LE PALE D’ALTARE DELLA CHIESA DELL’INVIOLATA DI RIVA DEL GARDA

A cura di Beatrice Rosa

Introduzione

La chiesa dell’Inviolata non è conosciuta solo per essere il principale edificio liturgico di Riva del Garda, ma anche per le pale d’altare che decorano i suoi quattro altari: tre di Palma il Giovane e una di un seguace di Guido Reni.

Palma il Giovane

«Il Palma ha procurato nel disegno d’accostarsi al Tintoretto, e nel colorito a Tiziano: e veramente ha formati i suoi nudi stringati, svelti, e di vivaci atteggiamenti, e nel suo colorito è stato pastoso, morbido, tenero, e di carne. Ha poi faldeggiati i suoi panni dietro all’ignudo con bellissime piegature, ma più massicci che sottili. Egli ha havuta maniera forte e gagliarda, e l’opere sue si fanno benissimo vedere in ogni gran lontananza»[i]. – Marco Boschini

Con le parole di Marco Boschini (Le ricche minere della pittura veneziana, 1674), introduciamo la figura di Jacopo Negretti, conosciuto come Palma il Giovane, il più dotato tra gli artisti sulla scena veneziana tra Cinquecento e Seicento. Un pittore di grande talento, così prolifico da far scrivere sempre a Marco Boschini: “la padronia del suo pennello ne ha partorito un numero così grande (di opere) che è parer comune che ve ne siano per tutto il mondo e si ritiene che egli, Tintoretto e Paolo Veronese abbiano più soli dipinto che tutti gli altri pittori insieme”[ii].

Un altro scrittore che insiste molto sulla prolificità di Palma è Carlo Ridolfi il quale, ne Le meraviglie dell’arte: ovvero le vite degli illustri pittori veneti e dello Stato (1648), racconta che egli era così concentrato sul suo lavoro e sulla sua arte che anche nel giorno del funerale di sua moglie, anziché recarsi al cimitero dopo il funerale, tornò a casa a dipingere[iii].

Jacopo Negretti è una figura molto interessante anche dal punto di vista della formazione; contrariamente alla consuetudine veneziana di iniziare la propria carriera presso botteghe a conduzione famigliare o di grandi artisti, Palma il Giovane, nonostante fosse pronipote di Palma il Vecchio, non imparò dal prozio ma ebbe un percorso formativo atipico. Probabilmente apprese i rudimenti della pittura dal padre Antonio Negretti, un artista non importante, ma la svolta della sua carriera avvenne nel 1564, quando il duca di Urbino Guidobaldo II della Rovere, in visita a Venezia, notò il giovane Palma e lo invitò a seguirlo a corte, proponendogli poi tre anni dopo di recarsi a Roma per migliorare la sua arte. Jacopo rimase nella capitale per otto anni, ebbe l’opportunità di studiare l’antico e soprattutto Michelangelo; ritornò in patria solamente alla metà degli anni Settanta e lì collaborò con l’anziano Tiziano alla conclusione della Pietà[iv].

Questo era solo l’inizio di una carriera ricchissima e di una fama che lo portò anche in Trentino: fu grazie al principe Carlo Gaudenzio Madruzzo che le tre pale del veneziano arrivarono nella chiesa dell’Inviolata nel 1615[v].

Entrando dalla porta principale, il primo altare sulla destra reca la prima delle tre opere firmate da Palma il Giovane: il Sant’Onofrio (figg. 1 e 5). La presenza di un’opera raffigurante questo santo eremita in Trentino è cosa rara ed è comprensibile solamente se si considera il ruolo svolto dal committente Carlo Gaudenzio Madruzzo: egli, nel corso degli anni Dieci del Seicento, aveva infatti promosso l’edificazione di una cappella di famiglia nella chiesa romana di S. Onofrio al Gianicolo, retta dall’Ordine dei Girolamini[vi].

Nel dipinto, un tipico soggetto controriformato, Onofrio si presenta maestoso, con lunghi capelli e barba bianchi, inginocchiato con le mani in preghiera e lo sguardo rivolto verso l’alto.  Palma lo raffigura in una posa poco naturalistica, con una torsione del corpo che è prettamente di gusto manierista. L’opera è caratterizzata da tonalità grigio-verdi, ravvivate poi dal blu lapislazzuli del cielo sullo sfondo e del perizoma che copre le nudità del santo. Sulla sinistra è presente una palma, allusione all’oasi nella quale il santo trascorse la sua esistenza da eremita; sulla destra invece, appoggiati ad un muretto, un rosario e un bastone[vii].

Nell’altare vicino, proseguendo verso quello principale, troviamo un’altra figura di santo penitente: San Girolamo (figg. 2 e 6). La scelta del soggetto di questo dipinto è dovuta al fatto che la chiesa e il convento dell’Inviolata erano amministrate dall’Ordine dei Girolamini dal 1613, per volontà del Principe Vescovo. Come nell’opera precedentemente descritta, abbiamo il santo al centro del dipinto: in questo caso, però, l’anatomia del corpo è più naturalistica e la posa non più manieristica. Palma, anche con quest’opera, voleva stimolare la devozione nel fedele: lo si vede dallo sguardo del santo rivolto verso il crocifisso messo in prospettiva e dal raggio di luce che gli illumina la fronte. Girolamo è inginocchiato: mentre con una mano regge una pietra, suo attributo iconografico, con l’altra tiene aperto un libro. Anche questo dipinto è giocato su tonalità marroni-verdi, ma torna nel cielo il meraviglioso blu oltremare che caratterizza le tre pale di Palma all’Inviolata[viii].

La terza e ultima pala del pittore veneziano si trova sul secondo altare a sinistra e raffigura l’Estasi di San Carlo Borromeo (figg. 3 e 7). La scelta di questo soggetto è dovuta probabilmente sia alla diffusione del culto borromaico, tipica di un contesto come quello del principato vescovile di Trento, nel quale protagonista assoluto fu Carlo Gaudenzio Madruzzo, sia alla grande devozione al santo di Alfonsina Gonzaga, che del Madruzzo era moglie. Carlo Borromeo è ritratto in abiti cardinalizi, inginocchiato con le mani sul petto davanti ad un altare con un crocifisso e un’immagine della Madonna con Bambino. La figura del santo risalta sullo sfondo scuro; ce lo potremmo immaginare in preghiera in una stanza buia quando all’improvviso in alto a destra si apre un cielo luminoso dal quale piovono due splendidi angeli con in mano la mitria e il pastorale[ix].

Crocifisso con la Maddalena

A completare la quadriade delle pale d’altare un Crocifisso con la Maddalena (figg. 4 e 8), opera diversa e successiva rispetto a quelle precedentemente descritte. Non è chiaro il motivo per cui il Principe Vescovo commissionò a Palma tre pale d’altare anziché quattro; ciò che è interessante è che quest’ultima opera fu probabilmente commissionata da Alfonsina Gonzaga[x]. Nel 1618, durante un viaggio con il marito Giannangelo, Alfonsina ebbe modo di ammirare presso i Cappuccini del Monte Calvario di Bologna, il Crocifisso di Guido Reni, oggi conservato presso la Pinacoteca Nazionale. La donna probabilmente rimase colpita da questo dipinto, tanto che al suo ritorno, dopo che il marito l’11 dicembre 1618 le lasciò il denaro necessario per completare ciò che era rimasto incompiuto all’Inviolata, decise di commissionare una derivazione del dipinto bolognese[xi].

L’opera fu per secoli considerata di Guido Reni stesso; dal Settecento fino a inizio Novecento la tendenza diffusa di sottolineare la differenza stilistica tra la figura della Maddalena e quella del Crocifisso portò gli studiosi a sostenere che la prima fosse addirittura una ridipintura. Il dipinto non fu studiato per tutto il Novecento ma cominciò ad essere attribuito alla “scuola emiliana del primo Seicento” (Nicolò Rasmo, 1982). Il restauro del 2005-2006 ha permesso di riesaminarla e di riaffermarne la discendenza dal prototipo reniano precedentemente citato, ma l’esecuzione meno raffinata e la minore attenzione al dettaglio portano ad attribuirla a un generico “seguace di Guido Reni”. Per quanto riguarda la datazione, visti i rapporti con l’opera bolognese, si può solamente affermare che sia post 1618, a differenza del termine cronologico certo del 1615 per le opere di Palma il Giovane[xii].

 

Note

[i] Marco Boschini, Le ricche minere della pittura veneziana, 1674

[ii] Marco Boschini, Le ricche minere della pittura veneziana, 1674

[iii] Carlo Ridolfi, Le maraviglie dell’arte: ovvero le vite degli illustri pittori veneti e dello stato, 1648

[iv] F. Pedrocco, Venezia, in La pittura nel Veneto. Il Seicento, a cura di M. Lucco, Milano 2000-2001, 2 voll., I

[v] Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007, p. 15.

[vi] Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007, pp. 49-53.

[vii] Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007, pp. 49-53.

[viii] Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007, pp. 41-47.

[ix] Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007, pp. 29-39.

[x] Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007, p. 23.

[xi] Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007, pp. 55-61.

[xii] Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007, pp. 55-61.

 

Bibliografia

Marco Boschini, Le ricche minere della pittura veneziana, 1674

Elvio Mich, “Di eccellenti pitture adorna”: le pale d’altare dell’Inviolata, Trento 2007

Pedrocco, Venezia, in La pittura nel Veneto. Il Seicento, a cura di M. Lucco, Milano 2000-2001, 2 voll., I

Carlo Ridolfi, Le maraviglie dell’arte: ovvero le vite degli illustri pittori veneti e dello stato, 1648


LA CHIESA DELL’INVIOLATA DI RIVA DEL GARDA

A cura di Beatrice Rosa

La chiesa dell'Inviolata di Riva del Garda: storia e architettura

“Fuor pur di Riva a mezzo quarto di miglio verso Arco notasi la chiesa dell’Inviolata. È posta in sito piano, commodo, e ameno. Sorge di pianta cospicua d’altezza, e ampiezza proportionata; così che la Parte in alto fa svista di rotonda: però a ottangolo di risalti, o profili quadrato, e di Finestre con Tetto a Cuppola ottagongolare coperto di Rame. […]”[i]

Con un estratto dell’accurata descrizione scritta da Michelangelo Mariani nel 1673, si vuole parlare del più importante monumento architettonico della cittadina di Riva del Garda, nonché una delle più belle chiese barocche del Trentino: la chiesa dell’Inviolata (fig. 1).

Fig. 1 – Esterno della chiesa. Credits: (gardatrentino.it).

La storia

La storia di questo edificio liturgico ha inizio tra fine Cinquecento e inizio Seicento quando Bartolomeo Mangiavino, un pittore di Salò, decorò un capitello all’esterno dell’antica cinta muraria della città, per precisione dove oggi si trova la fontana del Mosè. L’affresco, raffigurante una Madonna col Bambino e i santi Sebastiano e Rocco, divenne presto oggetto di preghiere e di processioni; devozione destinata a progredire nel momento in cui la Madonna cominciò a prodigare miracoli[ii] (fig. 2).

Vista la grande devozione, fu attirata l’attenzione di personalità importanti quali il Cardinale e Principe Vescovo di Trento, Carlo Gaudenzio Madruzzo (fig. 3), e del cugino Governatore di Riva, il Conte Gaudenzio Madruzzo. Il conte fu testimone dei miracoli che avvennero nel 1601 nella sua città. Per questo sentì l’esigenza di acquistare il terreno e, con il grande supporto del cugino, di erigere una chiesa intitolata alla Vergine Santissima.Se le fonti letterarie riferiscono che il progetto fu affidato a un architetto portoghese dimorante a Roma, gli studi recenti hanno invece proposto che la tipologia a pianta centrale dell'edificio sia riconducibile all'architettura tardo-rinascimentale lombarda. La paternità del progetto è probabilmente di Pietro Maria Bagnatore, architetto bresciano, il quale nel 1605 aveva certamente incontrato a Riva del Garda la contessa Alfonsina.[iv] Nel 1601 i miracoli furono ben quattro, per questo cominciarono i pellegrinaggi e si sentì la necessità di costruire una struttura per i fedeli. L’anno dopo, nel 1602, venne così costruita una struttura provvisoria in legno con la copertura in tegole, dove fu inoltre celebrata la prima messa[iii].

Come già anticipato i lavori cominciarono nel 1602 e proseguirono con rapidità, tanto che nel 1609 sia il coro che il presbiterio erano conclusi e con essi la meravigliosa decorazione a stucco firmata dal lombardo Davide Reti. Gli interni sono decorati da due importanti pittori: Martino Teofilo Polacco (1571-1639) e Pietro Ricchi (1606-1675)[v].

Il conte Gaudenzio Madruzzo si occupò anche di pensare alla sicurezza dell’edificio liturgico, per questo promosse la costruzione di una casa addossata al presbiterio per un sacerdote che si occupasse anche della custodia della chiesa. Successivamente promosse la costruzione di un convento, credendo che un ordine di religiosi potesse meglio attendere alle necessità del tempio; nel 1613 il Principe Vescovo approvò così la cessione all’Ordine dei Girolamini, al quale era devoto[vi].

L’incarico della prosecuzione dei lavori passò nel 1611 alla moglie del conte, Alfonsina Gonzaga (fig. 4), in quanto Gaudenzio Madruzzo (fig. 4a) fu chiamato in Germania dall’Imperatore. Pochi anni dopo il compito divenne definitivo in quanto il Governatore di Riva morì nel 1618 e nel suo testamento, scritto pochi mesi prima, lasciò l’ordine alla consorte di concludere i lavori della chiesa entro il 1620[vii].

Alfonsina morì nel 1647 e, anche se la maggior parte dei lavori erano stati conclusi entro il 1636, il tempio non era ancora completo; infatti la donna nel suo testamento chiedeva al nipote, Principe Vescovo, di far concludere la doratura degli stucchi dei tre ingressi e la costruzione del campanile, rispettando così le volontà del defunto Conte. Nel 1675 fu realizzato il ciborio e il campanile solo nel 1682[viii].

Nell’Ottocento ci furono alcuni cambiamenti: fino al 1807 officiarono i Girolamini, anno in cui il Governo Bavarese soppresse l’Ordine; il convento passò per un breve periodo in concessione ai Minori Conventuali per poi essere adibito a caserma militare per le milizie imperiali fino al 1856la concessione del convento passò per un breve periodo ai Minori Conventuali per poi essere adibito a caserma militare per le milizie imperiali fino al 1856[ix].

Nel 1870 il Comune di Riva del Garda acquistò il complesso e lo dette in usufrutto alle Figlie del Sacro Cuore perché si occupassero di istruire le ragazze rivane; questo ordine assolse così bene il proprio compito che lo mantenne fino al 1965[x].

La chiesa

La chiesa, all’esterno ancora di gusto rinascimentale nella classica compostezza, è caratterizzata da una pianta quadrata e dalla parte superiore reggente la cupola di forma ottagonale. La sommità presenta una finestra rettangolare per lato, mentre la parte inferiore tre ingressi, ognuno sormontato da una finestra circolare. Si accede all’interno tramite tre porte: quella di nord e sud (sono) caratterizzate da un portale architravato con doppio timpano triangolare, quella ad ovest invece da due colonne corinzie che sostengono il timpano aggettante a doppio ordine[xi].

Appena varcata la soglia non si può che rimanere stupiti dalla sontuosa decorazione ma soprattutto appurando che la forma quadrata dell’esterno non rispecchia quella dell’interno: l’aula è infatti ottagonale, come la forma della parte superiore della chiesa. Gli stucchi e i dipinti che decorano l’interno sono una sorta di biblia pauperum di episodi mariani, confermando quindi la volontà iniziale di costruire questa chiesa per celebrare la Vergine[xii].

