ALIGI SASSU
A cura di Ludovica Diana
Aligi Sassu
Aligi Sassu, artista nato il 17 luglio del 1912 a Milano dal matrimonio di Lina Pedretti, originaria di Parma, e di Antonio Sassu, originario di Thiesi in Sardegna, ha rappresentato un interessante punto di congiunzione tra panorama artistico italiano e internazionale. Artista cosmopolita e particolarmente recettivo rispetto alle novità del suo tempo, ha viaggiato ed esposto in Spagna, America, Cina, Sud America e molti altri paesi.
Da sempre affascinato dalle tecniche artigiane, Sassu è stato in grado di sperimentare molti differenti mezzi artistici e di lasciarsi ispirare da influenze sempre nuove; ha lavorato infatti con matita e inchiostro su carta, acqueforti, acquetinte, ceramica, pittura ad affresco, a secco, ad olio, ad acrilico e perfino sculture bronzee di grandi dimensioni .
La formazione milanese gli permise di conoscere direttamente gli ambienti artistici d'avanguardia, a cui si avvicinò grazie al padre, Antonio Sassu, anch'esso artista, oltre che militante socialista. Infatti, Aligi, formò la propria coscienza civile e politica in tale area, rimanendo sempre legato a degli ideali di libertà e giustizia, spesso immaginati e rappresentati artisticamente in chiave utopica. Pensava infatti che l'immaginazione potesse essere uno strumento per il cambiamento, un'occasione per vedere nuovi mondi.
Tale sviluppata sensibilità politica è da leggere in relazione anche al suo legame con Thiesi, in cui visse per circa tre anni a partire dai primi anni Venti, ma che frequentò anche da adulto avendo modo di comprendere le istanze di rinnovamento e il senso di ingiustizia radicati nel popolo sardo, oltre che la produzione artistica regionale, che ebbe sotto agli occhi fin da piccolo e che, in questi termini, ha indubbiamente costituito per lui un modello.
La giovinezza
L'esperienza futurista
Il giovane Aligi ebbe modo di frequentare precocemente esposizioni artistiche e biblioteche milanesi e, altrettanto rapidamente, appena adolescente, si fece avanti insieme all'amico Bruno Munari presentandosi a Filippo Tommaso Marinetti. I due infatti presero successivamente parte ai lavori del Secondo Futurismo, mentre, a partire dal 1925, lavorò da apprendista in un'officina litografica mentre la sera frequentava dei corsi dell'Accademia di Brera. Tuttavia, ciò dovette farlo in una condizione di effettiva precarietà sul piano economico, causata anche dalle persecuzioni politiche che il padre dovette subire in quanto antifascista. Nonostante le difficoltà il padre fu per Sassu un’importante figura di riferimento; Antonio Sassu aveva infatti collaborato con Carlo Carrà, i due avevano realizzato una serie di immagini di propaganda socialista, e trasmise al figlio le istanze di progresso e modernizzazione proprie dell'universo futurista.
Il processo di appropriazione delle logiche del movimento non avvenne attraverso la riproduzione pedissequa dei suoi linguaggi, infatti, Sassu, che rapidamente si discostò dalla stilizzazione, imputava - sia al Primo che al Secondo Futurismo - di aver fatto perdere complessità alla figura umana. Pubblicò allora il suo Manifesto della Pittura Dinamismo e Riforma muscolare, firmato con Bruno Munari e uscito nel 1928, in cui i due giovani artisti denunciavano apertamente l'appiattimento della realtà dovuto a un eccessivo utilizzo della linea dinamica che inevitabilmente stava portando a una tendenza all'astrazione.
Nemmeno Umberto Boccioni, il più espressionista dei futuristi, che riservò sempre una certa attenzione alle forme della realtà, si salvò dalle critiche dei due artisti, Sassu, che tra l'altro aveva avuto modo di vedere diverse opere del maestro tra cui il bozzetto per La città che sale che si trovava a casa di Fedele Azari, lo giudicava comunque troppo influenzato da un’astrazione fine a se stessa.
Sassu aveva sempre nutrito una certa curiosità nei confronti dell'indagine sociale, mettendo apertamente l'uomo al primo posto. Lo rappresenta deformato ma mantenendo sempre una tendenza al vero; le sue figure sono riconoscibili e comunicative proprio perché per lui l’arte deve essere un'occasione per responsabilizzare sul piano civile il pubblico. Sono anni storicamente molto significativi quelli in cui lavora Sassu, si trova infatti a cavallo tra la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra, alle prese con un grande esempio di disfacimento morale e umano.
L'amore per l'uomo e l'istanza politica
Sassu continuò a frequentare ambienti futuristi e partecipare alle mostre organizzate da Marinetti fino agli anni Trenta; finita l'esperienza cominciò un' inesorabile transizione stilistica che, tuttavia, non fu mai orientata verso il ''ritorno all'ordine'' tipico dell'epoca fascista - di cui furono un esempio i lavori del gruppo Novecento di Margherita Sarfatti.
