SANTA MARIA DELLA PIAGGIOLA
A cura di Teresa Beccaccioli
La raffinatezza di Ottaviano Nelli nella città dei ceri
Recenti studi hanno fatto emergere una nuova gemma preziosa del territorio umbro, situata nella bella terra di Sant’Ubaldo. Gubbio, infatti, oltre ad essere la patria del celebre Oderisi, diede i natali anche ad un altro grande pittore, vissuto tra la fine del Trecento e la metà del secolo successivo: Ottaviano di Martino Nelli. Volendo riassumere in poche righe quella che fu la vita iperattiva ed appassionata del Nelli, si potrebbe iniziare dall’anno di nascita, che si colloca attorno al 1370. Al tempo, la città era nel pieno di una rinascita sociale e culturale, avvenuta grazie all’arrivo dei Montefeltro nel 1384; questi, fortemente appoggiati dal popolo, cercarono di instaurare una signoria, mantenendo salde le istituzioni comunali e sostenendo le corporazioni artigianali.
Nelli - o Melli (forse nipote del famoso Mello da Gubbio) – si trovò così, più volte, a lavorare per la nobile famiglia con la quale collaborò spesso negli anni, come attesta la familiarità del tono con il quale il pittore rispose ad una lettera di Caterina Colonna – che nel 1434 era la seconda moglie di Guidantonio da Montefeltro – avvertendola circa il ritardo nella realizzazione di un’opera da lei commissionatagli.
Le notizie sul Nelli lo vogliono alla guida di una bottega molto attiva ed eclettica dove, alla pittura a fresco e a quella su tavola, vengono realizzate anche decorazioni polimateriche, nelle quali si attesta anche l’impiego della cera, visto il legame con suo suocero, il più grande rivenditore di cera di Gubbio. A una produzione più ordinaria, poi, si alternava anche la realizzazione di stemmi e stendardi, disegni e progetti per carpenterie. È noto, inoltre, che il Nelli ebbe un ruolo non indifferente nella realizzazione dei monumenti funebri dei genitori di Guidantonio.
La “gemma preziosa” di cui si è accennato è però un affresco rappresentante una Madonna col Bambino tra due angeli, oggi conservato nella chiesa di Santa Maria della Piaggiola, purtroppo attualmente inagibile a causa dell’ultimo terremoto che ha colpito quest’area. La chiesa venne eretta solo nel secondo decennio del XVII secolo, presso la porta di San Pietro, appena fuori le mura urbiche ed in prossimità di una veneratissima edicola, la cosiddetta Maestà della Piaggiola. Nel 1454 la confraternita dei Putti de’ Bianchi, a cui apparteneva l’edicola, decise di erigere un oratorio proprio in quell’area, visto il grande afflusso di fedeli che la visitavano ogni giorno. Ma fu solo nel 1624 che si procedette al distacco a massello dell’affresco in questione che venne murato all’interno dell’altar maggiore. Un’operazione di questo tipo fu possibile anche grazie al contributo finanziario del conte Vittorio Chiocci, a cui spettava il giuspatronato della cappella. Per dare nuova facies all’antica immagine mariana, venne chiesto a due artisti pesaresi, Marco e Paolo Guidangeli, di realizzare una cornice in stucco con angioletti svolazzanti, nella quale inserire il frammento di un affresco che, nella sua collocazione originale, doveva essere sicuramente più ampio e completo, e che, attribuito alla bottega – il nome avanzato è stato quello di Francesco Rossi – è stato riscoperto come opera autografa solo negli ultimi anni, anche grazie agli studi elaborati per la recente mostra tenutasi a Gubbio, intitolata Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il 400 a Gubbio[1]
La commissione per la Madonna giunse a Ottaviano Nelli nel 1405, in una fase estremamente produttiva per l’artista, che proprio in quel periodo tentava una sintesi delle varie esperienze formative vissute negli anni della giovinezza, dal diffuso neogiottismo ai latenti influssi gotici. Nell’affresco in questione, la Madonna è raffigurata di tre quarti, mentre sorregge in piedi il suo bambino che, con magnifica icasticità, benedice e sventola un cartiglio sul quale si legge: “[Ego sum] lux mundi qui sequ[itur me] / [n]on ambulat [in tenebris]” (Gv 8,12). Il trono su cui siede la Madre rappresenta un grandioso esercizio di prospettiva nel quale anche la collocazione originale dell’affresco doveva svolgere un importante ruolo. La costruzione architettonica dei troni è senza dubbio uno dei fondamenti della pittura di Ottaviano Nelli: una composizione così ardita, arricchita non solo da marmi policromi e trafori ma anche da statue, pinnacoli e animali fantastici, in altri casi, dimostra un esplicito riferimento dell’autore a quello che viene definito neo-giottismo, il fenomeno di “ritorno a Giotto” e una consapevolezza della sua eredità che ha caratterizzato la fine del XIV secolo e che si è espresso, nella pittura di Nelli, anche nel frequente utilizzo di scorci illusionistici, come quello nel quale doveva essere immerso il nostro affresco nella sua collocazione originale. Questi troni “torreggianti e cuspidati”, come li definisce Andrea De Marchi[2] nel grandioso catalogo della recente mostra sull’artista, presuppongono la conoscenza del pittore delle Maestà in trono dell’Italia nordorientale: sembrerebbe probabile, infatti, che proprio durante il primo decennio del 1400 – più precisamente tra il 1404, anno di morte di Antonio da Montefeltro, e il 1409 – il pittore avesse viaggiato nel Nord Italia.
