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A cura di Dennis Zammarchi

Le palafitte nell’età del Bronzo

Nell’immaginario comune gli abitati palafitticoli sono identificati come un villaggio sull’acqua realizzato con pali di legno nelle vicinanze di un bacino idrico o di un corso fluviale, in realtà grazie a numerosi studi si è visto come non fossero unicamente localizzati in area umida.

Sebbene si possa parlare di strutture abitative caratteristiche dei siti circondati da corsi d’acqua, durante l’Età del Bronzo, infatti, si riconoscono diverse soluzioni strutturali e differenti situazioni ambientali (Fig. 1).

In più di un secolo di ricerche gli archeologi che hanno scavato numerosi siti palafitticoli europei hanno riportato alla luce insediamenti lacustri e fluviali, che sorgevano sulla riva o in acque più profonde, con case poggianti su lunghi pali isolati o su pali corti, con fondazioni a reticolo autoportanti o ancora case su bonifiche di cassoni lignei, cioè costruite su grandi recinti quadrangolari formati da tronchi incastrati tra loro, riempiti con ghiaia o altro materiale drenante in grado di filtrare l’acqua e creare così un piano di calpestio piatto.

Fig. 1 – Museo delle palafitte di Uhldingen-Mühlhofen in Germania.

La maggior concentrazione dei siti palafitticoli la troviamo al nord delle Alpi, mentre in area italiana si trovano soprattutto compresi nell’area del bacino inframorenico del Garda, settore dove si diffuse la facies di Polada. Questa cultura prende il nome dalla località di Polada, nei pressi di Lonato del Garda (BS) e si sviluppa in un periodo compreso tra il 2200 e il 1600 a.C. e la successiva “cultura delle Palafitte e Terramare” del Bronzo Medio e Recente (databile tra il 1600 e il 1200/1150 a.C.).

In realtà le più antiche palafitte della penisola italiana risalgono al Neolitico antico, con il sito della Marmotta sul lago di Bracciano agli inizi del VI millennio a.C. (5800-5600 a.C.), mentre in Italia settentrionale si trovano nella zona di Varese (datate al 5200 a.C. circa),tuttavia, più che siti palafitticoli sono siti localizzati in area umida, o più probabilmente sono strutture su bonifica. Queste strutture realizzate in area umida sono state ritrovate anche nel gruppo dell’Isolino e a Fiavé (Trentino) che conosce un periodo di colonizzazione tra il 3800 e il 3600 a.C.

Una domanda che spesso gli studiosi si sono posti è il perché venissero edificate gli abitati palafitticoli: inizialmente si supponeva che la sopraelevazione garantita dall’impalcato ligneo garantisse una protezione dagli animali feroci. Nel corso degli anni e degli studi questa ipotesi è stata smentita, attualmente si ritiene che il successo di queste modalità insediative durante l’età del Bronzo sia riconducibile all’agricoltura.

Per combattere le difficoltà causate da una fase secca e arida, infatti, gli esseri umani si spostavano all’interno del lago per sfruttare l’area lasciata libera dalle acque, divenuta abbastanza fertile e facilmente lavorabile.

La facies di Polada durante l’Età del Bronzo antica e media

Il Bronzo Antico

Durante l’Età del Bronzo antica (2200-1800 a.C., suddiviso da De Marinis in Bronzo Antico I 2200-1800 a.C. e 1800-1600 a.C. Bronzo Antico II) la facies archeologica più conosciuta e famosa per l’Italia settentrionale è sicuramente quella di Polada, una fase culturale limitata, nel momento più antico, alla fascia prealpina dei laghi e degli anfiteatri morenici posizionati allo sbocco delle valli glaciali.

La concentrazione maggiore degli abitati caratteristici di questa facies è situata attorno al lago di Garda, al confine tra le regioni Lombardia e Veneto, con le palafitte di Polada, Barche di Solferino, Bande di Cavriana, Lavagnone e Lucone.

Secondo le ipotesi dello studioso Lawrence Barfield la comparsa in Italia della cultura di Polada potrebbe essere il risultato di un movimento di alcuni gruppi provenienti dalla Svizzera e dalla Germania meridionale, territori dove si vede un’interruzione degli abitati palafitticoli in corrispondenza dell’Età del Bronzo antica e media.

