MILANO TRA LE DUE EPIDEMIE

PANDEMIE: UNA STORIA DI ATTUALITÀ E MEMORIA

In questi mesi in cui ci siamo ritrovati nel bel mezzo di un’epidemia, dal greco «che è nel popolo», dichiarata poco dopo dall’OMS pandemia, ovvero «di tutto il popolo», è opportuno servirsi delle testimonianze artistiche e letterarie per riflettere su quanto il passato possa rivelarsi attuale.

In questo articolo ripercorreremo le due pesti vissute da Milano, rispettivamente quella del 1576-77 e del 1630, per ricordare che già prima di ora Milano è stata stretta tra due epidemie. Ma prima di entrare nel vivo della questione è doveroso ricordare come l’origine della peste sia molto più antica, perfino nella Bibbia si raccontò di un’epidemia a contagio sessuale che uccise milioni di israeliti, interpretata come il risultato di una colpa o monito di una forza superiore. Altre testimonianze di epidemie di peste furono registrate in Cina fin dal 224 a.C., successivamente nel 430 a.C. la furia si abbatté su Atene colpendo la popolazione e lo stesso Pericle, uomo politico che aveva incentivato l’impresa della guerra del Peloponneso. Il grande storiografo Tucidide decise di descriverne i sintomi, avendo vissuto egli stesso la malattia e capendone la sofferenza, al fine di informare i cittadini e le future generazioni. Anche il poeta latino Lucrezio nel “De Rerum Natura” descrisse tale fenomeno evidenziando il decadimento dei valori morali, narrando di parenti che abbandonarono i malati per paura del contagio e di defunti a cui furono negate cerimonie funebri, analoga situazione che stiamo vivendo in questi giorni. Di fatto chi potrà mai scordare l’immagine cupa delle chiese assiepate di bare e dei carri armati che attraversano, quasi fosse la fine di una guerra, una Bergamo spettrale?

Avvicinandoci ad epoche più recenti, segue la cosiddetta “peste nera” del 1347 considerata dalla Chiesa una punizione divina. Boccaccio nel suo “Decameron” illustrò come reagì la popolazione alla catastrofe, non con la paura, ma attraverso la beffa e la vita sregolata. I governi dell’epoca, proprio come quelli attuali, incoraggiarono: l’adozione di misure d’igiene personale, restrizioni agli spostamenti e l’istituzione di luoghi deputati all’isolamento e cura dei contagiati.

LA PESTILENZA DI SAN CARLO: MILANO E LA PRIMA EPIDEMIA

Dopo questa parentesi arriviamo finalmente a Milano e alla pestilenza di San Carlo del 1576-77, chiamata così poiché si verificò durante l’episcopato di Carlo Borromeo che ottenne l'estensione a Milano del giubileo romano. L’affluenza fu elevata ma il giubileo ebbe vita breve, il governatore spagnolo Antonio de Guzmán arrivò a vietare i pellegrinaggi quando si registrarono i primi casi in città. Questi lasciò Milano per luoghi più sicuri, mentre l’arcivescovo rientrò in città a prestare soccorso sanitario e spirituale agli ammalati, facendoli isolare nel Lazzaretto di San Gregorio.

A testimoniare il lavoro svolto da S. Carlo contribuiscono le tele di molti artisti tra cui Giovan Battista Crespi, detto il Cerano (1573-1632). Questi, arrivato a Milano nel 1591 ed entrato nella cerchia dei Borromeo, fu influenzato da pittori come Gaudenzio Ferrari e dall’arte manieristica romana. La tela in analisi fa parte dei grandi “Quadroni del Duomo” realizzati da diversi artisti e dedicati ai “Fatti della vita del Beato Carlo Borromeo”. Qui il santo è raffigurato mentre consola gli appestati alle loro capanne ed è possibile riscontrare le peculiarità caratteristiche dell’artista, ovvero: l’accentuata espressività del realismo, la sintesi compositiva e la costruzione solida delle figure. (1)

Fig. 1 - Cerano, San Carlo consola gli appestati alle capanne.