Ad uno sguardo ravvicinato, sono altri i particolari che possono essere notati, dalla policromia dei marmi messi in scena alle mattonelle decorate con elementi geometrici della seduta, fino alla zoccolatura su cui poggiano bifore angolari dal sapore gotico, dai pilastrini tortili e capitelli compositi. Dagli archetti trilobati, inseriti in più grandi ogive, si affacciano poi due angioletti oranti dalle vesti a toni pastello. Il postergale cuspidato, poi, è arricchito ai margini da decorazioni fitomorfe che il Nelli sembrerebbe aver preso in prestito direttamente dal capolettera di un codice miniato. Altre cuspidi e pinnacoli dovevano presenziare nella originale ed incorrotta versione del nostro affresco. La cura per i dettagli e la minuziosità del Nelli per le decorazioni, rese con mano d’orefice, non risparmiano le vesti dei due protagonisti: il bambino indossa l’oppelanda – un mantello chiuso molto diffuso alla fine del Trecento – che Nelli potrebbe aver carpito dallo studio delle opere di Cola Petruccioli, pittore orvietano attivo nella seconda metà del 1300. Usata più volte per il Bambino, ma anche per gli angeli, è una vesticciola abbottonata sul collo, con grandi maniche a sacco, visibile, ad esempio, anche nella Madonna del Belvedere della chiesa di Santa Maria Nuova a Gubbio. Lo avvolge, come in un caldo abbraccio, un mantello bianco con risvolto rosso, tutto ornato da ricami dorati. La Vergine, invece, abbigliata secondo la classica iconografia, indossa un abito rosso e un mantello blu – anche questo con delicati motivi dorati – e porta, sul capo, un velo bianco che, solo a livello delle orecchie, lascia intravedere il maphorion sottostante, reso con impercettibili pennellate. I volti e gli incarnati di un’opalescenza levigata, sono avvolti dalla luce che colora sfumature sensibili e avvolgenti.
Note
[1] A cura di Andrea de Marchi e Maria Rita Silvestrelli, Palazzo Ducale e Palazzo dei Consoli 23 settembre 2021- 09 gennaio 2022.
[2] De Marchi A., Silvestrelli M. R., Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il ‘400 a Gubbio, Silvana Editoriale, 2021.
Bibliografia
- De Marchi, M. R. Silvestrelli, Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il ‘400 a Gubbio, Silvana, Cinisello Balsamo, 2021.
UNA PERLA RINASCIMENTALE NELLA CITTÀ DELL’ACCIAIO: PALAZZO SPADA
A cura di Teresa Beccaccioli
Nel nucleo più antico della città di Terni, trasformata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, si erge, con superba maestosità, Palazzo Spada (figg.1-2-3), commissionato da Michelangelo Spada ed oggi sede del municipio.
