IL BORGO MEDIEVALE DI OPI

A cura di Simone Lelli
Fig. 1 - Borgo medioevale di Opi (AQ).

In provincia dell’Aquila, nell’area protetta del parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e in mezzo al gruppo montuoso dei monti Marsicani nella valle dell’Alto Sangro, si trova il borgo medievale di Opi (Fig.1). L’origine del nome Opi risale o alla dea romana Ope, dea della terra, o al termine latino “oppidum”, ossia castello o città fortificata.

Opi: i primi insediamenti

Grazie ai ritrovamenti archeologici effettuati, sappiamo con certezza che il territorio dell’Alto Sangro fu abitato fin dai tempi del Paleolitico superiore: probabilmente i primi abitanti erano gruppi di cacciatori che, alla ricerca di selce e grosse prede, risalivano i monti per raggiungere questo territorio, ma fu solo dal I millennio che le popolazioni iniziarono a stabilirvisi definitivamente. A dimostrazione di ciò troviamo, presso la Val Fondillo (AQ), luoghi di sepoltura databili intorno al VI e V secolo a.C. Dai reperti rinvenuti in queste sepolture, come armi e skyphos[1], possiamo dedurre che questi popoli avessero caratteristiche belliche che man mano persero dopo le guerre sannitiche e durante il processo di romanizzazione del territorio. Questi cambiamenti portarono gli uomini a trasformarsi da guerrieri a pastori, e a praticare la transumanza lungo l’asse delle attuali regioni Abruzzo-Puglia. In epoca romana, e durante tutto il Basso Medioevo, il territorio andò gradualmente spopolandosi anche a causa della devastazione che portò la guerra greco-gotica, ma con la cristianizzazione del territorio cessò questo processo, anche grazie alla costruzione del monastero di Sant’Elia agli inizi del XI secolo. La zona continuò una progressiva crescita demografica fino al luglio del 1654, anno in cui l’intera zona venne colpita da un violento terremoto che provocò numerose vittime e danni ingenti alle strutture di Opi. Questo evento fece calare drasticamente la popolazione.

La grotta di Achille Graziani

A 11 Km da Opi, sempre in provincia dell’Aquila, sono state ritrovate alcune tra le più antiche tracce della presenza dell’uomo in Abruzzo, in particolare presso la grotta dei Banditi poi rinominata “grotta Achille Graziani” (Fig.2) dal suo scopritore. Egli iniziò gli studi archeologici presso questa grotta nel 1870, ma bisogna aspettare il 1955 affinché le ricerche vengano riprese ad opera dell’archeologo Antonio Mario Radmilli. All’interno della grotta i due archeologi trovarono tracce di focolari e diversi oggetti in pietra levigati utilizzati come punte di lancia o come lame. Da questi ritrovamenti si è ipotizzato che la grotta in questione venisse usata saltuariamente dall’uomo soprattutto nelle stagioni più miti, e che i reperti in questione venissero usati per la caccia e per la lavorazione della carne. Inoltre sono stati trovati anche antichi resti organici di animali selvatici tra cui marmotte, lepri, camosci, stambecchi, cervi e cavalli selvatici, che ci aiutano a comprendere la dieta di questi cacciatori e il tipo di clima e vegetazione che era presente sul questo territorio 18.000 anni fa. La grotta Graziani, con il passare dei secoli, continuò ad essere utilizzata dall’uomo fino ad epoche più recenti: al suo interno Radmilli trovò anche ceramiche dell’età del bronzo di epoca romana risalenti a 2000 anni fa. Molto probabilmente con l’avvento della romanizzazione in Abruzzo questa caverna cadde in disuso.

Fig. 2 - Grotta Achille Graziani.

A necropoli di Val Fondillo (AQ)

Gli scavi che hanno portato alla scoperta della necropoli di Val Fondillo (Fig.3) sono stati effettuati tra il 1994 e il 1996 dalla Soprintendenza archeologica e dall’ente del Parco Nazionale d’Abruzzo. Questi scavi hanno permesso di ritrovare un nucleo di tombe strettamente collegate e similari ad altre necropoli trovate in Abruzzo. La necropoli conservava più di centro sepolture a inumazione, le tombe erano disposte in file parallele e formavano dei circoli e, con molta probabilità, questi circoli rappresentavano intere famiglie. I corredi trovati nelle tombe erano interamente in bronzo e ferro: nelle sepolture maschili troviamo soprattutto armi per l’attacco (lance, pugnali, gladi a stami, giavellotti) e armi per la difesa (dischi e corazze) mentre nei corredi femminili troviamo oggetti ornamentali (collane di ambra, bracciali, pendagli e anelli). Le tombe più complesse, e molto probabilmente anche le più ricche, presentano anche una sorta di nicchia protetta da lastre e grossi massi che conteneva oggetti in ceramica tra cui una grossa olla e vasi di dimensioni più piccole. L’intera necropoli è datata intorno al VII-V secolo a.C.

Fig. 3 - Necropoli di Val Fondillo.

Il Museo Archeologico di Opi

Nel centro storico di Opi (AQ) sorge il Museo Archeologico di Opi che, al suo interno, conserva i reperti archeologici provenienti dai territori di Opi e dalla necropoli di Val Fondillo e, al suo interno, troviamo i corredi funebri provenienti dalle tombe della necropoli.

 

Note

[1] Skyphos: tipologia di vaso usato nell’antica Grecia, a forma di coppa.

 

Sitografia

abruzzoturismo.it

altosangro.com

art bonus.gov.it

camminarenellastoria.it

comune.opi.aq.it

inabruzzo.it

parcoabruzzo.it

terre marsicane.it

valfondillo.it

viaggiart.com


L'ANFITEATRO IN PIEMONTE: IVREA E VERCELLI

A cura di Marco Roversi

Introduzione: storia e sviluppo dell'anfiteatro

"Ave, Caesar, morituri te salutant!" “Ave, Cesare, coloro che stanno per morire ti salutano!”. È questa forse una delle espressioni latine ancora oggi più conosciute, e fa la sua prima comparsa nel De Vita Caesarum di Svetonio (al secolo Gaio Svetonio Tranquillo, vissuto tra il 69 e il 122 d.C.). Nella parte dell’opera dedicata alla vita di Claudio, Svetonio riporta tale locuzione ricordando anche che tale espressione venne coniata poco prima di una naumachia (battaglia navale). All’inizio della disputa i combattenti si sarebbero rivolti all'imperatore proprio con queste parole, che alimentano ancora oggi il mito dei gladiatori. Su queste figure, ormai divenute leggendarie, sono stati scritti fiumi di inchiostro da parte di una folla ben nutrita di studiosi e storici; tra prigionieri di guerra, schiavi, condannati a morte, ma anche uomini liberi, oberati di debiti o affamati di denaro e gloria, molti di questi lottatori, che devono il loro nome al gladius (una piccola spada a lama corta) hanno combattuto, trovato gloria e morte in un edificio divenuto simbolo indiscusso del più crudo intrattenimento romano: l’anfiteatro.

Dal greco amphithèatron (amphi – “intorno a” e thèatron – “teatro), l’anfiteatro è un edificio di spettacolo ideato ed impiegato solo ed esclusivamente nell’ambito della cultura romana. Il più delle volte architettonicamente grandioso, maestoso e soprattutto costoso sia in fase di costruzione che di mantenimento, ospitava nella sua arena, dalla caratteristica forma ellittica, spettacoli perlopiù cruenti ma molto amati dai romani, che andavano dai più classici combattimenti fra gladiatori alla caccia di animali feroci ed esotici, passando per battaglie navali e, in alcune occasioni, esecuzioni sommarie e condanne capitali. L’anfiteatro per eccellenza è il Colosseo, noto in origine come Anfiteatro Flavio, voluto dall’imperatore Vespasiano tra il 71 e il 72 d.C., mentre il più antico anfiteatro stabile in assoluto è quello di Pompei, datato al 70 a.C. Con l’avvento dell’Impero, e, conseguentemente, con la progressiva estensione territoriale, politica e militare dello stesso, la cultura dell’anfiteatro arrivò in tutto il bacino del Mediterraneo, ad eccezione di alcune province che non apprezzarono mai appieno il divertimento e i giochi ad esso legati. Nei domini orientali, in particolar modo nei territori di Grecia, Egitto e Turchia, gli spettacoli gladiatori e le cacce alle fiere non erano particolarmente amati. Diversa, invece, la questione nelle province occidentali dell’impero, dove i ludi gladiatores e venationes incontrarono un maggior seguito tra le popolazioni locali, specialmente in area gallica ed iberica. Un esempio di diffusione di anfiteatro in area gallica è l'anfiteatro in Piemonte, dove incontrò notevole successo.

L'anfiteatro in Piemonte: i casi di Ivrea e Vercelli

Limitatamente all’area territoriale del Piemonte (in epoca romana annesso alla provincia della Gallia Cisalpina) molti furono gli anfiteatri eretti nelle principali città della regione. Tra i meglio conservati ai giorni nostri spicca certamente quello di Ivrea, l’antico insediamento di Eporedia: ultima delle coloniae civium Romanorum (città con diritto romano) e dedotta (fondata) intorno all'anno 100 a.C., la città di Ivrea mostra oggi poche tracce del suo passato; tra queste, un ruolo rilevante è occupato proprio dalle vestigia dell’antico spazio ludico cittadino.

Fig. 1 - Veduta aerea dell’area occupata dai resti dell’Anfiteatro di Ivrea. Photo credit: Paolo Spagnoli .

Come esempio di anfiteatro in Piemonte ben conservato spicca quello di Ivrea: venne edificato in piena Età Imperiale, tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., periodo al quale si ascrive anche l’erezione del teatro. Costruito lungo l’antica via che da Eporedia conduceva a Vercellae, odierna Vercelli, si pensa che in origine questo anfiteatro in Piemonte potesse ospitare più di 10.000 spettatori. Si trattava di un edificio imponente per una città di provincia, e la sua modalità di erezione dimostra anche l’impiego ben programmato di un ingente quantitativo di risorse. L’edificio, infatti, venne interamente realizzato su di un enorme terrapieno, con l’asse maggiore di 65 m di lunghezza, addossato sul versante meridionale ad un possente muraglione di contenimento, atto a sostenere al meglio il terreno. Internamente fu rinforzato con un podio, mentre, lungo il perimetro esterno, da una muratura anulare, rinforzata a sua volta da una serie di concamerazioni semicircolari (in parte ancora visibili in situ) con funzione di contrafforte per bilanciare la spinta del terreno.

Fig. 2 - Particolare della muratura anulare esterna e delle concamerazioni semicircolari di rinforzo.

Alle estremità dell’asse centrale si aprivano poi due ingressi monumentali, mentre in corrispondenza delle terminazioni dell’asse minore si affacciavano sull’arena due tribune, oggi quasi del tutto scomparse, in corrispondenza delle quali sono state rinvenute tracce di alcune ricche spalliere bronzee che un tempo rivestivano sedili, verosimilmente riservati ai personaggi più influenti e più agiati della città. Al centro dell’arena, inoltre, è ancora visibile un vano sotterraneo dalla forma rettangolare che si collegava, tramite un lungo e stretto corridoio, agli ambienti di servizio collocati al di sotto delle gradinate della cavea. Un ambiente, questo, piuttosto angusto per dimensioni e profondità, ma certamente impiegato, con l’ausilio di macchinari e montacarichi, per consentire l’accesso all’arena di gladiatori e animali, ma anche di attrezzi e strumenti di scena per gli spettacoli. Un ulteriore passaggio coperto, voltato a botte e pavimentato in laterizi, si snodava invece al di sotto del podio lungo tutto il perimetro della struttura. Aveva la funzione di collegare gli uni agli altri i vari ambienti di servizio celati alla vista degli spettatori, disposti in fila lungo l’asse maggiore dell’arena. Ben visibili risultavano al contrario le terminazioni del podio stesso, il quale culminava in una lunga e possente transenna ornata da pesanti lastre di bronzo decorate con grosse borchie a rilievo. Non è infine cosa irrilevante menzionare come l’anfiteatro di Eporedia sorgesse in parte su di un luogo occupato da una preesistente villa suburbana di Età Repubblicana. Al momento dell’avvio del progetto parte di tale villa, risalente nel suo nucleo originario al I a.C., venne così destituita per lasciar spazio al grande cantiere dell’anfiteatro. Ciò non ha tuttavia impedito la sopravvivenza di poche, ma importanti tracce di quella ricca e lussuosa dimora signorile. Più volte restaurata e decorata nel corso della tarda Età Repubblicana, al suo interno dovevano trovare spazio elegantissime stanze decorate da decorazioni parietali a fresco, le più recenti delle quali si datano tra il 50 e il 70 d.C.

