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A cura di Teresa Beccaccioli

 

 

La raffinatezza di Ottaviano Nelli nella città dei ceri

 Recenti studi hanno fatto emergere una nuova gemma preziosa del territorio umbro, situata nella bella terra di Sant’Ubaldo.  Gubbio, infatti, oltre ad essere la patria del celebre Oderisi, diede i natali anche ad un altro grande pittore, vissuto tra la fine del Trecento e la metà del secolo successivo: Ottaviano di Martino Nelli. Volendo riassumere in poche righe quella che fu la vita iperattiva ed appassionata del Nelli, si potrebbe iniziare dall’anno di nascita, che si colloca attorno al 1370. Al tempo, la città era nel pieno di una rinascita sociale e culturale, avvenuta grazie all’arrivo dei Montefeltro nel 1384; questi, fortemente appoggiati dal popolo, cercarono di instaurare una signoria, mantenendo salde le istituzioni comunali e sostenendo le corporazioni artigianali.

Nelli – o Melli (forse nipote del famoso Mello da Gubbio) – si trovò così, più volte, a lavorare per la nobile famiglia con la quale collaborò spesso negli anni, come attesta la familiarità del tono con il quale il pittore rispose ad una lettera di Caterina Colonna – che nel 1434 era la seconda moglie di Guidantonio da Montefeltro – avvertendola circa il ritardo nella realizzazione di un’opera da lei commissionatagli.

Le notizie sul Nelli lo vogliono alla guida di una bottega molto attiva ed eclettica dove, alla pittura a fresco e a quella su tavola, vengono realizzate anche decorazioni polimateriche, nelle quali si attesta anche l’impiego della cera, visto il legame con suo suocero, il più grande rivenditore di cera di Gubbio. A una produzione più ordinaria, poi, si alternava anche la realizzazione di stemmi e stendardi, disegni e progetti per carpenterie. È noto, inoltre, che il Nelli ebbe un ruolo non indifferente nella realizzazione dei monumenti funebri dei genitori di Guidantonio.

La “gemma preziosa” di cui si è accennato è però un affresco rappresentante una Madonna col Bambino tra due angeli, oggi conservato nella chiesa di Santa Maria della Piaggiola, purtroppo attualmente inagibile a causa dell’ultimo terremoto che ha colpito quest’area. La chiesa venne eretta solo nel secondo decennio del XVII secolo, presso la porta di San Pietro, appena fuori le mura urbiche ed in prossimità di una veneratissima edicola, la cosiddetta Maestà della Piaggiola. Nel 1454 la confraternita dei Putti de’ Bianchi, a cui apparteneva l’edicola, decise di erigere un oratorio proprio in quell’area, visto il grande afflusso di fedeli che la visitavano ogni giorno. Ma fu solo nel 1624 che si procedette al distacco a massello dell’affresco in questione che venne murato all’interno dell’altar maggiore. Un’operazione di questo tipo fu possibile anche grazie al contributo finanziario del conte Vittorio Chiocci, a cui spettava il giuspatronato della cappella. Per dare nuova facies all’antica immagine mariana, venne chiesto a due artisti pesaresi, Marco e Paolo Guidangeli, di realizzare una cornice in stucco con angioletti svolazzanti, nella quale inserire il frammento di un affresco che, nella sua collocazione originale, doveva essere sicuramente più ampio e completo, e che, attribuito alla bottega – il nome avanzato è stato quello di Francesco Rossi – è stato riscoperto come opera autografa solo negli ultimi anni, anche grazie agli studi elaborati per la recente mostra tenutasi a Gubbio, intitolata  Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il 400 a Gubbio[1]