Da questo momento in poi, l'universo pittorico di Sassu sarà costellato di essere umani, spesso socialmente caratterizzati e per questo rappresentanti di diversi mondi: i ciclisti, gli scioperanti, gli operai, i minatori, i guerrieri rivoluzionari, i volti dei Cafè e delle case d'appuntamento, importanti personaggi storici, ma anche gli Uomini Rossi e gli Argonauti. Si tratta della volontà di raccontare l'uomo e il suo sentire, sempre con un riferimento spiccatamente politico, indipendentemente dalla scelta di farlo immaginandolo in chiave mitica, come agente del processo storico o come protagonista di microcosmi meritevoli di essere scoperti e raccontati.
Lo slittamento tematico fu affiancato da un utilizzo sempre più elaborato e libero del colore e della pennellata, coerentemente a quanto accadeva sul piano internazionale. Infatti, la serie di Uomini Rossi, che presenta le categorie umane più disparate - dai Ciclisti ai Calciatori, dai Giocatori di Dadi ai Ragazzi sulla Spiaggia, dai Musicisti ai Circensi - fanno eco a quanto realizzarono quegli artisti espressionisti politicamente schierati e che protestano contro le catastrofi originate dai Regimi totalitari, tra cui James Ensor, Pablo Picasso ed Emil Nolde.
In Italia tale atteggiamento di sovversione rispetto all'indirizzo culturale stabilito dal regime è rintracciabile solo nella produzione della Scuola Romana di via Cavour, gruppo nato nel 1927 grazie all'incontro di Mario Mafai, Antonietta Raphaël e Gino Bonichi, detto Scipione, schieratosi apertamente contro il gruppo Novecento, e concentrato in modo particolare sulla rappresentazione dei desolati esterni romani, proprio nel momento in cui era in atto il piano regolatore fascista interessato alla demolizione di antiche porzioni cittadine in un'ottica di riqualificazione.
Sassu diede la più grande dimostrazione di impegno politico mantendendo sempre una ferrea posizione antifascista. Nel 1934, il ritrovamento di un vecchio amico, Raffaellino De Grade, vicino ad esso sul piano ideologico, gli diede la possibilità di frequentare una rete di giovani dediti all'attivismo politico e informati sugli eventi internazionali.
L'istanza politica venne esplicitamente espressa per la prima volta nell'opera Fucilazione nelle Asturie, realizzata nel 1934, riferimento alla Rivoluzione delle Asturie, manifesto di opposizione al regime dittatoriale e frutto dello sdegno provato da parte dell'artista nei confronti delle vicende che porteranno alla Guerra Civile Spagnola.
L'opera, caratterizzata da un massiccio approccio materico e da una pennellata espressionista, crea un'atmosfera che, soprattutto nella scelta del tema, fa eco al dipinto 3 Maggio 1808 realizzato nel 1814 da Francisco Goya, raffigurante la resistenza delle truppe madrilene dinanzi agli invasori francesi durante la Guerra d'Indipendenza Spagnola.
Tuttavia, nuovi ostacoli non tardorno ad arrivare nella vita di Sassu che, dopo aver preso parte ad un'organizzazione antifascista e aver realizzato un volantino con moti insurrezionali, venne arrestato e condannato a dieci anni di reclusione, che fortunatamente non scontò mai perchè, nel 1938, ricevette la grazia del re, diventando un sorvegliato politico.
Ciò nonostante, la produzione di opere politiche continuò anche dopo la condanna, tra queste molto significativa è I martiri di Piazzale Loreto, esposta nel 1954 alla Biennale di Venezia e comprata da Giulio Carlo Argan per la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma. In quest’opera Sassu raffigura un evento a cui aveva preso parte in prima persona, ovvero l'uccisione di quattordici partigiani ad opera di un reparto della Repubblica Sociale. L’artista riporta sulla tela i numerosi corpi ammassati senza vita, con i volti emaciati e con un utilizzo ridondante del rosso ad evocare lo spargimento di sangue. La sua condizione di sorvegliato rese sconveniente l'esposizione di opere in contesti politicamente connotati, infatti, nonostante fosse un componente attivo del gruppo Corrente non partecipò mai alle loro mostre. Corrente era all’epoca il più importante gruppo di intellettuali schierati contro il regime fascista, ne faceva parte anche Ernesto Treccani che spinse per la creazione di un periodico il quale però ebbe vita breve; già nel 1940 Mussolini ne sospese le uscite poiché troppo sovversivo.
La pittura murale come pittura sociale
Nel 1939, poco dopo il suo arresto, Aligi Sassu realizzò il suo primo affresco, chiamato Diana e Callisto, in cui la scena mitica allude metaforicamente alla necessità umana di libertà, intesa ovviamente anche in senso civile.
Nel 1950, invece, iniziò a dedicarsi alla pittura murale, proprio nel momento in cui il Fascismo ne faceva uso a fini propagandistici, si pensi all'opera di Mario Sironi, anch'esso componente del gruppo Novecento, e al Manifesto della Pittura Murale, da lui redatto nei primi anni Trenta.
