Gerolamo lui non legge poiché assorto nella contemplazione e nella meditazione. Tradizionalmente questo santo viene identificato con San Benedetto da Norcia – il fondatore dell’ordine benedettino e teorico della Regula [1] – tuttavia la classica iconografia di questo santo vuole che sia ritratto come un uomo anziano con lunga barba bianca e capelli bianchi. In considerazione di ciò, l’identificazione dell’uomo raffigurato da David con San Benedetto non può che essere errata. Studi recenti hanno chiarito che il santo monaco benedettino sia invece San Mauro, riconoscibile dalla presenza del fleur-de-lys presente sul pastorale tra nodo e tabernacolo. Questi non è un santo monaco benedettino qualunque, infatti fu il primo seguace di San Benedetto e contribuì con il padre del monachesimo occidentale alla fondazione di uno dei loro monasteri più antichi e prestigiosi, quello di Montecassino.

Degli ideali monastici e di obbedienza, la Vergine viene sempre considerata un modello perfetto. Nello spazio del dipinto, entro una sorta di hortus conclusus, viene raffigurata assisa su un trono, ad occupare quasi per intero la pala centrale del dipinto. In questo dipinto Maria Vergine viene raffigurata con un anello al dito anulare che la identifica immediatamente come sposa dello Spirito Santo, ha inoltre in grembo il Bambino che la qualifica anche come Sedes Sapientiae ed infine, essendo assisa in trono, come Regina. Altri due fattori di estremo interesse su cui il pittore fiammingo si è soffermato sono le parole dipinte a lettere d’oro lungo tutto il gallone del mantello color blu di lapislazzulo che configurano l’incipit del Salve Regina, una delle quattro antifone mariane che la tradizione cristiano-cattolica rivolge alla Vergine, mentre – sempre a lettere d’oro – all'interno del diadema che cinge la sua fronte è inciso l’incipit dell’Ave Maria, la più famosa preghiera della Chiesa cristiana d’Occidente in onore di Maria.

La donna rivolge il suo sguardo, tutt'altro che gioioso poiché conscia del destino riservato al figlio, a Gesù Bambino che tiene in mano un grappolo d’uva – simbolo della futura Passione – e guarda direttamente l’osservatore risultando così il vero diaframma tra lo spazio pittorico ed il mondo reale. Sebbene la figura della Vergine troneggi all'interno del polittico ed il pannello a lei dedicato sia posto de facto al centro dell’opera, non è lei la vera protagonista quanto piuttosto la premonizione degli estremi istanti della vita di Cristo: infatti proprio attraverso questo pannello si passa tematicamente alla fascia superiore.

Il pannello della Crocifissione – la quarta e ultima tavola conservata a Genova – è quello che forse nel parere di chi scrive risulta realizzato con meno attenzione ai dettagli e alla resa dei tipi psicologici. Sotto il profilo iconografico, questo si configura come una classica Crocifissione: Cristo al centro che funge da asse di simmetria portante della scena, Maria Vergine con lo sguardo rivolto verso il basso e le mani giunte alla sinistra, San Giovanni Evangelista, raffigurato a destra, intento ad osservare gli ultimi istanti della vita terrena di Gesù, ed infine il teschio di Adamo alla base della croce che viene bagnato dal sangue di Cristo redimendo così i progenitori dal loro peccato originale. Sotto un profilo più pittorico – guardando lo sfondo, ed in particolare le montagne – l’artista sembrerebbe recepire ed inserire timidamente le novità che Leonardo stava apportando nel contesto rinascimentale italiano.

Analizzando la modalità con cui è stata dipinta la testa del Salvatore – incassata tra le scapole, come quella di Masaccio – si intuisce che non può essere un dipinto autonomo realizzato per essere posto ed osservato ad altezza uomo, quanto più parte di un progetto pittorico più ampio: le dimensioni sono troppo grandi per ritenerla una semplice tavola da devozione privata e, come si può vedere, lo scorcio prospettico dal basso verso l’alto adottato da Gerard David non è adatto ad un’osservazione frontale.

Attualmente chi visita il Museo di Palazzo Bianco a Genova, troverà il polittico della Cervara organizzato secondo la seguente modalità.

Senza soffermarsi troppo sulle due tavolette relative all’Arcangelo Gabriele annunciante e alla Vergine annunciata, che rispondono ai dettami iconografici tipici del rinascimento fiammingo, bisogna soffermarsi un secondo sulla lunetta che raffigura Dio Padre dipinto mentre osserva tutti i personaggi presenti nell’opera dall’alto. Questi ha l’aspetto del tipico Dio-nordico: un uomo giovane con abbigliamento papale, che si differenzia da quello di tradizione mediterranea – per così dire – che invece viene personificato come un uomo anziano con barba e lunghi capelli bianchi, un esempio verrà dipinto a partire dal 1508 da Michelangelo Buonarroti entro la volta della Cappella Sistina a Roma.

In ultima istanza, si ricorda che nel corso del 2005 si svolse a Genova, presso Palazzo Bianco, l’esposizione completa delle sette tavole componenti l’originale polittico così come concepito dall'artista nordico. In tale occasione venne pubblicata la monografia dal titolo Il polittico della Cervara di Gerard David, a cura del professore di storia dell’arte medievale dell’Università di Genova Clario di Fabio, all'epoca direttore del museo, che presenta articoli di Maryan Ainsworth, massima conoscitrice di Gerard David, e di Maria Clelia Galassi, docente di storia delle tecniche artistiche presso l’ateneo ligure.

Purtroppo data l’attuale emergenza Covid tale pubblicazione non è stata presa in considerazione poiché fuori stampa, irreperibile on-line e difficile da trovare nelle biblioteche.

 

Note

[1] La Regula suddivideva la vita monastica tra ore di preghiera e lavoro, regola che poi in corso di Età Moderna venne esemplificata dalla celeberrima formula ora et labora (prega e lavora).