La facies di Polada si sviluppa per tutto il corso della IEB (prima Età del Bronzo, 2200-1600 a.C.), secondo la cronologia proposta da De Marinis sulla base di numerose date dendrocronologiche, ossia un sistema di datazione basato sul conteggio degli anelli di accrescimento annuale degli alberi che permette di avere una precisione annuale.

La cultura materiale tipica dei gruppi Polada comprende ceramica d’impasto eseguita a mano (la parte prevalente dell’insieme archeologico) di colore scuro e di livello tecnico ed estetico modesto, con prevalenza di forme chiuse (nel momento più antico vi sono boccali globulari, anfore, vasi biconici) e quasi sempre priva di decorazione nelle fasi antiche (Fig. 2).

Fig. 2 – Forme ceramiche tipiche della cultura di Polada.

Le classi ceramiche utilizzate per contenere derrate alimentari hanno superfici più scabre, mentre quelle con possibile uso da mensa evidenziano una maggior cura, presentando una coloritura più uniforme, spesso nera, e maggiormente lisciate. I fondi spesso sono convessi, anche se non mancano forme ceramiche a fondo piatto.

Molto caratteristica di Polada è l’ansa con il bottone plastico alla sommità, le decorazioni comprendono cordoni e listelli plastici e motivi incisi a puntini.

Nel Bronzo Antico II il repertorio ceramico cambia sensibilmente, portando alla maggioranza delle tazze sui boccali, inoltre, compare una forma carenata d’impasto fine con ansa ad anello o gomito. La novità maggiore, tuttavia, è la comparsa della decorazione a punti e cerchietti impressi, che compare sui boccali e sui vasi conici.

La facies di Polada era caratterizzata oltre che dalla lavorazione ceramica, anche da un’industria metallurgica non molto sviluppata, con collegamenti transalpini e lavorazione su larga scala di corno ed osso, produzione di industria litica e lavorazione dei materiali organici deperibili, come l’osso e il legno, sia per il mobilio che per la costruzione delle strutture.

Gli abitati del periodo più antico sono piccoli villaggi situati vicino al lago di Garda, a breve distanza gli uni dagli altri, caratterizzati da fasi di occupazione variabili, anche molto brevi in alcuni casi. Ciò era spesso dovuto a incendi e crolli, come visibile dai ritrovamenti effettuati durante gli scavi e alle successive analisi.

I gruppi Polada insediatisi in quei territori erano soggetti quindi a spostamenti e rioccupazioni all’interno dello stesso bacino.

Gli abitati nella fase più antica sono costruiti su palafitte con impalcato aereo sulle rive dei laghi e sull’acqua. Nella fase avanzata, invece, gli abitati palafitticoli sono costruiti su bonifiche sostenuti da cassonature di travi orizzontali e paletti verticali, con case a pianta rettangolare disposte regolarmente. Il modulo di occupazione era costituito da villaggi vicini e collegati, con una densità demografica compresa tra alcune centinaia e un migliaio di persone.

Per quanto riguarda le attività economiche dei gruppi umani insediati nell’area benacense la produzione agricola è documentata dai ritrovamenti di aratri in legno, falcetti con lame realizzate in selce, semi combusti di legumi e cereali. Sono state rinvenute, inoltre, rappresentazioni artistiche di buoi aggiogati su alcuni massi incisi e statue-stele.

Fig. 3 – L’aratro del Lavagnone, conservato al Museo Rambotti di Desenzano (BS).

L’allevamento era rivolto principalmente a ovini, caprini, suini e bovidi, con differenze legate all’ambiente dov’erano situati gli insediamenti, mentre la caccia aveva un’importanza marginale. Sono stati rinvenuti anche resti di semi e tessuti di lino oltre che resti di cuoio a testimonianza delle attività tessili e di conciatura delle pelli che veniva realizzate.

Importantissimi per gli studi legati sia alla metallurgia che all’identità culturale e cultuale dei gruppi afferenti alla facies di Polada, sono stati i ritrovamenti di ripostigli di bronzi, formati da oggetti integri, solitamente una sola categoria, come asce, collari o pugnali, deposti volontariamente in aree isolate rispetto alla distribuzione degli insediamenti. Uno dei più antichi potrebbe essere quello di Torbole (BS) composto da 13 asce a margini rialzati (Fig.3)

Tali ripostigli potrebbero documentare i modi e le vie della circolazione del metallo sia come prodotto finito (per esempio le asce) che come lingotti. Altre testimonianze della produzione metallurgica locale sono i ritrovamenti di strumenti legati alla fusione dei metalli come crogioli e ugelli di mantice.