Gli stucchi di Davide Reti – datati 1609 – decorano tutte le pareti dell’interno: figurazioni di scudi ovali con angeli, bassorilievi in finto bronzo e angeli con monogrammi, il tutto con allusioni più o meno criptiche alla Madonna la cui figura è proposta varie volte sulle pareti. Sulle medesime si trovano le opere di Pietro Ricchi che, dal 1640, dipinge i monocromi con le Storie di Maria ai lati delle porte e quelle dei Padri Gerolamini nell’abside[xiii] (fig. 5).

Fig. 5 – Pietro Ricchi, Dipinto riproducente la primitiva edicola dedicata alla Madonna sul muro di cinta muraria. Pareti laterali del coro, olio su tela, 1640 circa. Credits: Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 349.

La parte più importante dell’edificio è però nel presbiterio dove, racchiuso in un altare in marmi policromi, possiamo ammirare l’affresco miracoloso di Bartolomeo Mangiavino, grazie al quale è stato costruito questo magnifico tempio a Riva del Garda.La decorazione del Reti occupa anche la cupola, dove i suoi stucchi bianchi e dorati racchiudono i meravigliosi affreschi di Martino Teofilo Polacco con le Storie della vita di Maria che si concludono al centro con la sua Incoronazione (fig. 6). Il medesimo pittore si occupò anche di affrescare le cappelle di San Carlo Borromeo e di San Girolamo, la volta del coro e uno dei clipei dell’abside, il tutto tra 1615 e 1620[xiv].

Fig. 6 – Cupola con gli stucchi di Davide Reti e gli affreschi di Martino Teofilo Polacco. Credits: Wikipedia.

 

Note

[i] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, p. 8

[ii] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 1-13

[iii] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 1-13

[iv] Elvio Mich, Di eccellenti pitture adorna le pale d'altare dell'Inviolata, Riva del Garda 2007, p. 14.

[v] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 352.

[vi] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 1-13

[vii] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 1-13

[viii] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 1-13

[ix] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 1-13

[x] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 1-13

[xi] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 19-20

[xii] Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell’Inviolata di Riva del Garda, Trento 2006, pp. 19-20

[xiii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 352-353

[xiv] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 352-353

 

Bibliografia

Antonello Adamoli, Architettura e arte nella chiesa dell'Inviolata di Riva del Garda, Trento, 2006.

Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco, Il Sommolago, 2000.

Elvio Mich, "Di eccellenti pitture adorna" le pale d'altare dell'Inviolata, Riva del Garda 2007.


SCULTURA IN STUCCO IN TRENTINO:PIEVE DI LEDRO

A cura di Beatrice Rosa

Introduzione

Prima di parlare della scultura in stucco e di Pieve di Ledro, vale la pena capire cosa sia questo materiale. Lo stucco è un composto che si ottiene mescolando calce, polvere di marmo, sabbia e caseina ed è stato usato fin dai tempi antichi come elemento di decorazione. Come tante altre tecniche dell’antichità, è stata ripresa nel Rinascimento quando all’impasto si cominciò ad aggiungere polvere finissima di marmo e modellando lo stucco su anime di mattoni, sassi o tufo. Nel Seicento e Settecento cominciò ad essere addirittura utilizzato per sculture a tutto tondo, basate su un’armatura metallica; considerati i legami con l’arte classica, lo stucco fu poi utilizzato nelle decorazioni architettoniche neoclassiche principalmente all’interno degli edifici[i].

La scultura in stucco in Trentino

Per due secoli, indicativamente tra il 1550 e il 1750, si registra in Trentino la presenza di stuccatori lombardi che lasciarono meravigliose opere in edifici privati e liturgici in varie zone della regione. Questi artisti provenivano dalla zona dei laghi e, solitamente, facevano parte di botteghe famigliari[ii]. Come analizzato da Andrea Spiriti, ciò che gli artisti dei laghi lasciano in Trentino è in linea con quello che essi realizzano in altre zone, in particolare nella valli avite e nei territori degli Asburgo. Quindi il punto di partenza delle opere di metà Cinquecento è un manierismo attento al mondo romano che perdura fino a metà Seicento, quando cominciano ad innestarsi tematiche berniniane e algardiane. Negli ultimi decenni del secolo c’è un aggiornamento barocco e un’apertura al classicismo che fu sostituito nel Settecento con le influenze rococò provenienti dal mondo asburgico e dal modello francese[iii].

Come anticipato, già nel Cinquecento ci sono esempi di decorazione a stucco: è il caso del Palazzo Roccabruna a Trento i cui stucchi, databili entro gli inizi del settimo decennio del secolo, denotano la presenza di una bottega locale legata a Giandomenico Carneri, un artista di formazione veneta. Nel Seicento diventa più consistente la presenza dei lombardi che operano nella chiesa dell’Inviolata a Riva del Garda, nella cappella dei santi Martiri anauniesi in Palazzo Galasso e nella chiesa di San Pietro a Trento arrivando ad operare fino a San Michele all’Adige. Altre testimonianze si trovano al Castello del Buonconsiglio, nel Duomo e di nuovo a Riva del Garda. Per quanto riguarda il Settecento, ebbero un ruolo importante a Rovereto il milanese Antonio Verda e il valsoldese Ludovico Bertalli che operò poi in Val di Sole[iv]. Questi sono solo alcuni esempi di autori dei meravigliosi stucchi che decorano tuttora molti edifici del Trentino, ma in questa sede si vuole analizzare un contesto un po’ più provinciale, una chiesa di paese che conserva però degli importanti stucchi seicenteschi: la chiesa della Madonna Annunciata di Pieve di Ledro.

L’esempio di Pieve di Ledro

Fig. 1 – L’interno della chiesa dell’Annunciazione di Maria, Pieve di Ledro.

Nel centro di Pieve, paese della Valle di Ledro, domina la grande chiesa dedicata all’Annunciazione di Maria (fig. 1). Le prime notizie riguardanti l’edificio liturgico risalgono al 1235 ma dell’edificio medievale non rimangono che alcune tracce nel basamento del campanile. La chiesa come la si vede oggi è frutto di un rifacimento seicentesco: i lavori cominciarono nel 1633, quando il principe vescovo Carlo Emanuele Madruzzo diede l’approvazione e si conclusero due anni dopo, nel 1635. La consacrazione avvenne poi il 16 settembre del 1652[v].

La chiesa è a croce latina, l’interno ad aula unica con tre cappelle laterali per ciascun lato lungo. Appena entrati vale la pena fermarsi e ammirare la decorazione a stucco; nell’elegante partitura architettonica, caratterizzata da elementi classicheggianti quali girali e cherubini, si affacciano una serie di bellissimi angeli[vi]. Queste figure, tutte paffute e riccissime, sono impegnate in varie attività: alcuni reggono cartigli (fig. 2) o sono reggicero (fig. 3), altri invece semplicemente oranti. L’arco santo è dominato da due putti in volo che reggono uno scudo con lo stemma dei Madruzzo[vii], probabilmente come ringraziamento al principe vescovo per l’autorizzazione al rifacimento della chiesa (fig. 4). Scendendo lungo i lati dell’arco si vedono due angeli stanti sui capitelli che suonano con grande enfasi la tromba (fig. 9). Arrivando invece alla base, nelle nicchie laterali, sono presenti due figure in stucco poco più piccole della grandezza naturale. Nella nicchia di sinistra un santo vescovo, identificato come San Vigilio; egli fu il terzo vescovo di Trento e morì martire nel 405 (fig. 5). Si narra che i pagani lo abbiano ucciso usando bastoni e addirittura zoccoli di legno con i quali è spesso raffigurato[viii]. Queste due sono le uniche sculture di grandi dimensioni in chiesa, infatti appena entrati, sulla sinistra, è presente una nicchia decorata a motivi circolari, dalla quale si affaccia San Giovanni Battista (fig. 7) riconoscibile dalla tipica croce e dall’agnello che guarda verso noi spettatori.

Gli stucchi che vediamo oggi sono in uno stato conservativo discreto, la chiesa dell’Annunciazione di Maria di Pieve fu infatti molto danneggiata durante la Prima Guerra Mondiale, per questo motivo nel 1931 venne effettuato un restauro molto invasivo che consistette nel rinfrescare il rivestimento scultoreo ma anche nell’integrare le parti andate perdute[ix].

Secondo una prassi del tempo, la decorazione in stucco era realizzata contemporaneamente alla muratura, per questo motivo le opere di Pieve di Ledro furono realizzate in concomitanza con il rifacimento della chiesa, tra il 1633 e il 1635. Per molti anni non è stato chiaro chi realizzò queste opere ma nel 2009, tramite dei confronti, Domizio Cattoi ha ipotizzato che siano opera della bottega di Carlo Romeri, o meglio dell’accoppiata Carloni-Romeri[x].

Antonio Carloni fu un capomastro, nato a Scaria (comune comasco di Alta Valle Intelvi) da una famiglia di artisti itineranti che operarono nel Nord Italia e Oltralpe. Non si sa nulla della sua formazione professionale e nemmeno del suo albero genealogico, è molto probabile però che fosse legato da una parentela con Carlo Romeri[xi]. Carlo fu invece uno stuccatore, probabilmente originario di Pellio Superiore, in Valle d’Intelvi[xii]. Ascrivibile alla coppia Carloni-Romeri è la decorazione a stucco della cappella dell’Annunziata della chiesa di San Giovanni Battista a Sacco, nei pressi di Rovereto (fig. 8). Questa cappella è caratterizzata da elementi decorativi e dalla presenza dei quattro evangelisti ad altissimo rilievo nei pennacchi, il tutto alternato da riquadri affrescati. Nonostante la cronologia risalente a metà Seicento, la decorazione è ancora realizzata, secondo la consuetudine della tradizione tardo-manieristica lombarda, con l’utilizzo di modelli a stampo per gli elementi architettonici, qui costituiti da motivi a girali con ovoli e dentelli che si ritrovano quasi identici nella chiesa di Pieve di Ledro. Gli angeli che a Sacco reggono lo stemma Cavalcabò si ritrovano perfettamente in Valle di Ledro, dove lo stemma è sostituito dall’arme dei Madruzzo[xiii].

Fig. 8 – Bottega di Carlo Romeri, Decorazione cappellla dell’Annunziata. Sacco, Chiesa di S. Giovanni Battista.

Per le analogie nelle figure di alcuni angeli e nell’ornato architettonico di Sacco e di Pieve, è stato affermato che la coppia Carloni-Romeri, uno in qualità di soprintendente, l’altro come muratore-stuccatore, sia arrivata ad operare anche in Valle di Ledro. È un’impresa di bottega, svoltasi in poco tempo, che dimostra come Carloni-Romeri fossero in Trentino già da tempo, infatti l’opera di Pieve si daterebbe al 1633-35 mentre la decorazione della cappella di Sacco solo dal 1647 (fig. 9)[xiv].

Fig. 9 – Angelo che suona la tromba ed elementi decorativi.

 

Note

[i] Stucco, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 1182.

[ii] A. Spiriti, Stuccatori dei laghi in Trentino: certezze e ipotesi, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), pp. 51-64.

[iii] A. Spiriti, Stuccatori dei laghi in Trentino: certezze e ipotesi, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), pp. 51-64.

[iv] L. Giacomelli, “da lasciar di stucco”. Fortuna dell’arte plastica in Trentino, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), pp. 13-50.

[v] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 78-80.

[vi] D. Cattoi, Stucchi seicenteschi nel Trentino meridionale, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), pp- 239-240.

[vii] D. Cattoi, Stucchi seicenteschi nel Trentino meridionale, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), p. 240.

[viii] VIGILIO in "Enciclopedia Italiana" (treccani.it)

[ix] D. Cattoi, Stucchi seicenteschi nel Trentino meridionale, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), p. 241.

[x] D. Cattoi, Stucchi seicenteschi nel Trentino meridionale, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), p. 239-240.

[xi] D. Cattoi, Stucchi seicenteschi nel Trentino meridionale, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), p. 244 (nota numero 20).

[xii] D. Cattoi, Stucchi seicenteschi nel Trentino meridionale, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), p. 244 (nota numero 21).

[xiii] D. Cattoi, Stucchi seicenteschi nel Trentino meridionale, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), p. 239-240.

[xiv] D. Cattoi, Stucchi seicenteschi nel Trentino meridionale, in Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20), p. 239-241.

 

 

Bibliografia

Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002

Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, atti del convegno di studi (Trento, 12-14 febbraio 2009), a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento 2011 (“Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni”, 20)

Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)

 

Referenze fotografiche

Beatrice Rosa: figg. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 9

Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, p. 237: fig. 8


LA CHIESA DI SANT’APOLLINARE A PRABI DI ARCO

A cura di Beatrice Rosa

Introduzione

Camminando sulle rive del fiume Sarca, sulla strada che conduce da Arco alla località di Prabi, potrebbe passare inosservata una piccola chiesa che, nonostante le sue dimensioni, è una delle più antiche ed importanti della zona dell’Alto Garda e del Trentino (fig. 1). Si tratta della chiesa di Sant'Apollinare a Prabi di Arco.

Fig. 1 – Esterno della chiesa di Sant’Apollinare a Prabi.

La storia dell’edificio

Le prime notizie certe riguardo la costruzione della chiesa risalgono al XIV secolo ma per svariati motivi, tra cui la dedicazione a Sant’Apollinare (vescovo di Ravenna) e la collocazione all’esterno delle mura di Arco, la probabile origine della chiesa, luogo di culto ariano, può essere ragionevolmente anticipata all’VIII secolo[i].

Ciò che è certo è che nel Trecento la chiesa era officiata da alcuni monaci che risiedevano in un monastero nei suoi pressi e che a fine Quattrocento l’edificio liturgico divenne priorato dell’arcipretura di Arco. Nel XVIII secolo alcuni eremiti presero in affidamento la custodia fino a quando, nel 1782, la chiesa venne soppressa. Nel corso dell’Ottocento S. Apollinare riacquistò la sua dignità e tornò ad essere edificio di culto: evidentemente, però, non era molto frequentata dai fedeli, dato che nel 1866 la Curia arcivescovile di Trento diede l’ordine di demolirla[ii]. Fortunatamente, l’ordine non venne seguito, così oggi possiamo ancora ammirare questo meraviglioso edificio. L’aspetto della chiesa, ad oggi, non rispecchia tuttavia la sua conformazione ottocentesca; le sue sventure, infatti, non si erano ancora concluse. Durante la Prima Guerra Mondiale, a causa delle schegge di una granata che danneggiarono il tetto e parte dell’abside, parte degli affreschi che la decoravano andò perduta. In seguito a vari interventi di restauro, la chiesa è stata definitivamente restituita al culto nel 1983[iii].

L’edificio

La chiesa di Sant'Apollinare a Prabi è a pianta rettangolare, con l’aggiunta, sul lato destro, di un porticato esterno, utilizzato come riparo per pellegrini e viandanti. La presenza del porticato esterno è una testimonianza eloquente dell’importanza dell’edificio per la zona dell’Alto Garda e non solo. Dietro l’altare di pietra presente nel porticato (utilizzato anche come pronao in caso di grande affluenza di fedeli) è presente la decorazione a fresco dell’Ultima Cena (fig. 2)[iv].