Ma chi erano gli Spada? Secondo Enrico de Paoli, nella cronistoria della famiglia Spada redatta nel 1896[1], la famiglia Spada vanterebbe, tra i suoi più lontani antenati, il duca e governatore Marino Spatha giunto in Italia su ordine dell’imperatore greco Leone III, e denominato “Spada” proprio “dall’insigne onore di portare la spada imperiale”[2]. Dalla stessa fonte abbiamo la conferma che la famiglia era presente nella città di Terni dal X secolo, ma è del XIV il primo documento: nel 1308, infatti, Giovanni Spada, come Capofazione, sottoscrisse un atto di pace tra i guelfi e i ghibellini ternani. La famiglia raggiunge il suo massimo splendore con la figura di Michelangelo Spada, che alla metà del XVI secolo si trasferisce a Roma e diviene Coppiere di Giulio III. La stima del pontefice fu tanto alta che lo Spada ottenne il privilegio di accompagnare le proprie insegne famigliari con quelle della famiglia Del Monte e gli fu conferito anche il titolo trasmissibile di Conte di Collescipoli. Nel Settecento, la famiglia Spada, con la bolla di Benedetto XIV, fu annoverata fra la suprema nobiltà romana, cui seguì quella di San Marino e poi di Pesaro. Molti feudi e signorie ebbero gli Spada tra cui, il più importante, con titolo di Marchesato Spada, un castello eretto in Lorena dal Duca Leopoldo. Vantarono matrimoni con le più importanti famiglie del centro Italia, gli Altieri di Roma, i Baldinucci di Firenze, i Vitelleschi di Rieti. Molti conti Spada furono insigniti degli Ordini cavallereschi di Santo Stefano, di San Maurizio, di San Michele e di Malta. Oltre al primo conte di Collescipoli, primeggiarono nelle corti europee, Michelangelo, Cameriere d’onore di Cristina di Svezia, Pietro Cameriere segreto di Benedetto XIV, Gaspare Ministro di Stato del Duca di Lorena, Silvestro ambasciatore Lorenese e Alessandro Ciambellano dell’Imperatore austriaco. Non sorprende allora il fascino che ancora oggi Palazzo Spada emana!
Tornando al palazzo, dunque, la prima notizia attestata dai documenti è datata al 1555, quando cominciarono i lavori per il primo nucleo del palazzo: si trattava di un edificio situato nel rione Rigoni, sulla strada romana, l’asse viario cittadino più importante. Le acquisizioni dei fabbricati circostanti la casa degli Spada continuano fino al 1569, quando fu annesso il giardino. Bisogna evidenziare un fatto alquanto interessante, che non può essere omesso per una lettura generale del palazzo e della stessa città di Terni: nel settembre del 1564, il pontefice Pio IV ordinò la costruzione di un palazzo apostolico, il cui progetto fu affidato al famoso, almeno considerando i suoi natali, Salustio Peruzzi, figliolo di Baldassarre Peruzzi, architetto del cardinale Chigi, del papa Carafa e persino dell’imperatore Massimiliano II. Non è da escludere, quindi, che Michelangelo, già segretario della Camera Apostolica, si sia servito anche lui di tali maestranze.
Per chi conosce i grandi ed importanti palazzi romani del Cinquecento, come Palazzo Venezia o Palazzo Farnese, il confronto con il nostro palazzo ternano rivelerà numerose somiglianze. È fuor di dubbio che il nuovo stile romano abbia influenzato anche lo stesso Michelangelo: i grandi architetti del Rinascimento, dall’Alberti al Vignola, gettarono le basi del nuovo palazzo romano cinquecentesco, portato alla luce dal Bramante prima e dai Sangallo dopo, in tutta Italia. Nuovi spazi si aprono di fronte alle residenze più importanti, piazze e strade che creano spettacolari scenografie, mentre si organizzano piante ispirate alla domus romana, fortemente assiali che mettono in comunicazione diretta l’ingresso e il giardino, tutto seguendo i dettami del più grande architetto dell’antichità: Vitruvio. Allo stesso tempo, alle somiglianze si affiancano discrepanze riscontrabili soprattutto nel cortile: infatti, mentre nella norma il cortile prevede tre arcate di modulo quadrato sovrastate da semicerchio, qui si passa ad una maggiore verticalità, con cinque arcate e modulo accentuatamente rettangolare, che contrasta con quell’equilibrio classicista proposto fino a quel momento.
Dai recenti studi e restauri del 1970, è emerso che il primo palazzo, quello voluto da Michelangelo Spada, era composto di tre livelli, un piano interrato, il piano terra e il piano primo. In una seconda fase, fu chiuso lo spazio fra gli avancorpi e creato il portico in facciata e, solo, nella terza fase, ascrivibile al primo decennio dell’800, il palazzo raggiunge quella che è la facies attuale.