Fig. 4 – Ripostiglio di Torbole (BS) conservato al Museo Rambotti di Desenzano (BS).

Gli usi funerari dei gruppi umani sono poco documentati, probabilmente perché non vi erano specifiche aree destinante al seppellimento dei defunti, infatti si hanno ritrovamenti di resti umani provenienti da settori di abitato.

Le più note manifestazioni di culto della cultura di Polada sono le statue stele e in massi incisi della Valtellina e Valcamonica (in continuità dell’Età del Rame) che associano elementi antropomorfi maschili e femminili con rappresentazioni solari, di armi, di scene di aratura, caccia e animali domestici.

Fig. 5 – Incisioni rupestri della Valcamonica, una scena di caccia al cervo.

Infine, un accenno alla struttura sociopolitica di questi gruppi nel Bronzo Antico sembra necessario, la struttura sociale e politica sembra essere tribale, con insiemi di comunità villaggio che occupano comprensori gravitanti attorno a bacini lacustri.

Questo è conforme alla relativa uniformità della facies archeologica insieme all’evidenza di collegamenti e scambi che indicano contatti tra le comunità interessate.

Sembra esserci anche una coesione culturale garantita da luoghi di culto come quelle della Valcamonica, mentre non si ipotizza un’organizzazione politica permanente con un rapporto gerarchico fra le diverse entità del territorio.

Il Bronzo Medio

A Nord del Po, fra la Lombardia orientale, Trentino e pianura padana centro orientale, l’aspetto culturale dell’Età del Bronzo media e recente si sviluppa, ancora una volta, negli abitati palafitticoli dei bacini inframorenico, con la massima concentrazione attorno al bacino del Garda e in una serie di abitati arginati di pianura. La continuità con Polada è visibile, sia nella facies culturale che nella distribuzione territoriale, differenziandosi ora dall’area a sud del Po, solo da questa fase occupata e caratterizzata dalla presenza delle terramare.

La ceramica della MEB (media Età del Bronzo) comprende tazze e scodelle emisferiche, vasi biconici, bicchieri, boccali e grandi vasi utilizzati per conservare gli alimenti. La cultura di Polada cambia, prima era caratterizzata prevalentemente da forme chiuse mentre ora iniziano a prevalere forme aperte.

Si diffondono nuovi stili decorativi caratterizzati dall’uso di solcature e motivi geometrici incisi, un altro aspetto tipico di questa fase sono le forme vascolari con l‘ansa sopraelevata. La produzione metallurgica è molto ricca, così come nell’area terramaricola, vi sono falci e diversi tipi di strumenti come spade e pugnali, rasoi a doppio taglio asce.

Molto sviluppata diviene la lavorazione delle materie organiche, come quella del legno, soprattutto a Fiavé, dell’osso e del palco di cervo.

Per quanto riguarda le pratiche cultuali, si ha l’enfasi dei rituali funerari sugli uomini portatori di armi, documentata anche nell’Italia meridionale; questo continuerà fino all’Età del Bronzo recente dove le armi scompariranno dai corredi.

Questo cambiamento nei corredi delle sepolture è probabilmente dovuto, secondo alcuni studiosi, ad una volontà di slegare la rappresentazione della comunità come gruppo rappresentato dalla propria componente guerriera e dalla capacità della comunità nel suo insieme di affidare ad un singolo capo la decisione politica, testimoniando così un processo diffuso della centralizzazione politica.

Con l’Età del Bronzo recente, gli insediamenti in queste regioni mostrano aspetti di crisi e di discontinuità e gli abitati arginati di pianura si interrompono. Tuttavia, le ricerche in corso indicano per la zona del lago di Garda una certa continuità con il Bronzo finale a differenza dell’area delle terramare dove l’interruzione dell’insediamento è definitiva.