La Miniera, realizzata senza disegni preparatori nella foresteria della miniera metallifera di Monteponi, situata ad Iglesias, una delle più note e caratteristiche dell'Isola, fu solo la prima di una serie di opere di pittura murale che l'artista realizzò nei più diversi luoghi e con i più svariati stili e tecniche. Molti di questi lavori furono realizzati proprio in Sardegna. in La Miniera, l'artista, cosmopolita e ormai quasi quarantenne, riflette sulla fatica del minatore che rappresenta infatti con una muscolatura plastica e particolarmente enfatizzata e completamente dedito al conseguimento del proprio lavoro. La risolutezza del minatore si riflette anche nei paesaggi di Nebida e Fontanamare.
Nel 1962, Sassu fece invece tappa a Thiesi, paese natale della sua famiglia, situato a 40 km da Sassari. Lo stesso anno venne approvato dal Parlamento Italiano il Piano di Rinascita - che intendeva applicare delle speciali misure volte alla modernizzazione dell'isola - e Sassu contestualmente realizzò, in un'area denominata successivamente ''Sala Aligi Sassu”, una personificazione della Sardegna con trachite rosa e pietra vulcanica. Quest'ultima è sì distesa, ma il suo corpo è in tensione e prova ad alzarsi, a rinascere.
A coronamento di tale immagine metaforica, nella fascia superiore della parete, venne illustrata una vicenda fondamentale per la storia dell'isola: i moti angioini, ossia i moti insurrezionali guidati dal professore di diritto, nonchè giacobino, Giovanni Maria Angioj, portati avanti nell'ultimo decennio del XVIII secolo e che culminarono, il 28 aprile 1974, nella cacciata dei piemontesi e del Vicerè Balbiano, dopo che questi ultimi rifiutarono la richiesta del popolo sardo di maggiore autonomia politica, nonché quella di ottenere maggiore possibilità d'impiego civile e militare. La giornata del 28 Aprile è stata successivamente istituzionalizzata come festa e viene chiamata Sa die de sa Sardigna, ossia La giornata della Sardegna.
Le battaglie
La grande curiosità nutrita nei confronti della storia dell'arte e dell'uomo è la causa del dialogo ininterrotto che Sassu instaurò con i modelli del passato, mai riprodotti acriticamente, ma sempre risemantizzati e strumentalizzati per la narrazione della contemporaneità, seppure in chiave simbolica.
Ciò è stato reso manifesto nelle opere in cui si dedicò alla tematica mitica e ai suoi celebri personaggi - si pensi agli Argonauti, portatori delle passioni umane - ma anche nello sguardo alla pittura Romantica e Rinascimentale.
Negli anni Trenta Sassu ebbe modo di conoscere alcuni affreschi dipinti da Masolino da Panicale a Castiglione Olona, nel Varese, gli affreschi di Beato Angelico realizzati per il Convento di San Marco a Firenze e, sopratutto, un'opera che lo colpì particolarmente: La Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, situata presso la Galleria degli Uffizi di Firenze.
Tale incontro assume ancora più valore se lo si legge in relazione a quelli avvenuti successivamente con altri due grandi maestri della storia dell'arte, Thèodore Gericault - di cui studiò, al Louvre, La zattera della Medusa e i quadri di cavalli e battaglie - ed Eugène Delacroix - padre del Romanticismo Francese, del quale apprezzò la complessità della rappresentazione e la volontà di raccontare la lotta che l'uomo si trova a dover ingaggiare costantemente per la costruzione della propria identità.
E' nelle numerose battaglie - probabilmente la serie di opere in cui Sassu affronta la tematica della conflittualità e delle passioni umane più direttamente - che si può notare in maniera evidente l'attenzione plastica che caratterizza la sua pittura, nonchè un preludio della sua attività scultorea. Sempre nello stesso contesto, traspare l'approfondito studio della forma equina, uno dei tratti distintivi del pittore, che infatti realizzò numerose serie di cavalli per mezzo di tecniche differenti.
Ceramica e scultura
Albisola, comune in provincia di Savona, è un luogo in cui gli artisti da anni si cimentano con la scultura della ceramica vi si recarono alcuni dei più importanti esponenti del Secondo Futurismo, nonché altri artisti celebri tra cui Lucio Fontana. Sassu vi lavorò per un periodo tentando anche di ad aprire un proprio studio in Val Ganna e qui dipinse le Cronache di Albisola. Si trattava di un’opera a parete purtroppo ormai dispersa che tentava di rendere il variopinto universo di personalità che si trovava nella patria della ceramica d'avanguardia.