La paternità ad Antonio da Sangallo il giovane è ancora argomento di discussione. Purtroppo non abbiamo documenti che confermino “nero su bianco” la mano dell’architetto fiorentino nel nostro palazzo ternano; al contempo siamo sicuri del passaggio dell’artista nella zona ternana, sappiamo che realizzò palazzo Farrantini ad Amelia, lavorò presso la cascata delle Marmore e conosciamo fin troppo bene il terribile incidente che gli costò la vita sul lago di Piediluco. Nonostante tutto, lo stile sangallesco a palazzo Spada è più che evidente, tanto che possiamo sicuramente attribuire il palazzo, per lo meno all’entourage dell’ambiziosa famiglia fiorentina. Comunque non possiamo omettere di ricordare che, proprio in quegli anni, non lontano da Terni, si stava completando il grande cantiere di Caprarola dove collaborarono Vignola, Peruzzi e Antonio da Sangallo il giovane e lo stesso Salustio Peruzzi di cui abbiamo parlato sopra. Sarà un caso che la facciata del Palazzo aggettante su via Roma, sia una ripresa del palazzo Mattei Paganica che il Vignola costruì a Roma nel 1571?
Di questo splendido palazzo va ricordata anche la decorazione a fresco che arricchisce tutto il piano nobile, realizzata a più riprese, dal 1575 al 1800.
La sala maggiore (fig.4), al primo piano, fu una delle prime sale affrescate e presenta la più vasta e complessa decorazione di tutto il palazzo. Le pareti ospitano un finto colonnato che poggia su uno zoccolo marmoreo, anch’esso pittorico, mentre in prospettiva è possibile scorgere uno sfondo a marmi policromi. Proprio sulla base modanata di una colonna verso NO, sono riportate a graffito due date, 1580 e 1617, considerate estremi cronologici della campagna di decorazione. Il motivo del finto colonnato è ispirato alle pareti di Baldassarre Peruzzi alla Farnesina. Il colonnato sorregge un fregio in cui si alternano paesaggi e stemmi pontifici, cardinalizi e gentilizi; questo fregio è interrotto, su uno dei lati brevi, da un imponente camino in travertino (fig.5) dove due angioletti sorreggono il grande stemma degli Spada. Nella grande volta a padiglione invece sono ospitate sei scene, frescate da Karel Van Mander[3], presumibilmente intorno al 1575, un anno dopo l’arrivo del pittore a Roma e in occasione del Giubileo. Vengono narrati due episodi recenti nella storia della Chiesa: una, la battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, che sancisce la vittoria cristiana sui turchi; l’altra, la strage di San Bartolomeo del 24 agosto 1572, sentita dalla Chiesa come un segno divino di punizione degli eretici Ugonotti. Tutte le scene sono corredate di una legenda inferiore, secondo il gusto controriformato. Questo ciclo era stato già raffigurato dal Vasari nella sala Regia del Vaticano per Gregorio XIII, nella primavera del 1573; dunque, con questi affreschi, Michelangelo si mostra come totale fedele del pontefice e totalmente partecipe del clima di entusiasmo della Curia. Nel riquadro centrale, invece, vediamo Fetonte cacciato da Giove che precipita al centro della sala, mentre tutt’intorno si estendono decorazioni a grottesca (fig.6).
Nelle sale attigue, ovvero la sala di Diana, di Flora e di Giove, vediamo la mano di altri pittori, più vicini alla scuola del Vasari di Roma. Michelangelo Spada, del resto, doveva ben conoscere Giorgio Vasari, anche lui protetto del cardinal Del Monte. Nella sala di Diana, sono raccontate sei storie di Abramo grazie alla sapiente mano (firmata) di Sebastiano Flori, pittore aretino, allievo del Vasari, già attivo nella città ternana.[4] Nel 1600 fu decorata la sala di Amore e Psiche, mentre continuano fino al XX secolo le decorazioni di altre piccole sale del primo piano e di un vano del piano terra.