Lo sguardo è immediatamente catturato da Cristo che si rivolge allo spettatore mentre tocca con la sua mano destra la spalla di S. Giovanni che, come da consuetudine, è addormentato sul tavolo. Gli altri apostoli, cinque per parte, sono rappresentati ai lati di Gesù, intenti a discutere tra loro; tra le mani, alcuni di essi reggono dei bicchieri di vino o dei coltelli appena presi da una tavola imbandita di leccornie. L’unico apostolo a non trovarsi sullo stesso lato di Cristo è Giuda, che il pittore dipinge senza aureola, di dimensioni minori e accovacciato sotto il tavolo in prossimità di S. Giovanni; scelte formali, queste ultime, portate avanti dal pittore per sottolineare il ruolo di traditore ricoperto dall’Iscariota. L’Ultima cena non è, tuttavia, l’unico affresco che decora la parete esterna dell’edificio; in basso rispetto all’opera sopracitata è infatti presente un lacerto pittorico ospitante un’Adorazione dei Magi mentre, più sulla destra, è presente un santo vescovo, individuabile come il frammento più antico della decorazione (fig. 2)[v].

Se già gli affreschi all’esterno della chiesa potrebbero stupire, quelli che si vedono una volta  varcata la soglia d’ingresso non possono che meravigliare. Anche le pareti della navata e dell’abside sono affrescate, rivelando brani pittorici che sono il frutto di campagne decorative risalenti a momenti storici diversi.

Fig. 2 – Affreschi nel protiro esterno.

La parete nord della chiesa di Sant'Apollinare a Prabi ospita gli affreschi più antichi; partendo da sinistra è presente un Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni e un santo vescovo; al centro della parete si vede una Madonna col Bambino in trono, affiancata a sinistra da S. Margherita, riconoscibile dal drago ai suoi piedi, e da S. Antonio abate, in abiti da monaco, con la campanella e il bastone a tau nelle mani[vi]. Proseguendo sulla medesima parete troviamo una raffigurazione del martirio di S. Lorenzo: si narra che il santo diacono distribuì ai poveri tutte le sostanze della Chiesa, suscitando così l’ira del prefetto Cornelio Secolare, che fece arrestare Lorenzo martirizzandolo poi su una graticola rovente. Seguono, poi, due figure di santi vescovi e una santa (fig. 3)[vii].

Fig. 3 – Parete nord.

Nel registro inferiore della medesima parete è invece presente una schiera di santi, posizionati uno accanto all’altro e con lo sguardo rivolto verso noi spettatori. Partendo da sinistra si riconoscono S. Leonardo (fig. 4), in abiti da diacono; S. Apollinare benedicente; S. Antonio abate, riconoscibile dal saio marrone e dal bastone a tau nella mano sinistra; vicino a lui, S. Caterina d’Alessandria, con la palma del martirio nella mano sinistra e la ruota dentata nella destra; S. Paolo, con la spada e il libro; un santo vescovo e un evangelista, non identificabili in quanto carenti di attributi iconografici specifici.  È poi presente una Madonna col Bambino, affiancata da una S. Elena (riconoscibile dalla croce) e probabilmente da un S. Giovanni Evangelista (vicino a lui è infatti raffigurato S. Giovanni Battista, con il consueto cartiglio in mano che in origine quasi certamente recava le parole “Ecce agnus dei”). Le ultime due figure sulla parete sono di nuovo un santo vescovo (anche questo non identificabile) e S. Antonio abate, abbigliato da monaco, ancora una volta accompagnato dal tipico bastone a tau e dalla campanella (fig. 3)[viii].

Fig. 4 – S. Leonardo.

Anche sulla parete opposta a quella appena analizzata sono presenti decorazioni a fresco su due registri: nella parte alta è presente una Madonna col Bambino tra due apostoli e i Ss. Antonio abate e Lucia (quest’ultima riconoscibile dalla ciotolina contente i suoi occhi). La figurazione prosegue con due scene sacre: la Deposizione del corpo di Cristo e la Natività[ix]. Il registro inferiore è invece occupato dalla scena del Martirio di S. Agata: si narra che la santa venne legata e i suoi seni recisi e strappati, come vediamo proprio nell’affresco di Prabi[x]. Proseguendo verso destra sono presenti nove santi, non tutti riconoscibili. Tra i santi identificati troviamo S. Martino, in abiti eleganti e con la spada in mano; S. Dorotea, con i fiori nella mano destra; S. Nicola da Bari, in abiti vescovili; S. Francesco, con il saio e il crocifisso; con i lunghi capelli, che le coprono tutto il corpo, S. Maria Maddalena; vicino a lei,  un probabile S. Bartolomeo con il coltello nella mano destra; chiudono il corteo S. Giovanni evangelista e S. Antonio Abate (fig. 5).

Fig. 5 – Parete sud.

Come anticipato all’inizio di questo articolo, a causa delle schegge di una granata, gli affreschi della zona absidale con un Cristo in mandorla e i simboli dei quattro Evangelisti sono andati perduti. Fortunatamente si possono ancora ammirare parte degli affreschi dell’arco santo, con il lacerto dell’Annunciazione nella parte alta e due coppie di santi nella parte sottostante: S. Lorenzo e S. Apollinare da un lato, S. Cristoforo e una santa non identificata dall’altro (fig. 6)[xi].

Fig. 6 – Area del presbiterio.

Prima di uscire dalla chiesa di Sant'Apollinare a Prabi, meritano uno sguardo anche gli affreschi sulla parete d’ingresso, con S. Antonio abate (recante una fiammella sul palmo della mano e tentato dal diavolo in vesti di donna) e S. Giuseppe, sulla destra, raffigurato assieme ai suoi strumenti di lavoro[xii].

Chi è l’autore di questi affreschi?

La paternità della decorazione pittorica è stata, nel corso del tempo, oggetto di discussione; tutti gli storici e i critici sono però concordi sul fatto che gli affreschi siano frutto di mani diverse e soprattutto sulla datazione più “bassa” dell’Ultima cena, dell’Adorazione dei Magi e dei Santi del protiro esterno successivi rispetto ai brani pittorici all’interno. Già Nicolò Rasmo, nella sua Storia dell’arte nel Trentino[xiii], aveva assegnato le opere a membri della famiglia dei da Riva, fortemente influenzati dalla pittura veronese; tramite dei confronti con opere certe di Brenzone (chiesa di S. Pietro in Vincoli), Lazise, Torri del Benaco e Gargnano, la critica recente ha poi proposto di attribuire gran parte degli affreschi a Giorgio da Riva e assegnando una parte minore della decorazione al fratello Giacomo. Se quindi gli affreschi del protiro si possono datare già alla prima metà del Quattrocento, per quelli della navata, sicuramente precedenti, si può risalire con ogni probabilità a una data che oscilla tra il 1360 e il 1370[xiv].

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 94.

[ii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 94.

[iii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 94-95.

[iv] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 96.

[v] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[vi] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[vii] R. Giorgi, Santi, Milano 2007 (“I dizionari dell’arte”), pp. 220-223

[viii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[ix] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[x] R. Giorgi, Santi, Milano 2007 (“I dizionari dell’arte”), pp. 12-14.

[xi] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[xii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 101.

[xiii] N. Rasmo, Storia dell’arte nel Trentino, Trento 1982, p. 140.

[xiv] M. Raffaelli, Exempla virtutis: la pittura gotica sacra nel Sommolago, 2017, pp. 25-41.

 

Bibliografia

Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000.

Nicolò Rasmo, Storia dell’arte nel Trentino, Trento 1982.

Marianna Raffaelli, Exempla virtutis: la pittura gotica sacra nel Sommolago, 2017.

 

Referenze delle immagini

  1. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-sant-apollinare/
  2. https://romanicotrentinoaltoadige.wordpress.com/2017/09/15/santapollinare-arco/
  3. Beatrice Rosa
  4. Beatrice Rosa
  5. Beatrice Rosa
  6. Edoardo Fabbri

LA LOGGIA DEL ROMANINO AL MAGNO PALAZZO

A cura di Beatrice Rosa

Introduzione

Il 25 febbraio 1528 venne posata la prima pietra del Magno Palazzo, l’edificio commissionato dal cardinale Bernardo Clesio che rinnovò l’aspetto del Castello del Buonconsiglio a Trento. Un palazzo che rivestì un ruolo fondamentale nel panorama storico artistico della Regione[i].

Nel 1531 i lavori architettonici del Palazzo stavano per concludersi: il cardinale cominciò così a ideare la decorazione pittorica e a reclutare artisti; per farlo si rivolse alla corte estense di Ferrara facendo arrivare a Trento importanti pittori tra cui Dosso Dossi con il fratello Battista, il bresciano Girolamo Romani, detto il Romanino, e il vicentino Marcello Fogolino. La presenza di questi artisti in città comportò la diffusione dell’arte rinascimentale in Trentino e data la varietà di provenienza dei pittori, il Magno Palazzo divenne fonte di uno stile artistico così peculiare da essere denominato “clesiano”[ii].

Bernardo Clesio, dato il suo ruolo di cardinale, fu spesso in viaggio per l’Europa; cosa che, tuttavia, non lo limitò nell’essere un committente molto attento. Ciò si evince dalla fitta corrispondenza tra lui e gli artisti; il Clesio scriveva infatti frequentemente per assicurarsi che i lavori procedessero positivamente e soprattutto per informarsi che le tempistiche e l’impegno economico fossero rispettati. Oltre a questo, Bernardo discuteva direttamente con i pittori sui soggetti delle opere, che dovevano essere adatti a un palazzo privato ma allo stesso tempo consoni a una sede diplomatica volta all’accoglienza di delegazioni straniere[iii].

Girolamo Romanino e la loggia

Tra gli artisti reclutati dal Clesio c’era il bresciano Girolamo Romanino, uno tra i più importanti interpreti della scuola lombarda. Alla sua iniziale formazione fra Brescia e Venezia su opere di Tiziano e Giorgione, si aggiungono presto alcune suggestioni derivate dal pittore milanese Bramantino, dal bergamasco Lorenzo Lotto e dal cremonese Altobello Melone[iv].

Bernardo Clesio, quando nel 1531 Romanino si propose per diventare parte dell’équipe impegnata nella decorazione del Magno Palazzo, scrisse in una lettera quanto fosse felice per “quello excellente pittore bressano che si ha offerto venire”[v]. Il pittore si presentò alla corte quando i lavori stavano per cominciare e il Clesio aveva già tessuto buoni rapporti con il ferrarese Dosso Dossi. Come sottolineato precedentemente, Bernardo Clesio fu un committente molto attento: per la decorazione pittorica redasse un programma con le sue indicazioni relative agli artisti impegnati e al suo progetto di decorazione per gli spazi principali della residenza, tutti affidati a Dosso[vi]. Una situazione destinata a cambiare con l’arrivo di Romanino, al quale vennero assegnati alcuni ambienti del palazzo. Il più importante è la loggia che si trova al primo piano del Magno Palazzo, aperta in cinque arcate sul cortile dei Leoni, che Bernardo Clesio definì “una delle principale parte atte ad rendere grandissimo ornamento a tutta essa fabbrica”[vii] (fig. 1).

Fig. 1 – La loggia del Castello del Buonconsiglio.

Per quanto riguarda il tema della decorazione pittorica della loggia, fu il committente stesso ad esprimersi scrivendo in una lettera:

Circa la pittura de la logia publicha, de la qual lui desidera che li demo un thema, vui sapete la nostra resolutione, desideremo sia fatto uno bellissimo friso et sia depento li cantoni solamente et li volti de sopra depinto de Azuro, cum cosse d’oro tirate dentro[viii]

Da queste parole si evince come il cardinale desse indicazioni precise per quanto riguarda la collocazione dei dipinti, e come lasciasse al contempo molte libertà ai pittori sul soggetto. Sono prescrizioni che il Clesio scrisse quando ancora l’artista scelto era Dosso Dossi e che, nel momento in cui arrivò Romanino, passarono direttamente a lui.

Già in questo breve brano si nota l’adesione puntuale al Trattato di architettura, uno scritto del 1460-1464 per il duca Francesco Sforza di Antonio di Pietro Averlino, conosciuto come Filarete[ix]. In una parte di questo trattato vengono date indicazioni sulla realizzazione di un “palazzo ideale” e con queste pagine si spiega la scelta tematica della loggia del Romanino che rispecchia ciò che Filarete considerava adatto per il palazzo ideale:

Alle volte di sopra voglio che sia come Fetonte mena i cavalli de Sole, e così Dedalo quando vola, così un poco più in basso, e come Bacco va per rapire Adriana, e come Giove e Ganimede.[x]

Posizionandosi al centro della loggia e alzando lo sguardo, si può ammirare il vasto riquadro centrale con la corsa attraverso il cielo di Fetonte sul carro del Sole, proprio come indicato da Filarete (fig. 2). L’iconografia di questo episodio deriva da Ovidio, il quale narra che Fetonte, per dimostrare la sua divina discendenza, un giorno si recò all’estremo Est per incontrare il padre Sole. Il dio promise al figlio che avrebbe fatto qualsiasi cosa per dimostrare che ne fosse il padre. Fetonte ottenne quindi il permesso di guidare il carro del Sole per un giorno; il giovane fu però avventato e si dimostrò inesperto, perdendo il controllo del carro e avvicinandosi troppo alla Terra asciugandone i fiumi e provocando incendi.

Fig. 2 – La volta della loggia.

Tale immagine può quindi essere letta sia con un intento moraleggiante, con l’invito a guardarsi dal troppo ardire che conduce alla rovina, sia come immagine allegorica del Sole stesso. Nella loggia del Romanino, il carro segue infatti il percorso del sole, partendo da Oriente e andando verso Occidente. Al centro è presente questo episodio mentre i due campi laterali contengono le figure allegoriche delle stagioni: la Primavera e l’Estate, l’Autunno e l’Inverno, tutte figurazioni stagliate sul cielo azzurro[xi] (fig. 3 e 4).

I lati della composizione centrale sono decorati con dieci pennacchi rappresentanti figure virili, dalle membra vigorose. Alcuni di essi hanno la barba e i capelli scompigliati dal vento, per alludere illusionisticamente a come la loggia fosse aperta agli agenti atmosferici[xii] (fig. 5).

Fig. 5 – Figura virile dei pennacchi.

Sulle vele tra i pennacchi sopra citati, Romanino dipinge venti ovali contenenti finte sculture stagliate su un fondo a finto mosaico dorato (fig. 6). Il pittore bresciano concepisce anche dieci lunette lungo le pareti che presentano immagini di carattere non unitario: episodi profani, alcuni tratti dal mito greco e dalla storia romana, altri dalla Bibbia[xiii].

Fig. 6 – Scultura su fondo in finto mosaico.

Gli episodi meglio conservati sono quelli delle parete occidentale, sulla sinistra un Concerto di flauti e sulla destra l’episodio di Giuditta e Oloferne (fig. 7). Dall’altro lato della loggia la parete orientale ospita invece la raffigurazione del Concerto campestre e Amore e Psiche (fig. 8). Il lato lungo della loggia, infine, presenta sei episodi: la Morte di Virginia uccisa dal padre, il Suicidio di Lucrezia, le Grazie, il Suicidio di Cleopatra, un Concerto e Dalila che taglia i capelli a Sansone addormentato[xiv] (fig. 9).

Romanino realizza anche un affresco molto interessante accanto alla scala di accesso al piano superiore che, a differenza degli episodi analizzati finora, è di dimensioni gigantesche: esso raffigura lo “Scacciaimportuni”, un uomo armato di bastone che allontana delle persone, impedendo loro di recare disturbo nella dimora privata del vescovo accendendo al piano superiore[xv] (fig. 7).

Girolamo Romanino rimase a Trento un solo anno, dal 1531 al 1532; in questo breve periodo riuscì a lasciare un segno nel panorama storico artistico della città con uno dei suoi capolavori, la loggia che noi tutti oggi conosciamo come loggia del Romanino.

 

Note

[i] https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

[ii] https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

[iii] https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento

[iv] Girolamo Romanino, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 1076.

[v] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[vi] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[vii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[viii] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[ix] Filarete, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 402.