Il Lavagnone

Il sito e la storia delle ricerche

Il bacino del Lavagnone, situato all’interno del comune di Desenzano (BS), è una conca lacustre dalle ridotte dimensioni delimitata da cordoni morenici di origine glaciale che caratterizzano il paesaggio a sud del Garda. Oggi del lago antico, lentamente trasformatosi in una torbiera, sopravvive solamente una piccola zona paludosa ricoperta dalla vegetazione. Il bacino, trasformato progressivamente in una torbiera sin dall’età preistorica è stato bonificato e coltivato nel corso del Novecento. Il sito deve il suo nome alla piccola conca lacustre di origine glaciale, che si trova a 3,4 km a sud del lago di Garda tra i comuni di Desenzano (BS) e di Lonato (BS). Il toponimo “Lavagnone” stesso conserva la memoria del luogo, significa infatti “bacino d’acqua” e “luogo umido”. Il Lavagnone è uno dei più importanti abitati palafitticoli dell’Età del Bronzo, frequentato già in età mesolitica e neolitica (tra il 6500 e i 4500 a.C.). Le prime tracce di frequentazione umana, datate a circa 8000 anni fa, hanno evidenziato la fase di frequentazione mesolitica grazie al rinvenimento di alcuni strumenti in selce. Sempre l’industria litica, raccolta anche lungo l’antica linea di riva, restituisce l’evidenza della frequentazione neolitica e eneolitica (Età del Rame, III millennio a.C.). Solamente durante l’Età del Bronzo, dalla fine del III millennio sino al XIII-XII sec. a.C., però il bacino fu occupato stabilmente. Per questa sua caratteristica, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso sono state avviate indagini scientifiche sistematiche sia della sequenza degli stati archeologici, sia del deposito torboso, in cui si sono conservati resti lignei che si sono poi rivelati utili per effettuare analisi dendrocronologiche, oltre che resti organici di semi, frutti e altri resti vegetali.

Per tali motivazioni il sito archeologico Lavagnone è fondamentale per lo studio della cronologia dell’epoca e per gli studi paleo-ambientali del nord Italia. La dendrocronologia ha reso infatti possibile ricavare importanti informazioni sulle datazioni assolute dell’Età del Bronzo, rendendo il Lavagnone uno dei contesti di riferimento per comprendere la cronologia di quest’epoca in Italia settentrionale, potendo scandirne le fasi e la loro successione. I primi ritrovamenti archeologici di cui si ha notizia al Lavagnone risalgono agli anni Ottanta del 1800 (tra il 1880 e il 1886) in seguito ai lavori di estrazione della torba per fini commerciali, al centro dell’antico bacino, che portarono alla luce ceramiche e manufatti in selce scheggiata. Altri rinvenimenti fortuiti avvennero grazie ai contadini che cominciarono a intaccare con le arature gli strati archeologici più superficiali riportando alla luce centinaia di manufatti di quello che appariva ormai come un sito preistorico.

Esclusi questi primi rinvenimenti saltuari, nessuno si occupò di questo sito fino alla fine degli anni ’50 del 1900 quando Ferdinando Fussi, assieme al Gruppo Grotte di Milano, effettuò delle raccolte di superficie e cinque piccoli saggi di scavo, dalle dimensioni ridotte, in diversi punti del bacino, pubblicando le prime notizie di questa eccezionale scoperta. Le ricerche nell’area si intensificarono negli anni Settanta del secolo scorso: nel 1970 inizialmente sotto la direzione di  Ornella Maria Acanfora, Soprintendente del Museo  Preistorico–Etnografico Luigi Pigorini di Roma, poi con Barbara Barich.

Le ricerche proseguirono poi a partire dal 1974 sotto la direzione di Renato Perini, un grande esperto di abitati palafitticoli, per conto della Soprintendenza al Museo Pigorini e della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, con l’apertura di quattro aree di scavo e sei campagne, dal 1974 al 1979. Durante quegli anni, l’analisi delle stratigrafie di uno dei settori del sito portò Perini a definire 7 orizzonti crono-tipologici, ovvero 7 fasi di occupazione per il Lavagnone, rivelate dalla presenza negli strati archeologici di alcune caratteristiche tipologie di oggetti utilizzati durante le varie fasi dell’Età del Bronzo.