 

Bibliografia

V. Castelnovi Il polittico di Gerard David nell’Abbazia della Cervara, 1952

J. Hoogewerff A proposito del polittico di Gerard David nell’Abbazia della Cervara, 1953

J. Hoogewerff Pittori fiamminghi in Liguria nel XVI secolo, 1961

J. Friedlander Early Netherlandish Painting 1971

Algeri, A. De Floriani La pittura in Liguria. Il Quattrocento, 1991

Di Fabio La galleria di Palazzo Bianco. Genova, 1992

 

 


PALAZZO TOBIA PALLAVICINO A GENOVA

A cura di Fabio D'Ovidio

STORIA ARCHITETTONICA DI PALAZZO TOBIA PALLAVICINO

I lavori di edificazione di palazzo Tobia Pallavicino, sito in Strada Nuova, furono avviati nel 1581 sotto la supervisione di Giovan Battista Castello, detto il Bergamasco, e dietro la commissione di Tobia Pallavicino, uno degli uomini più ricchi della Genova del suo tempo grazie al commercio dell’allume delle cave di Tolfa (che gli fruttò alla morte una disponibilità economica di circa 400 mila scudi d’oro).

Il Castello, che in questa occasione è anche presente in qualità di maestro frescante e stuccatore, progettò il palazzo secondo il tradizionale lessico che Galeazzo Alessi stava impiegando nelle ville aristocratiche extra-cittadine: volume cubico diviso su due piani, il terreno e il primo piano nobile, cui si aggiungono due piani ammezzati e un cortile, ormai perduto, che sorgeva in luogo dell’attuale piazza del Ferro.

Nel corso del 1704 il palazzo venne ceduto alla famiglia Carrega che a partire dal 1710 fino al 1714 decise di rinnovare la morfologia del palazzo: per prima cosa venne rifatto il tetto, si aggiunsero gli infissi e infine l’intero complesso venne aumentato in altezza con l’aggiunta di un piano. Tutte queste modifiche furono rese possibili grazie agli indennizzi ottenuti in seguito al bombardamento navale da parte della Francia di Luigi XIV, il Re Sole, negli anni ’80 del XVII secolo.

Nel 1830 il palazzo venne acquistato dalla famiglia Cataldi ed infine nel 1922 dalla Camera di Commercio cittadina che, ad oggi, ne è l’attuale proprietaria ed ha elevato l’edificio a sua sede.

Il 13 luglio 2006 una commissione UNESCO riunita a Vilnius inserì fra i siti Patrimonio dell'umanità le Strade Nuove insieme a 42 dei 163 palazzi iscritti almeno in una delle cinque liste ufficiali della Repubblica di Genova (Rolli del 1576, 1588, 1599, 1614 e 1644), tra cui Palazzo Tobia Pallavicino, secondo il tradizionale tour che  si effettua durante una delle giornate degli ormai famosi Rolli Days.

I criteri adottati per la selezione sono stati il II e il IV:

II) L'insieme delle Strade Nuove e dei palazzi ad esse collegate mostra una valenza importante per lo sviluppo dell'architettura e dell'urbanistica del XVI e del XVII secolo. Il loro esempio fu divulgato dalla trattatistica architettonica del tempo, rendendo le Strade Nuove e i palazzi tardo-rinascimentali di Genova un punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo dell'architettura manierista e barocca europea.

IV) Le Strade Nuove di Genova costituiscono un esempio eccezionale d'insieme urbano di palazzi aristocratici di grande valore architettonico, che illustra l'economia e la politica della città mercantile di Genova all'apice del suo potere nel XVI e XVII secolo. Il progetto propose uno spirito nuovo e innovativo che caratterizzò il Siglo de los Genoveses (1528-1640). Nel 1576 la Repubblica di Genova stabilì delle liste, o Rolli, legalmente vincolanti, che riconoscevano i palazzi più importanti come dimore ufficiali per i visitatori illustri.

PERCORSO ARTISTICO

Il ciclo decorativo presente nel palazzo si snoda cronologicamente in due distinte fasi: la prima risale al momento della costruzione dell’intero palazzo e vede come assoluto protagonista il Bergamasco coadiuvato da artisti locali tra cui Luca Cambiaso, la seconda invece è da ascrivere alle committenze della famiglia Carrega durante il primo Settecento, tra cui spicca la figura di Lorenzo De Ferrari (1680-1774).

L’ingresso-atrio è un ampio vano rettangolare connotato da una spettacolare e magnificente ricchezza delle decorazioni a stucco, modulate secondo il gusto delineato da Raffaello a inizio XVI secolo a Roma, presente lungo tutte le pareti. Gli affreschi della volta, lunettata alla base, vedono al centro, contornati da decorazioni a grottesca, due riquadri con all'interno di uno Giunone, mentre dell’altro Leda e il Cigno (uno degli amori di Giove). Alla base della volta si possono osservare altri otto riquadri di minori dimensioni con altrettante figure tratte dal pantheon greco-romano, tra cui Diana, Mercurio, Saturno, Giove. Non si conosce la precisa motivazione che spinse il pittore a raffigurare proprio questi personaggi: probabilmente si ritiene che questi siano le personificazioni dei giorni della settimana, ipotesi condivisa da molti studiosi locali dato che nel vicino Palazzo della Meridiana si trova una soluzione figurativa analoga volta proprio ad indicare i giorni settimanali.

Il salone del piano terreno presenta un’imponente decorazione ad affresco sia al centro della volta che alla sua base. Il grande affresco centrale è, allo stato di conservazione attuale, il capolavoro di Giovan Battista Castello nel palazzo. Il tema iconografico è quello del Parnaso con Apollo musagete, raffigurato mentre suona la cetra, attorniato dalle nove Muse divise in tre gruppi, mentre in cielo volano tre amorini. Presente assieme al dio delle arti e alle divinità femminili Pegaso, che scalciando verso il terreno dà vita al fiume Acheronte, sacro alle Muse stesse.

Nelle lunette che si trovano alla base della volta sono inseriti busti di gusto romano che mostrano la volontà diffusa di presentare Genova, che nel secondo Cinquecento era la prima potenza economica europea, come novella antica Roma. Al di sopra di questi busti si trova la narrazione di un mito classico la cui lettura iconografica è ancora oggi molto dubbia, complice lo stato di conservazione: probabilmente è il mito incentrato sulla storia di Aracne e della sua trasformazione in ragno, dato che in uno di questi riquadri è presente un telaio.