Altra testimonianza suggestiva è quella di Antonio d’Enrico, detto Tanzio da Varallo (1578-1632). L’artista si formò in ambienti romani, studiando Caravaggio e i caravaggeschi, per poi spostarsi in Valsesia e giungere nel milanese. Nel San Carlo che comunica gli appestati, della chiesa di Domodossola, l’interpretazione caravaggesca del reale è integrata al patetismo che evidenzia il suo interesse per la pittura contemporanea lombarda-piemontese. Il dipinto raffigura in primo piano l’episodio nel quale San Carlo Borromeo somministrò la comunione ai contagiati, mentre sullo sfondo è rappresentato l’episodio dell’incontro del Santo con gli appestati. Sulla tela rimasero impressi i volti di componenti delle famiglie più in vista, attornianti il santo con il volto corrugato e sofferente su un piedistallo marmoreo nell'atto di comunicare un appestato. (2)

Fig. 2 - Tanzio da Varallo, S. Carlo Borromeo comunica gli appestati.

San Carlo era convinto, come scrisse nelle meditazioni del suo “Memoriale”, che l’epidemia fosse «un flagello mandato dal cielo» come castigo dei peccati del popolo e della superbia della città di Milano e che fosse necessario ricorrere alla preghiera e alla penitenza, ma i governatori si opposero per paura che eventuali assembramenti estendessero il contagio. San Carlo non se ne curò, fece organizzare processioni generali «per placare lira di Dio» ed erigere colonne in pietra sormontate da una croce nelle piazze per permettere la partecipazione alla vita spirituale affacciandosi dalle finestre di casa.

Tra le tante testimonianze artistiche ne abbiamo una di Giulio Cesare Procaccini (1574-1625), bolognese trapiantato a Milano che contribuì ai “Quadroni del Duomo”, che ci mostra il santo risaltante dal fondale scuro e attorniato da diversi personaggi mentre porta in processione il sacro chiodo. (3) L’artista realizzò anche una tela, per la chiesa milanese di S.Tomaso, in cui si vede S. Carlo Borromeo in gloria. In quest’opera il santo cardinale, seduto in trono, benedice con la mano destra e sulla testa ha la colomba dello Spirito Santo. Lo circondano infine alcuni angeli rappresentati come bimbi nudi, dalla carnagione morbida, immersi in un’atmosfera bruno-dorata creata dal colore dei loro corpi. (4)

 

Fig. 3 - Giulio Cesare Procaccini, S. Carlo porta il sacro chiodo in processione.

 

Fig. 4 - Giulio Cesare Procaccini, Assunzione di S.Carlo.

 

Ricollegandoci all’opera svolta dal santo, possiamo dire che anche oggi si può riscontrare una presenza forte da parte del mondo della Chiesa per i suoi fedeli.

A Milano infatti l’arcivescovo Mario Delpini è salito sulle terrazze del Duomo per rivolgersi alla Madonnina, simbolo del capoluogo lombardo, con una preghiera di intercessione per proteggere la città dalla nuova pandemia, confortare gli ammalati e sostenere nella fatica chi se ne prende cura. Dalla preghiera è qui riportato il pezzo più significativo, al fine di tenerlo a mente:

O mia bela Madunina che te dominet Milan,
Maria, mater amabilis, insegnaci larte di renderci amabili,
nei momenti dellapprensione suggerisci le parole buone che incoraggiano,
nelle ore della solitudine ispira segni di sollecitudine per coloro che sono troppo afflitti,
la delicatezza e il sorriso siano una seminagione di simpatia,
nelle decisioni infondi sapienza,
nessuno sia così preoccupato per se stesso da difendersi con lindifferenza,
nessuno si senta straniero, abbandonato.

La stessa via è percorsa da papa Francesco che, presieduto un momento di preghiera sul vuoto sagrato della basilica di San Pietro, ha dato la benedizione Urbi et Orbi e la possibilità di ottenere l’indulgenza plenaria. Di fronte al virus il Papa ha dichiarato che siamo tutti sulla stessa barca ed ha implorato Dio di non lasciarci soli in questa tempesta.

MILANO TRA LE DUE EPIDEMIE: LA PESTE

La peste di cui abbiamo appena parlato è citata da Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi” come antecedente di quella descritta nel romanzo stesso, abbattutasi in Lombardia nel 1630 quando arcivescovo di Milano era il cardinal Federico Borromeo, cugino di Carlo. Manzoni individuò i fattori che favorirono l’epidemia, in particolare: la negazione dell’esistenza del morbo, l’iniziale inazione delle autorità mediche e politiche, l’isteria delle masse, con la richiesta di una processione per placare Dio che avrà l’unica funzione di incrementare l’epidemia. La causa di questa peste fu la guerra di successione al trono di Mantova. Infatti, il ducato di Venezia assoldò per vincere la guerra, ed estendere il dominio al regno di Mantova, l’esercito mercenario dei Lanzichenecchi che passarono per Milano lasciandovi la peste. Un luogo centrale durante le epidemie milanesi fu il lazzaretto che, costruito fuori città tra 1489 e 1509 appositamente per fronteggiare l’epidemia, era “un recinto quadrilatero e quasi quadrato” con al centro una chiesa e lungo i lati le camere.