Le sue ricerche fornirono così la base della periodizzazione dell’Età del Bronzo in Italia settentrionale. Nello stesso settore Perini scoprì un aratro in legno degli inizi del Bronzo Antico, uno dei più antichi esemplari noti al mondo (vedi Fig. 3).Dopo un decennio di pausa, gli scavi sono stati ripresi nel 1991 da parte dell’Università degli Studi di Milano, che conduce ancora oggi le ricerche nel sito, inizialmente sotto la direzione scientifica di Raffaele Carlo De Marinis e ora di Marta Rapi.

Nonostante le ricerche scientifiche siano in corso da tempo, si è lontani dall’aver esaurito le potenzialità del sito. Il Lavagnone è stato infatti occupato stabilmente per almeno mille anni durante l’Età del Bronzo e questo ha comportato la presenza di numerose situazioni e contesti archeologici scavati solo parzialmente in modo analitico.

In aggiunta, nel corso dei decenni sono cambiati anche gli approcci e le strategie di ricerca. Per questo, i ricercatori dell’Università degli Studi di Milano hanno avviato un programma interdisciplinare di ricerche, attivando collaborazioni specifiche per diversi settori tra cui la dendrocronologia, l’archeobotanica, la palinologia (studio dei pollini), il paleo-ambiente e ancora per lo studio dei macroresti vegetali (carpologia per l’analisi di semi e frutti), per la micromorfologia, per l’archeo-zoologia (lo studio dei resti faunistici con tracce di sfruttamento antropico) e per l’archeo-metallurgia.

Attualmente gli scavi dell’università ambrosiana interessano l’area nord-orientale dell’antico bacino lacustre; i settori di scavo sono cinque, identificati con lettere da A ad E e distribuiti lungo un asse nord-est/sud-ovest. Questa disposizione consente di studiare differenti ambienti antichi, tra cui l’antica sponda del bacino, nel settore B, o l’area umida centrale situata in antichità dove si trova il settore D. L’area del settore A, scavata da De Marinis, si trova invece a ridosso del cosiddetto settore I di Perini ed è stata ampliata progressivamente fino a inglobarlo.

Questo ha permesso di verificare la sequenza degli strati archeologici individuata da Perini, e anche di rivedere la periodizzazione del sito. Grazie ai risultati dei nuovi studi le fasi archeologiche individuate sono 8 e non più 7, si è inoltre rivista la cronologia del sito in relazione alle diverse fasi dell’Età del Bronzo in Italia settentrionale.

Queste classificazioni sono afferenti alla cultura di Polada e tardo-poladiana nel Bronzo Antico (2200-1600 a.C. circa) e alla cultura delle Palafitte e Terramare nel Bronzo Medio e Tardo (1600-1200 a.C. circa). Le ricerche hanno mostrato la graduale evoluzione degli aspetti culturali, soprattutto per quanto concerne la produzione ceramica dal Bronzo Antico al Bronzo Recente.

Un altro aspetto fondamentale è l’utilità del Lavagnone per comprendere l’interazione tra uomo e ambiente in un arco di tempo molto lungo grazie alla presenza di resti organici animali (come le ossa) e vegetali (semi, frutti e pollini) all’interno della stratificazione archeologica.

Questi fattori sono stati decisivi nel 2011, per la candidatura e il riconoscimento del sito nella Lista dei “Siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino del Patrimonio mondiale dell’UNESCO”. Si tratta di un sito seriale transnazionale perché comprende 111 abitati palafitticoli selezionati tra i circa 1000 attualmente noti, datati tra il 5000 e il 500 a.C. e distribuiti nei territori della Francia, Germania, Italia, Slovenia, Svizzera e Austria.

La struttura dell’abitato

L’abitato del Lavagnone restituisce una documentazione molto articolata e differenziata durante i secoli. La sequenza del sito infatti evidenzia un’articolata vicenda di fondazioni e ristrutturazioni, di temporanei abbandoni e rioccupazioni oltre che di ciclici spostamenti tra aree più interne e umide a zone prossime alla riva e asciutte.

Fig. 6 – Riproduzione della stratificazione archeologica del Lavagnone, con i pali sepolti dalla bonifica, Museo Rambotti Desenzano (BS).