Salendo lo scalone situato sulla destra, con le spalle rivolte all'ingresso, si arriva al primo piano nobile, area dove è possibile osservare il passaggio dalla decorazione artistica di fine Cinquecento, dietro committenza Pallavicino, a quella della famiglia Carrega a inizio ‘700.

Appena giunti al piano si entra in un vano le cui modalità decorative sono le stesse presenti al piano inferiore: stucchi modellati a lesena che corrono lungo le pareti e volta con le tradizionali grottesche di derivazione raffaellesca in cui troviamo nuovamente figure mitologiche. Al centro dell’intera volta è nuovamente rappresentato Apollo: in questa occasione si trova in cielo con tre Muse al suo fianco mentre suona la cetra. Nei grandi medaglioni ai suoi lati si hanno figure femminili musicanti.

Nella parete posta di fronte a quella di accesso al vano si apre una porta che conduce ad una stanza, modesta per dimensioni rispetto agli altri ambienti, che è nota con il nome di salotto di Tobia Pallavicino: attualmente è occupato da uno degli uffici della Camera di Commercio, le decorazioni parietali sono coperte da scaffali ma, sulla volta del soffitto, si apre un riquadro cinquecentesco dove è raffigurato Amore che veglia Psiche.

Con questo termina la sezione decorativa che aveva contraddistinto il palazzo in cui Tobia Pallavicino ed i suoi eredi avevano vissuto fino a tutto il XVII secolo; oltrepassando questa zona si entra “fisicamente” nella seconda parte della storia di questo edificio, avvenuta in seguito all’acquisto da parte della famiglia Carrega.

Il primo salone a presentare la nuova decorazione appare sostanzialmente spoglio: nessun motivo architettonico decorativo a stucco sulle pareti, totalmente bianche, e nessun affresco sulla volta ribassata del soffitto. In realtà prima del passaggio di proprietà settecentesco sulla volta doveva essere rappresentato uno degli episodi finali dell’intero mito di Amore e Psiche, dipinto sempre dall’équipe di Giovan Battista Castello, creando una continuità iconografica e narrativa tra il precedente salotto di Tobia Pallavicino e questo ambiente. Oggigiorno, in luogo di questo affresco vi è una “semplice” (si fa per dire) decorazione a stucco bianco che corre lungo la base della volta da cui, dagli angoli, si diramano due diagonali che si intersecano al centro in corrispondenza del grande lampadario centrale. Attualmente questa stanza, come il sottostante salotto con l’affresco del Parnaso, è adibito a sala conferenze.

Ancora da ascrivere al nucleo architettonico di XVI secolo, ma decorato secondo quella sensibilità tipica di pieno Settecento, è la cappella gentilizia presente in un salotto posto sul lato destro del grande salone precedente. Questa è chiusa da una porta costituita da due ante in legno rivestite di tela su cui Lorenzo De Ferrari dipinse un motivo decorativo a grisaille con al centro due medaglioni, uno per anta, con la Natività e l’Annunciazione. All'interno della cappella si conserva la cosiddetta Madonna Carrega, opera di Pierre Pouget, scultore francese che a fine ‘600 si trasferì a Genova in virtù delle grandi committenze che avrebbe ricevuto nel capoluogo ligure dalla grande aristocrazia cittadina. Il gruppo che raffigura una Vergine con Bambino presenta una plasticità di eco michelangiolesco e berniniano che unisce sapientemente in un risultato raffinato echi della tradizione scultorea rinascimentale e barocca. L’opera venne, stando alle fonti, con ogni probabilità commissionata dalla famiglia Balbi, dato che nel 1717 figurava in una delle loro residenze, ma verso la metà del XVIII secolo venne acquistata dai Carrega che la collocarono entro la cappella gentilizia la cui decorazione interna venne affidata al già citato De Ferrari. Il pittore genovese creò una quinta architettonica in stucco dorato molto suggestiva alternando i rilievi plastici ad una riproduzione pittorica di come doveva apparire Strada Nuova in quel periodo. Nella piccola cupola che conclude questo spazio si ha invece un raffinatissimo volo di amorini, che mostra tutta l’abilità e la sensibilità pittorica dell’artista.

L’ultima stanza in analisi, quella che conclude la visita del palazzo durante l’evento dei Rolli Days, rappresenta il dulcis in fundo, la meraviglia delle meraviglie, ossia la camera aurea o galleria dorata. Alla stanza si accede passando su un piccolo balconcino in ferro battuto: la nascita avviene in seno a quei lavori di rinnovamento ed ampliamento voluti nel secondo decennio del ‘700 da Giovan Battista Carrega, l’ideatore e l’esecutore per la parte pittorica fu Lorenzo De Ferrari. La camera ha una pianta rettangolare alquanto stretta ed è chiusa alla sommità da una volta a botte lunettata; all'interno però, grazie al sapiente gioco di specchi e decorazioni in legno dorato, la luce si riflette da una superficie all'altra dilatando notevolmente lo spazio e dando l’impressione al visitatore di essere in uno spazio molto più esteso. Se a questo ci si aggiunge che in pieno Novecento è stato aggiunto un importante tavolo ellittico tutto specchiato, l’effetto di amplificazione è assicurato.

I soggetti dipinti appartengono alle storie di Enea con un intento dichiaratamente celebrativo. Il grande affresco centrale della volta raffigura Venere che intercede presso Giove per salvare il figlio Enea dalla furia vendicativa di Giunone. Nei quattro tondi, disposti a coppie, applicati a mezza altezza sui lati minori e collocati entro stucchi, si trova altrettanti episodi della biografia dell’eroe troiano narrati nell’Eneide: Enea che fugge da Troia, Enea e Didone, Venere nella fucina di Vulcano ed Enea che uccide Turno.

 

 

Bibliografia

Alizeri “ Guida artistica per la città di Genova”, Genova 1847

Gavazza “Lorenzo De Ferrari (1680-1774)”, Milano 1965

Torriti, "Tesori di Strada Nuova, la via aurea dei genovesi", Genova, Cassa di risparmio di Genova e Imperia 1970.

Poleggi, "Strada Nuova una lottizzazione del Cinquecento a Genova", Genova, Sagep Editrice, 1972.