Fig. 3 - Particolare delle fondazioni di una delle tribune che si affacciavano sull’arena. Sono inoltre visibili i parapetti lignei moderni che delimitano l’area occupata dal corridoio e dalla cavità rettangolare al centro dell’arena che un tempo permettevano l’accesso di gladiatori e fiere all’area dello scontro.

L'anfiteatro in Piemonte: Vercelli

Altro centro ricco e florido del Piemonte romano fu Vercellae, odierna Vercelli. La sua innegabile importanza come municipium è testimoniata dalla presenza di quelle che erano le infrastrutture tipiche dell’urbanistica romana, tra cui il teatro e, ovviamente, l’anfiteatro. Quinto per dimensioni (secondo i dati raccolti durante le ricerche dallo studioso e architetto francese Jean-Claude Golvin), tra quelli eretti in tutta la Gallia Transpadana e risalente al I o II secolo d.C, anch’esso si organizzava attorno ad un’arena ellittica la cui lunghezza viene stimata tra i 25 e i 30 m; dimensione sufficiente, questa, per renderla impiegabile anche come teatro di battaglie navali. Di questa grande struttura rimangono visibili, tuttora, solo alcune porzioni riferibili alle fondamenta di uno spicchio dell’ellisse della cavea, mentre le restanti fondamenta sono state inglobate e ricoperte da edifici moderni che impediscono un’indagine sistematica dell’intera area. Tuttavia, al momento dei primi scavi (1560) che portarono in luce buona parte di questo anfiteatro, emersero dal terreno due splendide statue, forse un tempo collocate al centro dell’arena, una maschile e l’altra femminile. Una di esse, consacrata ad Apollo, fu poi spostata, a soli cinque anni dalla scoperta, da Vercelli a Torino per volere del duca Emanuele Filiberto di Savoia.

Sitografia

www.vercelli.italiani.it

www.archeovercelli.it

www.serramorena.it

www.anfiteatromorenicoivrea.it

www.museionline.info


SCHIAVI D’ABRUZZO: UN SANTUARIO SANNITA

A cura di Simone Lelli

Introduzione

Il sito archeologico di Schiavi D’Abruzzo (CH) sorge sulle pendici del Monte Pizzuto, in località Colle della Torre. Il sito era ubicato sul limite orientale del territorio dei Pentri, una delle quattro tribù sannite, confinante con quello dei Frentani, popolo osco; in questo luogo fu eretto un santuario verso la fine del III secolo a.C.  da una delle più antiche famiglie sannite, ovvero quella dei Papi. Il complesso presenta due templi: il più antico, il primo, databile verso la fine del III secolo a.C. e gli inizi del II secolo a.C., e un secondo tempio, eretto successivamente agli inizi del I secolo a.C. L’utilizzo dell’area sacrale è attestato fino al IV secolo d.C., inoltre grazie al rinvenimento di alcune ceramiche possiamo affermare che l’aera fu frequentata fino in epoca medioevale.

Il sito

Fig. 1 - sito archeologico di Schiavi D'Abruzzo.

Il santuario di Schiavi D’Abruzzo, nato su un territorio già da tempo frequentato dai popoli locali come dimostrano i ritrovamenti di tombe a tumulo[1] risalenti tra l’età del Bronzo finale e la prima età del Ferro, presenta un mura di cinta in opus quadratum[2] ancora oggi visibile in parte e due templi di diverse fasi cronologiche. Il santuario nel corso dei secoli dovette influenzare di molto le genti locali fino all’arrivo dei romani in terra abruzzese.

Il primo tempio

Fig. 2 - I° tempio del sito di Schiavi D'Abruzzo.

Il sito archeologico di Schiavi D’Abruzzo è composto da due templi di due diverse fasi edilizie ben definite; il tempio più antico, risalente alla fine del III e gli inizi del II secolo a.C., non fu mai del tutto terminato, come testimoniamo i capitelli appena smussati, tuttavia si notano una grande attenzione e un notevole impegno nella sua costruzione. L’edificio poggia su un grande podio[3] di 21x11 metri e alto 1,79 metri, su cui è inserita la gradinata frontale, inoltre il tempio è prostilo[4], tetrastilo[5] con due allineamenti di colonne laterali. L’edificio presenta una pianta quasi quadrata, infatti misura 6,73 metri di profondità e 7,33 metri di lunghezza; da queste misure possiamo dedurre che al momento della costruzione del tempio l’unità di misura utilizzata per la costruzione era il “piede”[6]. Il tempio presenta nel podio diverse decorazioni a modanatura a gola rovescia, grandi blocchi lavorati molto accuratamente e capitelli ionici[7] abbinati con epistilio[8] fittile decorato con un fregio[9] dorico.

Il secondo tempio

Fig. 3 - II tempio del sito Schiavi D'Abruzzo. Copyright: Davide Monaco - Isernia.

Il secondo tempio del sito di Schiavi D’Abruzzo presenta caratteristiche profondamente diverse rispetto al tempio più antico; infatti l’edificio, più piccolo del primo, non presenta alcun tipo di podio, inoltre il tempio è prostilo e tetrastilo con un solo allineamento di colonne e una cella[10] unica quasi quadrata.  Il pavimento della cella, in gran parte conservato, presenta un battuto di signino[11] rosso con decorazioni a tessere bianche disposte nella zona in cui si trovava la statua della divinità di cui oggi rimane solo il basamento. La decorazione del pavimento è sicuramente anteriore alle “guerre sociali” poiché reca una scritta in lingua osca in cui viene anche menzionato il nome del costruttore del tempio (Paapii). Il secondo tempio del santuario di Schiavi D’Abruzzo presenta alcune modifiche effettuate nel corso dei secoli per adattare il tempio ai riti e alla religione romana.

Conclusione

Il sito di Schiavi D’Abruzzo rimane sicuramente uno dei santuari più importanti e iconici della zona del teatino, come di consueto con l’arrivo della potenza dell’esercito romano in terra abruzzese questi luoghi e l’intera zona si spopolarono a favore di nuovi e più moderni centri di stampo latino. Ma ciò nonostante questo sito rende bene l’idea di come i popoli italici presenti in Abruzzo fossero ben organizzati anche nella sfera religiosa, e di come avevano sviluppato una sopraffina arte nella costruzione architettonica dei templi.

 

Note

[1] Tombe a tumolo: tombe a forma circolare solitamente ricoperte di terra o pietra.

[2] Opus quadratum: antica tecnica di costruzione che prevede la sovrapposizione di blocchi squadrati in forma parallelepipeda di altezze uniformi.

[3] Podio: basamento rialzato su cui poggiano i templi.

[4] Prostilo: tempio che ha una fila di quattro o più colonne sulla parte frontale.

[5] Tetrastilo: edifici che hanno sulla parte frontale almeno quattro colonne.

[6] Unità di misura del “piede”: 1 piede = 0,275 metri.

[7] Capitello ionico: uno dei tre ordini architettonici classici che presenta una ricca decorazione.

[8] Epistilio: era l’architrave di antiche costruzioni.

[9] Fregio: parte intermedia tra l’architrave e la cornice nella trabeazione degli ordini architettonici classici.

[10] Cella: era la parte più interna del tempio che ospitava la statua o immagine della divinità.

[11] Signino: decorazioni in coccio pesto.

 

Bibliografia

Mazzitti, ABRUZZO una storia da scoprire – a history to be told, Pescara, 2000.

 

Sitografia

abruzzo24ore.tv

abruzzoturismo.it

altosannio.it

alto vastese.it

historium.net

sabap-abruzzo.beniculturali.it

sanniti.info


L’ARCO DI AUGUSTO IN VAL DI SUSA

A cura di Marco Roversi

Introduzione: un monumento provinciale al servizio di Roma

“In onore dell’Imperatore Cesare Augusto, figlio del divino Cesare…” Così recita l’incipit della lunghissima iscrizione che campeggia sulla parte sommitale dell’Arco di Augusto a Susa, a oggi uno degli archi romani meglio conservati della nostra Penisola. La sua costruzione, dall’evidente intento celebrativo nei confronti del primo imperatore della storia di Roma antica, ossia Ottaviano Augusto (nato come Gaio Ottavio Turino, ma meglio noto come Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, vissuto tra il 63 a.C. e il 14 d.C.), è attestata negli anni 9 e 8 a.C. con il fine di celebrare il foedus, ossia il patto di alleanza, stretto nel 13 a.C. fra Cozio, re celtico locale, e Augusto medesimo. L’occasione per l’alleanza avvenne allorquando Augusto, di ritorno dalle Gallie, si fermò nell’antica città di Segusium, l’odierna Susa (oggi città metropolitana di Torino), all’epoca un importante centro di snodo commerciale lungo la cosiddetta Via delle Gallie, snodo viario che dalla Gallia Cisalpina, l’attuale Pianura Padana, conduceva sino alle regioni d’oltralpe, ossia la Gallia Transalpina, l’odierna Francia.

Questa alleanza venne ad inserirsi in un periodo cruciale per il controllo politico e militare di Roma sulla regione. Con la morte di Cesare (44 a.C.), infatti, molte delle tribù galliche dell’area si erano sempre più distaccate dalla presenza romana e i rapporti fra latini e genti indigene si erano fatti sempre più difficili. Furono allora molte le tribù che si ribellarono all’autorità romana, andando incontro ad una durissima repressione militare, e molte delle rivolte furono stroncate nel sangue, ma ciò non accadde alle genti celtiche stanziate in Segusium, le quali, sotto la guida del loro re Donno prima, e di Marco Giulio Cozio poi, si guardarono bene dal ribellarsi all’autorità romana e dal bloccare alle legioni di Cesare Augusto l’accesso alla Via delle Gallie. Le genti di Cozio (figlio di Donno e detentore del doppio titolo di “Re dei Cozii delle tribù dei Liguri” e di “Praefectus Civitatis”, ossia di prefetto e cavaliere romano della regione omonima delle Alpi Cozie) furono dunque risparmiate, e in ricordo della passata alleanza e in onore della fedeltà a Roma venne così innalzato l’arco che ancora oggi possiamo ammirare, e alla cui cerimonia di inaugurazione presenziò lo stesso Augusto.

Fig. 1 - Veduta dell’arco e di parte del tratto viario che passava al di sotto del suo fornice.

L'Arco di Augusto: descrizione

Edificato lungo il tratto viario urbano della Via delle Gallie, anche nota come Via Cozia, l’arco si situa alla fine della “Via Sacra” che portava all’acropoli cittadina, il punto più alto e più sacro di tutti. Si trattava, dunque, di una posizione altamente strategica, il che rendeva questo monumento visibile a tutti coloro che passavano lungo tale tratto di strada, e ovviamente, anche al di sotto del suo enorme fornice. Architettonicamente, infatti, tale arco di ragguardevoli dimensioni (in quanto largo all’incirca 11 m e alto 13) si presenta come un classico arco trionfale ad unico fornice voltato a botte con cassettoni, a sua volta chiuso tra due lesene sormontate da capitelli in ordine corinzio. Tutto è possente, solido e maestoso, innalzato su due robusti basamenti in pietra grigia e realizzato con l’impiego di pietra esclusivamente locale, principalmente marmo estratto forse dalla vicina cava estrattiva di Foresto. Sui quattro angoli dell’intera struttura si innalzano ulteriori semicolonne corinzie a sostegno dell’intera trabeazione, su cui corre un lunghissimo fregio narrativo continuo che ha come soggetto i momenti salienti della stipulazione del trattato di pace fra Seguii e Romani. Al di sopra di quest’apparato figurativo, nell’attico, la parte sommitale dell’arco, campeggiava l’iscrizione dedicatoria in lettere di bronzo celate (ossia bronzo dorato) andate irrimediabilmente perdute; tuttavia è stato possibile ricostruire tale apparato epigrafico grazie all’analisi della posizione delle singole grappe metalliche che un tempo fissavano le singole lettere bronzee ai blocchi marmorei del monumento. Dal tono profondamente encomiastico l’iscrizione recitava:

“IMP • CAESARI • AVGVSTO • DIVI • F • PONTIFICI • MAXVMO • TRIBVNIC • POTESTATE • XV • IMP • XIII • M • IVLIVS • REGIS • DONNI • F • COTTIVS • PRAEFECTVS • CEIVITATIVM • QVAE • SVBSRCRIPATE • SVNT • SEGOVIORVM • SEGVSINORVM • BELACORVM • CATVRIGVM • MEDVLLORVM • TEBAVIORVM • ADANATIVM • SAVINCTATIVM • ECDINIORVM • VEAMINIORVM • VENISAMORVM • IEMERIORVM • VESVBIANORVM • QVADIATIVM • ET • CEIVITATES • QVAE • SVB • EO • PRAEFECTO • FVERVNT”

Fig. 2 - Particolare di ciò che rimane oggi dell’antica iscrizione in lettere bronzee su entrambi i lati lunghi dell’attico. Ben visibili sono ancora i segni lasciati dalle antiche lettere in bronzo dorato e dei fori di fissaggio delle grappe che fermavano le singole lettere sui blocchi marmorei della struttura.