[x] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[xi] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xiii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xiv] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xv] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

 

 

Bibliografia

 Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

Filarete, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 402

Girolamo Romanino, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 1076.

Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.

 

Sitografia

 

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento

https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

 

REFERENZE DELLE IMMAGINI

  1. https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Turismo/Conoscere/Citta-alpine/Citta-alpine-dell-anno/Trento/Castello-del-Buonconsiglio-Loggia-del-Romanino
  2. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  3. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.
  4. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.
  5. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  6. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  7. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  8. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  9. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Romanino_Loggia_Buonconsiglio_TN_3.jpg

TORRE AQUILA E IL "CICLO DEI MESI"

A cura di Beatrice Rosa

INTRODUZIONE: PORTA DELL'AQUILA E TORRE AQUILA

Nel Duecento fu costruita la cinta muraria che circondò Trento fino al 1830-1850, quando si prese la decisione di demolire le mura; l’accesso alla città era al tempo garantito da quattro porte, tra cui porta dell’Aquila.

La porta, in prossimità del Castello del Buonconsiglio, era in origine sormontata da una semplice torre di difesa che venne modificata nel Trecento da Giorgio di Liechtenstein; il vescovo si impossessò di questa parte di mura e della porta per trasformare l’edificio duecentesco in uno spazio privato. Questo evento creò un forte malumore nei cittadini, i quali rivendicavano il possesso comune della torre e delle mura. Solo nel 1407 la torre venne restituita al controllo dei cittadini, grazie all'emanazione di un atto ad hoc durante la sommossa popolare con l’intervento del duca d’Austria e conte del Tirolo Federico IV, che mise fine al potere del vescovo[i].

Tra Trecento e Quattrocento, Giorgio di Liechtenstein[ii] con i suoi interventi di ristrutturazione, sopraelevazione e con la commissione della decorazione pittorica[iii], trasformò la torre di difesa in un luogo privato e isolato; come disse Enrico Castelnuovo, in un “domestico giardino del paradiso” [iv]. Tramite un lungo cammino coperto voluto dal vescovo stesso, si accede tuttora dal Castello del Buonconsiglio al secondo piano della torre, dove si trova il locale più interessante dell’edificio: una saletta alta cinque metri e mezzo, larga sei e lunga otto. Varcata la porta di questa sala, non si può che rimanere stupiti dalle pareti che recano “il ciclo dei Mesi”, uno dei più importanti e significativi cicli d’affreschi profani del gotico internazionale[v].

IL CICLO DEI MESI DI TORRE AQUILA

La decorazione pittorica della sala ha per soggetto, come detto, “il ciclo dei Mesi”: la raffigurazione dei mesi dell’anno, tramite l’illustrazione di temi aristocratici e popolari. Si tratta di undici scene - marzo è infatti andato perduto con la distruzione della scala – scandite da alte colonne tortili che presentano i lavori e i passatempi di ogni mese[vi];  sono tutte ambientate all'aperto con personaggi della vita signorile e contadini occupati nelle loro attività agricole.

La narrazione comincia sulla parete est con i mesi di gennaio e febbraio (fig. 1 e fig. 2). La scena di gennaio si svolge in un paesaggio nevoso, con due gruppi signorili che stanno combattendo a palle di neve in primo piano, mentre in secondo piano ci sono due cacciatori con i cani che avanzano nella neve, uno dei quali già con la cacciagione sulla spalla destra. Lo sfondo dell’episodio è dominato da un castello, e un visitatore sta bussando alla porta; l’edificio, un complesso di costruzioni di diversi stili e periodi, è stato riconosciuto da Nicolò Rasmo con il castello di Stenico, rinnovato proprio ai tempi di Giorgio di Liechtenstein. In alto a destra dell’affresco si può inoltre apprezzare la raffigurazione di un bosco con due volpi caratterizzate molto attentamente[vii]. Sopra la finestra c’è invece febbraio, con due squadre di quattro cavalieri che si sfidano in un torneo ai piedi delle mura - riconoscibili come quelle che collegano il Castello del Buonconsiglio proprio a torre Aquila. Il tema del torneo è legato al mese di febbraio probabilmente per il rapporto con le giostre che si tenevano a carnevale. Oltre ai cavalieri, il mese è connotato dalla presenza di giovani che assistono al torneo dalle mura, ma di nuovo anche di un’attività della “plebe”, con il fabbro nella sua bottega in basso a destra nell'affresco[viii].

Il mese di marzo occupava in origine l’angolo sud-est della stanza, ma a causa di un incendio che ha distrutto la scala a chiocciola in legno, è andato perduto. Il ciclo prosegue quindi sulla parete meridionale con i mesi di aprile, maggio e giugno. Aprile (fig. 3) è una delle scene più complesse del ciclo: il tutto si svolge in un terreno in parte coltivato o arato, a tratti invece boscoso e roccioso. In primo piano a sinistra si vedono due contadini impegnati nell’aratura di un campo, mentre sulla destra stanno passeggiando due dame, abbigliate alla moda del tempo. La cresta rocciosa sulla sinistra della scena è occupata da un bosco dove si vede un cane che insegue una lepre su un terreno costellato di funghi bianchi. Più in alto due donne annaffiano un giardinetto sotto gli occhi di un altro contadino che conduce un carro trainato da buoi; probabilmente il personaggio proviene dal mulino che occupa la parte in alto a sinistra dell’affresco. Sulla destra un uomo abbigliato di giallo sta seminando mentre un altro a cavallo sta lavorando il campo con un erpice[i]. A connotare il mese di maggio (fig. 4), c’è un prato cosparso di fiori su cui giovani aristocratici e dame stanno passando il loro tempo con le più svariate attività; molto probabilmente questi personaggi hanno raggiunto il campo dalla cittadina cinta da mura con la chiesa gotica presente nella parte in alto a sinistra dell’opera. Fuori dalle mura quattro persone stanno attorno a un tavolo rotondo mentre discutono e si cibano di ciò che hanno sulla tovaglia. Questo mese primaverile presenta solo personaggi aristocratici e nessuno della plebe, è importante però sottolineare che questa è una delle scene più ridipinte di tutta Torre Aquila[i].

L’estate comincia nella scena successiva con giovani coppie aristocratiche che danzano su un prato rigoglioso a ritmo di musica dei cinque musicanti che stanno suonando in basso a sinistra. Tornano a giugno (fig. 5) anche le attività del popolo: in alto a destra le mucche accovacciate sono al pascolo, una donna sta mungendo mentre altre trasportano il latte e lavorano il burro nelle malghe in legno. A sinistra di nuovo due nobili che escono dalle mura, la donna con una coroncina di fiori in testa, l’uomo abbigliato di rosso che osserva il suo cane correre libero sul ponte. Come la scena di aprile, anche qui ci sono vari interventi cinquecenteschi tra cui uno dei musici che ha le armi del Clesio sul suo abito[i]. La parete occidentale ospita luglio e agosto (fig. 6 e fig. 7). Le attività umili dominano la prima delle due scene, con in alto il taglio del fieno e sulla destra quattro contadini raccolgono l’erba tagliata con forconi e rastrelli. L’unica attività aristocratica della scena è legata ai falchi: si vede uscire dal bosco vicino alla città un falconiere con i trespoli su cui sono assicurati tre falchi, mentre un altro ammaestratore ha già percorso il ponte e prosegue con il telaio in mano su cui sono appoggiati sei falchi. Sopra questo personaggio un’altra scena molto curiosa, con tre uomini in barca in uno stagno intenti nella pesca. I falchi tornano poi nell’unico dettaglio di vita cortese della scena, dove si vede un gentiluomo inginocchiato che offre un falco ad una dama abbigliata alla moda con la consueta coroncina di fiori in testa[i]. Anche agosto è caratterizzato da attività agricole, con quattro contadini in un campo di grano che tagliano le spighe, legano i fasci e li ammucchiano poi in catasta. Un contadino con il suo carro di buoi si dirige verso il villaggio di capanne in cui spicca la casa in muratura del prete che sta leggendo alla finestra. Nella parte bassa dell’opera torna poi l’attività aristocratica con due dame e un gentiluomo, ognuno con un falco che discutono fuori dalla porta di un castello[i]

L’edificio di colore rosso prosegue poi nel mese di settembre (fig. 8), dove le scene di vita signorile occupano maggiore spazio. Gentiluomini a cavallo al centro della composizione stanno cacciando con il falco, mentre due dame e un signore, appena usciti dal castello, passeggiano a cavallo nei boschi popolati da animali nella parte bassa dell’opera. In alto ritroviamo le figure di contadini, una abbigliata di bianco sta raccogliendo le rape mentre altri tre sanno arando il campo con buoi e cavalli[i].

L’autunno prosegue con ottobre (fig. 9), una scena incentrata sulla vendemmia, la spremitura dell’uva e la preparazione del mosto. Nel vigneto stanno lavorando diversi personaggi mentre due contadini sulla sinistra utilizzano il torchio necessario per la spremitura dell’uva. Nella parte bassa a destra dell’affresco due nobili assaggiano il mosto[ii].

Comincia così l’inverno, a novembre le attività si concentrano maggiormente in città e non più nei campi, vediamo infatti i pastori che fanno entrare il gregge dalle mura. Alcuni cacciatori sono in montagna, impegnati nella caccia all’orso, mentre altri quattro, al centro della composizione, si stanno scaldando le mani davanti a un focolare. Anche in questa scena non manca l’elemento signorile, si vedono infatti due elegantissime figure a cavallo risalire la montagna, entrambi con una lancia in mano[i]. La scena di dicembre è dominata dalla città dotata di mura: all’interno si vedono un contadino con i suoi due asini carichi, due uomini che stanno entrando con i carri trainati da coppie di buoi, portando la legna appena tagliata dai taglialegna che ancora lavorano sulla montagna già un po’ innevata[ii].

L’unico elemento costante nelle scene è la presenza del sole, sempre in alto e al centro dell’opera; esso è ogni volta posizionato in una diversa casella zodiacale in base al mese trattato[i].

IL MAESTRO DEI MESI DI TORRE AQUILA

Dopo aver analizzato le scene del ciclo, viene spontaneo chiedersi chi abbia realizzato queste meravigliose opere a Torre Aquila a Trento. Ciò che è certo è che gli affreschi sono stati realizzati prima del 1407; sono tuttora attribuiti al Maestro Venceslao, un pittore del vescovo di Trento arrivato in città nel 1397, nonostante lo stile di questo ciclo sembri molto più avanzato rispetto agli affreschi autografi dell’artista nella cappella del cimitero di Riffiano a Merano[i]. Che sia o meno il Maestro Venceslao, il Maestro dei Mesi è molto probabile fosse di origine boema; confrontando infatti i paesaggi trentini, caratterizzati da monti rocciosi e colori irreali, con la miniatura boema dell’ultimo decennio del Trecento non si possono che notare innumerevoli affinità.

Gli affreschi non hanno solo elementi boemi, bensì anche lombardi, lo si vede per esempio nel fabbro del mese di febbraio, nel campo di rape nel mese di settembre o nel torchio di ottobre… la costante attenzione naturalistica per gli elementi vegetali nelle scene sembra provenire indiscutibilmente dalla lezione dei Tacuina (ndr i Tacuina sanitatis erano manuali di scienza medica scritti e miniati, la loro divulgazione avviene in area lombarda tra XIV e XV sec.)[ii]. Allo stesso tempo il pittore dei Mesi non è sicuramente un lombardo o un italiano, lo si vede dal modo arcaico di rappresentare lo spazio e la scala dei personaggi[iii].

La sala dei Mesi subì un restauro per volontà di Bernardo Clesio negli anni Trenta del Cinquecento; il cardinale incaricò Marcello Fogolino di modificare parzialmente la sala, intervenendo nei volti e nelle vesti dei personaggi, nei paesaggi e introducendo il tendaggio a balze bianche e rosse sotto la cornice, che in origine era diversamente decorata. L’intervento del Clesio non fu avventato o fuori luogo: il Maestro dei Mesi aveva infatti optato per la decorazione in maggior parte a fresco, ma con alcuni ritocchi a tempera, questo aveva comportato che già nel XVI sec. alcune parti di pittura erano cadute ed era quindi necessario risanarle[iv].

IL CICLO DEI MESI E IL GOTICO INTERNAZIONALE

Sia l’idea della camera dipinta, che dell’iconografia legata alla vita cavalleresca, al mondo dei contadini e dei pastori, non erano inusuali nell’Europa del XIV sec., anzi erano tendenze rilevabili soprattutto in Francia e in Germania. Il ciclo dei Mesi di Torre Aquila è un’importantissima testimonianza della vita economica e sociale tra la fine del Trecento e del secolo successivo con la descrizione delle attività umane, sia dei nobili che dei popolani. Con la descrizione così sensibile dei mestieri e della natura, quest’opera si inseriva perfettamente nel fenomeno del gotico internazionale, uno stile pittorico che ebbe fortuna nelle grandi corti europee (Parigi, Praga, Digione, Bourges, Milano…), grazie allo scambio di idee e alla diffusione dei manufatti, soprattutto quelli facilmente trasportabili[v].

 

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12.

[ii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12.

[iii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 12

[iv] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 14.

[v] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 20-21.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  1. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, Trento 1990
  2. Castelnuovo, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, a cura di E. Chini, Trento 1987

 

CREDITI FOTOGRAFICI

  1. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  2. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  3. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  4. http://senzadedica.blogspot.com/2013/04/il-ciclo-dei-mesi-aprile.html
  5. https://tramineraromatico.wordpress.com/2016/10/12/una-meraviglia-medioevale-il-ciclo-dei-mesi-di-venceslao-nella-torre-dellaquila-castello-del-buonconsiglioa-trento/
  6. https://tramineraromatico.wordpress.com/2016/10/12/una-meraviglia-medioevale-il-ciclo-dei-mesi-di-venceslao-nella-torre-dellaquila-castello-del-buonconsiglioa-trento/
  7. http://senzadedica.blogspot.com/2013/07/il-ciclo-dei-mesi-luglio.html
  8. https://www.pinterest.it/pin/502432902164865107/
  9. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  10. http://senzadedica.blogspot.com/2013/10/il-ciclo-dei-mesi-ottobre.html
  11. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/ciclo-mesi-trento-torre-aquila-buonconsiglio-capolavoro-gotico-internazionale
  12. https://www.pinterest.it/pin/360358407662234172/

 

 

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 10.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 215.

[ii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 233.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 181.

[ii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 195.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 163.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 145.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 125.


[i]
E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 104.

[i] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 85.

[i] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p. 9

[ii] Per capire meglio chi fosse Giorgio di Liechtenstein e il suo ruolo nella Trento tra Trecento e Quattrocento rimando al mio articolo del mese di Agosto riguardo il Castello del Buonconsiglio (https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/)

[iii] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p.9

[iv] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p. 10.

[v] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, p.9

[vi] E. Chini, Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento, pp. 10-11.

[vii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p.57.

[viii] E. Castelnuovo, I Mesi di Trento: gli affreschi di torre Aquila e il gotico internazionale, p.71.


IL CASTELLO DEL BUONCONSIGLIO A TRENTO

A cura di Beatrice Rosa
Fig. 1 – Il Castello del Buonconsiglio.

Introduzione

Uno dei simboli della città di Trento è rappresentato dal Castello del Buonconsiglio: un edificio risultato dell’aggregazione di diverse strutture, costruite in periodi storici differenti che hanno portato il castello ad essere il più vasto e importante complesso monumentale del Trentino-Alto Adige (fig. 1)[i].