A questa varietà di situazioni corrispondono altrettante diversificate strutture d’abitato, il tutto in relazione, plausibilmente, a cambiamenti di carattere ambientale avvenuti nel corso dell’evoluzione del bacino. Gli aspetti meglio conservati riguardano l’abitato all’epoca della sua fondazione, all’inizio del Bronzo Antico.

In una prima fase (risalente al 2100-2000 a.C. circa) le abitazioni erano costruite su piattaforme lignee aeree sostenute da lunghi pali di quercia, in una zona periodicamente esondata a circa 80 metri dall’antica linea di costa. In direzione della terra asciutta il villaggio era delimitato da una palizzata ed era raggiungibile dalla sponda nord-orientale percorrendo una passerella formata da assi di legno accostate le une alle altre, disposte sul suolo torboso.

È noto, inoltre, che l’abitato venne modificato nel corso del tempo ampliandosi continuamente. Inizialmente l’area occupata dalle abitazioni era superiore a 6 kmq, raggiungeva forse persino un ettaro (10 kmq). La stabilità dell’insediamento si correla al progressivo ampliamento dell’abitato (fino a 3 ettari) e a un incremento demografico lento, ma costante.

Le fasi successive restituiscono diversi tipi di architetture del legno, infatti, passati alcuni decenni dalla prima fase dell’abitato e dopo che la palafitta più antica era andata a fuoco, vennero costruite case su pali corti autobloccanti infissi in tavole orizzontali (plinti). L’utilità di questi plinti a racchetta era di evitare che i pali sprofondassero. Successivamente, dopo una fase di abbandono temporaneo, dovuta probabilmente ad una fase di clima arido e secco che comporta un grosso incendio (1900-1800 a.C.), vengono realizzate delle abitazioni costruite su bonifica con cassonature lignee riempite di pietrame e limo.

In conclusione, per ciò che concerne le strutture del Lavagnone, si può notare che durante alcune fasi strutture di tipo palafitticolo coesistettero con case costruite all’asciutto direttamente al livello del suolo.

Alcune aree del bacino furono occupate per periodi più brevi, altre vennero ciclicamente abbandonate e rioccupate, rendendo l’abitato dell’Età del Bronzo un villaggio dinamico e in continua evoluzione, anche in relazione all’ambiente circostante, alle risorse disponibili, al modello demografico e ai rapporti più o meno conflittuali con le popolazioni limitrofe.

Il Lucone di Polpenazze

L’area del Lucone, come per il Lavagnone, è costituita da uno dei bacini inframorenici meglio conservati del lago di Garda. Si tratta di un’ampia conca, ora in gran parte bonificata, ma un tempo occupata da un piccolo specchio d’acqua. Le caratteristiche ambientali e i numerosi materiali ritrovati fanno di questa località un complesso fondamentale per lo studio delle modalità d’insediamento nell’Età del Bronzo.

Il Lucone era già parzialmente conosciuto nel 1800, ma venne praticamente riscoperto agli inizi degli anni ’60 da Isa Marchiori, un’insegnante di Polpenazze. Grazie ad una sua segnalazione, il Gruppo Grotte Gavardo, autorizzato dalla Soprintendenza, iniziò ad occuparsi dell’area avviando tra il 1965 e il 1971 cinque campagne di scavo.

Questi scavi portarono alla luce ampi tratti dell’insediamento e numerosi reperti archeologici, tra i quali si annoverano la celebre piroga e le numerose tavolette enigmatiche (tavolette di terracotta o pietra, incise, rinvenute in diverse zone dell’Europa, di cui non è ancora chiara la funzione e non sono ancora state decifrate le incisioni).

Fig. 7 – La piroga del Lucone, conservata al Museo archeologico della Val Sabbia, Gavardo (BS).

Dagli studi è emerso che il bacino del Lucone, dopo una fase neolitica (zona C), è stato abitato con continuità dall’inizio del Bronzo Antico ad una fase avanzata del Bronzo Medio, momento in cui la sua popolazione sembra diminuire fortemente. Durante l’ampio periodo cronologico di frequentazione il bacino è stato caratterizzato da più abitati in ambiente umido, presumibilmente di tipo palafitticolo o su bonifica.

Una divisione topografica suddivide l’area in cinque zone, contrassegnate con le lettere A, B, C, D, E, che potrebbero corrispondere all’incirca agli antichi insediamenti.