La descrizione trova riscontro nelle incisioni realizzate da Francesco Gonin per l’edizione del 1840 de “I Promessi Sposi”. Nelle incisioni possiamo ammirare la parte esterna, popolata da un sovraffollamento di figure di moribondi, con il suo ingresso principale caratterizzato da un’imponente arcata dalla quale esce una figura abbigliata alla moda dell’epoca. (5.1) A questa visuale esterna ne fa riscontro una interna, dove si mostrano il portico caratterizzato da archi poggianti su eleganti colonne. Dalle aperture tra le colonne si può intravedere la piccola chiesetta centrale, di cui in un’altra incisione se ne illustra la benedizione. (5.2) Per capire il clima che abitava quel luogo dobbiamo affidarci alle parole di Manzoni, in particolare a quelle del capitolo XXXV:

Simmagini il lettore il recinto del lazzaretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tuttingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichìo, come un ondeggiamento; e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi. Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì, sopraffatto e compreso.

 

Fig. 5.1 - Parte esterna e ingresso del Lazzaretto, Francesco Gonin, 1840.

 

Fig. 5.2 - La benedizione e portico del Lazzaretto, Francesco Gonin, 1840.

Lo sgomento provato da Renzo al lazzaretto potrebbe essere proprio lo stesso provato dai nostri medici ed infermieri di fronte allo scenario a cui doverosamente prendono parte ogni giorno.

Inoltre anche oggi, oltre alle già presenti strutture ospedaliere sul territorio, sono state messe in campo forze straordinarie per estendere i posti disponibili per i malati attraverso la riconversione di spazi, si vedano gli ospedali da campo o le navi da crociera.

Concludiamo il nostro articolo ricordando come molte figure autorevoli, tra cui artisti di fama mondiale, abbiano voluto far sentire la loro vicinanza all’Italia in questo momento buio dimostrando la loro gratitudine e il loro amore nei riguardi del nostro patrimonio culturale.

Affido le ultime parole allo studioso e divulgatore Alberto Angela che, dopo essersi chiesto come il nostro paese possa essere divenuto un esempio, ne attribuisce il merito alla nostra cultura summa dei valori delle generazioni che ci hanno preceduto. In conclusione, al suo messaggio lo studioso ha fatto due richieste: in primo luogo di non dimenticare le persone che non ci sono più e quelle che sono state in prima linea, ed in secondo luogo, quando tutto sarà finito, di premiare l’Italia e il suo ricco patrimonio.

Bibliografia:

  • Giovanni Pietro Giussano, Vita di San Carlo Borromeo, Stamperia della Camera Apostolica, Roma 1610
  • L’anno liturgico – Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, Paoline, Alba 1959
  • La pestilenza nell’arte, Stamperia Giuseppe Ciulli, Firenze 1952
  • Tommaso Di Salvo “I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni” - Zanichelli, 1994
  • Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Milano, Enrico Trevisini Editore, 1840

 

Sitografia:


UN ITINERARIO MANZONIANO A LECCO

A cura di Silvia Piffaretti

Tra letteratura e realtà: un itinerario manzoniano

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli []: così Manzoni sceglie di iniziare i suoi “Promessi Sposi”, noto capolavoro della letteratura italiana, ambientato sulle rive della piccola provincia lombarda di Lecco, dove lago e montagne convivono in pura armonia. Da sempre il lago di Como è stato meta di grandi viaggi di artisti e letterati, includendo note personalità come Stendhal e Wagner, che su queste rive poterono assaporare la bellezza di una fuga momentanea dalla civiltà per poter ritrovare l’ispirazione e la pace dell’io. A compiere questa fuga fu lo stesso Manzoni che, sofferente di agorafobia e cresciuto nella caotica Milano, trascorreva le vacanze nella sua casa di villeggiatura sul lago, l’attuale Villa Manzoni. Da qui egli poteva ammirare il poetico profilo seghettato del Resegone e dedicarsi con dedizione alla scrittura.