Osservando l’esterno sono facilmente distinguibili quattro fasi di costruzione: il Castelvecchio con il torrione di Augusto che, essendo duecenteschi, costituiscono la parte più antica; attorno ad essi nel Quattrocento il vescovo Hinderbach fa costruire una struttura con la polifora a nove luci e loggiati sovrapposti, alla quale poi il cardinale Bernardo Clesio nel Cinquecento aggiungerà il suo palazzo, detto Magno Palazzo. L’edifico clesiano si unirà alle parti più antiche solo nel Seicento quando il vescovo Francesco Alberti Poia decide di far costruire la Giunta Albertiana. L’obiettivo del vescovo Alberti era quello di collegare gli edifici seguendo il principio di conformità, imitando i tratti esterni della dimora clesiana[ii]; nonostante ciò, le due parti sono attualmente facili da distinguere in quanto la parte cinquecentesca ha l’esterno in intonaco bianco, quella seicentesca invece grigio scuro (fig. 2).

Fig. 2 – Il castello del Buonconsiglio, differenza degli intonaci.

Tra Duecento e Trecento

La storia del Castello del Buonconsiglio comincia nel 1238, quando Sodegerio di Tito, podestà di Trento, fa costruire una residenza fortificata a ridosso della cinta muraria, ai piedi del dosso detto “Malconsiglio”. Le parti duecentesche dell’edificio vanno a costituire il Castelvecchio, con i merli ghibellini, le mura, la porta d’ingresso e la torre di Augusto (fig. 3).

Fig. 3 – La torre di Augusto.

Conseguentemente alla morte dell’imperatore Federico II nel 1250, la situazione politica è molto incerta, per questo motivo Sodegerio decide di rifugiarsi stabilmente nella sua residenza amministrando da lì la città e il principato. Vista l’opposizione a Ezzelino da Romano, condottiero e politico italiano, il podestà pensa sia necessario avere l’appoggio del partito vescovile, per questo entra in contatto con il vescovo Egnone[iii]. Questo rapporto finisce per essere negativo per Sodegerio, il quale è indotto dal vescovo a rinunciare alla carica di podestà e amministratore del potere temporale del principato e anche a tutti i suoi beni, compreso ovviamente il castello del Malconsiglio dove si insedia il vescovo stesso[iv]. Nel 1259 il conte del Tirolo Mainardo II impone la presenza di un capitano che lo rappresentasse e che con il vescovo partecipasse al potere, per questo il Castello diviene definitivamente residenza vescovile[v].

L’aspetto dell’edificio comincia così a mutare, lo si vede benissimo nello splendido ricamo di fine Trecento del Museo Diocesano Tridentino che ci mostra la struttura del Castello caratterizzato dal torrione, una cortina merlata e da un grande edificio, interventi di Mainardo II stesso e di alcuni vescovi[vi] (fig. 4).

Fig. 4 – Ricamatore boemo, Trasporto del corpo di S. Vigilio all’interno della città di Trento, 1390-1400. Trento, Museo Diocesano Tridentino.

Il Quattrocento

Un ruolo cardine per il Castello del Buonconsiglio lo ha Giorgio di Liechtenstein, principe vescovo eletto nel 1390; grazie a lui il castello abbandona l’aspetto di fortezza per assumere quello di residenza signorile. Il vescovo innanzitutto decide di introdurre un giardino circondato da mura e poi di importare alcune novità architettoniche probabilmente dall’Austria e dalla Boemia, come le ampie finestre a croce che permettono maggiore illuminazione degli ambienti[vii].

La figura di Giorgio di Liechtenstein è fondamentale soprattutto per quanto riguarda Torre Aquila, una torre risalente al XIII secolo che il vescovo decide di trasformare in uno spazio privato (fig. 5). Si occupa quindi di far ricostruire la torre, sopraelevarla e decorarla, affidando il compito al Maestro Venceslao che affresca le pareti con il celeberrimo Ciclo dei dodici mesi (fig. 6)[viii].

L’acquarello di Albrecht Dürer del 1494 del British Museum ci mostra l’importanza degli interventi di un’altra figura: il vescovo Giorgio Hack (1446-1475); un grandissimo committente che interviene nel castello facendo costruire una nuova cinta muraria intervallata da torri verso occidente (fig. 7)[ix].

Fig. 7 – Albrecht Dürer, Il Castello del Buonconsiglio, 1494, British Museum.

Il successore di Giorgio Hack, il vescovo Giovanni Hinderbach, riesce a lasciare il segno nel Castelvecchio. Giovanni è ricordato come uomo di buona cultura umanistica, ma soprattutto come feroce persecutore degli ebrei trentini nonché protagonista della vicenda di Simonino da Trento (ndr è ancora in corso la mostra sul terribile caso presso il Museo Diocesano Tridentino)[x].

Se già Giorgio di Liechtenstein aveva avuto un ruolo importante nella trasformazione del castello in residenza signorile, potremmo dire che Giovanni Hinderbach ha invece quello cruciale: commissiona infatti un nuovo giardino e una grande polifora sulla facciata principale che apre una veduta sulla città di Trento. Oltre ad alleggerire le strutture murarie, ne commissiona la decorazione, sia con pitture murali che con l’introduzione di marmi colorati[xi].

Il Cinquecento

Se fino a fine Quattrocento i vescovi si erano limitati a modificare o introdurre novità al Castello del Buonconsiglio, non è così per Bernardo Clesio, il quale pensa sia necessario costruire un palazzo ex novo, degno del suo ruolo di cardinale della chiesa romana. La prima pietra del palazzo viene posata il 25 febbraio 1528, quando Bernardo non aveva ancora ottenuto la porpora cardinalizia. Il Magno Palazzo doveva essere il simbolo della sua grandezza, del suo gusto e del suo ruolo per questo il cardinale si assicura che il palazzo venga apprezzato anche dagli altri poteri forti[xii] (fig. 8).

Fig. 8 – Il Magno Palazzo.

Dalla corrispondenza del cardinale durante i lavori si evince che aveva molta fretta di concludere la fabbrica, ma allo stesso tempo era volonteroso di confrontarsi direttamente con i pittori per decidere i soggetti delle raffigurazioni. Il Clesio non era interessato a cicli elaborati o programmi iconografici complessi, per lui della pittura e della scultura era rilevante solo che decorassero sontuosamente le stanze. L’attenzione del cardinale era soprattutto per i camini, un elemento caratterizzante per lo spazio pubblico in quanto conferiva alla sala un significato particolare, esibendo anche la cultura del committente stesso[xiii].

Per distinguersi dal suo predecessore Giorgio Neydeck, il Clesio non fa riferimento all'ambiente veronese per la scelta dell’architetto, bensì sceglie di riferirsi alla corte estense di Ferrara arrivando ad avere, su concessione di Alfonso I, Dosso Dossi come pittore di corte. Oltre a Dosso i pittori coinvolti nella decorazione del Magno Palazzo sono il fratello del pittore ferrarese, Battista, il bresciano Girolamo Romanino e il vicentino Marcello Fogolino[xiv].

Le commissioni del cardinal Clesio sono occasione di permanenza in città di molti artisti che contribuiscono alla diffusione dell’arte rinascimentale in Trentino e verso settentrione. La decorazione del Castello, essendo frutto di collaborazione di artisti bolognesi, lombardi, veneti, tedeschi, diventa fonte di uno stile con caratteristiche così particolari da essere denominato “clesiano”[xv].

Il Castello del Buonconsiglio durante il Concilio di Trento diventa luogo di residenza per illustri ospiti, ma nonostante ciò l’attività artistica dopo la morte del Clesio subisce un periodo di ristagno. Il cardinale Cristoforo Madruzzo, suo successore, si interessava solo al palazzo delle Albere, la residenza suburbana e così sarà per tutti i Madruzzo che si susseguiranno per tutto il secolo, preferivano infatti soggiornare a Roma vicini alla corte papale[xvi].

Dal Seicento all’Ottocento

Con il trasferimento di Sigismondo Alfonso Thun negli anni Settanta del Seicento, il Castello del Buonconsiglio torna ad essere abitato. Nel 1677 è nominato vescovo Francesco Alberto Poia, il quale assume il ruolo fondamentale per il XVII sec. commissionando la Giunta albertiana: un corpo di fabbrica che prolungava il palazzo clesiano fino alle mura del Castelvecchio ripetendone l’aspetto esterno[xvii].

Vista l’instabilità politica del periodo, l’opera di rinnovamento riprende solo nel 1755 quando si stabilisce nel castello il canonico Francesco Felice Alberti d’Enno, il quale si occupa di commissionare importanti lavori di adattamento che proseguono fino alla nomina a vescovo nel 1758. Dopo di lui ci sono stati pochi interventi, solamente l’ultimo principe vescovo Pietro Virgilio Thun aveva commissionato a Domenico Zeni e Antonio Pomaroli la realizzazione di alcuni ritratti di vescovi compreso il suo completando così la serie. Con questa commissione del 1792 si conclude così un periodo plurisecolare di storia e vita del castello[xviii].

Tra Settecento e Ottocento il Castello del Buonconsiglio è occupato prima dalle truppe austriache in fuga, poi dai francesi fino a che, il 10 aprile 1797, la reggenza vescovile viene esclusa dai rappresentanti del governo austriaco. Questo è solo l’inizio di un continuo passaggio di occupazione tra francesi e austriaci, tanto che nel 1813 il castello, ridotto a caserma militare, fu spogliato degli arredamenti, gli affreschi scialbati, vengono venduti o distrutti pavimenti, caminetti… riducendosi così in condizioni miserevoli[xix].

Il Novecento

Durante il secolo scorso emerge la volontà di salvare il castello, facendolo tornare al suo ruolo originario e non più di caserma militare. Scoppia però la Prima guerra mondiale, e tra 1915-18 la loggia del Castello del Buonconsiglio diventa carcere militare dove soggiornano parecchi patrioti trentini, alcuni di essi poi processati nell'antico refettorio clesiano. Sono condannati a morte in questa sede Damiano Chiesa, Cesare Battisti e Fabio Filzi[xx].

Solo con l’arrivo in città delle truppe italiane finiscono le terribili vicende del Castello del Buonconsiglio; Giuseppe Gerola riesce a sgomberare l’edificio dai militari assegnandolo al Ministero della Pubblica Istruzione per il ripristino. Gerola ha avuto il merito di rivendicare e recuperare per il Trentino, appena annesso al Regno d’Italia beni artistici, archivistici e bibliografici che erano conservati in territorio asburgico, oltre a questo restaura appunto il Castello del Buonconsiglio nel quale allestisce il Museo Nazionale, inaugurato nel 1924[xxi].

 

Note

[i] https://www.buonconsiglio.it/index.php/Castello-del-Buonconsiglio/monumento/Percorso-di-visita/Introduzione

[ii] Castelnuovo 1995, p. 11

[iii] Rasmo 1975, pp. 8-9

[iv] Castelnuovo 1995, p. 12.

[v] Castelnuovo 1995, p. 12.

[vi] Castelnuovo 1995, p. 14.

[vii] Castelnuovo 1995, p. 14

[viii] Castelnuovo 1995, pp. 14-16.

[ix] Castelnuovo 1995, pp. 14-16.

[x] Castelnuovo 1995, p. 19.

[xi] Castelnuovo 1995, pp. 19-23.

[xii] Castelnuovo 1995, p. 23.

[xiii] Castelnuovo 1995, pp. 23-27.

[xiv] Castelnuovo 1995, pp. 34-35.

[xv] Rasmo 1975, p. 47.

[xvi] Rasmo 1975, pp. 47-48.

[xvii] Rasmo 1975, pp. 48-49.

[xviii] Rasmo 1975, pp. 52-54.

[xix] Rasmo 1975, pp. 55-57.

[xx] Rasmo 1975, pp. 57-58.

[xxi] https://www.ufficiostampa.provincia.tn.it/Comunicati/Giuseppe-Gerola-a-ottant-anni-dalla-morte

 

Bibliografia

E. Castelnuovo e M. di Macco, Antico già, honor tutto rinnovato in Il Castello del Buonconsiglio, Percorso nel Magno Palazzo, volume primo, a cura di E. Castelnuovo, Trento 1995, pp. 11 – 49.

N. Rasmo, Il Castello del Buonconsiglio a Trento, Trento 1975.

 

Sitografia

Castello del Buonconsiglio: https://www.buonconsiglio.it/index.php/Castello-del-Buonconsiglio/monumento/Percorso-di-visita/Introduzione (ultima consultazione 30/07/2020)

Trentino, Quotidiano online della Provincia Autonoma di Trento – Ufficio stampa: https://www.ufficiostampa.provincia.tn.it/Comunicati/Giuseppe-Gerola-a-ottant-anni-dalla-morte (ultima consultazione 30/07/2020)

 

Referenze delle immagini

https://www.cultura.trentino.it/Luoghi/Tutti-i-luoghi-della-cultura/Musei-e-collezioni/Castello-del-Buonconsiglio

https://www.cultura.trentino.it/Approfondimenti/Giardini-del-Castello-del-Buonconsiglio

https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Torre_d%27Augusto_(Trento)?uselang=it

Castelnuovo e M. di Macco, Antico già, honor tutto rinnovato in Il Castello del Buonconsiglio, Percorso nel Magno Palazzo, volume primo, a cura di E. Castelnuovo, Trento 1995, p. 15.

https://it.wikipedia.org/wiki/Torre_Aquila

https://www.cultura.trentino.it/Luoghi/Tutti-i-luoghi-della-cultura/Palazzi-storici/Torre-Aquila

https://www.frammentiarte.it/2016/04-castello-di-trento/

https://www.cultura.trentino.it/Appuntamenti/Invito-a-corte.-Spazi-e-ritualita-dei-banchetti-nel-Magno-Palazzo-del-cardinale


LA CHIESA DI SAN ROCCO A CANEVE DI ARCO

A cura di Beatrice Rosa

A pochi chilometri dalla cittadina di Arco di Trento, nella frazione di Caneve, vi è la chiesa di San Rocco (fig. 1), un edificio liturgico molto piccolo che nasconde però un grande tesoro: quando vi si entra, non si può infatti che rimanere estasiati dalla bellezza e ricchezza degli affreschi e delle pale d’altare che lo decorano.

Fig. 1 - Chiesa di San Rocco di Caneve.

L’edificazione della chiesa risale al XV secolo, in occasione del matrimonio tra Odorico d’Arco e Susanna Collalto avvenuto nel 1480; ipotesi confermata dalla presenza delle sigle e stemmi dei due nobili affrescati nell’arco santo (fig. 2). Dalle fonti si evince come i Conti d’Arco fossero particolarmente affezionati a questa chiesa, probabilmente per la presenza di un palazzo dei conti proprio nella frazione arcense. Degno di nota il fatto che l’edificio non sia citato nell'elenco delle chiese del luogo per decenni, probabilmente perché fino al 1537, anno della prima visita pastorale, aveva la funzione di cappella privata[i].

Fig. 2 – Stemma di Odorico e Susanna.

L’accesso alla chiesa è favorito da due ingressi: quello principale a sud e quello secondario ad est. Come già anticipato, è un edificio di piccole dimensioni con l’aula rettangolare  larga 9 m, lunga 6 m e alta 7 m e l’abside a pianta quadrata con lato lungo 5 m e alta 4 m[ii]

La decorazione interna

La peculiarità della chiesa di San Rocco è la decorazione ad affresco su tutte le pareti, sia la parte del presbiterio che della navata, frutto essenzialmente di due campagne decorative: una di fine Quattrocento e l’altra di metà Cinquecento.