Questa l’iscrizione in latino che si poteva leggere sul monumento, disposta all’interno della parte centrale dell’attico del monumento in quattro righe di testo, sia sul lato settentrionale che su quello meridionale. In essa si può cogliere con chiarezza l’atto della dedica dell’arco ad Augusto da parte di Cozio, citato come già insignito della carica di Praefectus Ceivitatium insieme alle 14 popolazioni che rispondevano localmente alla sua autorità. In traduzione si può leggere:

In onore dell’Imperatore Cesare Augusto, figlio del divino Cesare, Pontefice Massimo, investito della Potestà Tribunizia da quindici anni e Imperatore da tredici, da parte di Marco Giulio Cozio, figlio del re Donno, Prefetto delle popolazioni che sono qui elencate: Segovii, Segusini, Belaci, Caturigi, Medulli, Tebavi, Adanati, Savinctati, Ecdini, Veamini, Venisami, Imerii, Vesubiani, Quadiati e da parte delle popolazioni che furono sotto la sua prefettura”.

Si ritiene, infine, che come coronamento terminale della parte sommitale dell’arco vi fossero originariamente alcune immagini statuarie, probabilmente in bronzo, le quali, tuttavia, non sono mai state rinvenute e delle quali non abbiamo alcuna traccia descrittiva nemmeno nelle fonti documentarie.

Ben visibile rimane, invece, il rilievo figurato che corona la trabeazione. Nonostante alcune lacune e abrasioni, infatti, il fregio narrativo si presenta leggibile per intero sui lati nord, sud e sul lato breve occidentale, mentre su quello orientale rimane solo un piccolo tratto in prossima dell’angolo sud. Al pari dell’iscrizione, anche tale fregio ha un carattere altamente encomiastico: le scene sono tutte volte alla celebrazione e all’esaltazione della pace stretta con Roma e con Augusto, alla cui stipulazione partecipano personaggi sia locali sia romani, il tutto all’alto cospetto degli dei. Sui entrambi i lati lunghi sono così rappresentate due scene pressochè identiche, seppur con lievi differenze: soggetto vero e proprio è il solenne sacrificio compiuto per mano dello stesso Cozio innanzi agli alleati romani, con precisione l’atto sacrificale del suovetaurilia o solitaurilia, ossia del sacrificio di un maiale, di una pecora e poi di un toro, praticato per sancire solennemente la pace e per invocare su di essa la protezione divina.

Fig. 3 - Particolare della scena del sacrificio.

Sul lato breve occidentale è mostrato con attenta precisione descrittiva proprio l’atto della stipulazione del patto di pace: al centro della scena, ai lati di un’ara sacra centrale, vi sono due distinti personaggi togati, da un lato Cozio, dall’altro il generale romano nelle veci di Augusto; quest’ultimo è colto mentre abbraccia in concordia il Prefetto locale Cozio, il tutto tenendo stretto tra le mani un rotolo, verosimilmente la carta su cui venne scritto il vero e proprio trattato di pace. Concludono la scena ulteriori personaggi ai lati, sia magistrati romani, sia altri rappresentanti politici di entità locali sottoposte all’autorità di Cozio e della sua Segusium.

Sitografia

www.archeocarta.org

www.comune.susa.to.it

www.associazioneilponte.com

www.treccani.it


IL SITO PALAFITTICOLO DI CELANO PALUDI (AQ)

A cura di Simone Lelli

Introduzione

Il sito archeologico di cui si parlerà in questo articolo è quello di Celano Paludi, un piccolo comune in provincia dell’Aquila, dove è stato ritrovato un insediamento palafitticolo.

Parlando di un insediamento di questo genere precisamente si intende un agglomerato di capanne o un villaggio costruito con quelle che sono comunemente chiamate palafitte (fig.1), cioè strutture formate da un asse orizzontale di legno sostenuto da pali infissi nel terreno. Solitamente queste costruzioni venivano effettuate a ridosso di laghi, paludi o lagune, e servivano ad evitare che le inondazioni allagassero le abitazioni, ma anche a tenere lontani i predatori. Queste strutture erano diffuse soprattutto nel nord Italia e nella Pianura Padana; per questo motivo il sito di Celano Paludi rappresenta uno dei siti palafitticoli più importanti del centro Italia. L’ubicazione del sito non è infatti casuale, poiché si trovava in una posizione dominante sulla piana del Fucino.

Fig. 1 - Ricostruzione di una palafitta.

Storia degli scavi

Le prime evidenze archeologiche del sito furono osservate nel 1984, quando, durante i lavori di costruzione di un’azienda ittica in località Paludi (AQ), emersero alcuni resti lignei e materiale ceramico risalente al II millennio a.C. che testimoniavano un’antica frequentazione della zona. L’anno successivo, durante l’ampliamento del laghetto artificiale circostante, si comprese la complessità e la vastità dell’insediamento. Il sito, che oggi occupa una superficie di 4000 metri quadrati, fu utilizzato dalla media età del Bronzo (XVIII secolo a.C.) fino all’età del Bronzo finale (XII- X secolo a.C.). Inoltre, a testimonianza di una lunga e continua frequentazione della zona, si osservò che il sito era stato dapprima utilizzato come un luogo abitativo, successivamente utilizzato come un luogo sepolcrale (attestato grazie al ritrovamento di alcune sepolture), e infine di nuovo luogo abitativo con la costruzione di palafitte. Dal 1985 fino al 1989 sono state effettuate cinque campagne di scavo continue, condotte dalla Sopraintendenza Archeologica dell’Abruzzo e dirette dall’archeologo Vincenzo D’Ercole; queste hanno portato al ritrovamento di decine di pali lignei che indicavano la presenza di un villaggio palafitticolo datato alla fase finale del Bronzo, e alla scoperta di tre tombe a tumolo delimitate da pietre conficcate nel terreno. Le sepolture (fig.2), datate anch’esse nella fase finale dell’età del Bronzo, erano caratterizzate da un cassone ligneo in cui veniva deposto il defunto insieme al suo corredo funebre, composto da oggetti in bronzo come fibule, rasoi e aghi. Dopo anni di interruzione, gli scavi ripresero nel 1996, quando venne portata alla luce un’ulteriore tomba a tumolo e venne ampliata l’area di scavo di altri 500 metri quadrati, facendo così rinvenire nuove strutture lignee riferibili al villaggio palafitticolo. Nel 1998, con un’ultima campagna di scavo, furono ritrovate altre tre sepolture a tumolo molto simili a quelle precedentemente scoperte.

Fig. 2 - Sepolture trovate nel sito Celano Paludi (AQ).

Osservazioni

Dallo studio del materiale ligneo ritrovato durante le varie campagne di scavo presso il sito archeologico di Celano Paludi, si è notato che il legno utilizzato per la realizzazione dei pali è, nella maggior parte, legno di quercia; tuttavia si trovano anche, in piccola parte, legno di pioppo e di salice. Il diametro medio dei pali è di circa dieci centimetri, e questo permette di capire che essi sono stati ricavati sicuramente da tronchi di grosse dimensioni e poi adattati per l’utilizzo. Lo studio dei pali di legno e delle buche di palo ritrovate nel terreno ha permesso di ipotizzare le diverse aree abitative dell’insediamento: nella zona centrale dello scavo sono state trovate file parallele da cinque o più pali con una distanza tra loro che varia tra i novanta e i centotrenta centimetri, dal lato occidentale dello scavo, invece, si è notato che gli allineamenti di pali e buche possono raggiungere lunghezze notevoli. In questa zona, infatti, era presente una struttura quadrangolare formata da quattro allineamenti di pali lunghi quindici metri.

Il Museo di Preistoria di Celano Paludi (AQ)

Fig. 3 - Museo di Preistoria di Celano Paludi (AQ).

L’importanza e la singolarità del sito, unico in Abruzzo, portò il Sopraintendente archeologico dell’Abruzzo Giovanni Scichilione e il funzionario archeologico che aveva anche diretto gli scavi, Vincenzo D’Ercole, a presentare un progetto per la costruzione di un museo adiacente al sito archeologico di Celano Paludi. Il museo (fig.3), pienamente integrato nel territorio della zona, ha la forma di un tumolo e prende spunto dalle sepolture ritrovate negli scavi. Inaugurato nel 1999, è un edificio seminterrato che presenta stanze molto ampie e illuminate da grandi finestre poste sul soffitto. Al suo interno ospita reperti che spaziano dall’età del Bronzo fino all’epoca romana e vi si tengono anche alcune mostre temporanee. Il percorso museale inizia con la prima sala, che attualmente ospita una mostra: una collaborazione tra la Sopraintendenza archeologica d’Abruzzo e la società privata di Edison Gas che prende il nome di “Amore e morte”. L’esposizione accoglie i reperti archeologici trovati nella provincia dell’Aquila negli ultimi venti anni di scavi, tra cui si possono ammirare un complesso di vasi cinerari risalenti al VI millennio a.C., reperti metallici e ceramici del sito di Celano Paludi e anche la ricostruzione di una tomba a tumolo appartenuta ad una bambina morta all’età di dieci anni. Proseguendo il percorso si entra nella seconda sala, dedicata all’età del Ferro, in cui sono esposti i reperti delle necropoli di Fossa, Forca Caruso, San Benedetto in Perillis e Molina Aeterno. Il percorso si conclude entrando nella terza sala in cui sono collocati i corredi funebri delle necropoli di Fossa e di Bazzano: qui si può notare il livello di straordinarietà che aveva raggiunto l’Abruzzo nelle produzioni locali di ceramica a vernice nera, ceramica comune, e delle applique in osso che ornavano i letti funebri. All’interno della struttura si trovano anche grandi laboratori di restauro e spazi dedicati ad indagini antropologiche in cui vengono mostrate la storia e le prime frequentazioni umane della Marsica. Infine, in alcuni depositi del museo vengono ancora oggi conservate numerose opere d’arte provenienti da comuni abruzzesi colpiti dal sisma del 2009.

 

Conclusioni

Il sito di Celano Paludi, come detto in precedenza, rappresenta un caso unico sul territorio abruzzese soprattutto se si pensa che i siti palafitticoli sono concentrati soprattutto sul il versante alpino, in particolare nell’area della Pianura Padana, dove sono presenti grandi laghi ed estese zone paludose che giustificavano questo tipo di strutture. Il sito si trova nell’area del Fucino, una zona inizialmente paludosa, in cui si trovava il lago Fucino (considerato il terzo lago più grande in Italia per estensione). L’intera area fu successivamente bonificata dall’imperatore Claudio tra il 41 e il 52 d.C., ma l’originaria natura paludosa della zona può ben spiegare la costruzione di un villaggio palafitticolo a Celano Paludi.

 

 

Sitografia

aequa.org

il miraggio.com

inabruzzo.it

musei.abruzzo.beniculturali.it

neveappennino.it

treccani.it

 

Bibliografia

Mazzitti, ABRUZZO una storia da scoprire – a history to be told, Pescara, 2000


IL SITO ARCHEOLOGICO DI ROCA VECCHIA

A cura di Matilde Lanciani

INTRODUZIONE: DALLA CIVILTÀ MESSAPICA ALL'IMPIANTO URBANISTICO MEDIEVALE

Il sito archeologico di Roca Vecchia (fig.1) in Puglia è uno dei più importanti dell’intero bacino del Mediterraneo. Esso comprende gli scavi concentrati nella cosiddetta “località Castello”, piccola penisola circondata dai resti della sua fortificazione tardo-medievale, caratterizzata dalla stratificazione di reperti risalenti all’occupazione umana durante 3500 anni, esattamente dal II millennio a.C. fino alla metà del XVI secolo d.C.

Fig. 1

È da sottolineare la presenza nel sito di Roca Vecchia delle grotte della poesia (fig.2); infatti una di queste, scoperta a seguito degli studi del prof. Cosimo Pagliara, iniziati nel 1983 e proseguiti grazie all’Università del Salento, è stata indicata come grotta-santuario sulle cui pareti è conservato il più ricco repertorio di incisioni di età pre-protostorica e testi votivi in lingua latina e messapica (IV-II secolo a.C.) volti a celebrare la divinità locale “Thaotor Andirahas”. Nella zona adiacente alle grotte si possono osservare i resti di un piccolo insediamento rupestre del X-IX sec. a.C. con percorsi stradali della fase messapica, pozzi, basamenti di edifici e numerose tombe che è stato possibile studiare ed indagare a fondo dal ‘900 grazie al Museo Provinciale e alla Soprintendenza.