Gavazza “La grande decorazione a Genova”, Genova 1974

Poleggi (a cura di), "Una Reggia Repubblicana Atlante dei Palazzi di Genova 1530-1664", Torino, Umberto Allemandi & C., 1998.

Bartolini, E. Manara, "Palazzo Tobia Pallavicino", Genova, Sagep Editori, 2008

VV. “Genova. PALAZZO TOBIA PALLAVICINO. Camera di Commercio”, Genova Sagep, 2013


LE CAPPELLE LATERALI DEL DUOMO DI SAVONA

A cura di Fabio D'Ovidio

Introduzione

Dopo aver trattato diffusamente delle vicende relative alla costruzione del Duomo di Savona in un precedente articolo, passo ora ad approfondire il discorso legato alle cappelle laterali del Duomo, dense di storia e testimonianze artistiche.

La navata sinistra e le relative cappelle laterali

Fig. 1: navata di sinistra

La prima cappella

Sopra l’altare troviamo una tela di ignoto autore del secolo XVII raffigurante San Francesco da Paola, Santo calabrese, fondatore dell’Ordine dei Minimi (1416-1507), venerato in quasi tutte le località di mare per un episodio legato alla navigazione dello stretto di Messina.

Fig. 1a: prima cappella di sinistra - San Francesco da Paola

Seconda cappella di sinistra (Cappella Doria)

Realizzata dal pittore genovese Bernardo Castello (1557-1629) che decorò la Cappella nei primissimi anni del XVII secolo. Sulla volta ha realizzato scene tratte dal Vangelo di Marco e Luca in cui viene narrata l’infanzia di Gesù: al centro si ha l’Adorazione dei Magi, a destra la Presentazione di Gesù al tempio e a sinistra la Circoncisione. Sull'altare è collocata la pala con l’Adorazione dei pastori.

Sulle pareti laterali della cappella il pittore ha raffigurato invece la Fuga in Egitto (in alto a destra) e il Sogno di San Giuseppe (in alto a sinistra). La volontà iconografica del ciclo è quella di introdurre il fedele/visitatore alla conoscenza di Gesù partendo proprio dai primi momenti della sua vita terrena: il suo primo incontro con la nostra Umanità.

Fig. 2: seconda cappella di sinistra - Infanzia di Gesù
Fig. 2a: Infanzia di Gesù

Terza cappella di sinistra

Ospita una tela di Giovan Battista Paggi (1554-1627) raffigurante il Martirio di Sant'Orsola, realizzata tra il 1599-1600 per l’omonima compagnia. La tela ha una composizione di impianto tradizionalista, ovvero la giovane martire viene condotta al martirio insieme alle diecimila vergini.

Fig. 3: terza cappella di sinistra - S. Orsola

Quarta cappella di sinistra

È dedicata alla “Madonna della colonna”. Questo ambiente svolge un ruolo e ricopre un’importanza molto particolare non solo per il duomo di Savona ma anche per tutta la cittadinanza savonese. La storia di questa Maria con il Bambino si lega, come sopra detto, al momento in cui l’attuale duomo fu costruito. Questa immagine, dipinta su una colonna della chiesa di San Francesco, scelta come cattedrale provvisoria, sarebbe dovuta scomparire all'inizio dei lavori di demolizione della chiesa francescana, ma si salvò miracolosamente, fu conservata e poi collocata nella nuova cattedrale.

Fig. 4: quarta cappella di sinistra - Vergine della colonna

Quinta cappella di sinistra

Qui si commemora l’apparizione di Maria, Madre di Misericordia, al beato Antonio Botta nella valle del Letimbro (attuale località Santuario) il 18 marzo 1536. Il tema è dunque la Misericordia. Di supporto alla statua marmorea sono i due affreschi dipinti lungo le pareti. Uno di essi raffigura l’incontro di Gesù con i bambini mentre i suoi discepoli vogliono allontanarli: è dolcissimo qui l’atteggiamento di Gesù, raffigurato mentre esprime un affetto tenerissimo per i bambini. L’altro, a sinistra, raffigura Gesù nell'atto di perdonare la donna adultera: qui invece emerge la rappresentazione della potenza, pacata e definitiva, della Misericordia divina.

Fig. 5: quinta cappella di sinistra - Maria Madre di Misericordia

Sesta cappella di sinistra

Dedicata a Santo Stefano. È la cappella del Santissimo Sacramento, il luogo privilegiato per la preghiera intima. La pala collocata sull'altare raffigura il martirio di questo santo ad opera del pittore locale di linguaggio neoclassico Paolo Gerolamo Brusco, mentre al di sotto è presente la grata in cui si conservano le spoglie del beato Ottaviano, vescovo della città tra il 1123-1133, la cui causa di canonizzazione viene portata aventi dal vescovo Spinola durante il concilio di Trento.

Fig. 6: sesta cappella di sinistra - SS. Sacramento

La navata di destra e le relative cappelle laterali

Fig. 7: navata di destra

Prima cappella

È interamente dedicata alla Vergine, sull'altare troviamo una tela dipinta a tempera raffigurante Nostra Signora di Misericordia di Agostino Ratti (1699-1775): propone l’apparizione al contadino Antonio Botta, il 18 Marzo 1536. Sulle pareti laterali alcuni affreschi riproducono due miracoli mariani e sulla volta un terzo dedicato alla Gloria della Vergine. Nel contesto mariano di questa cappella merita particolare attenzione la statua marmorea raffigurante la Carità: attorno ad una giovane donna si stringono tre bambini, dei quali uno viene allattato al suo seno.

Fig. 8: prima cappella di destra - Beato Botta

Seconda cappella

Presenta gli affreschi di Agostino Ratti eseguiti nella metà del XVIII secolo. Sulla pareti laterali sono raffigurate la Visitazione e il Riposo durante la fuga in Egitto: due momenti della storia sacra che vedono Maria protagonista. Un altro elemento artistico mariano da notare è il rilievo dorato su ardesia raffigurante la Madonna col Bambino: è una delle chiavi di volta dell’antica cattedrale che sorgeva sul Priamar. Di Paolo Gerolamo Brusco è il Sacro Cuore collocato sull'altare marmoreo decorato da tarsie. Fiancheggiano l’altare due statue: una raffigura il re e profeta Davide (riconoscibile per la corona e l’arpa), l’altra il profeta Isaia con un cartiglio la cui scritta recita: Ecce Virgo, le parole iniziali della sua profezia sulla nascita del Cristo.