Gli affreschi del presbiterio

La prima campagna lavorativa, coeva con la costruzione dell’edificio di fine Quattrocento, riguardava gli affreschi del presbiterio, molto probabilmente ad opera del pittore rivano Gaspare Rotaldo[iii]. Accedendovi, non si può non notare la raffigurazione sulla parete di fondo di S. Antonio Abate e S. Agostino affiancati dai parzialmente visibili S. Sebastiano e S. Rocco (fig. 3). Gli affreschi sono molto rovinati perché, sicuramente dopo il 1519, è stata presa la decisione di dotare la chiesa di un vero altare e di una sacrestia, il che ha portato all'introduzione di una nicchia nella parete di fondo per contenere l’altare ligneo con il gruppo scultoreo della Madonna con i santi Rocco e Sebastiano e sulla parete di sinistra l’introduzione della porta per la sacrestia. Attualmente nell'altare ligneo c’è una Madonna con Bambino in marmo, in quanto sfortunatamente le tre sculture lignee sono state rubate nel 1987[iv].

Fig. 3 – Parete di fondo.

I quattro santi citati precedentemente sono inseriti in un paesaggio esteso sulle pareti laterali, un’immagine familiare se si visita la chiesa di San Rocco dopo essere stati nella cittadina di Arco: nell'angolo tra la parete sinistra e quella di fondo è infatti rappresentato il borgo di Arco e sotto il fiume Sarca[v].

La parete più interessante del presbiterio è sicuramente quella di sinistra, dove è raffigurato un personaggio ben abbigliato sdraiato sullo stipite dell’ingresso alla sacrestia (fig. 4). Questo giovanotto non è un semplice pellegrino, ma è San Rocco: sdraiato con la testa appoggiata al braccio destro, lo sguardo languido rivolto verso di noi, come se non si stesse accorgendo dell’arrivo del cane che gli sta portando una pagnotta. Il santo è raffigurato con tutti i suoi attributi più comuni: l’abbigliamento e il bastone da pellegrino, la piaga sulla gamba destra indicata da lui con la mano sinistra e appunto, il fedele amico. Sulla stessa parete, si vede sbucare anche un altro personaggio, un ragazzo biondo, dal naso prominente e le labbra carnose che sembra salutarci con la mano destra. Si è molto discusso sull'identificazione di questo giovane, con la conclusione che si tratti dello stesso Odorico d’Arco in atteggiamento di saluto alla moglie, la cui effige era con tutta probabilità raffigurata sulla parete opposta, lato del presbiterio sfortunatamente molto rovinato e manomesso[vi].

Fig. 4 – San Rocco.

Se si alza lo sguardo verso la volta a crociera, si noterà la rappresentazione dei quattro evangelisti in tondi, attorniati da dei simpaticissimi putti festosi occupati in svariate attività (fig. 5). La presenza di questi bambini alati è un meraviglioso esempio di convivenza di iconografia sacra e profana in un edificio liturgico[vii].

Fig. 5 - Putti.

Gli affreschi dell’aula

Molto diversi sono invece gli affreschi caratterizzanti l’aula, frutto di una campagna decorativa di metà XVI secolo attribuita a Dioniso Bonmartini e aiuti. Dioniso Bonmartini era un pittore di Arco, che già nel 1537 aveva firmato gli affreschi del sottogronda del Palazzo del Termine. Tramite questa testimonianza e lo stile peculiare del pittore, riconoscibile per i tratti fisionomici caratterizzati, la varietà di atteggiamenti e movenze e l’attenzione particolare alla gestualità delle mani, è stato possibile attribuirgli il ciclo pittorico di Caneve[viii].

La volta a crociera è decorata, come nell'abside, con quattro medaglioni che iscrivono le figure degli Evangelisti con i loro attributi, essi sono poi circondati da un motivo a grottesche caratterizzato da fiori e rami che si tramutano poi in vasi e in uccelli (fig. 6)[ix].

Fig. 6 – Volta sopra l’aula.

Gli affreschi parietali hanno come soggetto la Passione di Cristo. Il racconto va letto partendo dalla parete di destra dove è raffigurato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme: vediamo Cristo in groppa a un asino, accompagnato da vari personaggi tra cui S. Pietro, riconoscibile dalle chiavi nella mano destra e dalla tunica blu e il mantello giallo. A destra di questo episodio, c’è la scena successiva raffigurante l’Ultima Cena, più precisamente il momento in cui Gesù disse: “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà” (fig. 7). La narrazione prosegue sulla parete di fondo con la scena della lavanda dei piedi sulla sinistra e Cristo nell'orto del Getsemani sulla destra, episodi sfortunatamente molto rovinati a causa dell’apertura della finestra in facciata[x].

Fig. 7 – Parete di destra.

Dalla parete di fondo ci si rivolge poi alla quella di sinistra dov'è presente la vicenda della cattura di Cristo (fig. 8): Gesù è nell'atto di rimproverare S. Pietro che ha reciso con la spada l’orecchio destro ad uno dei convenuti. A destra, sul medesimo registro, si scorge un gruppo di soldati romani che scortano Gesù verso Anna, suocero di Caifa, per il giudizio preliminare.

Fig. 8 – Parete di sinistra.

Il racconto riprende poi nel registro inferiore della parete di destra (fig. 7): nel primo episodio vediamo Caifa in trono, vestito sontuosamente mentre discute con uno dei tanti sacerdoti al suo fianco; sta aspettando Gesù che arriva da sinistra scortato dai soldati romani, con lo sguardo affranto rivolto verso il basso. I soldati ritornano anche nella scena seguente sulla destra, in questo caso stanno conducendo Cristo davanti a Pilato. Il pittore sceglie di illustrare in questa parte di parete un episodio narrato dall'evangelista Matteo, cioè il momento in cui Pilato si fa portare da due inservienti dell’acqua e un catino che utilizza per lavarsi le mani. La narrazione prosegue poi sulla parete di fondo dove si possono ammirare due episodi commoventi della Passione: sulla sinistra la flagellazione con Cristo alla colonna, sulla destra l’incoronazione di spine[xi].

A differenza degli affreschi visti finora, gli episodi nel registro inferiore sulla parete sinistra, gli ultimi due prima della crocifissione, sono molto rovinati ma ancora perfettamente leggibili: sulla sinistra è raffigurato Cristo davanti ad Erode e a destra l’affollata salita al Calvario (fig. 8)[xii].

La narrazione si conclude poi sopra l’arco santo con la straordinaria Crocifissione (fig. 9), episodio che occupa lo spazio che nelle altre pareti sarebbe stato investito per rappresentare due scene. Al centro vediamo Cristo crocifisso, con il corpo candido, la testa reclinata verso il basso in un atteggiamento di rassegnata accettazione. Al suo fianco i due ladroni in croce, con il corpo più rosaceo, in pose contorte e divincolate, probabilmente a causa del dolore che rende anche i loro volti quasi grotteschi. Ai piedi della croce si notano Maria Maddalena e S. Giovanni Evangelista con gli occhi rivolti verso l’alto; un dettaglio meraviglioso è quello in primo piano con le quattro donne che reggono la Vergine svenuta dal dolore nel vedere il figlio crocifisso[xiii].

Fig. 9 – La crocifissione.

Oltre al ciclo della Passione, è degno di nota anche l’affresco alla destra della porta laterale (fig. 10). Esso raffigura una mensa d’altare sulla quale, tra i candelabri, è presente un ostensorio in oro al cui interno si può scorgere l’eucarestia con il Cristo crocifisso, il tutto coperto da un leggerissimo velo trasparente[xiv]. Tra le due colonne sullo sfondo, è compresa la pala d’altare: essa ha come soggetto due santi, di cui noi oggi vediamo solo dal busto fino ai piedi, nonostante ciò, sono perfettamente riconoscibili come S. Sebastiano sulla sinistra e S. Bernardino sulla destra. Inginocchiati davanti all'altare riconosciamo S. Rocco, indicante con la mano destra la piaga sulla gamba, e S. Girolamo in vesti di eremita in preghiera, come i tre giovinetti al centro della composizione. Questo affresco non presenta discontinuità nella stesura dell’intonaco, il che fa pensare, considerate anche le molte analogie stilistiche, che sia stato realizzato dalla stessa mano degli affreschi della Passione di Cristo[xv].

Fig. 10 – Mensa d’altare.

Osservando le pareti dell’aula, si potrebbe rimanere invece perplessi nel vedere degli affreschi molto diversi rispetto a quelli descritti finora. Gli affreschi “anomali” sono essenzialmente tre: raffiguranti la Resurrezione di Cristo (fig. 11), le pie donne al sepolcro (fig. 12) e l’Assunzione in cielo di Maria (fig. 13). Essi sono atipici sia dal punto di vista stilistico che dal punto iconografico: basti pensare all'Assunzione della Vergine, un episodio alquanto slegato dal contesto della Passione in quanto non sono presentati altri fatti quali, per esempio, la Pentecoste[xvi].

Con tutta probabilità la narrazione comincia con la Resurrezione, un affresco molto rovinato e poco leggibile in cui si vede ancora Cristo che risorge con in mano il vessillo crociato, la sagoma del sarcofago e di un soldato. Contrariamente a quello appena citato, l’affresco della Pie donne al sepolcro verte in un ottimo stato conservativo che permette di leggerne tutti i dettagli: in primo piano si vede il sepolcro scoperchiato e l’angelo che lo indica. Alla scena assistono ben undici figure femminili, la più visibile e facilmente identificabile è Maria Maddalena, con il vasetto degli unguenti in mano e il canonico abito rosso. Questa scena è particolarmente interessante anche perché è “un episodio nell'episodio”, infatti con un po’ di attenzione, si può notare in basso a sinistra Gesù, nelle vesti di ortolano, che appare alla Maddalena. La coesione di due scene in una, è un fatto inusuale nella chiesa di San Rocco, come anche peculiare è lo stile utilizzato che fa pensare a una mano diversa rispetto a quella di Dioniso Bonmartini e aiuti. Sulla parete opposta è invece presente l’Assunzione della Vergine, il più rovinato degli affreschi dove si può solamente scorgere la figura sbiadita di Maria[xvii].

Gli altari laterali

Oltre ai meravigliosi affreschi, la chiesa di San Rocco è di grande importanza per le due pale d’altare che decorano gli altari ai lati del presbiterio di cui però vi parlerò in un’altra occasione![xviii] (fig. 14-15)

 

BIBLIOGRAFIA

Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994.

Il paesetto di Caneve d'Arco e la sua chiesina di San Rocco, a cura di F. Zendron, Trento 1964.

Podetti, Gli affreschi cinquecenteschi del Palazzo del Termine ad Arco, in “Sommolago”, XXV, 2008, 3, pp. 5-114.

 

CREDITI FOTOGRAFICI

  1. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-san-rocco/
  2. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  3. https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g670770-d11963970-Reviews-Chiesa_di_San_Rocco-Arco_Province_of_Trento_Trentino_Alto_Adige.html
  4. https://elenaedorlando.wordpress.com/2013/10/20/passeggiate-domenicali/
  5. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  6. https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g670770-d11963970-Reviews-Chiesa_di_San_Rocco-Arco_Province_of_Trento_Trentino_Alto_Adige.html
  7. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  8. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  9. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  10. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  11. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  12. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  13. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  14. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  15. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 246.

[ii] Il paesetto di Caneve d’Arco e la sua chiesina di S. Rocco 1964, pp. 11-12.

[iii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 36-43.

[iv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 55-56.

[v] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 44-53.

[vi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 44-53.

[vii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 36-43.

[viii] E. Podetti, Gli affreschi cinquecenteschi del Palazzo del Termine ad Arco, in “Sommolago”, XXV, 2008, 3, pp. 21-29.

[ix] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[x] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xiii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xiv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xvi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xvii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xviii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 57-63.


LA CHIESA DELLA DISCIPLINA A RIVA DEL GARDA

Uno dei luoghi simbolo di Riva del Garda è la porta di San Giuseppe, uno dei tre passaggi verso il centro della cittadina e la riva del lago (fig. 1-2). Molto spesso turisti e abitanti del luogo non conoscono però il ruolo originario dell’edificio, tanto che rimangono stupiti nel vedere spiccare sulla porta un campanile barocco. Questo è uno dei primi indizi per capire cosa fosse anticamente la porta di San Giuseppe: una chiesa, più precisamente la più antica di Riva del Garda, prima intitolata alla Disciplina e poi a San Giuseppe [i].

Le informazioni sull’edificio liturgico e sulla data della sua costruzione sono sfortunatamente frammentarie, probabilmente è stato costruito in tempi molto lontani, in quanto, sul famoso campanile di rifacimento barocco, è rimasta ancora la raffigurazione della croce a otto punte dell’ordine dei Cavalieri di Malta e dalle fonti emerge che ne era presente un’altra sulla facciata, una all’interno e una ad affresco nella sagrestia. L’ordine dei Cavalieri di Malta è stato fondato a Gerusalemme nel 1023, non solamente come ordine religioso e cavalleresco, ma anche ospedaliero, elemento rilevante in quanto la chiesa della Disciplina è stata per secoli connessa all’ospedale che le sorgeva a fianco di cui parlerò successivamente [ii].

Non esiste documentazione che provi che sono stati i Cavalieri di Malta a fondare l’edificio liturgico e quello ospedaliero, ma è certo che nel Duecento l’edificio era già presente, in quanto esiste un documento del 1275 che riporta la donazione di un cittadino rivano di sei materassi per l’ospedale e una tunica nuova per l’eremita che vi risiedeva [iii].

Dal Quattrocento in poi la costruzione è sempre nominata come chiesa della confraternita dei Battuti o dei Disciplini, istituzione composta da laici trentini che si proponevano di servire Dio con le opere di carità; la denominazione di “Battuti” potrebbe trarre in inganno e creare confusione con i “Flagellanti” le cui pratiche di mortificazione erano però molto più violente rispetto a quelle dei Disciplini [iv].

Questa confraternita non era un unicum, il fenomeno confraternale era infatti molto radicato nel principato vescovile di Trento, tanto che solo nella cittadina di Riva del Garda erano presenti, nella seconda metà del Seicento, ben nove confraternite di cui la più antica e documentata è proprio quella della Disciplina [v].

Dalle fonti è possibile ricostruire il testo normativo della confraternita, risalendo agli obblighi e alle responsabilità dei loro membri: si occupavano di attività di carattere religioso, sociale e caritativo. I membri della confraternita dovevano versare periodicamente delle somme di denaro per l’istituzione e per la tutela del patrimonio, da ciò si può dedurre che avevano dei beni della chiesa da curare e da salvaguardare [vi].

Come già anticipato precedentemente, oltre alla chiesa, i Disciplinati gestivano anche un ospedale ricordato dalle fonti già dalla seconda metà del Duecento. Questa istituzione per secoli ha dedicato attenzione e risorse a poveri e malati, con particolare riguardo alle ragazze povere e prive di dote [vii]; la missione di questo edificio doveva essere particolarmente apprezzata dai cittadini rivani, viste le numerose e corpose donazioni fatte nel corso dei secoli che hanno permesso alla struttura di continuare il proprio lavoro fino al 1903, quando viene sostituito dall’Ospedale Civile [viii].

Fig. 3 – Interno chiesa/porta San Giuseppe.

Dalla documentazione emerge che tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, sia l’ospedale che la chiesa della Disciplina sono stati ristrutturati, ampliati e rinnovati; un’importante testimonianza è la Visita Pastorale di Ludovico Madruzzo nel 1597, grazie alla quale sappiamo che la chiesa aveva tre altari: l’altare maggiore, uno dedicato a Sant’Antonio e uno a San Giuseppe, decorati nel tempo con tre bellissime opere [ix].

L’altare maggiore e quello di San Giuseppe erano occupati da due pale d’altare raffigurati rispettivamente un Compianto su Cristo morto del 1531 (fig. 4) e un’Adorazione dei pastori del 1530 (fig. 5), entrambe dipinte dal misterioso e affascinante pittore del Cinquecento “F.V.”, ad oggi conservate presso il MAG – Museo Alto Garda.