Fig. 2

La monumentale porta (fig.3,4) che doveva dare accesso al sito, risalente all’età del Bronzo Medio, si ergeva in mezzo ad una serie di passaggi minori, detti postierle: semplici corridoi di non più di un metro e mezzo, le cui entrate erano caratterizzate da contrafforti e torri. Prima dell’incendio che la distrusse nel XIV sec. a.C., la porta era alta almeno 8 metri e larga 25. Per entrare si doveva attraversare il cosiddetto Corridoio degli Ortostati, costellato da grandi lastre di pietra conficcate verticalmente sulla base del muro accostato ad una possente torre semicircolare. Percorrendo il corridoio si arrivava ad un portone in legno di quercia attraverso il quale si accedeva ad un ulteriore corridoio di 2,5 metri di larghezza, ai lati del quale erano una serie di vani accessori e che conduceva all’interno di due maestose torri contrapposte, oltre le quali si raggiungeva l’abitato.

Oggetto di numerosi studi del sito di Roca Vecchia è stata la postierla B, uno dei corridoi meglio conservati, posizionata a Sud della Porta Monumentale e delimitata - come tutte le altre - da rettilinei murari paralleli tra loro, realizzati in pietra locale sovrapposta a secco e legata con tufina (calcarenite sbriciolata) ed argilla. Nelle pareti murarie si aprono una serie di buchi circolari disposti ad intervalli regolari di circa 1 metro dove sono stati rinvenuti i resti carbonizzati dei pali di sostegno. Queste travature verticali avevano duplice funzione strutturale: per le murature retrostanti e per le strutture di copertura. Al momento del rinvenimento, durante gli scavi, le postierle erano colmate dalle porzioni di murature superiori crollate in seguito al violento incendio che conseguì alla battaglia databile intorno alla fine del Bronzo Medio (XIV sec. a.C.). A terra, nei cunicoli, c’erano resti di pasti, contenitori ceramici e manufatti di bronzo. In particolare nella postierla C (fig.5), similmente a Pompei, sono stati ritrovati gli scheletri di 7 individui in connessione anatomica di diversa età (probabilmente una famiglia con dei bambini) morti per soffocamento a causa dell’incendio, uno di loro con le mani alla gola nella tipica condizione di asfissia e gli altri con gli arti protesi verso l’alto per proteggersi probabilmente dalla caduta delle strutture incendiate soprastanti. Ciò è testimoniato da un’illustrazione che costituisce un’accurata ricostruzione storica ad opera dell’artista Karol Schauer (fig.6).

Durante l’epoca del Bronzo Recente (XIII-XII sec. a.C.) furono fatte una serie di opere di ricostruzione delle fortificazioni protostoriche a seguito di questo tragico evento, come ad esempio le murature pseudo-isodome “a scarpa” o “a gradoni” disposte lungo filari regolari, impostate su terreni di riporto con accumuli di pietrame derivati dalle rovine della fase abitativa precedente. Queste murature, conservate solo per un’altezza di 3 metri e inclinate da Ovest verso Est, erano realizzate con blocchi di calcarenite scavati e squadrati coperti da uno spesso strato di tufina. Nella seconda fase di ricostruzione invece troviamo una muratura verticale con materiali simili. Queste tecniche sembrano essere derivate in particolare da modelli di origine egea come quelli della civiltà palaziale micenea (XIV-XIII a.C.) come dimostrano i reperti di ceramiche importate nel Tardo Elladico IIIB-IIIC Medio.

La successiva fase del Bronzo Finale (XII-XI secolo a.C.) vide il costituirsi di una solida palizzata lignea di contenimento, inserita in uno zoccolo basso di muratura a secco, all’interno delle mura. Fu eretta inoltre una serie di strutture a capanna nella rete urbanistica stradale, andata poi distrutta, anche questa volta, a causa di un incendio. La più importante di queste strutture, di cui è possibile osservare la ricostruzione virtuale (fig.7), è stata indicata essere quella nel settore Nord con una pianta quadrangolare allungata di 17 x 43 metri che fungeva da luogo di culto e di sacrificio animale. Lo spazio interno è suddiviso in navate longitudinali scandite da pali verticali ad intervalli di 2,5 o 3 metri. Al momento degli scavi tutta la struttura lignea era crollata e si trovava sotto uno spesso strato di macerie, ma fu ugualmente possibile notare una serie di oggetti di carattere sacro: “tavole per offerte”, idoletti antropomorfi e manufatti vari in bronzo e oro, insieme ad altri reperti di uso quotidiano come ad esempio vasellame in ceramica d’impasto e figulina dipinta. C’erano, inoltre, nel sito di Roca Vecchia, diverse aree di cottura con forni in argilla e piastre da focolare.

Fig. 7

Oltre alla civiltà messapica si trovano tracce della cittadella medievale di Roca, edificata secondo un modello militare databile intorno al XIV sec. d.C., voluta da Gualtieri VI di Brienne conte di Lecce ed erede del ruolo di fondatore di questo nucleo preesistente dal ‘200, creato dai suoi avi. Come disposizione urbanistica il conte attinse dagli schemi delle “bastides” francesi per nobilitare le origini della sua dinastia. La pianta presenta una maglia stradale ortogonale con isolati rettangolari di lato corto uguale a 22 metri, con le mura costruite direttamente su quelle protostoriche - di cui il lato ovest è andato distrutto completamente. Dentro le aree abitative sono una serie di ambienti e vani con diverse funzioni come la cucina, il cortile, la latrina ecc. (fig.8). Alla fine del XV secolo la città fu parzialmente ristrutturata, come testimoniato dal notevole ampliamento della chiesa e dalla costruzione del castello.

Fig. 8

Gli studi di questa fase hanno portato alla luce un secondo edificio di culto (oltre alla già citata “capanna sacra”), ossia la chiesa greca medievale che è posta 25 metri ad est dalla chiesa di rito latino. La pianta rettangolare ha l’asse maggiore orientato NO/SE e risulta essere divisa in due ambienti: quello maggiore con le sepolture (fig.9) e quello minore con lastricato pavimentale e due podi quadrangolari ai due estremi della parete meridionale, di cui quello ad est conserva un cippo basso tronco-piramidale ed una seduta litica poggiata alla parete. Lo spazio tra i due elementi costituisce l’accesso all’ambiente dell’altare in blocchi squadrati, mentre le sedute si ritrovano anche lungo le pareti laterali in forma continua e sorrette da elementi verticali. La chiesa aveva una decorazione interna ad affresco policromo ed il tetto in travi di legno con copertura a coppi. È interessante rilevare come l’edificio sia stato costruito sui resti di un insediamento rupestre e quindi abbia forse assunto la funzione di dare continuità storica al culto e al rito sacro. Fuori dalla chiesa erano poste le sepolture, spesso di neonati non battezzati, poiché l’acqua piovana scivolando sul tetto dell’edificio e bagnandone le tombe, simboleggiava il non ricevuto sacramento ed aiutava il defunto nel passaggio al Paradiso.

Fig. 9

Da questa conformazione risulta un sito ricchissimo di storia e di civiltà che si è riuscito a conservare e a dimostrare come talvolta la vita degli antichi non sia così distante dalle abitudini contemporanee e dai valori che legano la società. Alma Tadema, pittore neogreco-neopompeiano dell’800, ha espresso in maniera esemplare questo concetto:

“Tra gli antichi e i moderni c’è meno differenza di quanto siamo portati a credere. È questa la verità che ho sempre cercato di esprimere nei miei dipinti, cioè che gli antichi erano esseri umani in carne ed ossa come noi, animati dalle stesse passioni e dalle medesime emozioni”.

 

Bibliografia

Arthur, P. (2006). L’archeologia del villaggio medievale in Puglia. Vita e morte dei villaggi rurali tra Medioevo ed Età Moderna. Dallo scavo della, 97-121.

Barrow R.J., Lawrence Alma Tadema, Phaidon Press, Hong Kong, p.6.

Butalag, K., Demortier, G., Quarta, G., Muscogiuri, D., Maruccio, L., Calcagnile, L., ... & Mazzotta, C. (2005). Checking the homogeneity of gold artefacts of the final bronze age found in Roca Vecchia, Italy by proton induced X-ray emission. Nuclear Instruments and Methods in Physics Research Section B: Beam Interactions with Materials and Atoms240(1-2), 565-569.

Guglielmino, R. (1999). I dolii cordonati di Roca Vecchia (LE) e il problema della loro derivazione egea. In EPI PONTON PLAZOMENOI. SIMPOSIO ITALIANO DI STUDI EGEI (pp. 475-486). Scuola Archeologica Italiana di Atene.

Guglielmino, R., & Pagliara, C. (2006). Rocavecchia (Le): testimonianze di rapporti con Creta nell’età del bronzo. Studi Peroni, 117-124.

Maggiulli, G. (2009). I ripostigli di Roca Vecchia (Lecce): analisi dei materiali e problematiche archeologiche. E. Borgna e P. Cassola: Guida Dall'Egeo all'Adriatico: organizzazioni sociali, modi di scambio e interazione in età postpalaziale (XII-XI sec. aC). Atti del Seminario internazionale (Udine, 1-2 dicembre 2006), Quaderni di Protostoria Mediterranea, 205-218.

Pagliara, C., Guglielmino, R., Coluccia, L., Malorgio, I., & Merico, M. (2008). Roca Vecchia (Melendugno, Lecce), SAS IX: relazione stratigrafica preliminare sui livelli di occupazione protostorici (campagne di scavo 2005-2006). Roca Vecchia (Melendugno, Lecce), SAS IX: relazione stratigrafica preliminare sui livelli di occupazione protostorici (campagne di scavo 2005-2006), 239-279.


LA PITTURA POMPEIANA

A cura di Simone Lelli

ORIGINE DELLA PITTURA POMPEIANA

Fig. 1 - Carlo di Borbone.

Le prime attestazioni di pittura parietale “pompeiana” si trovano nel trattato di Marco Vitruvio Pollione “De Architecture” scritto intorno al 15 a.C: si tratta di un trattato sull’architettura composto da 10 libri giunto integro fino a noi. Il libro VII in particolare tratta degli edifici privati, della loro tipologia e delle loro decorazioni parietali, ed è proprio in questo settimo libro che Vitruvio per la prima volta descrive la particolarità dello stile pittorico “pompeiano”. Bisognerà però aspettare il sovrano Carlo di Borbone (fig.1), che nel 1738 autorizzerà Roque Joaquin de Alcubierre ad utilizzare quattro operai nelle ricerche sotterranee di Pompei, per poter avere numerosissimi reperti appartenuti alla città campana in epoca classica, tra cui numerose opere di pittura parietale. Naturalmente il sovrano non poteva immaginare l’importanza di quei ritrovamenti, che daranno inizio alla ricerca archeologica nell’intera area. Ed è proprio grazie al trattato di Vitruvio, alla ricerca archeologica iniziata da Carlo di Borbone e all’ottima conservazione delle pitture che nel 1882 l’archeologo tedesco August Mau delinea e suddivide per la prima volta queste opere in quattro stili, che verranno poi utilizzati per classificare tutta l’arte romana anteriore al 79 d.C.

LA PITTURA POMPEIANA: I STILE (150 a.C. – 80 a.C.)

Il primo stile (fig.2) della pittura pompeiana, anche detto stile strutturale o dell’incrostazione, comprende tutte quelle opere datate dal 150 a.C. fino all’ 80 a.C. Diffuso sia in edifici pubblici sia in quelli privati questo stile attraverso l’uso dello stucco a rilievo proponeva decorazioni in opus quadratum[1]. Il primo stile solitamente ha tre caratteristiche che si ripetono in uno schema fisso; la prima fascia posta al livello superiore è decorata con cornici di stucco sporgente, la fascia centrale viene decorata con colori che tendevano ad imitare il marmo, il granito o l’alabastro (troviamo l’uso predominante del rosso e del nero ma anche tonalità sul viola, verde e giallo), infine troviamo uno zoccolo[2] decorato con tonalità sul giallo. Anche piccoli elementi architettonici, come ad esempio dei pilastri utilizzati per la divisione verticale degli edifici, trovano spazio in questo stile. Il primo stile nasce da una radicata ispirazione alla cultura ellenica presente a Pompei, e queste caratteristiche le ritroviamo spesso in edifici del III o II secolo a.C. presenti delle polis greche e in alcune città sul Mar Nero, decorati con cornici in chiaroscuro, finto rilievo e piccole semicolonne[3] in stucco. Nell’area pompeiana eccellenti esempi del I stile li troviamo nel tempio di Giove, nella Casa del Fauno e nella Casa di Sallustio.

Fig. 2 - Esempio di I stile di pittura “pompeiana”.

II STILE (80 a.C. – fine I secolo a.C.)