Concludo sottolineando l’evidenza: questo maestoso palazzo, che ad oggi vediamo accerchiato dai nuovi edifici del dopoguerra, è uno dei più affascinanti monumenti rinascimentali della bassa Umbria
Note
[1] E. De Paoli, La famiglia dei conti Spada, Terni 1896
[2] ibidem
[3] Karel Van Mander, pittore neerlandese, attivo a Roma negli anni Settanta del Cinquecento. Autore del “Schilder Boech”, un testo di storiografia artistica ì, pubblicata nel 1604. Il ciclo Spada gli fu attribuito da Giovanna Sapori, grazie anche ad una nota biografica sul pittore, inserita nella seconda edizione del sopracitato testo, in cui si conferma la paternità del ciclo ternano. Si tratta anche dell’unica opera certa del Van Mader in Italia. vedi, Giovanna Sapori, Van Mander e compagni in Umbria in “Paragone”, 21 (483), maggio 1990, pp.10-48.
[4] Per altre informazioni sull’attività di Sebastiano Flori nell’area ternana, vedi M. L. Moroni, P. Leonelli, Il Palazzo di Michelangelo Spada in Terni, Comune di Terni - II Circoscrizione Interamma, Terni 1997
Bibliografia
L. Moroni, P. Leonelli, Il Palazzo di Michelangelo Spada in Terni, Comune di Terni - II Circoscrizione Interamma, Terni 1997.
De Paoli, La famiglia dei conti Spada, Terni 1896.
LA MADONNA COL BAMBINO DI OTRICOLI
A cura di Teresa Beccaccioli
La chiesa di Santa Maria Assunta di Otricoli, piccolo gioiello incastonato tra le verdi colline della bassa Umbria, si sviluppò nel corso del Medioevo. Tra il VI e il VII secolo la comunità di abitanti abbandonò il municipium romano fiorito in età imperiale lungo la pianura che lambisce il fiume Tevere, spostandosi sul colle dove nacque un primo castrum fortificato. Nonostante la presenza della ben più sviluppata città in pianura, numerose testimonianze mostrano una frequentazione del colle da parte della comunità fin dall’età del Ferro: non a caso il nome della cittadina, Ocriculum, deriva dal latino arcaico ocris, che vuol dire monte. La “collegiata insigne”, come è ricordata dalla documentazione moderna, conserva all’interno le vestigia di un ricco e importante passato: Ocriculum infatti fu un centro molto religioso e fu sede vescovile dal V al VI sec.
Conservata nella parete di fondo della navata destra è la tavola lignea del Duecento (fig.1), di cui ancora si hanno troppe poche notizie. Proveniente da un oratorio nei pressi della collegiata, la tavola ha vissuto svariate vicissitudini: danneggiata da una bomba nella seconda guerra mondiale, fu restaurata nel 1965 dalla Soprintendenza, rubata nel 1978 e ritrovata nel 1989.
La tavola, una tempera di modeste dimensioni (82x45 cm) mostra la Madonna in trono col Bambino nell’ iconografia bizantina della Odigitria (colei che indica la via), un epiteto che avrebbe origini costantinopolitane, dal monastero τῶν Ὁδηγῶν (tōn Hodēgōn), delle guide. La leggenda narra che la Vergine avesse guidato due ciechi ad una fontana miracolosa e che in quel luogo poi fosse stato eretto un monastero nel quale era conservata una icona perduta con la Madonna col Bambino. Questo tipo di rappresentazione prevede la Vergine ritratta di mezzo busto con lo sguardo diretto al fedele, con il braccio sinistro che tiene il Bambino e con la mano destra rivolta allo stesso suo figlio, la via per la salvezza eterna. Il bambino, rivolto alla madre con sguardo intenerito, con la mano sinistra tiene un cartiglio mentre con la destra compie il tradizionale gesto di benedizione, unendo il pollice all’anulare. Rispetto al modello iconografico, la Madonna di Otricoli mostra alcune variazioni: tra queste la posizione del Bambino, che viene sorretto con il braccio destro e non con il sinistro. Questa forma di variazione non è nuova, anzi risale alle origini stesse del tipo: se ne può rintracciare un esempio nella Madonna di Santa Maria Nuova a Roma e la sua fortuna in Oriente dove, con la denominazione di Panagia dexia o dexiokratousa, se ne attribuisce l’origine proprio all’evangelista Luca. Un’altra opinione emergente dagli studi affiancherebbe, all’iconografia della Hodegetria, quella di Panaghia Nicopeia, ovvero la raffigurazione di Maria madre di Dio e portatrice di vittoria. Questa rappresentazione della Vergine regina in trono o in piedi, rigidamente frontale, con il Bambino in braccio e servita da angeli, simboleggia la Sapienza di Dio e personifica in sommo grado la santità umana.