Per quanto riguarda invece l’altare di San Giuseppe, nel 1579 è citato nella Visita Pastorale con “sine palla”, è stato infatti decorato solo nel 1607 dal pittore bresciano Antonio Gandino, con un pala raffigurante i Santi Antonio Abate, Apollonia, Agata, Rocco e Leonardo oggi sfortunatamente molto danneggiata (fig. 6)[x].

Un’altra descrizione utile, per capire com’era la chiesa in origine, è quella della Visita Pastorale del 1653. In questa occasione l’edificio liturgico risulta divisa in due navate, con la presenza dell’altare maggiore, quello di San Giuseppe, uno di Sant’Apollonia (probabilmente quello precedentemente citato come di Sant’Antonio) e nella navata laterale ne è citato un altro dedicato alla Madonna del Carmine [xi]. Questo nuovo altare non è stato probabilmente commissionato dai Disciplini, bensì da un’altra confraternita, quella della Beata Vergine del Carmelo. L’altare ligneo è attualmente conservato presso la chiesa di San Giorgio di Arco e, nonostante le manomissioni e ridipinture, si nota ancora la sua originaria bellezza. Da una foto storica si evince che era costituito da quattro colonne, nella nicchia centrale era presente la Madonna del Carmine e ai lati due statue di dimensioni minori di cui non si conosce il soggetto; nella parte alta è presente un fregio caratterizzato da cherubini, rosette, festoni e un medaglione centrale ormai vuoto (fig. 7) [xii].

Fig. 7 – Altare ligneo della Beata Vergine del Carmelo, fotografia del 1930 circa, Gardone Riviera, Archivio Fondazione Il Vittoriale degli Italiani.

La svolta avviene però a fine Seicento, quando l’edificio liturgico viene riorganizzato e totalmente rinnovato: viene rimosso l’altare con il Compianto su Cristo morto conferendo maggiore importanza a quello dedicato a San Giuseppe, spostato nell’area presbiteriale. La chiesa necessitava di un nuovo altare maggiore, la commissione viene quindi affidata ad alcuni tagliapietre della zona, tra cui Silvestro Ogna, attivo a Limone sul Garda [xiii]. L’altare è attualmente conservato nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Sarche dove si può ancora apprezzare la bellissima incorniciatura marmorea costituita da quattro colonne di marmo mischio e da una cimasa con timpano triangolare (fig. 8). La cimasa è inoltre caratterizzata da due bellissimi angeli in preghiera che sono stati avvicinati alla bottega bresciana dei Carra da Giuseppe Sava [xiv].

Fig. 8 – Silvestro Ogna e aiuti, Altare maggiore, 1697 circa, Sarche, chiesa di Santa Maria del Carmine (già Riva del Garda, chiesa della Disciplina).

Nel 1714 i Disciplinati decidono di commissionare un altro altare, dedicato a San Francesco Saverio, sulla cui commissione non abbiamo molte informazioni, ma ciò che è certo è che nel 1718 i lavori erano conclusi. La pala che ornava l’altare è andata perduta, mentre la struttura marmorea è ancora mirabile nella chiesa di San Rocco a Nave San Rocco (fig. 9). Sempre per rinnovare la chiesa, oltre all’altare prima citato, la confraternita decide di acquistare a Venezia anche dei nuovi arredi liturgici principalmente argentei [xv].

Fig. 9 – Maestranze castionesi, Altare di san Rocco, 1714-18 circa, Nave San Rocco, chiesa di San Rocco (già Riva del Garda, chiesa della Disciplina).

Negli anni Sessanta del Settecento questa volontà di rinnovamento diventa totale, infatti tra il 1763 e il 1766 la facciata viene completamente rinnovata, come anche il tetto e il campanile. In questa circostanza sono interessanti i documenti riguardo a dei pagamenti a Bartolomeo Zeni, un pittore formatosi nell’ambito dell’Accademia veronese residente a Riva del Garda, il quale dipinge le Virtù teologali che sono ancora visibili sul soffitto dell’attuale passaggio (fig. 10) [xvi].

Fig. 10 – Bartolomeo Zeni, Virtù teologali, 1795, Riva del Garda, passaggio pedonale (già chiesa della Disciplina).

A causa dell’imminente arrivo delle truppe francesi dell’armata d’Italia guidate da Napoleone Bonaparte, la situazione stava peggiorando in modo drastico, ma fortunatamente i Disciplinati riescono nel 1796 a scongiurare il pericolo di vedere la chiesa appena rinnovata ridotta a magazzino costruendo delle barriere lignee. Nel primo decennio dell’Ottocento la confraternita è stata soppressa e la gestione dell’ospedale e della chiesa fu affidata alla Congregazione della Carità [xvii].

Alla fine dell’Ottocento la chiesa di San Giuseppe viene restaurata e assolve la sua funzione fino all’agosto del 1914 quando è adibita a magazzino per l’Imperiale e regio esercito, da questo momento in poi l’edificio liturgico subisce ogni tipo di affronto [xviii].

Durante la Prima guerra mondiale la chiesa è gravemente danneggiata, nonostante l’appello di un agguerrito comitato di cittadini rivani nel 1924, l’arciprete di Riva, considerando la chiesa dei Disciplini secondaria, preferisce chiedere che i fondi destinati quale indennizzo per danni di guerra vengano destinati per il restauro dell’Inviolata. Prevale quindi l’indirizzo di fine anni Dieci di abbattere, o almeno sventrare la chiesa, ormai ritenuta di poco pregio artistico. Vengono venduti i tre altari e le pale della chiesa con altre opere seguono invece la via della musealizzazione, il resto del patrimonio è perduto [xix].

Ed ecco quindi che viene creato il nuovo accesso carrabile al centro della cittadina, il famoso passaggio che magari attraverserete voi un giorno e in quell’occasione spero vi fermerete a ripensare a tutto ciò di cui vi ho parlato.

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 322.

[ii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 322.

[iii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 322.

[iv] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 323.

[v] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 147.

[vi] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 147-149.

[vii] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 160-161.

[viii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 327.

[ix] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 325.

[x] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 182.

[xi] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 183.

[xii] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 183.

[xiii] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 184.

[xiv] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 184.

[xv] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 184-185.

[xvi] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 187.

[xvii] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 188.

[xviii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 327.

[xix] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 181.

 

Bibliografia

Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000.

G. Sava, F.V.: un pittore del Cinquecento e il suo monogramma, Rovereto 2008.

Referenze delle immagini

1. https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_di_San_Giuseppe_(Riva_del_Garda)#/media/File:Ex_chiesa_di_San_Giuseppe_(Riva_del_Garda)_01.jpg

2. http://www.itinerariperviaggiare.it/2014/07/itinerario-riva-del-garda-sole-vento-e.html

3. http://www.itinerariperviaggiare.it/2014/07/itinerario-riva-del-garda-sole-vento-e.html

4. G. Sava, F.V.: un pittore del Cinquecento e il suo monogramma, Rovereto 2008.

5. G. Sava, F.V.: un pittore del Cinquecento e il suo monogramma, Rovereto 2008.

6. Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

7. Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

8. Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

9. Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

10. https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_di_San_Giuseppe_(Riva_del_Garda)#/media/File:Ex_chiesa_di_San_Giuseppe_(Riva_del_Garda)_01.jpg


LA VALLE DI LEDRO E VENEZIA.

“è racchiusa la valle trà il lago d’Idro, che tien’ à Ponente, havendo da Levante quel di Garda verso Riva, dove calasi per una strada scalpellata nel Sasso, & aperta da Scaligeri, al’hor che n’erano Signori. Via, che se ben’ ardua, & erta: è però viaggiabile buona parte co’l Carro, e tutta con Muli, che v’han fatto il Calle.” - Michelangelo Mariani,1673[i]

Fig. 1 – La Valle di Ledro.

Queste parole di Michelangelo Mariani descrivono bene la Valle di Ledro, ossia una valle del Trentino sud-occidentale, luogo di congiuntura tra la valle del Chiese e il lago di Garda. Questa valle non è famosa solamente per il suo bellissimo lago, ma anche per dei meravigliosi dipinti ubicati nelle varie chiese dei paesi che in essa sono situati.

La Valle di Ledro, come tante altre realtà di questa zona del Trentino, è stata legata per secoli da rapporti, principalmente economici, con la Repubblica di Venezia. Fin dal Duecento ci sono testimonianze negli archivi veneti di uomini ledrensi attivi come lavoratori nella città lagunare, e nel Cinquecento si potrebbe dire che il rapporto tra le due località, comincia ad essere “bilaterale”. Venezia trae dei benefici da parte della Valle di Ledro, principalmente grazie al rifornimento di pelli, lana ma soprattutto della preziosa pece, necessaria per il calafataggio delle navi prodotte nell’Arsenale. Nel XVI sec. infatti la Valle di Ledro, principalmente il paese Tiarno di Sopra, era un luogo cardine per i forni di creta che provvedevano a ricavare la pece, derivata dalla resina di pino silvestre o di larice.

A Venezia, i valligiani facevano parte di una delle più importanti comunità straniere in città tra Quattrocento e Cinquecento: la comunità dei tedeschi con sede presso il Fondaco dei tedeschi[ii]. I ledrensi lavoravano come calafati (addetti alla calafatura delle navi mediante la pece), come segadori (coloro che ricavavano assi dai tronchi segati a mano) ma principalmente come ligadori; diedero infatti vita ad una corporazione di facchini aventi l’esclusiva per il carico e lo scarico delle navi della Serenissima all’Arsenale[iii].

Grazie alle nobili famiglie di origine veneziana che soggiornava o si erano stabilite a Tiarno di Sopra e Tiarno di Sotto, gli ultimi due paesi della valle, e ai preziosi regali di tiarnesi attivi e residenti a Venezia per le loro parrocchie d’origine, le chiese di questi due paesi e della valle in generale conservano tuttora testimonianze pittoriche di alto valore artistico di ambito veneto[iv].

La chiesa di San Bartolomeo a Tiarno di Sotto

La piazza del centro di Tiarno di Sotto è contraddistinta dalla presenza della chiesa di San Bartolomeo (fig. 2), un edificio liturgico imponente sorto probabilmente come cappella già nel XII secolo. Un aspetto importante da ricordare è che fino al 1656 la comunità di Tiarno di Sotto dipendeva dalla chiesa di Tiarno di Sopra, il paese limitrofo di cui vi parlerò successivamente[v]; dopo questa definitiva separazione la chiesa di San Bartolomeo fu eretta a curazia. L’assetto attuale è il frutto della costruzione seicentesca e di alcune modifiche e ampliamenti ottocenteschi, tra cui la decorazione pittorica dell’interno a tempera per mano del mantovano Agostino Aldi che operò qui dal 1895 al 1924 (fig. 3)[vi].

La chiesa ha al suo interno preziose opere: gli antependia di altari, realizzati da lapicidi di ambito bresciano tra fine XVII e inizio XVIII secolo, e i dipinti di ambito veneto di cui voglio parlarvi.

Fig. 2 – La chiesa di San Bartolomeo a Tiarno di Sotto.
Fig. 3 – L’interno della chiesa di San Bartolomeo.

Appena entrati non si può non rimanere meravigliati dalla zona presbiteriale, dai marmi policromi che caratterizzano l’altare maggiore realizzato da maestranze di ambito bresciano nell’Ottocento e dal polittico (fig. 4) che sta dietro di esso, opera che si inserisce pienamente nella cultura manierista veneziana di metà Cinquecento. Questa è proprio una di quelle opere donate alla chiesa dai ledrensi residenti a Venezia; il polittico è datato 1587, attualmente attribuito a maestranze veneziane ma per secoli ha portato il nome di Jacopo Tintoretto. Nell’anno di realizzazione e di arrivo in chiesa di quest’opera, Tiarno di Sotto era ancora dipendente dal paese limitrofo, questo spiega la raffigurazione dei santi titolari di entrambe le chiese. I due santi a lato della Madonna con il Bambino sono S. Bartolomeo e S. Giorgio, quelli adiacenti alla Crocifissione sono S. Pietro e S. Paolo. Dopo il restauro del 1992-93 è stato possibile affermare che l’opera è frutto di più mani: un pittore ha sicuramente eseguito i due scomparti centrali mentre un secondo i santi prima citati e la cimasa con il Padre Eterno. La cornice intagliata e dorata non è coeva ai dipinti, ma successiva, si tratta infatti di un’opera di Bombana, uno scultore di Roncone attivo nel XVII secolo[vii].

Fig. 4 – Polittico di pittori veneziani, 1587, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto.

Questa non è però l’unica opera di ambito veneto, sono infatti presenti anche due tele di grandi dimensioni collocate sopra le porte laterali. Sulla parete destra è presente quella con soggetto l’Ultima cena (fig. 5), commissionata da un membro della famiglia Ferrari, ritratto in basso a sinistra con gli occhi rivolti allo spettatore. È un dipinto firmato e datato 1666 da Ferdinando Valdambrini un pittore proveniente dalla Valtellina, che probabilmente, data l’influenza veneta, ha trascorso un periodo della sua vita a Venezia. Sulla parete sinistra è presente un dipinto successivo, datato 1702 raffigurante la Pentecoste che, secondo un’iscrizione, fu commissionato dai fratelli Zendri[viii].

Fig. 5 – Ferdinando Valdambrini, Ultima Cena, 1666, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto.

La predilezione degli abitanti di Tiarno per l’arte veneta è confermata dagli acquisti che vennero fatti tra Ottocento e Novecento, due tavole provenienti dal duomo di Trento di forte ispirazione dall’ambiente veneziano[ix].

La prima cappella laterale destra dell’aula è caratterizzata dalla presenza di un altare in marmi policromi realizzato nel 1897, anno di arrivo della pala raffigurante la Madonna col Bambino e i SS. Giovannino, Rocco Vigilio e Antonio da Padova (fig. 6) proveniente dal duomo di Trento. In alto al centro è presente la Madonna con il Bambino e dietro di lei S. Giovannino, riconoscibile dalla croce e dalla veste di pelliccia. La Vergine ha lo sguardo rivolto verso il basso dove sono presenti tre santi: a sinistra S. Vigilio, in contatto visivo con Gesù Bambino, riconoscibile dalla mitria vescovile ai suoi piedi e dallo zoccolo in legno, simbolo del suo martirio; sulla destra, con gli occhi verso lo spettatore è presente S. Antonio da Padova, che indossa il saio francescano e tiene un giglio bianco nella mano destra; in basso invece, sdraiato, è raffigurato S. Rocco, con gli occhi rivolti verso la piaga sulla sua gamba destra, in abiti da pellegrino e con il cane dietro il braccio destro. Il dipinto, databile al XVII secolo, sembra ispirato a due stampe carraccesche: una del 1582 di Agostino della Pala Giustiniani di Paolo Veronese e l’altra di Ludovico nella versione anonima, Sacra Famiglia sotto un arco. L’autore di questa pala è tutt’ora sconosciuto; oltre alle componenti carraccesche, sono stati rilevate delle componenti di pittura veneta che hanno portato a formulare l’ipotesi dell’appartenenza dell’artista all’ambiente veronese[x].

Fig. 6 – Pittore veronese della prima metà del secolo XVII, Madonna col Bambino e i SS. Giovannino, Rocco, Vigilio e Antonio da Padova, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto.

Il secondo altare laterale destro, denominato all’Assunta, ha come protagonista la pala raffigurante l’Assunta con i Santi Vigilio ed Ermagora (?) (fig. 7) attribuito da Elvio Mich nel 1990 a Martino Teofilo Polacco.