Il secondo stile (fig.3), noto anche come stile architettonico, va dal 80 a.C. fino alla fine del I secolo a.C. La caratteristica principale di questo secondo stile è la realizzazione di cornici e fregi [4] con tralci vegetali attraverso la pittura e non più con l’utilizzo dello stucco. La novità di questo stile viene data da un’elegante prospettiva che dava allo spettatore l’illusione in primo piano di podi [5] e finti colonnati, edicole [6] e porte, dalle quali si aprivano vedute prospettiche. A dare maggior lustro al II stile fu lo sviluppo in questo periodo degli artisti “paesaggisti” che dipingevano dettagli dei giardini con grande cura. In questo periodo era solito dipingere nature morte con cacciagione, ortaggi e frutta, ciò viene spiegato dall’usanza di portare come dono agli amici regali composti prevalentemente da cibo. L’esempio più antico lo troviamo a Roma nella Casa dei Grifi sul Palatino databile tra il 120 e il 90 a.C., mentre a Pompei lo troviamo soprattutto nella Villa dei Misteri, ma anche nelle case di Obellio Firmo, del Labirinto, delle Nozze d’Argento, del Criptoportico.

Fig. 3 - Esempio di II stile di pittura "pompeiana".

III STILE (fine I secolo a.C. – metà I secolo d.C.)

Il terzo stile (fig.4), definito anche stile ornamentale, fu utilizzato tra la fine del I secolo a.C. fino alla metà del I secolo d.C. Profondamente diverso dallo stile precedente, il terzo stile presenta elementi piatti con aree che venivano riempite con un unico colore, molto spesso tonalità scure, che rappresentavano pannelli raffiguranti scene di varia natura. A sottili pareti vengono a sovrapporsi sofisticate strutture architettoniche dall’improbabile equilibrio, le pareti vengono dipinte a tinta unita con larghe campiture [7] sull’azzurro e sul verde che per la prima volta vengono aggiunti ai classici colori utilizzati precedentemente (giallo, rosso e nero). Su queste campiture compaiono spesso piccole vedute con figure sospese a mezz’aria, soggetti di tipo mitologico o paesaggi d’invenzione. Inoltre c’erano casi in cui si utilizzavano tonalità chiare per gli ornamenti, come ad esempio per la realizzazione di candelabri, figure alate e ramificazioni vegetali. Un sontuoso esempio del terzo stile a Pompei lo troviamo nel tablinum presso la Casa di Marco Lucrezio Frontone.

Fig. 4 - Esempio di III stile di pittura "pompeiana".

IV STILE (60 d.C. – 79 d.C.)

l quarto stile (fig.5), conosciuto anche come stile dell’illusionismo prospettico, si affermò nell’impero romano in età neroniana, mentre a Pompei si instaurò dopo il 60 d.C. e si concluse con la violenta eruzione del Vesuvio che distrusse completamente la città di Pompei nel 79 d.C. Di questa datazione siamo abbastanza certi poiché dopo il violento sisma del 62 d.C. che colpì l’intera Campania, gli edifici che furono restaurati furono decorati con pitture appartenenti al IV stile. Rispetto agli stili precedenti, il quarto stile introduce come caratteristica principale quella di rappresentare strutture sontuose e idilliache ma non reali, che suscitavano meraviglia in chi le ammirava. Quest’ultimo stile a differenza degli altri presenta architetture bidimensionali e fortemente decorative, ma allo stesso tempo conserva caratteristiche sia del II stile (come la tecnica di imitazione di rivestimenti marmorei, le imitazioni e l’illusione di architetture e oggetti proposti in uno spazio questa volta bidimensionale) sia caratteristiche del III stile (come raffigurazioni ornamentali di candelabri, figure alate e tralci vegetali). Gli esempi più importanti del IV stile a Pompei li troviamo nella Casa dei Vettii e nella Casa dei Dioscuri.

Fig. 5 - Empio di IV stile di pittura "pompeiana".

CONCLUSIONE

Con la fine della città di Pompei cessa di esistere anche la sua tradizionale arte pittorica ma non cessò invece lo sviluppo dell’arte romana, che continuò ad evolversi e a cambiare fino alla fine del suo impero. Basti pensare che alcune opere bizantine sono per stile e significato completamente diverse dai quattro stili ma conservano ancora qualche traccia di quelle che erano le caratteristiche dello stile “pompeiano”, ciò a conferma che l’arte romana, nonostante abbiamo perso nel 79 d.C. un centro artistico vitale, si sia poi evoluta verso altri stili e influenze, conservando però un profondo legame con le sue origini e andando a caratterizzare buona parte dell’arte medioevale, con continue riprese all’arte classica durante i secoli successivi.

Fig. 6 - Esempio di arte bizantina.

 

Note

[1] Opus quadratum: tecnica di costruzione dell’antica Roma che prevedeva la sovrapposizione di blocchi squadrati di forma parallelepipeda e di altezza uniforme, messi in filari omogenei con piani di appoggio continui.

[2] Zoccolo: Basamento di una struttura.

[3] Semicolonna: pilastro a forma di colonna con funzione decorativa.

[4] Fregio: parte intermedia tra architrave e cornice nella trabeazione degli ordini architettonici classici.

[5] Podio: basamento rialzato.

[6] Edicola: piccola costruzione costituita da due colonne con sovrapposto frontone, eretta per ornamenti o a protezione delle statue.

[7] Campitura: stesura uniforme del colore utilizzata come sfondo dell’opera.

 

Sitografia

capitolivm.it

loneyplanetitalia.it

napoli-turistica.com

notizie.virgilio.it

treccani.it

 

Bibliografia

CRICCO, F. P. DI TEODORO, itinerario nell’arte, vol.1 dalla preistoria all’arte romana, 2016.

I BRAGANTINI, V. SAMPAOLO , LA PITTURA POMPEIANA, Verona, 2018.


“TUTTE LE STRADE PORTANO A POMPEI”

A cura di Marco Roversi

Le Mura, le Strade e le acque di Pompei

A lungo si è pensato che la città vesuviana di Pompei fosse una colonia densamente popolata, abitata all’incirca da 20.000 persone, numero dedotto dalla capienza del suo monumentale anfiteatro. Tuttavia, in occasione degli scavi svolti durante il Secondo Conflitto Mondiale, si è scoperto che molti lotti di terreno dell’area più orientale del sito non erano stati ancora edificati, il che portò a ridimensionare le passate stime sulla popolazione pompeiana, riducendone il numero e stimando che essa non superasse i 10.000 abitanti. Quel che è certo è che Pompei era una città molto sviluppata e assai popolata per l’epoca, sulla cui origine molto si è dibattuto. Sulla nascita dell’insediamento sono stati gettati fiumi d’inchiostro, e, “urbanisticamente” parlando, la città stessa ci offre non molte informazioni sulla sua genesi. Ad ogni modo si tende tutt’oggi a ricercarne l’impianto originario nella forma mantenuta dell’area centrale, attorno all’area del Foro Civile: assi viari ortogonali si incrociano con esso, con relative vie parallele nei due sensi, ma senza rigida assialità e ancora senza quel rigore di perfetta organizzazione del piano regolatore propria e tipica dell’urbanistica romana. Nella città campana, invece, è individuabile con maggior certezza un più delineato disegno urbano solo in una fase più recente della vita dell’abitato, in Età Sannitica, quando la città rispecchierebbe il sistema “per strigas” dell’urbanistica greca (ossia un sistema basato su assi viari longitudinali, sui quali si attestano isolati di forma rettangolare piuttosto allungata), con il sito diviso in tre fasce (di ampiezza totale pari ai 2/3 isolati ciascuna) da due strade principali, o “platèiai”, e con tre trasversali a queste ultime perpendicolari, ma non parallele tra loro; il sistema interno a questa grande maglia viaria era diviso da più piccole strade secondarie, “stenopòi”, che delineavano i vari isolati, lunghi all’incirca tra i 30-35 m sul lato corto e tra gli 80, 90 e 140 m sul lato lungo a seconda dei settori. Questo impianto urbanistico di Età Sannitica sarà mantenuto anche in seguito, con l’arrivo della dominazione, e costituirà anche una particolarità propria Pompei, ossia quello di essere una città con due decumani, tagliati trasversalmente da tre cardi, diversamente da altre colonie di fondazione romana.

Fig. 1 - Pianta della città di Pompei con indicate le varie fasi di sviluppo dell’impianto urbano e i principali assi viari interni.

Dalla forma planimetrica pressoché irregolare e con un’estensione superficiale massima di 660 m2, Pompei venne fondata su di un rilievo di origine lavica, i cui pendii costituivano già da sé delle difese naturali al sito, specialmente nelle sue porzioni più occidentali e sud-occidentali, più precisamente nella porzione della città interessata dalla presenza del grande Foro Civile e, dunque, dal nucleo abitativo più antico del sito. Al di là di queste difese naturali tutta la città era circondata da una possente cinta muraria, la cui lunghezza perimetrale raggiungeva i 3.220 m totali, una cinta muraria edificata e modificata in più fasi costruttive, a partire dal tardo VI a.C. sino al I a.C. La fase più antica, datata attorno al VI a.C., vide l’impiego principalmente di blocchi di lava vesuviana, o pappante, destinati ad essere assemblati per innalzare un unico enorme muro, difesa che,  successivamente (V a.C.), probabilmente sotto influenza greca, venne riqualificato  in una più possente e più funzionale struttura muraria a doppia cortina, impiegando blocchi di calcare di Sarno, cortine rinforzate con un riempimento interno. Le mura ammirabili ancora oggi in sito per alcuni tratti, invece, furono costruite nel corso del IV a.C. impiegando la più nota tecnica edilizia ad aggere, vale a dire addossando un possente terrapieno al paramento interno del muro a doppia cortina, costituito da blocchi isodomi (ossia di stessa altezza, stesso spessore e ben lavorati su tutti i lati) di calcare di Sarno e di tufo di Nocera, il tutto per rendere la struttura ancora più resistente (specialmente nel caso di assedi e di attacchi esterni eseguibili anche con l’impiego di macchine belliche). La fase edilizia più recente risale ai primissimi anni del I a.C., quando l’intero circuito difensivo venne rinforzato con robusti torrioni di guardia di pianta rettangolare posti ad intervalli regolari.

Fig. 2 - Resti di parte della cinta muraria della città e di una delle torri di difesa.

7 erano le porte di accesso alla città: Porta Ercolano, sita a Nord-Ovest, un monumentale arco a tre fornici e conosciuta ancora oggi come una delle più note porte urbiche di tutta Pompei; Porta Vesuvio, a Nord, danneggiata e poi crollata in seguito al terremoto del 62 d.C.; Porta di Nola, ad Est; Porta Sarno, sempre nell’area orientale dell’insediamento, a oggi pressoché distrutta contrariamente a Porta Nocera a Sud-Est, a oggi molto ben conservata; Porta di Stabia,  sita a Sud-Ovest,  identificata come una delle porte più antiche di tutta Pompei, se non addirittura la più antica, e ancora Porta Marina, sita ad occidente, la quale conduceva, come del resto suggerisce la sua stessa denominazione, al vicino litorale e alla zona portuale, costituita da un’ imponente galleria in cui si immettono due passaggi, uno pedonale e l’altro carrabile. Infine, è ipotizzata, ma con scarse fonti di attendibilità, anche l’esistenza di un’ottava porta di accesso, detta Porta di Capua, sita forse a Nord-Est, se si tiene conto della la distanza simmetrica tra le singole alle porte presenti ad intervalli pressoché regolari lungo tutto il circuito murario difensivo. Tuttavia si propende a oggi per la sua inesistenza.