Fig. 9: seconda cappella di destra - Sacro Cuore

Terza cappella (cappella Gavotti)

Nota anche con il nome di cappella Gavotti, presenta nuovamente una serie di temi mariani. Sull'altare, la Madonna degli Angeli, di Giovanni Baglione (1566-1643, pittore romano e biografo di artisti), in cui la Vergine è raffigurata attraverso i caratteri iconografici dell’Immacolata: la testa coronata di stelle, venerata dagli Angeli, Maria Regina Angelorum, una interpretazione pittorica, che ritrae la Madre di Cristo coi capelli scomposti e sciolti al vento. Sulla parete di destra, il Sogno di Giacobbe, dello stesso autore, mentre su quella di sinistra, Abramo visitato dagli Angeli, di Giovanni Lanfranco (1582-1647). Sulla volta, affreschi di Flaminio Allegrini al centro l’Arcangelo Michele che sconfigge Satana, dalla fisionomia draconiana.

Fig. 10: terza cappella di destra - Gavotti

Quarta cappella

Intitolata a Sant'Agostino, conserva altre opere di Paolo Gerolamo Brusco. Sulla volta, l’affresco raffigurante la Gloria di Sant’Agostino e le due tele sulle pareti laterali con i Santi Pietro e Paolo. Sopra l’altare, una pregevole pala, opera di Giovanni Baglione (1575-1664), raffigurante Sant'Agostino, al centro della tela, in alto, l’Incoronazione della Vergine ad opera della Trinità; in basso, in primo piano, Sant'Agostino che regge con la sinistra il libro, mentre con la destra indica il Mistero rappresentato al di sopra, a sinistra, le insegne che lo identificano come vescovo: il pastorale a terra, e la mitra, retta da un putto.

Fig. 11: quarta cappella di destra - S. Agostino

Quinta cappella

Nota comunemente con il nome di Cappella delle Anime, è dedicata al trionfo della vita sulla morte. Appare il crocifisso e un cartiglio con la seguente scritta: “Salus populi ego sum”.  Sulle pareti laterali campeggiano due grandi affreschi di Quarenghi: la Risurrezione del figlio della vedova di Nain e la Sepoltura di Mosé raffigurato, come addormentato, mentre viene portato in Cielo da una ricca scorta di angeli. Il monumentale altare marmoreo, altare dei morti, realizzato nel corso del Seicento da A. Luciani, presenta alla base alcuni scheletri umani, realizzati con estrema cura e dettaglio anatomico: stupiscono le loro pose plastiche e molto dinamiche. A supporto di questa visione di vita post mortem corporale vi è la citazione biblica collocata al centro del paliotto, in un medaglione affiancato a due scheletri. Questo tema trova il suo sviluppo dottrinale nel Purgatorio: ricorrenti dopo la Controriforma le anime purganti sulle pale d’altare. Proprio questa iconografia viene recuperata nel rilievo marmoreo posto sul timpano curvilineo dell’ancona, che è spezzato da un’ampia raggiera con una corona di angeli intorno, al cui centro si trova il simbolo della SS. Trinità. Sugli estradossi del timpano si ergono due grandi statue: la Fede (con il calice) e la Speranza (con l’ancora) per sostenere il cammino del credente.

Fig. 12: quinta cappella di destra - Anime

Sesta cappella

L’ultima cappella di destra, dedicata a San Sisto, conserva in un’urna cineraria quelle che – secondo la tradizione – sono le reliquie del Papa e martire, vissuto nel II secolo d.C. Sulla volta è raffigurato il suo martirio. L’altare (XVII-XVIII sec.) è dominato da una notevole tavola cinquecentesca raffigurante la Madonna in trono tra i Santi Pietro e Paolo (o Luca). Se Pietro è riconoscibile per la tradizionale fisionomia, l’altro non ha segni distintivi particolari, ad esempio non ha la spada, abitualmente l’attributo del martirio di San Paolo. Sulla parete di destra, un rilievo in marmo raffigurante la Presentazione di Maria al tempio.

 

NdA: le fonti per quest'articolo sono state desunte da appunti di liceo ed università, descrizioni in loco o fotografie.

 


IL DUOMO DI SANTA MARIA ASSUNTA A SAVONA

A cura di Fabio D'Ovidio

Il Duomo di Santa Maria Assunta e la sua storia

Il Duomo di Santa Maria Assunta, o Cattedrale, presenta una storia molto particolare costituita da due differenti e distinte fasi storiche e artistiche.

Il duomo originario venne edificato nel tra 825-887 d.C.,  in luogo dell’antico tempio pagano posto sulla collina del Priamar, e vi rimase fino al 1543, anno in cui con un decreto del podestà venne abbattuto. Il promontorio del Priamar[1] era il cuore pulsante della vita cittadina laica e religiosa della città fino al 1528, anno della conquista genovese e dell’inabissamento del porto.

Secondo le ultime ricostruzioni desunte dalle fonti locali e da alcuni ritrovamenti archeologici, la cattedrale del Priamar presentava una facies gotica il cui elevato era costituito da un unico corpo longitudinale diviso in 3 navate con colonne raccordate mediante un sistema archivoltato a sesto acuto, il presbiterio aveva un aspetto poligonale con all'esterno un doppio ordine di colonne che reggevano un loggiato, e al di sopra dell’altare si elevava un tamburo esagonale sul quale si impostava una cupola. La facciata aveva il tipico aspetto a salienti con un protiro sorretto da leoni stilofori in corrispondenza del portale maggiore e nella parte superiore un rosone centrale e due bifore.

Se l’esterno presentava la tradizionale bicromia bianco-nera a bande orizzontali, l’interno offriva alla vista cicli ad affresco, pale d’altare, corredi scultorei in marmo e in bronzo.

Nel 1543, il complesso religioso fu abbattuto per volere della Repubblica di Genova insieme ai numerosi edifici religiosi e civili che sorgevano intorno.