La zona C è datata al Neolitico Recente, mentre le zone A e B si presentano come aree pluristratificate comprendenti sia fasi di Bronzo Antico che di Bronzo Medio.

La zona D (identificata nel 1986) presenta invece due fasi insediative inquadrabili in un momento iniziale del Bronzo Antico. La zona E, invece, è stata individuata da recenti ricognizioni di superficie organizzate dal Museo di Gavardo. Nel 2007 il Museo Archeologico della Val Sabbia (MAVS, Gavardo) ha intrapreso nuove ricerche, in concessione ministeriale e con il sostegno finanziario di Regione Lombardia e dei comuni di Gavardo e di Polpenazze del Garda, tralasciando per ora il sito più grande (Lucone A) per concentrarsi sul più piccolo Lucone D, per avere la possibilità di ricostruire le caratteristiche dell’abitato, di definire le tipologie di abitazioni e le modalità di edificazione/abbandono.

Allo stato attuale delle ricerche portate avanti dal Dottor Marco Baioni, direttore del MAVS, la storia del Lucone D sembra iniziare nel 2034 a.C. quando un gruppo umano sceglie di abbattere delle querce per costruire un nuovo villaggio. Da ogni tronco vengono ricavati pali di notevole lunghezza, che verranno poi infissi nel suolo lacustre per sorreggere gli impalcati lignei delle case, costruite direttamente sull’acqua.

Inizierà così a formarsi, nei pressi del villaggio, un deposito archeologico costituito dai materiali che cadono o che sono gettati dagli impalcati, formando così dei livelli colmi di elementi vegetali e di materiali organici caratteristici della parte più bassa della stratigrafia. In questi strati la forte umidità ha permesso la conservazione di molti materiali deperibili: strumenti agricoli in legno, tessuti in fibra di lino, frutti e semi.

Ad un certo punto però, in un momento attualmente non datato con precisione, nel villaggio scoppiò un violento incendio. Il fuoco devastò gran parte delle strutture abitative che crollarono nell’acqua, favorendo così la conservazione dalle numerose assi e travi, che formavano l’alzato, rinvenute semicarbonizzate. L’incendio dovette essere improvviso poiché sono presenti numerosi vasi, rinvenuti a volte con ancora il proprio contenuto, che mostrano evidenti segni di una forte esposizione al fuoco. Dall’incendio non risultarono termoalterati solo elementi vegetali, ma anche parte delle abitazioni, che solitamente non si conservano poiché realizzate in argilla essiccata al sole.Vennero così conservati vari frammenti di intonaco, di pavimenti, di piani di focolare e di strutture per la conservazione delle derrate.

Successivamente, il sito non venne abbandonato, ma si decise di rifondare un nuovo villaggio. Probabilmente alla rifondazione è collocato un rito propiziatorio, beneaugurante per la nuova fondazione dell’insediamento. Sul fondo del lago è stato ritrovato un cranio di un bambino di tre-quattro anni, rinvenuto coperto da cortecce forse appartenenti ai nuovi pali utilizzati per l’edificazione (Fig. 8).

Fig. 8 – Il cranio di infante rinvenuto al Lucone in situ.

Questo nuovo villaggio ebbe maggior fortuna del precedente, a giudicare dal maggior spessore e dalla ricchezza dei depositi che si sono formati alla base della palificata. La stratigrafia è caratterizzata da grandi cumuli di scarico ricchi di frammenti ceramici e reperti di svariata tipologia, nonché da resti di rifacimenti edilizi e da rifiuti organici. Successivamente tutta l’area dell’insediamento appare sigillata da uno strato di colore biancastro di origine carbonatica: il lago probabilmente ha avuto aumento di livello dell’acqua e la zona non è stata più frequentata.

 

Bibliografia:

Anna Maria Bietti Sestieri – L’Italia nell’età del bronzo e del ferro, dalle palafitte a Romolo (2200 – 700 a.C.)

Civico Museo Archeologico della Valle Sabbia – Annali del Museo, 19, 2001-2002

Aratro, cultura di Polada – Lombardiabeniculturali.it

Lavagnone – sites.unimi.it

Il Lucone e il Museo Archeologico della Val Sabbia – museoarcheologicogavardo.it

Museo Rambotti Desenzano – museiarcheologici.net

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