L’avvicinamento alla città era garantito dalla presenza sul territorio di una fitta rete viaria: per ogni porta urbica vi era una strada che vi conduceva e che immetteva direttamente in città. Superati gli accessi le strade esterne si congiungevano con l’intricata maglia viaria interna. Il traffico lungo queste strade non si interrompeva mai. Ai carri adibiti al trasporto delle merci era proibita la circolazione all’interno delle mura cittadine dal mattino sino al tramonto e in alcune vie il traffico su ruote era impedito persino dalla presenza di ostacoli di diverso genere. Fu solo con l’emanazione della Lex Iulia Municipalis del 45 a.C. che fu permesso il varco delle porte e il transito interno per tutto l’arco della giornata ai carri che portavano materiali da costruzione destinati ai principali edifici pubblici. I restanti potevano circolare solamente dopo il tramonto. Oltre al traffico, la medesima legge regolava anche l’inviolabilità delle aree pubbliche e la manutenzione di strade e marciapiedi, o crepidines, che potevano essere ampi tra i 40 cm e i 3 m massimo. La loro pavimentazione e la loro regolare manutenzione erano a carico dei proprietari delle case ad essi adiacenti, per tutta l’estensione dei singoli edifici. La pavimentazione era eseguita con lastre rigorosamente nuove, prive di qualsiasi imperfezione, e secondo le istruzioni impartite dagli edili, prestando particolare attenzione al corretto drenaggio delle acque piovane, per evitarne la stagnazione. All’erario pubblico della città spettava solamente il mantenimento delle strade adiacenti agli edifici pubblici. È per tal motivo che i marciapiedi di Pompei sono realizzati con materiali di volta in volta diversi, a seconda del personale gusto di chi ne provvedeva alla manutenzione. Nonostante la sorveglianza messa in atto dagli edili per assicurare un corretto funzionamento della rete viaria e le pesanti multe per i trasgressori, spesso i pedoni per continuare a camminare lungo i marciapiedi erano in molti casi costretti a scendere nella carreggiata. Ma scendere dal marciapiede non era quasi mai gradevole, poiché lungo le strade, portati dalla corrente delle acque delle fontane pubbliche, si accumulavano i rifiuti prodotti dagli abitanti e lo sterco degli animali che vi transitavano (cavalli, mule, buoi, vacche, cani…). E non erano nemmeno rari gli avvisi sulle facciate delle abitazioni in cui poteva trovar scritto: “Cacca. Sicuro che la pesti se passi di qui”. Il continuo fluire delle acque lungo le strade cittadine, che a volte si trasformavano in veri e propri torrenti a causa del pronunciato dislivello della città tra nord e sud, senza alcun dubbio influì sull’altezza dei marciapiedi e determinò la creazione di alcuni curiosi passaggi pedonali costituiti da grandi blocchi di pietra e separati tra loro di modo che le ruote dei carri in transito non li urtassero.

Originariamente realizzate direttamente nel banco tufaceo, fu solo sul finire del II a.C. che le strade di Pompei vennero lastricate in basalto lavico, seguendo una tecnica costruttiva che i Romani padroneggiavano con estrema perizia e abilità. Il piano stradale era la parte più appariscente di ciascuna strada, ma imponenti erano spesso le opere che garantivano l’assoluta stabilità alla pavimentazione. Si iniziava, anzitutto, definendo il percorso e la sua lunghezza, tracciando due solchi paralleli, a delimitazione dei bordi. Lungo questi si fondavano in allineamento i blocchi che ne avrebbero contenuto fondazioni e pavimentazione, e al loro interno si scava un fossato, in genere tra i 45-60 cm di profondità, ma in molti casi anche più, sino a raggiungere il terreno solido. La fossa era poi riempita a strati alterni di materiale consistente e ben battuto, quale grosso pietrame, o statumen, poi strati di breccia (roccia sedimentaria clastica) e cocci, o rudus, avvicendando strati di materiali più leggeri in modo che si agglutinasse bene, in genere sabbia o pozzolana, a volte mischiata a calcina per cementarla in modo uniforme. Al di sopra di tutto, sopra un letto di materiale più fine, nucleus, si costipava la breccia o si giustapponevano i vari blocchi del basolato, summum dorsum o pavimentum, alcuni dei quali appositamente modellati e scavati per creare delle vere e proprie rotaie in cui potessero scorrere, senza rischio di scivolare, le ruote dei carri.

Fig. 5 Schema costruttivo di una strada romana.

La più importante e la più nota di tutte le vie di Pompei è certamente Via dell’Abbondanza. Il suo nome è fatto derivare da un bassorilievo ricavato su di una fontana pubblica posta lungo il suo tracciato, in prossimità del Foro, rappresentante in realtà la Vittoria Augusta, ma in passato erroneamente interpretata come personificazione dell’Abbondanza. Via dell’abbondanza, il principale dei decumani della città, o Decumano Maximo, inizia il suo percorso a est, da Porta Sarno. Una volta attraversata la possente porta in pietra di tufo, la via prosegue diritta e rettilinea toccando i punti nevralgici della città e gli edifici pubblici più importanti, quali l’Anfiteatro, le Terme Stabiane, i teatri, il Tempio di Iside e, infine, il Foro. È lungo tutta la sua lunghezza che si affacciavano botteghe, laboratori, taverne e abitazioni, queste ultime di diverse grandezze ed epoche, alcune rinnovate secondo l’ultima moda e altre deteriorate dal passare del tempo o anche del tutto abbandonate. Le facciate che davano sulla strada erano abbastanza omogenee, molto sobrie, intonacate con gesso dipinto in bianco e con lo zoccolo in rosso, dotate di poche finestre e alcune anche di balconi al secondo piano. Le case e le taverne dotate di portici non erano molte, così che si usavano tende per avere ombra e proteggere le merci in vendita esposte sui marciapiedi durante i mesi più caldi. Dei grossi tendoni, infatti, venivano fatti partire dal fornice delle abitazioni ed arrivavano fino in terra, ove erano agganciati a dei fori ricavati nella pietra del bordo strada, fungendo così da riparo al “negozio”, in quanto si trattava nella maggior parte dei casi di case-bottega, ove al piano terreno si trovavano laboratori e punti vendita, mentre al primo piano (o anche superiori) si collocavano i veri e propri ambienti abitativi. Ma ad affacciarsi su Via dell’Abbondanza non erano solo case di modeste dimensioni: lungo di essa, infatti, si dispongo alcune delle più sontuose case di Pompei, alcune a due piani, appartenenti ai più ricchi esponenti della borghesia cittadina, quali la Casa dei Casti Amanti, la Casa di Giulio Polibio, la Casa di Loreius Tiburtinus, la Casa della Venere in Conchiglia o la Villa di Giulia Felice.

Lungo le vie di Pompei o in corrispondenza delle loro intersezioni erano poi collocate numerose fontane pubbliche, in tutto 40 per la Pompei del 79 d.C. Uniche dispensatrici di acqua per il fabbisogno domestico quotidiano e per le attività lavorative, tali fontane sono testimoni di un’egregia abilità da parte degli antichi Romani nel garantire alla città un approvvigionamento idrico costante, seppur di non facile fornitura. Nella fase più antica della vita della città il fabbisogno idrico necessario era garantito dalle acque piovane, le quali venivano raccolte nelle vasche  o impluvii di domus, ville e giardini, acque spesso raccolte in cisterne e pozzi utili a contenere e conservare nel tempo un surplus idrico fondamentale per affrontare i più difficili periodi di siccità: scavati nel banco di lava e tufo, questi pozzi raggiungevano la sottostante falda freatica sino ad una profondità anche di oltre 30 m. A oggi di tali cisterne pubbliche ne sono state rinvenute con certezza 5, ma sul preciso funzionamento è possibile solo fare supposizioni. Non è chiaro quale fosse il corretto funzionamento di canalizzazione, di raccolta e di conservazione delle acque al loro interno, ma è stato ipotizzato che il procedimento di raccolta di queste acque venisse azionato dal movimento di una ruota idraulica girata manualmente oppure con l’impiego di animali da tiro, quali asini o cavalli.

L’intero sistema di approvvigionamento idrico fu successivamente riqualificato grazie alla costruzione del grande acquedotto voluto da Augusto, o Acquedotto del Serino. Una tra le tante maestose e imponenti infrastrutture pubbliche che l’Età Augustea ci ha lasciato, tale acquedotto costituiva un’opera di ingegneria idraulica di grande sapienza progettuale e costruttiva. Esso portava acqua dalle sorgenti di Serino, in Irpinia, alle più importanti città della Campania, districandosi lungo tutta una complessa serie di gallerie e condotti sotterranei, ponti e canali. Dal sito di Palma Campania l’Acquedotto del Serino si diramava in due tronconi: uno si dirigeva verso le altre città della piana vesuviana, terminando a Cuma e Misenum; il secondo si dirigeva in Pompei, ed entrava in città presso Porta Vesuvio, ove era installato il Castellum Aquae, ossia una struttura in fabbrica quadrangolare che fungeva da diramatore e collettore delle acque, ripartite principalmente in tre direzioni per alimentare i vari punti della città. Attraverso condutture, realizzate soprattutto in piombo, l’acqua si diramava sino a raggiungere il più possibile tutti i quartieri dell’insediamento. L’acqua corrente nel mondo romano era cosa rara, un privilegio dei più ricchi, ed è così che la maggior parte della popolazione attingeva acqua alle fontane pubbliche. E alcune di queste si sono conservate fino ai giorni nostri, e sono ancora oggi visibili: esse appaiono come grandi vasche di forma quadrangolare, di dimensioni pressoché modeste, nelle quali si raccoglieva l’acqua sgorgante a ciclo continuo. Molto spesso erano decorate, con cippi statuari o cippi votivi riportanti dediche alle divinità dei crocicchi stradali o delle acque. Del resto non è da dimenticare quanto citato poc'anzi relativamente alla stessa Via dell’Abbondanza e alla sua pubblica fontana con la raffigurazione della Vittoria Augusta, che, seppur oggetto di errate e affrettate interpretazioni, ha ad ogni modo contribuito a coniare il nome di una delle vie dell’antichità a oggi più note e  ancora trafficate.

Bibliografia

“Introduzione alla Topografia Antica” di Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli, il Mulino Itinerari, Bologna, 2004.

“Pompei” in Collana ARCHEOLOGIA National Geographic, testi a cura di Elena Castillo, traduzioni di Enrica Zaira Merlo, pubblicazione periodica quattordicinale, Editore RBA Italia s.r.l., Milano 7 marzo 2017.

 

Sitografia

www.Pompeiin.com

www.Santuariditalia.it

www.Pompeiitaly.org

www.Treccani.it

 


VIAGGIO NELL'ANTICA POMPEI

A cura di Simone Lelli

Introduzione

Il viaggio nell'antica Pompei comincia con una breve descrizione della sua posizione geografica, per poi continuare passando ad esaminare gli edifici presenti all'interno dell'area.

Storia e geografia dell'antica Pompei

La città sorge su un’altura nei pressi del fiume Sarno che sfocia verso il Mar Tirreno, costituendo un punto d’approdo per i navigatori greci e fenici. La strategica posizione geografica della città fa sì che già intorno al VIII secolo a.C. troviamo un primo insediamento nella zona, che si formò molto probabilmente da un piccolo nucleo di genti dedite all'agricoltura. Nel VI secolo a.C. invece si costituisce un primo nucleo fortificato di città appartenente alla popolazione degli Osci (fig.1) che primeggiavano nella Campania antica.

Fig. 1: sviluppo della città di Pompei

Successivamente la città di Pompei fu contesa dapprima tra i greci di Cuma e gli Etruschi per poi cadere sotto il potere sannita ed essere governata secondo le leggi, gli usi e costumi sanniti, assorbendone inoltre anche la lingua e la religione. Nel 310 a.C. i pompeiani dovettero difendersi dalle flotte romane che depredavano la foce del Sarno: col passare del tempo la città fu costretta a fronteggiare la crescente potenza di Roma, che sconfisse i Sanniti durante le “guerre sannitiche” in cui Pompei, pur essendo colonia sannita, riuscì comunque a conservare una certa indipendenza dall’Urbe. Tale stato di cose durò fino al termine delle “guerre sociali” (80 a.C.), dopodiché la città divenne a tutti gli effetti una colonia romana e fu riorganizzata sotto il profilo urbanistico, religioso e politico della cultura latina. Nel 62 d.C. l’intera Campania subì violente scosse di terremoto che danneggiarono violentemente Pompei e molte altre città della zona, così si avviarono fin da subito opere di ricostruzione degli edifici e dei templi, ma diciassette anni dopo, precisamente il 24 agosto del 79 d.C., il Vesuvio con una violentissima eruzione seppellì l’intera città e la sua popolazione ponendo fine all'esistenza della città. Dopo questa violenta eruzione, durante il periodo medioevale, grazie a dei documenti bizantini sono state ritrovate tracce di un piccolo insediamento più a nord e più sopraelevato dell’antica città . Da qui in poi la zona rimase disabitata, anche a causa del suolo divenuto paludoso e portatore di malattie fino agli inizi dell’Ottocento.

Viaggio nell'antica Pompei: Porta Marina

La Porta Marina (fig.2) era l’antica porta di accesso per la città di Pompei: una ripida rampa conduce a due fornici (grande apertura che si trova in antichi edifici o monumenti, dedicata al pubblico transito) della porta, quello a sinistra era riservato ai pedoni, mentre quello di destra era riservato agli animali e ai carichi leggeri che solitamente trasportavano dal mare il sale e il pesce. Vicino alla porta troviamo probabilmente quelli che sembrano resti di magazzini, mentre nella parte inferiore della porta troviamo antiche mura sannitiche risalenti al IV-II secolo a.C.