Sul promontorio sorse una fortezza[2] che, ancora oggi, domina la città. Il 24 aprile 1543 il podestà vietò a chiunque di recarsi nel duomo, così molti cittadini coadiuvati dal clero locale presero il Santissimo Sacramento dal duomo e lo trasferirono nella chiesa di San Pietro, in un clima di grande commozione e sofferenza, con la massima solennità possibile. Nonostante il brevissimo tempo concesso dall'autorità civile, i cittadini fecero il possibile si sforzarono per portare via dal duomo quanti più oggetti preziosi fosse possibile. Nella Chiesa di S. Pietro venne trasferito il corpo del Beato Ottaviano, vescovo di Savona dal 1123 al 1133, che nella Cattedrale del Priamar era conservato in una cripta. Distrutta la splendida Cattedrale, dunque, occorreva elevare a questo rango una nuova sede scelta tra una delle chiese presenti in città.

In un primo momento a tale rango venne eletta la chiesa di San Pietro che sorgeva presso la torre del Brandale (oggi questa chiesa non esiste più), ma presto questa sede si rivelò inadeguata e si pensò di trasferire la Cattedrale presso la chiesa di San Francesco, dove viveva la comunità dei Frati Francescani Conventuali, presso cui vissero parte della loro vita i  pontefici Sisto IV e Giulio II della Rovere.

La scelta di S. Francesco come nuova Cattedrale non fu gradita alla congregazione e i Frati non cedettero se non alla forza: il loro malcontento era condiviso anche dalla società secolare della città, in particolare dalle famiglie nobili. Vi era ancora la possibilità che tale scelta fosse temporale, in attesa di una definitiva sistemazione in altra località.

Nel 1556 il Papa Paolo IV elevò al rango di Cattedrale la chiesa dell’ordine francescano, e nello stesso anno ne prese possesso Vincenzo Prarella Vicario Generale di Nicolò Fieschi[3], vescovo di Savona. Tuttavia, anche la chiesa di San Francesco, a causa delle sue dimensioni, si dimostrò presto inadeguata per essere una Cattedrale.

Il nuovo Duomo: il "miracolo della colonna"

Il Vescovo Pietro Francesco Costa (1587-1624) con una scelta radicale ordinò la demolizione della Chiesa di S. Francesco e l’edificazione di un nuovo Duomo: nel 1589 la chiesa francescana fu integralmente demolita e il Costa stesso pose la prima pietra per la nuova Cattedrale. Nelle fondamenta del nuovo edificio e sotto il coro si deposero differenti monete d’argento e di rame, coniate in loco, con i simboli araldici cittadini e mariani.

I lavori di costruzione iniziarono con entusiasmo ma scaturì una diatriba di stampo economico tra le autorità ecclesiastiche e civili. L’effetto di questi contrasti si vide nel 1600, quando le maestranze incaricate della costruzione erano intenzionate a bloccare i lavori per la mancanza di finanziamenti. Inaspettatamente e provvidenzialmente, fra le tensioni, avvenne il miracolo della Madonna della Colonna. Il 14 marzo 1601 durante la demolizione di una colonna dell’antica chiesa, un’immagine della Vergine col Bambino, si staccò e si adagiò lentamente a terra. L’evento straordinario stemperò la situazione e permise la ripresa dei lavori, grazie anche al forte contributo economico portato dai fedeli, profondamente toccati nell'animo dal “miracolo della colonna”.

Con la ripresa dei lavori si rinfocolò la speranza di poter ultimare il complesso secondo i disegni dell’architetto e frate gesuita savonese Orazio Grassi[4], e di restituire alla nuova struttura la bellezza e lo splendore di quella medievale.

Nel giro di breve tempo, vennero innalzate le strutture portanti del tempio. Nel 1602 si chiese il permesso a Genova di edificare il campanile ma i lavori furono procrastinati per una diminuzione di entrate economiche. Nel 1605, infine, la Cattedrale venne consacrata, ma i lavori per la costruzione erano lontani dall'essere terminati: i progetti per il campanile vennero ripresi nel 1611 e ultimati due anni dopo, nel 1628 si portava a termine la pavimentazione interna, tuttavia mancavano all'appello ancora cupola e facciata.

La prima facciata fu eretta nel 1840 dall'architetto savonese Giuseppe Cortese, mentre la seconda, opera dell’architetto Guglielmo Calderini, venne ultimata nel 1887. La lanterna sopra la cupola fu elevata poco prima del 1929, anno in cui possiamo ritenere concluso l’intero cantiere.

Fig. 3

L’attuale cattedrale dell’Assunta presenta una pianta a croce latina a tre navate, divise da pilastri che sorreggono volte a botte a tutto sesto, con all'intersezione di transetto e corpo longitudinale l’elevazione di un tamburo circolare su cui si imposta una cupola emisferica, mentre alla conclusione del corpo longitudinale un’abside poligonale.

La facciata presenta un alzato fortemente marcato in senso orizzontale da due cornici marcapiano: la prima si interrompe in corrispondenza dell’ingresso principale per la presenza di un gruppo scultoreo dell’assunzione della Vergine, realizzato dallo scultore Giovanni Antonio Cybei primo direttore dell’Accademia di Carrara (autore tra l’altro di un monumento equestre per Francesco III d’Este).

Fig. 4

Percorso pittorico all'interno del Duomo di Santa Maria Assunta

La visita alla Cattedrale può iniziare partendo dalla navata centrale poiché offre allo spettatore e al fedele l’inquadratura spirituale dell’edificio: si chiariscono immediatamente  i contenuti tematici portanti che riguardano il Mistero dell’Assunzione della Vergine in Cielo, cui il complesso religioso è consacrato.

Fig. 5 - Navata Centrale.

Gli affreschi dell’imponente volta a botte della navata centrale e del catino absidale presentano in ordine di successione differenti episodi significativi della vita mariana dipinti nel 1847 dal pittore bergamasco Francesco Coghetti: Natività di Maria e sua presentazione al tempio, Sposalizio della Vergine, Annunciazione e Visitazione, Dormitio Virginis e Assunzione.

Fig. 6 - Soffitto Navata Centrale.
Fig. 7 - Catino Absidale del Duomo di Santa Maria Assunta.