Nel 1939 realizzò la sua prima ceramica, un Ciclista, rimanendo fedele ai temi della pittura, infatti, poco dopo fu il momento dei cavalli. Questo sviluppo tematico, come spesso accade nella produzione di Sassu, è portato avanti nei più svariati modi: i cavalli sono impennati, innamorati, marini, sono decorazioni su oggetti oppure delle statuette di ceramica a tutto tondo. L'apice della ricerca fu raggiunto con la realizzazione delle sculture di grandi dimensioni, come il Grande cavallo rampante, realizzato in bronzo nel 1960 e svettante davanti alla Pinacoteca di Brera.
Il sacro
Considerando la varietà di temi affrontati da Sassu, non poteva mancare quello sacro, le prime opere in cui viene trattato in maniera esplicita sono del 1932, affrontato all'insegna del modernismo e spesso usato come strumento di critica della condotta ecclesiastica.
I corpi bitorzoluti e sempre plastici di opere come le Crocifissioni e le Deposizioni sono icone della sofferenza umana, mentre le versioni dei Concili - dove i conciliaboli sono rappresentati con espressioni grottesche e attorniati da oro e porpora, colori usati spesso in modo ridondante come a voler simboleggiare l'eccessiva opulenza - sono un'evidente accusa rivolta al carattere troppo ''terreno'' della Chiesa.
Un'esemplare di arte sacra, nonchè una delle più importanti opere a mosaico dell'artista, è stata da lui realizzata nel 1966 nelle pareti dell'abside e delle navate della Chiesa di Nostra Signora del Carmine a Cagliari, distrutta dai bombardamenti aerei del 1943 e ricostruita successivamente. In queste grandi opere Sassu raxxonta la storia della Madonna del Carmine e della costituzione dell'ordine carmelitano.
Il 17 luglio del 2000 Aligi Sassu si spense a Pollença, comune di Maiorca, luogo in cui viveva con il soprano Helenita Olivares, sua seconda moglie. Le sue ceneri vennero sparse nella zona di Capo Caccia, mare algherese, come lui stesso aveva prescritto.
Bibliografia
Simona Campus, Aligi Sassu, Ilisso, Nuoro, 2005
Sitografia
https://www.sardegnaturismo.it/de/entdecken/thiesi, ultima consultazione 31\08\2022
https://www.sardegnacultura.it/j/v/253?s=35897&v=2&c=2487&c1=&visb=&t=1, ultima consultazione 31\08\2022
IL POZZO DI SANTA CRISTINA
A cura di Ludovica Diana
Il complesso archeologico di Santa Cristina
L'area archeologica di Santa Cristina, situata a 4 km da Paulilatino, nell'altopiano basaltico di Abbasanta in provincia di Oristano, è da secoli meta e punto di interesse per viaggiatori, archeologi e turisti affascinati dalla sua storia - ricostruibile, in parte, attraverso i resti delle diverse epoche storiche che la attraversarono - ma, soprattutto, dal celebre tempio a pozzo, uno dei più noti dell'intera isola.
Nel settore sud-occidentale, probabilmente durante il Bronzo Medio (1500-1200 a.C), venne realizzato un nuraghe monotorre caratterizzato da pianta circolare, da un'altezza residua di 6,50 metri, un diametro di 13 metri, una camera a tholos e da un aspetto generale connotato da scarso rigore costruttivo, specialmente se paragonato a quello del pozzo realizzato successivamente.
Nella medesima area sono osservabili i resti di abitazioni appartenenti a differenti epoche storiche e delle capanne allungate il cui aspetto ricorda quello delle tombe dei giganti, ma la cui datazione e ruolo non sono stati stabiliti, anche se si può affermare che non appartengano ad epoca nuragica ma ad epoche più recenti, considerando gli oggetti di età romana trovati in una di esse durante gli scavi.
Sempre nello stesso settore, a 200 metri di distanza e probabilmente a scapito di elementi di età nuragica, venne realizzato un villaggio cristiano nel quale spicca una chiesetta campestre risalente agli inizi del XIII secolo e attribuita ai monaci Camaldolesi. L’aspetto della chiesa è mutato nel tempo in seguito ad una serie di ristrutturazioni che hanno reso visibili i muri perimetrali e hanno riportato alla luce dei resti della civiltà nuragica tra cui i conci di pietra basaltica prelevati dal pozzo. Sono inoltre visibili trentasei casette tipiche delle zone campestri chiamate, a seconda del luogo, cumbessias o muristeneses, occupate durante la novena, tradizione tuttora portati avanti nella seconda domenica di maggio.
Invece, probabilmente durante l'anno 1000 a.C, nel settore nord-orientale venne eretto il pozzo sacro; durante la prima parte degli scavi la struttura apparve immediatamente molto singolare e a causa della perdita di alcune parti architettoniche non fu di facile lettura e rimane tuttora fonte di dibattito tra gli studiosi.