In questo articolo ripercorreremo dal principio, attraverso le pagine dell’edizione del 1840, i vari luoghi di interesse menzionati nel romanzo, cercando di comporre un vero e proprio itinerario manzoniano.

Comincia l'itinerario manzoniano: Don Abbondio

Il primo capitolo si apre con il noto incipit sopracitato, seguito dalla descrizione di Don Abbondio che, il giorno 7 novembre 1628, sta tranquillamente rientrando dalla sua passeggiata; ad un bivio incontra i bravi che gli intimano, per conto del potente don Rodrigo, di non celebrare il matrimonio dei due giovani Renzo e Lucia. In queste pagine emerge come il curato non era nato con un cuor di leone, egli infatti s’era fatto prete per volere dei parenti ignorando gli obblighi e fini del suo ministero, per poter vivere con qualche agio in una classe riverita e forte. La sua immediata sottomissione e paura viene esemplificata dal Manzoni nella seguente frase:  Il nostro Don Abbondio, [] sera dunque accorto, [] dessere, in quella società, come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.

La famosa stradina dritta che si biforca, portando a destra al monte Resegone e sulla sinistra a valle, oggi corrisponde a via Tonio e Gervaso, a sinistra dall'odierna rotonda di Viale Montegrappa. Qui si può ammirare una ricostruzione del tabernacolo, privo però delle raffigurazioni pittoriche delle anime del purgatorio descritte nel romanzo, affiancato da una targa col famoso passo tratto dal testo.

Percorrendo la strada in salita si giunge presso la chiesa di don Abbondio, l’odierna Chiesa di San Giorgio ad Acquate.

Altra chiesa connessa al curato è quella dei dei Santi Vitale e Valeria del sottostante quartiere di Olate, in cui si celebreranno le nozze di Renzo e Lucia.

La casa di Lucia

Proseguendo nella lettura e nell'itinerario manzoniano, il secondo capitolo presenta una breve descrizione della casa di Lucia occupata dalla donna immersa nei preparativi del matrimonio con la madre Agnese.

L’autore ce la descrive così: Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzio che veniva da una stanza di sopra. Simmaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia.

Seguendo la descrizione manzoniana si identificano due presunte case di Lucia, una ad Olate e l’altra ad Acquate. La prima è ad oggi non visitabile in quanto residenza privata, nonostante ciò sopra il portone d’ingresso esterno è possibile ammirare un’Annunciazione affrescata.. La seconda è collocata a pochi passi dalla chiesa di San Giorgio, ed è un’osteria dal cui caratteristico cortile si può scorgere lo zucco presso cui sorgeva il palazzotto di don Rodrigo.

Il palazzotto di don Rodrigo

Il nostro itinerario manzoniano continua con il palazzotto, che presentava un tempo le caratteristiche dettate dal Manzoni, ora scomparse a causa della successiva demolizione che vide il nascere di una villa razionalista. Dell’impianto originario si conserva però la torretta centrale. La sua descrizione trova spazio nel V capitolo, quando Padre Cristoforo si presenta alla porta del signorotto per cercare di dissuaderlo dal tormentare la giovane Lucia.

L’edificio sorgeva isolato sulla cima di un poggio, a circa tre miglia dal convento del frate, e ai suoi piedi vi erano un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Giunto al portone dell’edificio, all'apparenza abbandonato dato il silenzio che vi regnava, il frate si trova di fronte a delle finestre chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni protette da delle inferriate. Queste erano accompagnate da due avvoltoi dalle ali spalancate inchiodati ai battenti del portone, quasi fossero lo specchio dei due bravi che vi facevano da guardia. In questo passaggio del romanzo la descrizione dell’ambiente rivela una funzione simbolica, diviene infatti riflesso del comportamento crudele e inumano degli abitanti del luogo e metafora della personalità di Rodrigo.

Fra Cristoforo

Un’importante località che non possiamo omettere nel nostro itinerario manzoniano è Pescarenico,villaggio di pescatori ed unica località che l’autore indica precisamente.

Qui si trova il convento di Fra Cristoforo, presso la chiesa dei Santi Materno e Lucia. La chiesa, risalente al 1576 e ospitante i Cappuccini fino al 1810, presenta un’unica navata con un altare ligneo ed è arricchita dalla seicentesca pala del Cerano, raffigurante Francesco e Gregorio Magno adoranti la Trinità. Il convento, menzionato nel IV capitolo, era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia allentrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo.