Fig. 2: porta Marina
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/00/Porta_Marina_1.JPG/1024px-Porta_Marina_1.JPG

Viaggio nell'antica Pompei: il tempio di Apollo

Fin dalle origini a Pompei veniva praticato il culto di Apollo, infatti abbiamo la presenza di un primo tempio (di cui poco ci è noto) costruito intorno al VI secolo a.C. che fu successivamente smantellato e sostituito da uno più grande intorno al II secolo a.C. (fig.3)

Il nuovo tempio era circondato da un portico a doppia altezza, con colonne di stile ionico nella parte inferiore e di stile corinzio nella parte superiore. Durante il sisma del 62 d.C. il secondo ordine di colonne crollò e fu rimosso dal recinto, mentre il primo ordine di colonne fu restaurato e stuccato, mentre i capitelli furono trasformati da ionici a corinzi e decorati con colori vivaci: rosso, giallo e azzurro. Il tempio fu dissotterrato solo nel 1817 svelando un'incredibile decorazione pittorica lungo i muri; diverse scene, sia tragiche sia comiche, erano dedicate alla guerra di Troia, inoltre in una stanza segreta del tempio fu ritrovata una decorazione raffigurante il giovane Bacco che riposa mentre Sileno suona la lira. Inizialmente questo tempio era stato erroneamente attribuito a Venere a causa di un’errata interpretazione in lingua osca scritta su una lamina in bronzo posta sull'architrave (elemento architettonico orizzontale che ha lo scopo di collegare pilastri o colonne sottostanti e a scaricare il peso sulle strutture verticali sottostanti dette piedritti) all'ingresso del tempio. Lo scavo del tempio portò alla luce anche numerosi materiali scultorei, infatti davanti ad ognuna delle colonne del portico sono state ritrovate statue di divinità tra cui Venere, Mercurio, Diana cacciatrice e dello stesso Apollo. Della statua di culto collocata nella cella (parte interna del tempio che ospitava la statua della divinità a cui era dedicato) all'interno del tempio non si ha traccia, ma si rinvenne il simbolo delfico di Apollo, un blocco di tufo vulcanico a forma ovale che rappresentava la pietra sacra che Zeus aveva posto per indicare il centro del mondo.

Il Foro

Il viaggio nell'antica Pompei continua parlando del foro. Quando infatti nel secondo decennio del XIX secolo fu portato alla luce il foro di Pompei (fig.4), trovarono una piazza nel bel mezzo del restauro.

Fig. 4: il foro di Pompei

Quando l’eruzione del 79 d.C. ricoprì la città di Pompei, il foro e molti edifici pubblici e privati erano in stato di ricostruzione a causa di un violento sisma che aveva colpito l’intera Campania nel 62 d.C. Ma quel restauro non era stato il primo ad interessare il foro, infatti il foro primitivo presentava un mercato di dimensioni ridotte a cui si poteva accedere da tre strade principali; una a ovest che arrivava dal mare (oggi Via Marina), un’altra proveniente da nord (Via Consolare) e l’ultima proveniente da nord-est (Via di Nola-Fortuna). Accanto al mercato dal VI secolo a.C. furono costruite alcune botteghe e sul lato opposto fu eretto il tempio dedicato ad Apollo. Agli inizi del II secolo a.C., seguendo i modelli ellenici, la piazza del mercato fu ampliata e pavimentata con il tufo di Nocera, furono eretti il Capitolium e la basilica e qualche anno dopo fu circondata da un doppio portico con colonne doriche e ioniche. Durante gli ultimi anni di vita di Pompei, seguendo i costumi romani, alcune donne pompeiane di alto rango decisero di finanziare la costruzione di edifici sontuosi simili a quelli della capitale. Nella zona del foro oltre al mercato (macellum), al Capitolim e alla basilica avevano sede altri importanti edifici; un santuario dedicato ai lari pubblici, il santuario di Genius Augusti, l’edificio di Eumachia, il Comitium, gli edifici municipali e la mensa ponderaria (piano marmoreo che serviva alla verifica della precisione delle misure in uso nelle attività commerciali).

L'edificio di Eumachia

L’edificio fu costruito dalla sacerdotessa Eumachia per la corporazione dei tessitori, tintori e lavandai (fullones) che costituivano la più grande industria all'epoca a Pompei. Il complesso (fig.5) è molto ampio ed è costituito da una grande corte (spazio scoperto entro il perimetro dell’edificio che serviva a dare luce e spazio agli ambienti che vi si affacciavano) limitata da un porticato a due piani, dietro il porticato vi erano posti i magazzini per il deposito e l’esposizione delle merci prodotte.

Fig. 5: Di Lure - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16930481

La vendita veniva effettuata sotto i portici e nel piazzale scoperto, sul fondo del porticato, rimangono i resti di tre absidi, la più grande delle quali conteneva la statua di Livia moglie dell’imperatore Augusto, ai lati c’erano le statue di Tiberio e suo fratello Druso. Alle spalle dell’abside più grande i fullones avevano eretto la statua di Eumachia. Della ricca facciata verso il foro, oggi rimane solo una straordinaria decorazione in foglie d’acanto che ci mostra la maestria artistica che aveva raggiunto Pompei; ai lati del portale sorgevano due tribune molto probabilmente adibite per le vendite all'asta.

Il macellum

Il foro era chiuso nell'estremità settentrionale dal macellum (fig.6), un edificio monumentale adibito alla vendita di cibo, una sorta di odierno mercato.

Fig. 6: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19311769

Scavato tra il 1821 e il 1822, inizialmente fu scambiato per un pantheon a causa del ritrovamento di dodici basamenti di pietra nel cortile centrale e di resti di magnifiche decorazioni pittoriche del recinto. Successivamente, durante gli scavi furono ritrovati anfore e vasi di bronzo contenenti lische di pesce, e da questo particolare si comprese come quello spazio fosse adibito ai pescatori che vendevano la loro merce e che di conseguenza fosse un macellum. La struttura aveva al centro un vasto cortile con un porticato e si elevava in una specie di chiostro con tetto sorretto da dodici colonne e dai loro basamenti. La parte meridionale del cortile era composta da una serie di botteghe che vendevano vari prodotti, mentre sul lato occidentale si trovava l’ingresso principale al recinto, ai lati del quale si trovavano i negozi dei banchieri. Sul lato orientale c’erano tre spazi ampi; in quello centrale si trovava il sacellum (piccola area recintata e senza copertura con al centro un’ara), e nello spazio di destra c’era una macelleria decorata con pitture che raffigurano pezzi carne, pernici, una testa di maiale, un coltello e dei prosciutti. Lo spazio a sinistra era riservato molto probabilmente alla celebrazione dei banchetti sacri, dotato di un altare per offrire le libagioni. Il lato settentrionale del mercato era delimitato da un muro in cui erano presenti decorazioni pittoriche del quarto stile pompeiano, vi sono affreschi che raffigurano elementi architettonici in prospettiva e natura morta. Inoltre venne alla luce un piccolo scrigno contenete 1036 monete di bronzo e 41 d’argento, a cui si sommano altre 93 monete di bronzo trovate vicino alla porta di ingresso del mercato, con molta probabilità doveva essere l’incasso delle ultime settimane o dell’ultimo mese.

Il capitolium

Portato alla luce dagli archeologi nel 1816, il Capitolium (fig.7) era un tempio dedicato alla triade capitolina, ossia le tre divinità di Giove, Giunone e Minerva.

Fig. 7: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19312318

Durante gli scavi si notò che il tempio era sprovvisto di timpano (superficie triangolare racchiusa nella cornice del frontone) e tetto, probabilmente crollati a causa del sisma del 62 d.C.: proprio in questo luogo si ebbero molte vittime, cioè i soldati che erano di guardia al tempio e che furono schiacciati dall'improvviso crollo delle colonne del vestibolo (ambiente d’ingresso intermediario tra l’esterno e l’interno). Al tempio si accedeva attraverso una scalinata posta su due livelli; il primo era formato da due file di scalini che affiancavano una piattaforma su cui era posto l’altare. Alle estremità laterali troviamo due grandi plinti (qualsiasi struttura architettonica che abbia la funzione di basamento o di fondazione) che avevano la funzione di basamento per le due statue equestri, le quali non sono state ritrovate ma sappiamo per certo che fossero collocate in quel preciso punto grazie ad un rilievo marmoreo che Lucio Cecilio Giocondo aveva nella sua casa pompeiana. Dietro l’altare c’era un’ampia scalinata che conduceva al vestibolo e all'interno della cella in cui erano poste le tre statue di culto. Le offerte che venivano fatte dalla popolazione pompeiana erano custodite all'interno del podio sotto la cella, inoltre l’edificio del Capitolium era fiancheggiato da due archi di trionfo, uno per lato.

Il tempio della Fortuna Augusta

Il tempio della Fortuna Augusta (fig.8), non di grandi dimensioni come altri edifici presenti a Pompei, sorge all'estremità nord della via del Foro: l’edificio fu totalmente finanziato da Marco Tullio duumviro e nel 3 d.C. fu dedicato al culto dell’imperatore.

Fig. 8: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/08/Tempio_della_Fortuna_Augusta_%28Pompei%29_WLM_001.JPG/1024px-Tempio_della_Fortuna_Augusta_%28Pompei%29_WLM_001.JPG

Sulla parte inferiore della scalinata che conduceva al tempio si trovava un altare all’aperto, mentre la parte superiore della scalinata era protetta da un’inferriata. Dal basamento partivano quattro eleganti colonne di stile corinzio, un pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti) poco profondo conduceva alla cella, in cui ancora oggi si è conservata parte dell’edicola centrale (piccola costruzione a forma di tempietto che veniva eretta per ornamento e per la protezione delle statue) e quattro nicchie laterali, in una di esse si trovava la statua di Augusto, venerato come padre della Patria, mentre il sacrario (ambiente vicino al tempio destinato alla custodia della suppellettile sacra) era completamente rivestito di marmo. A destra del tempio trovavano spazio i negozi e il portico del Foro; i pilastri del portico erano caratterizzati da semi-colonne addossate, mentre nella parte sinistra del tempio c'è l’inizio della Via degli Augustali, piena di negozi e case a due piani. Infine vi era un arco all'incrocio delle due strade costruito con molta probabilità per sorreggere la statua dell’imperatore Caligola.

La Casa del Fauno

Il viaggio nell'antica Pompei continua con la descrizione delle domus più famose e sfarzose. Agli inizi del II secolo a.C. infatti Pompei raggiunse il massimo splendore dal punto di vista economico, infatti grazie all'espansione del commercio verso il Mediterraneo orientale la città si arricchì molto in breve tempo e si costruirono numerosi edifici lussuosi. La casa più grande e lussuosa costruita in quel periodo è quella che noi oggi chiamiamo “la Casa del Fauno” (fig.9).

Fig. 9: https://www.pompeionline.net/edifici/regione-vi/pompei-casa-del-fauno-vi-12-2

La novità principale che portò l’edilizia dell’epoca fu l’impluvium, ovvero un atrio aperto con una piccola vasca centrale collegata con delle cisterne sottostanti che raccoglievano l’acqua piovana. Alla tipica casa sannitica con cortile centrale chiuso, il tablinum (sala principale), diverse camere da letto intorno al patio e dietro un orto con stalle, vennero aggiunti altri ambienti tipicamente greci; il giardino porticato o peristilio, triclini o sale per banchetti, zone per accogliere gli ospiti, ambienti in cui riposare o esedre, biblioteche e bagni riscaldati da un braciere, il tutto riccamente decorato con pitture e mosaici. Quando nel 1832 la casa fu scoperta durante gli scavi, di tutte queste caratteristiche la casa del Fauno ne rivelò solo alcuni, e successivamente fu ulteriormente danneggiata a causa dei bombardamenti inglesi e canadesi tra agosto e settembre del 1943. La ricostruzione della casa iniziò nel 1945 rimettendo al loro posto i frammenti pittorici recuperati e, grazie alle accurate descrizioni del XIX secolo, si poté ricostruire l’immagine di quella che era la casa più ricca di Pompei. Il palazzo occupava un'area di tremila metri quadrati, l’ingresso principale dava accesso al vestibolo decorato con padiglioni a rilievo mentre il pavimento era decorato con un mosaico. La fontana centrale dell’atrio era a forma di un piccolo fauno danzante, i pavimenti della stanze erano decorati con mosaici prodotti da un laboratorio ad Alessandria d’Egitto e raffiguravano scene amorose e i cibi che venivano offerti nella casa. Dal tablinum si passava in due giardini, in uno dei quali fu ritrovato il famoso mosaico dell’ultima battaglia tra Alessandro Magno e Dario III di Persia.

La Villa dei Misteri

La villa dei Misteri (fig.10) non poteva mancare in questo viaggio nell'antica Pompei. Essa sorge sopra una collina e fu scoperta nel 1909: inizialmente fu concepita come una dimora signorile ma dopo la crisi dovuta al terremoto del 62 d.C. fu parzialmente trasformata in una villa rustica destinata alla produzione del vino.