Al centro del transetto, sotto la cupola, sono raffigurati quattro grandi profeti, uno per angolo della struttura: diffondono il Verbo e annunciano i misteri su cui si basa la fede della Chiesa. I quattro uomini sono Isaia premonitore della nascita di Cristo, Baruch attraverso una riflessione-lode sulla Sapienza annuncia implicitamente la venuta di Gesù, Gioele profetizza della Pentecoste e infine Osea è il primo a considerare l’amore coniugale come simbolo dell’amore di Dio verso Israele.

Fig. 8 - Cupola.

Navata di sinistra

Presenta sei volte a crociera a tutto sesto alle cui pareti si aprono altrettante cappelle e termina con l’altare del Santissimo Sacramento, una delle molte reliquie trasportate nella nuova cattedrale prima della distruzione della precedente.

Fig. 9 - Navata di sinistra.

Navata di destra

Presenta una configurazione architettonica affine a quella di sinistra con la divisione in sei campate con volte a crociera a tutto sesto e altrettante cappelle laterali, a livello iconografico mostra un percorso che alterna temi mariani alla storia di prima età contemporanea di Savona, con richiamo diretto all'episodio di Pio VII e Napoleone Bonaparte.

Fig. 10 - Navata di destra.

Percorso scultoreo nel Duomo di Santa Maria Assunta

In parallelo con i cicli ad affresco della navata centrale e delle cappelle laterali, si dispiegano differenti opere plastiche quasi tutte provenienti dalla cattedrale del Priamar, traslate nella chiesa di S. Francesco e poi ricollocate nella cattedrale attuale.

Il fonte battesimale (ingresso navata centrale lato destro) fu ricavato da un capitello bizantino di VI secolo, la sua conservazione è piuttosto buona, ad eccezione di una palmetta sbeccata sull'angolo anteriore sinistro; il bordo della vasca reca alcuni segni di scasso dovuti al fissaggio di elementi di copertura. Il manufatto è, in realtà, molto distante per tecnica, tipologia e stile dai capitelli bizantini, cui peraltro si ispira. Si è appurato che per la decorazione dei lati anteriore e posteriore, identici fra loro, sono presenti vari modelli di riferimento: i tralci, le palmette, le foglie d’acanto che trovano precisi riscontri in capitelli bizantini appartenenti ad un ampio arco cronologico, dal VI al primo XIV secolo. L’opera è stata realizzata tra la seconda metà del XIV e gli inizi del XV secolo. Al centro della vasca, si può osservare il foro per l’uscita dell’acqua, una realizzazione ad hoc di uno scultore occidentale, tardogotico, che impiegò motivi architettonici di differenti edifici di Costantinopoli (alcuni allora già in rovina), per ottenere un originale ed “esotico” fonte battesimale.

Fig. 11 - Fonte battesimale.

In corrispondenza del lato sinistro, si trova un Crocifisso marmoreo avente da un lato un Cristo morente sulla croce e dall'altro una Madonna con il Bambino.

In corrispondenza dell’ingresso, presso la navata sinistra, si trova una lunetta in bronzo raffigurante l’Assunzione della Vergine di epoca tardo romanica (forse XII secolo): presenta una forte disposizione gerarchica delle figure, la teoria di apostoli in basso con i volti rivolti verso l’alto, la Vergine entro la mandorla con affianco angeli musicanti e altri due sopra di lei nell'atto di incoronarla, alla scena è anche presente la Trinità attraverso le tre stelline poste tra mandorla e corona.

Fig. 14 - Assunzione bronzea.

La Presentazione della Vergine al tempio è un rilievo murato nella Cappella di S. Sisto (dal 1867), nella parte sinistra viene raffigurata una scoscesa salita rocciosa che conduce all'entrata del Tempio, presso la quale è presente Zaccaria che sta per accogliere la Vergine (nella fisionomia di una bambina), alle spalle del sacerdote altre tre figure maschili si sporgono dall'interno dell’edificio; sul lato opposto, lo spazio è delimitato dalle rovine di un’architettura classicheggiante sul cui davanti si raccoglie il gruppo dei familiari che assiste all'evento: Gioacchino ed Anna, e altre due donne, appena visibili alle loro spalle; sullo sfondo, la salita rocciosa prosegue verso un’altura alla cui sommità sorgono le rovine di un altro edificio che si staglia contro un cielo percorso da piccole nuvole: a metà del cammino è un alberello dal fusto ritorto, di cui sono minutamente descritte le asperità e la chioma; in primo piano, sotto la salita al tempio, è raffigurato un sarcofago dal quale sorge una figura maschile, caratterizzata dalla tonsura. Il rilievo, appartenuto ad un altare, è identificabile con quello segnalato dal Ratti e tra le opere provenienti dall'antica Cattedrale.

Fig. 15 - Presentazione di Maria al Tempio, rilievo.

Madonna con Bambino e Santi: una pala marmorea, presente nella “Sacrestia vecchia”. L’opera è un evidente risultato di una ricomposizione: nel suo insieme si mostra tripartito da tre nicchie sormontate da un coronamento a valva di conchiglia, contenenti ciascuna una figura scolpita quasi a tutto tondo: in quella centrale e in posizione più elevata è raffigurata la Madonna col Bambino, in quella alla sua destra San Pietro, dall'altra parte San Paolo. Attorno alla nicchia con la Vergine sono disposti quattro riquadri che racchiudono un rilievo raffigurante un evangelista seduto allo scrittoio e identificato dal corrispettivo attributo. Altre quattro nicchie, agli angoli del gruppo centrale, sono delimitate da archi a tutto sesto e coronati da un elegante fastigio composto da un vaso da cui si dipartono lateralmente motivi fitomorfi e coppie di delfini affrontati; all'interno sono collocati quattro Dottori della Chiesa, tutti frontali e assisi in trono: Gregorio e Gerolamo in basso, Ambrogio e Agostino in alto. A completare gli scomparti laterali altri quattro riquadri, contenenti un santo a mezzo busto: le figure in basso (due Santi Apostoli?) recano un libro, quella di sinistra impugnava un oggetto oggi perduto, l’altra presenta una croce (Sant’Andrea ?); la figura in alto a sinistra è identificabile con Santo Stefano per minuscole pietre poste su capo e spalle, mentre dell’altro giovane martire in alto a destra, presumibilmente San Lorenzo, sono perduti parte della palma e l’oggetto su cui appoggiava la mano destra.