Pescarenico è un susseguirsi di piccole casette colorate a metà tra uno specchio d’acqua costeggiato da barchette ed il seghettato profilo del Resegone. Quest’ultimo fa da sfondo alla famosa scena, contenuta nell’VIII capitolo, dell’ “Addio monti” che costituisce una sorta di monologo interiore di Lucia terminante col pianto “segreto” della donna sulla barca. Così recita drammaticamente il testo: Addio, monti sorgenti dallacque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia laspetto de suoi più familiari; torrenti, de quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!

Al centro si collocano le immagini del villaggio, con il suo paesaggio familiare della casa (“natia” e quella “ancora straniera” di Renzo) e della chiesa. Qui la vita finora condotta dai personaggi appare come un Eden perduto, ed il distacco è interpretato come l’immersione nel doloroso mondo della storia identificato con l’opprimente e angosciosa immagine della città, contrapposta alla prospettiva del villaggio.

L'Innominato

Proseguiamo l’itinerario manzoniano lasciandoci Lecco alle spalle per addentrarci nell'imponente Castello dellInnominato situato a Somasca, frazione di Vercurago.

Tale fortezza, nel Trecento di proprietà della famiglia Visconti, fu costruita a partire dalle fortificazioni di epoca carolingia e di cui si conservano tuttora i muri perimetrali, i bastioni e alcune torri. La famiglia Visconti giocò un ruolo importante, si pensava infatti che l’autore si fosse ispirato a Bernardino Visconti, uomo avente alle spalle una vita di crimini, pentimento e conversione che riflette la figura dell’Innominato. Il XX capitolo presenta la descrizione della fortezza, definita “castellaccio" del “selvaggio signore” ed irta sulla cima di un monte che controllava la valle e la sua unica via di accesso. I termini utilizzati per suggerire il paesaggio circostante si riferiscono a quattro campi semantici: altezza, asprezza e solitudine e bassezza. L’altezza identifica la sua volontà di potenza e superiorità, dal romanzo: Dallalto del castellaccio, come laquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava allintorno tutto lo spazio dove piede duomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.

Seguono asprezza e solitudine che rappresentano il ricordo dell’antico stato di sicurezza e l’attuale ripugnanza del presente da parte dell’Innominato. Infine il campo della bassezza, specchio della presa di coscienza della malvagità che l’ha colto. E’ proprio in questo capitolo che si illustra il suo monologo interiore, caratterizzato da tre pensieri che lo atterriscono: la morte, la responsabilità individuale del male e l’esistenza di Dio. Il finale ha in serbo per lui una rinnovata pace interiore, avvenuta a seguito dell’incontro con il cardinale Federigo Borromeo.

La fine dell'itinerario manzoniano: la casa del sarto

Termina qui il nostro itinerario manzoniano con l’esplorazione della casa del sarto e della chiesa di San Giovanni Battista, detta del Beato Serafino, collocate nel rione di Chiuso e citate da Manzoni nella prima stesura del romanzo intitolata “Fermo e Lucia”.

La casa del sarto è quella presso cui Lucia si rifugia, e dove ritrova la madre Agnese a seguito della conversione dell’Innominato facilitata dall'aiuto del cardinal Borromeo nella chiesa di San Giovanni Battista. Al suo interno è conservato un delizioso ciclo di affreschi risalenti al Quattrocento e attribuiti a Giovan Pietro da Cemmo. Inoltre, annesso alla chiesa è visitabile il museo dedicato a Beato Serafino Morazzone, personaggio realmente esistito a cui si ispirò lo scrittore per la creazione del personaggio del curato di Chiuso. Esso contiene documenti ed oggetti del Beato,ma anche le litografie originali dei “Promessi Sposi”di Roberto Focosi datate al 1830.

Qui finisce il nostro itinerario manzoniano.

Bibliografia

 

  • Brentari “I paesi dei Promessi sposi” - Hoepli, 1896
  • Andrea Spreafico “La topografia dei Promessi sposi nel territorio di Lecco” - Bottega d’Arte, 1932
  • Furlani Marchi Mariagrazia, Benini Aroldo, Bartesaghi Massimiliano “Luoghi manzoniani a Lecco” -Cattaneo, 1991
  • Tommaso Di Salvo “I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni” - Zanichelli, 1994
  • Franco Suitner “I Promessi Sposi, un’idea di romanzo” - Carrocci editore, 2012
  • Giovanni Nencioni “La lingua di Manzoni” - Il Mulino, 1993

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