Martino Teofilo Polacco è un personaggio chiave per il Trentino, è un pittore probabilmente nato in Polonia, la cui formazione si compie a Venezia nell’orbita di Palma il Giovane e di Hans Rottenhammer. Si sa molto poco dei suoi esordi, ma la sua carriera artistica inizia “ufficialmente” a Trento verso il 1600 alla corte del principe vescovo Carlo Gaudenzio Madruzzo. Suoi dipinti si trovano in molte chiese del Trentino: a Calavino, Cembra, Malé, Spormaggiore, Riva del Garda e tanti altri.

Fig. 7 – Martino Teofilo Polacco, Assunta con i SS. Vigilio ed Ermagora (?), 1620 circa, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto.

Tra le sue opere più prestigiose ci sono gli affreschi dell’abside della chiesa di Santa Maria Maggiore a Trento e i dipinti realizzati per il Duomo, di cui uno quello in oggetto; la presenza della pala a Tiarno di Sotto è segnalata per la prima volta nel 1912, in occasione della visita canonica. Molto probabilmente quest’opera è stata concepita anche con una predella: il Museo Diocesano Tridentino ad oggi conserva infatti un dipinto raffigurante la Strage degli innocenti e la fuga in Egitto che ha elementi riconducibili alla pala tiarnese. L’ipotesi di una relazione è essenzialmente basata sulla qualità cromatica, luminosa e di elementi iconografici, una supposizione accattivante che però nessun documento attualmente può confermare[xi].

Nella parte alta del dipinto è raffigurata una Madonna sorretta da angeli e putti, mentre nella parte bassa due santi vescovi: a sinistra S. Vigilio e a destra probabilmente S. Ermagora. L’opera fu oggetto di un restauro particolarmente importante che, grazie alla pulitura, ha rimesso in luce la scena sullo sfondo tra i due santi raffigurante il martirio di S. Viglio che conferma l’identità di uno dei due santi vescovi (fig. 8). In base allo stile e al confronto con la pala autografa di Martino Teofilo realizzata per la chiesa parrocchiale di Tassullo, l’opera è databile agli anni Venti del Seicento, momento in cui l’artista era più legato all’opera tarda di Palma il Giovane e soprattutto allo scadere del suo soggiorno trentino, in quanto nel 1621 parte per Salisburgo[xii].

Fig. 8 – Martino Teofilo Polacco, Assunta con i SS. Vigilio ed Ermagora (?), 1620 circa, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto (dettaglio con il martirio di San Vigilio).

La chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Tiarno di Sopra

Dopo aver visto la chiesa di San Bartolomeo a Tiarno di Sotto, ci spostiamo di 2 km, nel paese di Tiarno di Sopra per vedere la chiesa dei SS. Pietro e Paolo (fig. 9). L’edificio liturgico sorge su una cappella costruita tra il X e l’XI secolo, anche essa nata probabilmente sui resti di un antico oratorio di età barbarica. Dopo la visita pastorale del cardinale e principe vescovo Bernardo Clesio nel 1537, si decide di dare inizio a dei lavori di restauro per ovviare alla senescenza, all’umidità e all’assenza di luce che caratterizzavano l’edificio antico. I lavori di riadattamento cominciano nel 1562 ma non coinvolgono le strutture dell’intero edificio in quanto, durante la visita pastorale successiva del 1580 indetta dal cardinale Ludovico Madruzzo, si segnala che il tetto è pericolante[xiii].

Negli anni Trenta del Seicento si registra un forte incremento della popolazione ledrense, molto probabilmente a causa della peste del 1629-1632 che colpisce varie località e porta così all’esodo di molte famiglie verso la Valle di Ledro. Conseguentemente all’incremento della popolazione, si sente la necessità di ampliare anche l’edificio liturgico di Tiarno di Sopra, al tempo dedicato a S. Paolo. Nel 1640 cominciano i lavori di ampliamento e rinnovamento della chiesa, per mano di maestranze venete e lombarde che consegnano al paese il nuovo edificio una decina di anni dopo. Nel 1652 il vescovo Carlo Emanuele Madruzzo consacra l’edifico con la dedicazione ai SS. Apostoli Pietro e Paolo[xiv].

Come nel caso di Tiarno di Sotto, anche qui vorrei parlarvi delle opere di ambito veneto conservate all’interno dell’edificio. Dalle fonti si evince che la chiesa originaria dedicata a S. Pietro ospitasse dei preziosi dipinti di Jacopo Bassano caratterizzati da influssi dei maggiori pittori veneti del Cinquecento, quali Tiziano e Tintoretto. Sfortunatamente questi dipinti raffiguranti uno S. Rocco, uno S. Antonio Abate e uno l’Angelo Custode, sono considerati perduti, in quanto non si ha più alcuna notizia[xv].

Al tempo della consacrazione della nuova chiesa dedicata ai SS. Apostoli Pietro e Paolo nel 1652, l’interno era privo di decorazioni; i fregi, gli stucchi, i cornicioni, gli altorilievi, gli altari e le singole cappelle vengono infatti realizzati nel periodo tra la consacrazione e il 1702, data di fine lavori incisa su un fregio di pietra rossa sull’architrave della porta d’entrata occidentale[xvi]. Ma in questi cinquant’anni, come anche a Tiarno di Sotto, la chiesa fu impreziosita da meravigliosi dipinti donati dai lavoratori tiarnesi emigrati a Venezia.

Fig. 9 – La chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Tiarno di Sopra.
Fig. 10 – Interno della chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Tiarno di Sopra.

Entrando dall’edificio si rimane un po’ sorpresi dall’apparente aspetto spoglio dell’aula (fig. 10), sentimento che subisce un mutamento nell’attimo in cui si notano i meravigliosi cinque dipinti che decorano le cappelle laterali. A sinistra colpisce immediatamente un elegante altare in marmo nero (fig. 12), intitolato a S. Simone e S. Giuda, fatto erigere da dei mercanti residenti a Venezia. Leggendo l’iscrizione in color oro sulla cimasa, si evince che l’altare fu commissionato da Simone Sala e dai suoi fratelli nel 1640, commissione che venne assolta utilizzando un marmo ledrense, proveniente dalla cava locale di Ovri, località Ampola. Tra le colonne doriche spicca una meravigliosa pala attribuita nel 1978 da Passamani a Bernardo Strozzi [xvii].

Bernardo Strozzi, come è ben noto, è uno dei più importanti esponenti della pittura barocca in Italia; nasce a Genova dove ha una formazione tardo manierista che lo porta poi sulla strada per Venezia dove apprende il colorismo veneto e la forte intensità espressiva riscontrabile in questo dipinto (fig. 11). Al centro dell’olio su tela si vede la Madonna con in braccio il Bambino la quale si rivolge verso S. Bartolomeo, riconoscibile dal coltello e dal libro nella mano destra; dietro di lui, con gli occhi rivolti verso lo spettatore, è presente S. Simone con la sega in mano e al fianco della Vergine, in contatto visivo con Gesù Bambino S. Antonio Abate rappresentato con il bastone a tau, con la campanella nel braccio sinistro e il libro in mano. S. Simone non è l’unico personaggio a coinvolgere emotivamente lo spettatore, in primo piano infatti si vede inginocchiato S. Pietro con le chiavi e il libro in mano, nell’atto di indicare allo spettatore la Vergine con la mano destra. Un’altra presenza che rende partecipe il visitatore sono le due figure dei committenti in basso a destra, i fratelli Sala, abbigliati con abiti austeri e colletti bianchi. La composizione è ravvivata dal meraviglioso blu del mantello della Vergine e dell’abito di S. Pietro, colore che ha inoltre dato l’idea di un confronto inedito tra il pittore seicentesco e l’artista contemporaneo Yves Klein presso il Mart – Museo d’arte moderna e contemporanea di Rovereto, in occasione del restauro in accordo con la Diocesi di Trento effettuato l’autunno scorso (fig. 13).

Fig. 11 - Bernardo Strozzi, Madonna con Bambino e i Santi Pietro, Bartolomeo, Simone, Antonio Abate e i committenti, 1640, chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra.
Fig. 13 – Bernardo Strozzi e Yves Klein al Mart.

In chiesa questa non è l’unica opera legata a Bernardo Strozzi, infatti, appena entrati, la prima opera a catturare la nostra attenzione è il Crocifisso e la Maddalena (fig. 14) che decora l’altare maggiore nell’abside[xviii]. Perché dico “legata” a Bernardo Strozzi? Il dipinto venne attribuito da Bruno Passamani nel 1978 a Bernardo Strozzi e tale idea permane fino al 2012 quando, Camillo Manzitti redige una monografia sul pittore genovese, in cui tratta anche la pala di Tiarno di Sopra proponendo la paternità, sulla base di alcuni confronti con altri dipinti ad un allievo di Bernardo Strozzi, Ermanno Stroiffi.

Molto probabilmente quando lo Strozzi prese i contatti con i fratelli Sala nel 1640, decise di occuparsi personalmente di quella trattata precedentemente e di lasciare il Crocifisso a un suo allievo, dipinto voluto dalla popolazione del paese per una cifra meno elevata[xix].

Fig. 14 – Ermanno Stroiffi, Crocifisso e la Maddalena, prima metà del XVII sec., chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra.

La composizione, rispetto all’opera dello Strozzi, è tutta incentrata sui toni molto scuri, da un fondo di un blu notte dal quale emerge il corpo candido di Gesù in croce. Ai lati di Cristo sono raffigurati due angeli che affiorano dalle nubi che sottolineano la drammaticità del momento; ad accentuare questo sentimento è la Maddalena ai piedi della croce, in un atteggiamento drammatico e patetico. Il soggetto è strettamente legato all’iconografia postconciliare che spoglia di tutti gli elementi “superflui” l’episodio della Crocifissione concentrandosi solo sul sacrificio di Gesù e sullo strazio dei dolenti. Come anche nell’opera precedente, è interessante vedere come sia lo Strozzi che Stroiffi, hanno queste tendenza di organizzare le composizioni in una sorta di vortice che in questo caso parte dalla testa di Gesù, e nell’opera precedente da quella della Vergine, scendendo gradualmente e dando enfasi ai personaggi ai piedi dell’opera[xx].

Rimanendo nella zona presbiteriale, sopra la porta laterale destra, è presente un’opera di Joseph Heintz il Giovane, raffigurante il Battesimo di Cristo con i santi Agostino e Bartolomeo[xxi] (fig. 15). Questo pittore tedesco, figlio di Joseph Heintz il Vecchio, nasce ad Augusta nel 1600 circa ma già dal 1625 è attivo in Italia, in particolare dal 1632 in poi si trovava a Venezia dove morirà nel 1678. Nella parte alta del dipinto è raffigurato Dio Padre sorretto dalle nuvole e da una schiera di angeli in volo, con gli occhi rivolti verso la scena che si sta svolgendo sotto di lui; su uno sperone roccioso è presente S. Giovanni Battista, riconoscibile dalla croce nella mano destra e dall’agnello in penombra dietro di lui, nell’atto di benedire Gesù inginocchiato e con la testa china ai suoi piedi. Sul lato sinistro della composizione è presente S. Agostino mentre sul lato destro S. Bartolomeo con l’iconico coltello in mano. Alla base del dipinto sono raffigurati i due committenti in preghiera che, come si evince dall’iscrizione in caratteri dorati tra i due volti, sono i coniugi Bartolomeo e Margherita Ravizza, la cui commissione fu completata il 24 giugno 1672.

Fig. 15 – Anton Heintz, Il Battesimo di Cristo con i SS. Agostino e Bartolomeo e i due committenti, 1672, chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra.

Di fronte all’opera appena citata, sopra la porta laterale sinistra, è presente un dipinto di Andrea Michieli, detto il Vicentino (fig. 16)[xxii]. Andrea Michieli, di cui vedremo un’altra opera successivamente, è un pittore vicentino trasferitosi a Venezia a metà Cinquecento dove ebbe l’opportunità di collaborare anche con Tintoretto al Palazzo Ducale.

La composizione è dominata da un’affettuosissima Madonna con Bambino, affiancata da due angeli musicanti: uno con in mano un liuto e l’altro con un violino. Alla base del trono marmoreo caratterizzato da un cherubino, sono presenti quattro santi: partendo da sinistra vediamo S. Rocco, in vesti di pellegrino mostrante la gamba destra, e seduto dietro di lui S. Pietro con la chiave in mano; sulla destra invece è presente S. Sebastiano e dietro di lui, con lo sguardo verso lo spettatore, S. Bartolomeo con il coltello nella mano destra.

Fig. 16 – Andrea Michieli, Madonna in trono fra gli angeli e i SS. Rocco, Pietro, Bartolomeo e Sebastiano, ultimo decennio del XVI sec., chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra

L’altra opera di Michieli nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo è quella nell’aula sopra la porta laterale destra raffigurante la Madonna del Rosario e santi (fig. 17)[xxiii]. La Madonna tiene in braccio il Bambino con al suo fianco due santi: sulla sinistra S. Domenico, sulla destra invece S. Pietro Martire. Ai suoi piedi sono presenti quattro sante, all’estrema sinistra S. Caterina, inginocchiata sulla ruota dentata, simbolo del suo martirio, al suo fianco S. Agata con il mano un piatto con i seni. Sul lato destro invece, rivolta verso la Vergine, S. Lucia con in mano il piattino contenente gli occhi e al suo fianco, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, S. Apollonia con la tenaglia nella mano sinistra. La Vergine è raffigurata sotto ad un arco vegetale, con incastonati quindici medaglioni raffigurati i misteri del Rosario.

Fig. 17 – Andrea Michieli, Madonna del Rosario e Santi, ultimo decennio del XVI sec., chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra.

[i] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 33.

[ii] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 136-137.

[iii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 38-40.

[iv] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 139-140.

[v] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, p. 20.

[vi] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 132-134.

[vii] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 142.

[viii] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 144-145.

[ix] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 139-140.

[x] Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990, pp. 24-33.

[xi] Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990, pp. 16-23.

[xii] Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990, pp. 16-23.

[xiii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 20-27.

[xiv]Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 30-34.

[xv] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, p. 36.

[xvi] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 162.

[xvii] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 162-163.

[xviii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 40-42.

[xix] Arte e persuasione. La strategia delle immagini dopo il concilio di Trento, catalogo della mostra (Trento, Museo Diocesano Tridentino, 7 marzo – 29 settembre 2014), a cura di D. Cattoi e D. Primerano, Trento 2014, p. 164.

[xx] Arte e persuasione. La strategia delle immagini dopo il concilio di Trento, catalogo della mostra (Trento, Museo Diocesano Tridentino, 7 marzo – 29 settembre 2014), a cura di D. Cattoi e D. Primerano, Trento 2014, p. 164.

[xxi] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 40-42.

[xxii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 40-42.

[xxiii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 40-42.

Bibliografia

Arte e persuasione. La strategia delle immagini dopo il concilio di Trento, catalogo della mostra (Trento, Museo Diocesano Tridentino, 7 marzo – 29 settembre 2014), a cura di D. Cattoi e D. Primerano, Trento 2014

Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991

Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990

Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)

Referenze delle immagini

  1. https://www.dolomiti.it/it/valle-di-ledro/
  2. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-san-bartolomeo-3/
  3. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:4_chiesa_Tiarno_di_Sotto.JPG
  4. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  5. Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990
  6. Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990
  7. Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990
  8. Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990
  9. https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_dei_Santi_Pietro_e_Paolo_(Ledro)
  10. https://necrologie.corrierealpi.gelocal.it/chiese/provincia-98-trento/3050-chiesa-dei-santi-pietro-e-paolo
  11. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  12. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  13. http://www.yvesklein.com/en/actualites/view/5653/omaggio-a-bernardo-strozzi-yves-klein/?of=4
  14. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  15. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  16. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  17. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)