Pulpito esagonale con un lato aperto, collocato in capo alla navata centrale, addossato al pilastro sinistro. Le cinque specchiature, intercalate da erme angeliche, racchiudono le figure dei quattro Evangelisti con attributi rappresentati a figura intera, e San Paolo mentre predica a una folla. Sotto le specchiature degli Evangelisti, troviamo una serie di piccole figure a rilievo di Santi (procedendo in senso orario a partire dal lato prospiciente il presbiterio: San Pietro, San Giovanni Battista, San Gerolamo, San Gregorio Magno, Sant’Agostino e Sant’Ambrogio). Gli scultori sono Antonio Maria Aprile e Giovanni Angelo Molinari, che realizzarono il pulpito tra il 1521 e il 1525. Sembra accettabile l’ipotesi proposta da Federigo Alizeri, secondo cui le parti figurate sarebbero da attribuire all’Aprile (o alla sua bottega), mentre a Giovanni Angelo Molinari sia stata demandata la messa in opera dell’insieme e l’esecuzione degli ornati.

Fig. 16 - Pulpito.

Coro ligneo è probabile che il vero promotore del progetto sia stato Giuliano Della Rovere – futuro papa Giulio II – che lo finanziò assieme al Comune di Savona, per una spesa complessiva di 1.132 ducati d’oro. Il momento storico era particolarmente favorevole alla città di Savona. Il cardinale poteva procedere con particolare ambizione nel suo ruolo di mecenate artistico della città e in particolare della cattedrale sul Priamar, di cui si stavano completando in quegli anni le decorazioni e gli arredi interni. Il Della Rovere affronta, con la realizzazione del coro ligneo, l’impresa di gran lunga più impegnativa, lunga e costosa fra quelle che lo coinvolsero per l’abbellimento della Cattedrale di S. Maria Assunta. Nell'atto di commissione si stabilì che il coro dovesse riprodurre fedelmente nella scelta dei legni, nelle dimensioni, nella fattura e negli esiti estetici, quello della Certosa di Pavia, comprese le figure intarsiate. Il coro di Savona è a doppio ordine (per i canonici e i cappellani), mentre quello di Pavia a uno solo ma le analogie previste furono, in linea di massima, rispettate. L’originaria configurazione è oggi perduta a seguito dell’abbandono della cattedrale sul Priamar. Il coro fu smontato e trasferito in sedi provvisorie, infine ricollocato nell'abside della attuale Cattedrale. Qui fu riadattato al profilo dell’abside, ed assunse un andamento a U rovesciata. In questo adattamento furono sacrificati due stalli: il primo ordine ne conta attualmente 37, il secondo 21 anziché 22. Al centro ve n’è uno più grande e sopraelevato, forse la vecchia cattedra vescovile, la cui spalliera è decorata da una tarsia con il Redentore. Ai suoi lati, si dipartono le due ali di 18 stalli l’una, i cui dossali principali riproducono, secondo una rispondenza simmetrica destra-sinistra, la Madonna con Sisto IV (a destra) e la Madonna con Giulio II (a sinistra), quindi gli Apostoli, gli Evangelisti, Santi Martiri, Dottori della Chiesa, Santi monaci e Sante Martiri. Anche il leggio, con il bancone sottostante a sportelli, è parte dell’originario complesso, mentre la cattedra vescovile venne realizzata agli inizi del Seicento, utilizzando per lo schienale un preesistente dossale con Maria Maddalena. La firma di Anselmo de Fornari in due tarsie all'estremità del coro porta a pensare che sia stato il maestro principale dell’opera.

Fig. 17 - Coro ligneo.

MENZIONE ONOREVOLE

La Pala della Rovere ,oggi nell'oratorio di Nostra Signora di Castello, già nella vecchia Cattedrale, presenta un’imponente carpenteria piena di statue lignee, entro cui sono raffigurati al centro una Madonna in trono con Bambino tra di San Giovanni Battista a sinistra e San Giovanni Evangelista a destra, al di sopra dei due santi omonimi si trovano entro riquadri minori disposti a coppie un totale di quattro santi tra pontefici (probabilmente i precedenti Sisto, da ricordare che nella cattedrale c’è una cappella dedicata a San Sisto I) e padri della Chiesa, mentre sopra la coppia centrale si trova una Crocifissione come chiaro rimando al futuro di Cristo. In luogo della cimasa gli scultori del legno posizionano un tabernacolo, mentre in predella sono raffigurate quattro scene della vita di Gesù bambino alternate a due stemmi della famiglia Della Rovere (quercia dorata su fondo azzurro). Foppa non rispetta i tempi dettati dalla sua committenza e allora viene sostituito da Ludovico Brea.

NdA: le fonti per quest'articolo sono state desunte da appunti di liceo ed università, descrizioni in loco o fotografie.

Note

[1] In dialetto ligure tale parola ha una duplice accezione. Si può considerare come pri-amar (pietra amara = roccia friabile) oppure come pri-a-mar (promontorio vicino al mare).

[2] Tale edificio aveva certamente una funzione difensiva nei confronti delle navi nemiche francesi che in un qualunque momento avrebbero potuto sferrare un attacco marino, tuttavia i fori in cui erano posti i cannoni non correvano solo sul lato esterno dell’edificio, ma anche su quello rivolto alla città che sarebbe stata cannoneggiata in caso di rivolta. Il ruolo ambiguo che ha ricoperto la fortezza del Priamar si può notare ancora oggi in quanto per molto tempo è stata abbandonata al degrado, e i savonesi solo durante alcune manifestazioni si recano lì. In pieno Risorgimento vi fu imprigionato Giuseppe Mazzini, la cui cella è tutt’oggi visitabile.

[3] I Fieschi sono una delle più antiche famiglie dell’aristocrazia genovese. Di consuetudine durante il suo dominio su Savona, per esercitare un maggiore controllo sulla società tutta, Genova inviava come vescovi e podestà uomini scelti tra i ranghi della propria aristocrazia.

[4] Uomo specializzato in discipline scientifiche, cui è intitolato il liceo scientifico cittadino, ma è principalmente ricordato come uno dei principali oppositori delle teorie galileiane.