Memorie e scavi
A partire dal XIX secolo, fascicoli e documenti redatti da viaggiatori e studiosi iniziarono a manifestare la conoscenza dell'area ancora ricoperta di macerie, infatti, una delle prime testimonianze al riguardo fu di Alberto La Marmora, generale e politico formatosi in ambito scientifico e naturalistico che, nel suo Voyage en Sardaigne - che uscì prima nel 1826 e poi con una seconda edizione nel 1840 - mettendo a confronto il nuraghe di Funtana Padenti di Baccai (Lanusei) con il pozzo di Santa Cristina, definì il primo assai lontano dalla raffinatezza e maestosità del secondo, caratterizzato da aspetto ''imbutiforme''.
Vittorio Angius, sacerdote e intellettuale, a partire dal 1830 circa, si occupò della scrittura delle voci relative alla Sardegna per il dizionario di Goffredo Casalis - che avrebbe dovuto avere il ruolo di mappare e descrivere tutti i territori dello stato sabaudo - e, tra queste, ci fu quella di ''Paulilatino''. Le informazioni riportate, decisamente sommarie, non furono tanto diverse dal resoconto di La Marmora e, in generale, misero in risalto lo stupore che la struttura doveva suscitare negli osservatori, ma anche una certa confusione rispetto a quella che sarebbe dovuta essere la sua funzione.
Fu Giovanni Spano - uno dei più grandi studiosi di archeologia e storia della Sardegna - il pioniere dello studio vero e proprio del monumento, anche se non riuscì a stabilirne la funzione corretta. Nel 1857 realizzò una descrizione della costruzione più accurata per il Bullettino Archeologico Sardo - dotata anche del rilevamento grafico di Vincenzo Crespi -, definendola probabilmente più antica dei nuraghi, piuttosto riconducibile agli antichi egizi o alle popolazioni di origine orientale che si stanziarono nel territorio. Venne ancora una volta elogiata la grande razionalità e raffinatezza con cui erano stati disposti e levigati i massi di basalto, mentre, la struttura sotterranea e la presenza di un foro posto nella sommità della copertura a tholos, gli fecero credere che ci fosse un'affinità con i carceri romani.
A cosa servisse effettivamente la struttura venne scoperto successivamente da uno dei più importanti archeologi del primo Novecento, Antonio Taramelli che, confrontando Santa Cristina con gli scavi di Santa Vittoria di Serri, stabilì - anche grazie al confronto con Raffaele Pettazzoni, grande studioso di storia delle religioni- un'analoga funzione basata sul culto delle acque, aprendo in Sardegna una stagione di forte interesse nei confronti dei rituali religiosi.
Furono numerosi gli edifici dedicati al culto dell'acqua ritrovati in Sardegna, si trattò probabilmente di un tentativo da parte della popolazione nuragica di instaurare un dialogo con le divinità per ottenere il soddisfacimento di bisogni fondamentali per la sopravvivenza, a partire dall' approvvigionamento idrico, considerando che l'economia era in alcune zone fondata interamente sull'agricoltura.
L'archeologo che più di tutti si dedicò alle operazioni di scavo e restauro, in parte tutt'ora attive e volte alla tutela e valorizzazione del complesso fu Enrico Atzeni che vi lavorò dal 1967 al 1973 e successivamente dal 1977 al 1983. Atzeri cominciò lavorando nel ruolo di assistente di Giovanni Lilliu, intellettuale e archeologo di fama internazionale, noto soprattutto per i suoi studi sulla civiltà nuragica.
Il Pozzo e il settore nord-est
Il pozzo, incorniciato dal recinto sacro che ricorda il themenos greco e che gli conferisce la caratteristica forma di serratura, possiede elementi analoghi a quelli degli altri edifici templari trovati nel territorio. Vi si trova un vestibolo o atrio, dove venivano posizionate le offerte votive, un vano scala trapezoidale, che con i suoi 25 gradini di pietra basaltica svolge un'importante funzione estetica ma doveva essere utile anche per riuscire ad arrivare all'acqua che durante i periodi di siccità raggiungeva un livello molto basso. per far fronte a questo problema, durante gli scavi, venne realizzato un canale di scolo che rendesse stabile a 50 cm il livello dell’acqua, così da rendere visitabile il complesso tutto l'anno. Infine troviamo all’interno del pozzo la camera ipogeica con copertura a tholos, caratterizzata da un'opera muraria di tipo isodomo, tipica dell' Età del Bronzo Recente e costituita anch'essa da file di blocchi di pietra basaltica disposti a semicerchio.
Le feste religiose all’interno di questo ambiente dovevano rappresentare un momento cruciale per i vari cantoni della zona; era infatti un’occasione non soltanto per pregare le divinità o ringraziarle attraverso offerte e riti ma anche per stringere accordi di carattere politico e commerciale.
Sono infatti state ritrovate vicino al pozzo alcune logge, forse usate per attività mercantili, una capanna di grandi dimensioni, a pianta circolare, e dotata di sedili che hanno fatto ipotizzare che potesse essere destinata ad incontri di carattere politico, un vano curvilineo di minori dimensioni e un recinto che potrebbe aver avuto il ruolo di contenere al suo interno animali, forse potenziali vittime sacrificali offerte in dono alle divinità.