La commissione per la Madonna giunse a Ottaviano Nelli nel 1405, in una fase estremamente produttiva per l’artista, che proprio in quel periodo tentava una sintesi delle varie esperienze formative vissute negli anni della giovinezza, dal diffuso neogiottismo ai latenti influssi gotici. Nell’affresco in questione, la Madonna è raffigurata di tre quarti, mentre sorregge in piedi il suo bambino che, con magnifica icasticità, benedice e sventola un cartiglio sul quale si legge: “[Ego sum] lux mundi qui sequ[itur me] / [n]on ambulat [in tenebris]” (Gv 8,12).  Il trono su cui siede la Madre rappresenta un grandioso esercizio di prospettiva nel quale anche la collocazione originale dell’affresco doveva svolgere un importante ruolo. La costruzione architettonica dei troni è senza dubbio uno dei fondamenti della pittura di Ottaviano Nelli: una composizione così ardita, arricchita non solo da marmi policromi e trafori ma anche da statue, pinnacoli e animali fantastici, in altri casi, dimostra un esplicito riferimento dell’autore a quello che viene definito neo-giottismo, il fenomeno di “ritorno a Giotto” e una consapevolezza della sua eredità che ha caratterizzato la fine del XIV secolo e che si è espresso, nella pittura di Nelli, anche nel frequente utilizzo di scorci illusionistici, come quello nel quale doveva essere immerso il nostro affresco nella sua collocazione originale.  Questi troni “torreggianti e cuspidati”, come li definisce Andrea De Marchi[2] nel grandioso catalogo della recente mostra sull’artista, presuppongono la conoscenza del pittore delle Maestà in trono dell’Italia nordorientale: sembrerebbe probabile, infatti, che proprio durante il primo decennio del 1400 –  più precisamente tra il 1404, anno di morte di Antonio da Montefeltro, e il 1409 – il pittore avesse viaggiato nel Nord Italia.

Ad uno sguardo ravvicinato, sono altri i particolari che possono essere notati, dalla policromia dei marmi messi in scena alle mattonelle decorate con elementi geometrici della seduta, fino alla zoccolatura su cui poggiano bifore angolari dal sapore gotico, dai pilastrini tortili e capitelli compositi. Dagli archetti trilobati, inseriti in più grandi ogive, si affacciano poi due angioletti oranti dalle vesti a toni pastello. Il postergale cuspidato, poi, è arricchito ai margini da decorazioni fitomorfe che il Nelli sembrerebbe aver preso in prestito direttamente dal capolettera di un codice miniato. Altre cuspidi e pinnacoli dovevano presenziare nella originale ed incorrotta versione del nostro affresco. La cura per i dettagli e la minuziosità del Nelli per le decorazioni, rese con mano d’orefice, non risparmiano le vesti dei due protagonisti: il bambino indossa l’oppelanda – un mantello chiuso molto diffuso alla fine del Trecento – che Nelli potrebbe aver carpito dallo studio delle opere di Cola Petruccioli, pittore orvietano attivo nella seconda metà del 1300. Usata più volte per il Bambino, ma anche per gli angeli, è una vesticciola abbottonata sul collo, con grandi maniche a sacco, visibile, ad esempio, anche nella Madonna del Belvedere della chiesa di Santa Maria Nuova a Gubbio. Lo avvolge, come in un caldo abbraccio, un mantello bianco con risvolto rosso, tutto ornato da ricami dorati. La Vergine, invece, abbigliata secondo la classica iconografia, indossa un abito rosso e un mantello blu –  anche questo con delicati motivi dorati – e porta, sul capo, un velo bianco che, solo a livello delle orecchie, lascia intravedere il maphorion sottostante, reso con impercettibili pennellate. I volti e gli incarnati di un’opalescenza levigata, sono avvolti dalla luce che colora sfumature sensibili e avvolgenti.

 

 

 

 

Note

[1] A cura di Andrea de Marchi e Maria Rita Silvestrelli, Palazzo Ducale e Palazzo dei Consoli 23 settembre 2021- 09 gennaio 2022.

[2] De Marchi A., Silvestrelli M. R., Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il ‘400 a Gubbio, Silvana Editoriale, 2021.

 

 

 

 

 

Bibliografia

  1. De Marchi, M. R. Silvestrelli, Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il ‘400 a Gubbio, Silvana, Cinisello Balsamo, 2021.

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