Da un punto di vista descrittivo, la Madonna è assisa su un cuscino verde, di cui l’artista cerca di rendere nel dettaglio le pieghe. Il trono ligneo ha un alto dorsale coperto da un drappo d’onore e in basso, in rosso, presenta motivi decorativi orientali forse di pietre e gemme preziose. Preponderanti sono i due nimbi, in rilievo, che ad oggi hanno perso il loro originario colore dorato. La Vergine indossa una veste rossa con un mantello blu, ma particolare è il velo bianco che dalla testa le scende sulle spalle, forse il risultato di una rielaborazione del modello orientale della Kykkiotissa, conosciuto in Italia grazie a due copie a Viterbo e a Velletri. Come questo, una gran quantità di altri dettagli, convalida l’azione di imitazione e rielaborazione del nostro pittore di modelli orientali, mediati da opere più recenti di colleghi più affermati: tra loro Coppo di Marcovaldo, pittore senese attivo nella seconda metà del XIII secolo. Sono evidenti le affinità, a partire dallo stesso velo bianco discendente sulle spalle, con la Madonna del Bordone a Siena nella Chiesa di Santa Maria dei Servi (fig.2) e la Madonna col Bambino a Orvieto, realizzata per i Servi di Maria e oggi conservata al museo dell’Opera del Duomo.
Analizzando la tavola nei suoi aspetti più tecnici, possiamo dire che il maestro, di cui non sappiamo ancora il nome, potrebbe essersi formato nella scuola spoletina, da cui provengono i più famosi Machilone e Simeone, attivi negli anni Settanta e Ottanta del Duecento. Inoltre sono state riscontrate delle affinità con l’attività di Rainaldo di Ranuccio, pittore originario di Spoleto conosciuto per una Croce dipinta nella Pinacoteca civica di Fabriano e un’altra Croce, questa datata al 1265, oggi custodita alla Pinacoteca nazionale di Bologna. Forti affinità si riscontrano però maggiormente con il Trittico conservato nella cappella del Sacramento nella basilica di Santa Chiara ad Assisi (fig. 3), datato all’ultimo quarto del 1200. Innanzitutto la generale impostazione delle figure, poi il modo singolare di panneggiare la veste della Vergine in corrispondenza delle ginocchia per dare maggior volume alla figura e del braccio sinistro dove si va a formare un grazioso otto e ancora i contorni flessuosi del collo. Ma il maestro di Otricoli, ingentilisce le masse evitando nette angolature e crea panneggi più morbidi e naturalistici e, attenuando la rigidità e la ieraticità della figura mariana, crea una dolce e soffusa atmosfera di umanità. Infatti, di fronte a questa tavola, quasi del tutto sconosciuta al mondo dell’arte, si percepisce il vero significato della parola Acheropita, “non fatta da mano umana”. Nella sua semplicità, l’icona ci svela il vero senso della divinità, che è allo stesso tempo ultraterrena e umana. In questo dipinto, attraverso pochi tratti e senza ricche decorazioni, si mostra la sacralità del rapporto d’amore tra la Vergine e il Cristo, ovvero tra una madre e il proprio figlio.
Bibliografia
C. Pietrangeli, Otricoli, un lembo dell’Umbria alle porte di Roma, Narni 1978
V. Pace, Modelli da Oriente nella pittura duecentesca su tavola in Italia centrale, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz,44. Bd., H. 1 (2000), pp. 19-43
M. G. Branchetti, Otricoli, Santa Maria Assunta, collegiata insigne; Il Formichiere 2017
W. Angelelli, Iconografia della Madonna col Bambino nel Medioevo: esempi tra Roma, Lazio e Umbria meridionale, in Arte sacra nell’Umbria meridionale, Sguardo d’insieme II, Raccolta degli atti da II al VI corso per la formazione di Volontari per l’animazione culturale promossi dall’Associazione Volontari per l’Arte e la Cultura (Terni, 2002-2006), a cura di G. Cassio.
C. Ranucci, La Maestà di Otricoli. Contributo per una definizione degli influssi culturali spoletini nell’Umbria meridionale, in Scritti di archeologia e storia dell’arte in onore a Carlo Pietrangeli, a cura di V. Casale, F. Coarelli, B. Toscano; Quasar 1996
Sitografia
www.treccani.it/enciclopedia/rainaldo-di-ranuccio_(Dizionario-Biografico)
SIUSA - Capitolo della Collegiata di Santa Maria Assunta di Otricoli (beniculturali.it)