Tra gli elementi di epoca nuragica rinvenuti in loco uno degli oggetti forse più significativi è la navicella votiva in bronzo con forma di testa taurina, tra le più grandi trovate nell'isola. Furono rinvenuti anche svariati reperti di epoche più tarde, come i gioielli e le statue in bronzo di origine fenicia, chiara dimostrazione di un utilizzo dell’edificio prolungato nel tempo.
Altro fattore che denota la particolarità del monumento è quanto accade durante gli equinozi di primavera e autunno, quando la luce del sole, entrando perfettamente nel vano scala, genera un particolare fenomeno: si ha la possibilità di osservare la propria ombra due volte, nell'acqua e nella parete del pozzo. Invece, durante il Lunistizio Maggiore - che si verifica ogni 18,6 anni - la luce della luna, passando per il foro presente nella copertura a tholos, si specchia nell'acqua.
Ciò denota la grandissima conoscenza astronomica di quelli che furono i costruttori e ha spinto studiosi provenienti da svariati ambiti disciplinari e da diversi paesi ad ipotizzare che si trattasse di un osservatorio.
L'Antropologo e studioso di archeoastronomia polacco Arnold Labeuf, nel suo Il pozzo di Santa Cristina. Un osservatorio lunare, ha affermato:
''Il pozzo di Santa Cristina potrebbe costituire uno strumento scientifico per misurare le altezze della Luna nel suo passaggio al meridiano. I bordi dei filari di pietre disposti così regolarmente potrebbero esser serviti come sistema di misura graduato per registrare l’altezza dell’astro, dunque le posizioni della Luna nel lunistizio e quindi dedurre la posizione dei nodi dell’orbita lunare. Questo monumento sarebbe stato costruito come osservatorio per controllare i cicli draconici e prevedere le eclissi.''[1]
Queste teorie sono però state messa in dubbio dagli archeologi sardi che hanno sollevato il problema della mancanza della struttura in elevato, presente invece in tali tipologie templari, come quella a doppio spiovente del pozzo sacro Su Tempiesu di Orune. Di fatto dunque il dibattito intorno al monumento appare ancora assolutamente attivo.
Note
[1] A. Lebeuf, Il pozzo di Santa Cristina,un osservatorio lunare, p.13.
Bibliografia
Alberto Moravetti, Il Santuario nuragico di Santa Cristina, Guide e Itinerari, Sardegna archeologica, Carlo Delfino Editore, 2003
Arnold Lebeuf, Il pozzo di Santa Cristina,un osservatorio lunare,Tilan Taplan, Cracovia, 2011
Corpora delle attività della Sardegna, Vol. 1, La Sardegna nuragica,storia e materiali, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2014
Sitografia
https://www.pozzosantacristina.com/, consultato il 15/06/2022
https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/santuario-di-santa-cristina, consultato il 20/06/2022
FOISO FOIS
A cura di Ludovica Diana
L'infanzia, la famiglia e la militanza
Foiso Fois nacque ad Iglesias, in Sardegna, nel 1916, figlio di Salvatore - ingegnere minerario, nonché presidente della miniera di San Giovanni - e di Maria San Filippo, figlia di un nobile siciliano, archeologo e membro attivo della massoneria.
Il soggiorno fiorentino dei primi anni Venti fu solo l'inizio di una serie di spostamenti che caratterizzarono la vita di Salvatore e dell'intero nucleo familiare. Tali spostamenti furono sì determinati da questioni lavorative, ma anche di carattere spiccatamente politico. Infatti, fu all'interno della famiglia che il giovane Foiso potè respirare le istanze socialiste e antifasciste sostenute dal padre, il quale fu vicino alle posizioni di Giuseppe Cavallera, importante esponente del socialismo torinese, che alla fine del XIX secolo assunse il controllo della sezione cagliaritana ancora in fase di sviluppo, per poi portare avanti un' attività di propaganda anche sul piano regionale.
Passato il periodo che lo vide consulente per le miniere del Monte Amiata in qualità di ingegnere minerario e dopo aver destato sospetti agli occhi delle milizie fasciste toscane, Salvatore fu costretto, nel 1923, a spostarsi nuovamente in Sardegna. Tornato nel suo paese natale Foiso otterrà, nel 1938, il diploma di perito agrario ma appena un anno più tardi deciderà di lasciare l'Isola per iscriversi alla facoltà di Economia e Commercio di Genova. Qua però non rimase a lungo, a causa dei bombardamenti che colpirono il polo universitario, fu costretto ancora una volta a trasferirsi spostandosi prima a Firenze e poi in provincia di Biella, presso l'abitazione della moglie del fratello il quale era stato deportato in Polonia.
Durante il soggiorno biellese non mancarono le novità, infatti Fois prese parte alle Brigate Partigiane nel ruolo di staffetta, per poi essere rapito dai nazisti 1944 e successivamente scambiato con un generale tedesco tenuto come ostaggio dai partigiani. In quegli anni inaugurò anche la prima mostra personale presso la galleria Leonardo da Vinci, organizzata da don Luigi Vernetti. In questa occasione vennero esposti alcuni acquerelli di paesaggi; fu sicuramente un momento importante per lo sviluppo artistico di Fois, don Vernetti gli offrì infatti la possibilità di dimostrare le sue qualità artistiche di autodidatta e di proporre opere che cominciavano a staccarsi in maniera importante dal panorama artistico sardo. Fois cominciò dunque ad elaborare una personale cifra stilistica e in breve tempo venne notato dal mondo accademico. Mancandogli però una solida base tecnica decise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Torino, in cui si diplomò nel 1947.
Tuttavia, le opere del primo periodo sono una rarità e Salvatore Naitza, storico dell'arte e curatore del più completo volume monografico sull'artista, ha ipotizzato che ciò possa essere in parte determinato da una personalità ipercritica, non intenzionata a tutelarne il ricordo.[1]
Neorealismo pittorico e istanza sociale
Fois ebbe modo di conoscere gli avvenimenti legati al Fronte Nuovo delle Arti, fondato nel 1946 e basato su istanze di rinnovamento culturale e di giustizia sociale dopo anni di regime fascista, analogamente a quanto si verificò in ambito cinematografico a partire da registi come Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, e così via. Probabilmente fu proprio presso la prima mostra del Fronte, organizzata nel 1947 a Milano, che potè conoscere l'opera di artisti come Renato Guttuso, da cui tuttavia si differenziò, - come accadde anche con altri artisti sardi a lui contemporanei, per esempio Mauro Manca, Libero Meledina e Costantino Spada, affascinati dagli stilemi dell'ultimo cubismo -, nonostante condividesse con essi l'urgenza di una rivoluzione culturale e l'impegno sul piano politico portato avanti attraverso la militanza socialista.
Nella mostra che venne allestita nel 1949 presso la Galleria Della Maria a Cagliari, la cifra stilistica manifestatasi ancora timidamente durante il periodo biellese trovò maturazione, costituendo una vera e propria transizione stilistica.
Qui l'artista, che fin da subito si era distaccato dalla rappresentazione folkloristica del territorio portata avanti dagli artisti attivi precedentemente nel panorama isolano, - si pensi ad alcuni tra i più noti come Giuseppe Biasi, Mario Delitala, Francesco Ciusa, e così via -, fece scelte interpretate dal dibattito regionale come a dir poco distruttive. Il nuovo stile, che fa cenno all'espressionismo storico, - nella pennellata libera e scompaginata, nell'uso dei colori e nei riferimenti che appaiono variegati: dai Fauves alla Die Brücke, da Cézanne alla serie di girasoli, di chiara ispirazione vangoghiana -, è usato nelle opere di questo periodo per rappresentare scene di carattere intimo, per esempio i noti ritratti di amici e persone care.
Una di queste, il Ritratto di Raffaello Delogu, storico e critico d'arte, è parte della collezione Piloni, visibile a Cagliari presso Palazzo Belgrao, ossia il Palazzo dell'Università, sede degli uffici del rettorato dell'Ateneo.
Tuttavia, questo non fu un punto d'arrivo, infatti, una volta allontanatosi dall'atteggiamento provocatorio delle avanguardie, Fois elaborò uno stile che rimase espressionista, soprattutto nella scelta cromatica, ma caratterizzato da maggiore solidità strutturale e da una pennellata più ponderata, infatti, come affermato da Gianni Murtas, storico dell'arte specializzato nello studio delle correnti artistiche del Novecento:«[...]È negli anni Cinquanta, però, che l'artista definisce le peculiarità del suo stile più autonomo, sviluppando in senso neorealista le premesse espressioniste. Tanto nei ritratti quanto nei grandi quadri dedicati al mondo del lavoro, la costruzione pittorica si semplifica, strutturandosi in campiture nette risolte prevalentemente sul piano, come un mosaico composto da tasselli di pigmento incastrati fra loro. L'uso di tonalità pure determina passaggi cromatici squillanti, appena addolciti da sintetiche variazioni chiaroscurali.»[2]
La scena intima non bastò più per esprimere temi di portata universale, come l'urgenza di giustizia sociale, e i soggetti prediletti divennero i lavoratori, immersi nelle loro attività e raccontati in chiave epica ma senza cedere a quella che Murtas, definisce ''retorica della fatica'', spesso usata dalle generazioni precedenti per descrivere il popolo sardo.
Tra le opere più note troviamo La Mattanza, il cui titolo fu scelto per indicare l'ultima fase della pesca del tonno, chiamata anche ''stanza della morte'' e la cui iconografia presenta degli arpioni stagliarsi nella composizione come delle lance, gli Scaricatori di porto, Il Mattatoio, i Pescatori, I Disoccupati, Colata di cemento, sono solo alcuni dei titoli rappresentativi della produzione neorealista degli anni 50.
Le speranze nutrite nei confronti del Piano di Rinascita, in un momento in cui il territorio sardo fu toccato da crisi su più fronti, si pensi solo all’importante fenomeno di emigrazione, si riversarono nell'opera chiamata La Sardegna verso l'autonomia, pensata come trittico, ma di cui furono realizzate solo due parti: L' Eleonora d'Arborea e La rivoluzione di Giovanni Maria Angioj, datate tra il 1957 e il 1958 e situate presso la Presidenza della Regione Sardegna.
In tali opere venne espressa in modo particolare la conoscenza dei fatti storici, la cui narrazione fu per l'artista indicatore di oggettività e realismo, nonchè espressione di una passione da lui sempre nutrita e manifestata anche con la notevole produzione letteraria relativa all'architettura religiosa e civile dell'Isola. In generale, attraverso esse avrebbe dovuto tracciare una sorta di percorso storico che, a partire dall'epoca giudicale fino ai moti rivoluzionari in cui fu coinvolto Angioj, si dirigesse verso la contemporaneità.
Nell'Eleonora d'Arborea, vennero inseriti elementi che evocano differenti momenti storici: la protagonista (il cui volto è quello della moglie dell'artista, Carla Ravetti, sposata nel 1946), giudicessa d'Arborea, fu rappresentata nei panni di Giovanna d'Arco a simboleggiare la difesa del popolo sardo, mentre sul piano compositivo e stilistico sono presenti evidenti riferimenti al rinascimento, per esempio a Paolo Uccello e Piero della Francesca.
L'avvento dell'arte informale e l'ultima produzione di Fois
Negli anni Sessanta, quando in Italia e in Sardegna approdarono le neoavanguardie, nuove generazioni di artisti si dimostrarono interessati al rinnovamento del panorama artistico isolano, e lo fecero con la totale distruzione della forma, ossia aderendo al linguaggio informale, ormai da tempo affermatosi nel resto del mondo.
Fois non fu del tutto immune a tali cambiamenti, - nonostante da sempre avesse manifestato una vena critica nei confronti dell'arte che non si fosse prefissata di raccontare la realtà - , probabilmente in virtù della sua attività di docenza, alquanto sentita e portata avanti presso il Liceo Artistico privato di Cagliari, di cui divenne direttore nel 1960 e che prese il suo nome nel 2006. Vere a che fare continuamente con le nuove generazioni fu sicuramente molto importante per lo sviluppo del suo pensiero artistico.
L'equilibrio formale degli anni Cinquanta finì per rompersi lasciando spesso affiorare con aggressività l'espressionismo che aveva caratterizzato la prima parte di carriera. Infatti, Il ciclo di opere Storia di Sardegna, realizzato nel 1971 e che fa cenno al trittico La Sardegna verso l'autonomia, ha una resa pittorica quasi astratta. Tuttavia, è proprio con tale opera che Fois mise un punto alla produzione neorealista inaugurando gli anni Settanta con uno slittamento di attenzione dalle folle di lavoratori ad una scena più intima. Per Fois l’epica esaltazione del lavoro ha ormai perso il suo potenziale comunicativo e preferisce dedicarsi a soggetti più toccanti a livello sentimentale. Cominciò a prediligere temi legati alla natura proponendo numerose scene che videro la presenza di vegetazione tipica del territorio, come le agavi, le canne, le sterlitzie, ma non mancarono anche nuove serie di girasoli, già presenti nel primo periodo espressionista.
La produzione di questo periodo, assai variegata nella scelta dei temi e nello stile utilizzato, parve alla critica aver assunto intenzioni meno ambiziose, forse anche perché le neoavanguardie stavano rubando la scena artistica. Avendo infatti creato un legame saldo anche con l'area politica progressista, in breve tempo le neoavanguardie fecero cadere Fois in una condizione di disillusione, almeno relativamente alla possibilità di portare avanti una produzione politicamente impegnata. Ciò non gli impedì di realizzare una delle opere più ambiziose dell'intero corpus, ossia il Cristo doloroso o L'uomo, situata nella Chiesa cagliaritana intitolata a San Pio X e dipinta a partire dall'agosto del 1977.
Usata come pala d'altare, l'immagine che si può osservare non appena si accede alla chiesa è un Cristo quanto più possibile umano, iconograficamente assai distante da qualsiasi altro genere di modello perché reso con un linguaggio di matrice espressionista, qui portato all'estremo, privo di croce e palpitante, che fluttua e simboleggia con grande drammaticità la sofferenza umana.
Con la preparazione di una mostra sugli anni Ottanta ancora in corso, - che gli avrebbe permesso di dare una continuità alla produzione assai variegata di questo periodo -, il 21 febbraio 1984 Foiso Fois si spense dopo essersi sottoposto ad un debilitante intervento chirurgico.
Le foto sono state scattate dalla redattrice
Bibliografia
Salvatore Naitza, Foiso Fois, Illisso, Nuoro, 1989
Gianni Murtas, Foiso Fois, Ilisso, Nuoro, 2005