Fig. 10: https://www.sorrentopost.com/riapre-villa-dei-misteri-pompei/

La villa infatti mantenne parte delle stanze lussuose ad uso del proprietario mentre altri ambienti furono adibiti per i servi e per un vilicus, ovvero il gestore dell’attività agricola. Il vilicus della villa era Lucio Istacidio Zosimo, un liberto che fu incaricato anche del restauro della villa dopo il terremoto. La struttura della villa dei Misteri, essendo una villa extraurbana, aveva caratteristiche differenti rispetto a quelle urbane, infatti superato il vestibolo non si trovava l’atrio bensì un grande peristilio. Dal peristilio si aveva accesso nella stanza dove erano riposti gli attrezzi da lavoro e alla zona delle cucine. Vi erano spazi adibiti anche alla produzione di vino e olio. Dal lato meridionale del peristilio si accedeva all'atrio tuscanico intorno al quale era disposte le dipendenze padronali: il tablinum, l’oecus (ossia un'ampia stanza da soggiorno o da ricevimento decorata con affreschi) con accesso ad un atrio secondario che serviva da anticamera di alcuni bagni provvisti di sauna. La sala più famosa e importante è sicuramente era il triclino in cui erano presenti i dipinti dei Misteri in cui si esaltava il dio del vino Dioniso.

Viaggio nell'antica Pompei. Le terme stabiane

Costruite nel IV secolo a.C., le terme stabiane (fig.11) sono il più antico e più grande complesso termale presente a Pompei.

Fig. 11: https://www.romanoimpero.com/2018/09/terme-stabiane-pompei.html

Nel II secolo a.C., con i cambiamenti apportati nel tessuto urbano, anche le terme stabiane furono modernizzate assumendo il loro aspetto definitivo. Dopo l’80 a.C. furono istituite cariche politiche intente a sistemare la palestra, alla costruzione di alcuni porticati, alla creazione di una sauna riscaldata con i bracieri e di un destrictarium (il luogo in cui si eliminava l’olio dal corpo). Dopo il sisma del 62 d.C. i muri della palestra furono decorati con stucco policromo a rilievo con scene di atleti, lottatori e scene tipiche termali. In quel periodo inoltre fu costruita anche una piscina di acqua fredda e si unì il destrictarium alla sala dell’acqua calda. Le zone maschili e femminili erano separate in zone non comunicanti, gli spazi femminili non davano accesso alla palestra e, inoltre, gli ambienti erano decorati in maniera molto semplice a differenza di quello maschili che avevano ricchi e pregiati affreschi.

Il Lupanare

Nel viaggio nell'antica Pompei non poteva mancare la descrizione di uno dei luoghi più frequentati a Pompei, il lupanare (o bordello). L’edificio era composto da dieci stanze collocate su due piani, i letti erano attaccati alla parete ed erano fatti di pietra e i materassi erano imbottiti di paglia. Nella parte superiore delle porte erano presenti dipinti di scene erotiche che fungevano da catalogo per i clienti, mentre al piano superiore c’erano dei balconi da dove le prostitute richiamavano l’attenzione di potenziali clienti. La prostituzione era diffusa, sia quella maschile sia quella femminile, e non veniva praticata solo all'interno dei bordelli bensì anche nelle strade o in camere in affitto di taverne. In molte case di Pompei possiamo trovare rappresentazioni di falli o l’immagine di Priapo, dio del corteo di Dioniso, che pesa il suo membro sulla bilancia; questo tipo di raffigurazioni era un simbolo di abbondanza, prosperità e fertilità non solo per gli uomini ma anche per i campi.

Il tempio di Iside

Ritrovato tra il 1764 e il 1766, il tempio di Iside fu l’unico ad essere totalmente restaurato dopo il sisma del 62 d.C. e prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (fig. 12)

Fig. 12: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18184986

Le decorazioni erano particolarmente sfarzose, vi erano cinque grandi pannelli di cui tre rappresentavano scene egizie mentre gli altri due riproducevano storie del mito di Io. All'ingresso dell’ecclesiasterium (luogo di incontro per l’assemblea popolare) furono ritrovati resti di un acrolito (un tipo di statua in cui parte era fatta in pietra o marmo (soprattutto testa, braccia, mani o piedi) e la restante parte era realizzata con materiali deperibili -legno) femminile della dea Iside seduta in trono. Nell'angolo sud orientale del recinto si trovava il sacellum dedicato a cerimonie di purificazione e un purgatorium (locale destinato alla purificazione con una vasca contenente l’acqua del Nilo). All'interno della cella del tempio furono ritrovati due bauli in legno che contenevano una coppa in oro, un vasetto di vetro, una statuetta, due candelabri di bronzo e due teschi umani.

Viaggio nell'antica Pompei. Il teatro grande

Il teatro principale di Pompei (fig.13), di ispirazione greca, fu costruito intorno al III secolo a. C. su un pendio naturale accanto ad una delle aree più sacre e antiche della città, e venne ampliato durante il periodo augusteo così che il teatro potesse contenere più di 5000 persone.

Fig. 13: Di Sylvhem - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15107307

La particolarità della struttura era che, nonostante fosse di stampo ellenico, presentava l’orchestra a forma circolare, ovvero tipica del modello romano. Dopo il rinnovamento della struttura, le opere drammatiche classiche vennero raramente riprodotte, si offriva al pubblico invece opere di argomento più leggero come mimi, pantomime e atellane, opere in cui si cercava l’intrattenimento della platea con scene grottesche e cruenti accompagnate da effetti scenici. L’edificio, oltre ad essere utilizzato come un teatro, veniva usato anche per radunare la popolazione al fine di mostrare i valori della famiglia imperiale e incentivare la partecipazione alla vita politica.

Porta Ercolano

Il viaggio nell'antica Pompei termina con una delle più importanti e trafficate porte a Pompei, la Porta Ercolano, che conduceva da Pompei ad Ercolano ma anche alle vicine saline di Pompei. Fu totalmente ricostruita durante il periodo augusteo, infatti accanto alla porta possiamo ancora oggi vedere i resti dell’antica cinta muraria della città. Il fornice centrale era riservato per il passaggio dei carri mentre i due laterali erano riservati ai pedoni. Nei pressi della porta si trovavano numerosi punti di ristoro, dove i viaggiatori potevano riposarsi prima di raggiungere il foro. Da queste strutture possiamo certamente dedurre come lungo la via dovesse esserci un traffico molto intenso di carri e animali da soma. (fig. 14)

Fig. 14: https://www.planetpompeii.com/it/map/porta-ercolano.html

In questo viaggio nell'antica Pompei si è cercato di dare un'immagine della città, ma tanto ancora c'è da raccontare.

SITOGRAFIA:

  • www.capitolium.it
  • www.ecampania.it
  • www.hippostcard.com
  • ilmattino.it
  • madeinpompei.it
  • pompeiinpictures.it
  • planetpompei.net
  • prolocopompei.net
  • romanoimpero.com
  • scavidipompei.net
  • viaggi.globalpix.net

BIBLIOGRAFIA:

  • VV, LE GRANDI AVVENTURE DELL’ARCHEOLOGIA, Volume 11, Roma, 1980
  • VV, NATIONAL GEOGRAPHIC Archeologia, POMPEI, Segrate (MI), 2018
  • ANGELA, VIAGGIO NELLA STORIA, Pompei lo scrigno del tempo, Pioltello (MI), 2015
  • CARPICECI, POMPEI oggi e com’era 2000 anni fa, Sesto Fiorentino (FI), 2009

STORIA DEGLI STUDI SU POMPEI

A cura di Marco Roversi

Le principali tappe della storia degli studi di uno dei parchi archeologici più affascinanti d’Italia

“Come potranno i posteri credere, quando le messi rispunteranno e questi deserti di nuovo rinverdiranno, che sotto i loro piedi sono sepolte città e popoli, e che i loro antenati sono scomparsi sotto un mare di fuoco?”

Correva l’anno 94 d.C. e così scriveva Publio Plinio Stazio, poeta di Età Flavia, a soli tre lustri dalla terribile eruzione del Vesuvio che nel 79 sconvolse la Piana Campana e sottrasse alla vista dei pochi sopravvissuti le due ricche città di Pompei ed Ercolano. Ove prima si estendevano campi verdi e rigogliosi, lussureggianti e ricchi vigneti e le città pullulavano e riecheggiavano di vita, dopo quella catastrofe ci si sarebbe trovati innanzi ad un paesaggio spettrale, vuoto, quasi lunare, privo di vita e avvolto da un importuno silenzio. E ciò che accadde in quel triste giorno di agosto non venne mai dimenticato, al punto che il ricordo delle due città vesuviane non scomparve mai, tramandato nel lento scorrere dei secoli sino all'Età Moderna, allorquando, con i primi scavi archeologici nell'area, la città di Pompei e le sue antiche vestigia tornarono a rivivere e a risorgere dalle loro ceneri innanzi agli occhi dei primi moderni esploratori e amanti delle passate antichità.

Fig. 1 - Mappa degli scavi del 1832.

La ferita causata dalla totale scomparsa della città e dalla morte di migliaia di persone rimase fresca a lungo già in antico, fatto che portò ad alcuni primissimi tentativi di riportare in luce i centri sepolti dalle ceneri chiroplastiche del Vesuvio. Il più antico intervento di scavo che interessò l’area dell’antica Pompei risale, infatti, al regno di Alessandro Severo, imperatore appartenente alla Dinastia dei Severi e in carica tra il 222 e il 235 d.C. Tuttavia, tale intervento di recupero non ebbe buon esito a causa dell’elevato e profondo spessore delle coltri di cenere e dei lapilli e dalla vegetazione sempre più fitta e rigogliosa. Nonostante ciò quella di Pompei fu, già per gli antichi, una tragedia da non dimenticare, destinata a riecheggiare nei secoli una volta affidata ai versi e alle nobili parole di oratori, scrittori e poeti. Ed il suo mito mai si fermò, pur affievolendosi nel corso della millenaria Età Medievale.

Le prime fortuite scoperte: Domenico Fontana

Fu così che all'alba del ‘500 il nome di Pompei tornò nuovamente ad affascinare le menti di letterati ed artisti, primo tra i quali il poeta napoletano Jacopo Sannazzaro (1458-1530), il quale ridestò la curiosità di molti suoi contemporanei immaginando nella sua Arcadia la riscoperta dell’antica città vesuviana, della quale si era oramai persa del tutto l’esatta locazione topografica. Il Sannazzaro la collocava idealmente nei pressi della località di Civita, nell'area di Torre Annunziata. Da quel momento in poi molti furono i tentativi di riportare in superficie ciò che rimaneva di quel lontano passato, ma furono tutti tentativi inutili e vanificati da erronee, grossolane e frettolose conclusioni. Le prime autentiche scoperte si verificarono, invece, per paradosso, in modo del tutto casuale. Nel 1592 l’architetto svizzero Domenico Fontana (1543-1607), in occasione di alcuni lavori di canalizzazione delle acque del fiume Sarno, presso Torre Annunziata, si imbattè, dopo aver divelto e tagliato le mura di alcuni edifici in situ, in un’iscrizione latina recante una dedica alla Venus Phisica Pompeiana. Dai terreni cinerei di Pompei cominciarono ad affiorare anche altri tesori, quali monete d’oro, lapidi ed altre iscrizioni su muri tinteggiati di un vivido color rosso accesso, a loro volta accompagnati dalle ricche pavimentazioni in lastre marmoree e a mosaico. Informato di queste sensazionali scoperte, fu lo stesso Fontana, per primo, a calarsi in un pozzo e a passeggiare, primo uomo dopo quasi un millennio e mezzo, tra le strade morte di un quartiere di Pompei, con visioni straordinarie che solo lui potè godere. Quasi un secolo più tardi, nel 1689, un contadino del posto, intento nello scavo di un pozzo alle falde del Vesuvio, fu anch'egli scopritore di altre antichità pompeiane, specie di numerose epigrafi, tra le quali una menzionava esplicitamente il nome di “Pompeii”, seppure erroneamente ascritto ad una del tutto immaginifica villa di un tal “Pompeus” di cui si era architettonicamente persa ogni traccia.

Fig. 2 - Veduta dell’Anfiteatro in una stampa del 1823-1824.

Gli scavi di Alcubierre e Francisco De La Vega

La storia degli studi su Pompei prese una svolta fondamentale nemmeno 50 anni dopo quando, nel 1748, l’ingegnere Gioacchino Alcubierre (1702-1780), già scopritore nel 1735 della vicina Ercolano, ottenne da re Carlo III di Borbone l’autorizzazione allo scavo nell'area nei pressi di Civita, dopo che gli scavi di Ercolano erano giunti ad una temporanea fase di stasi. L’Alcubierre si interessò subito all'area di scavo, fermamente convinto che si trattasse del sito dell’antica Stabiae, ma ben presto venne smentito dai suoi stessi rinvenimenti, il più sensazionale dei quali lo portò ad ammirare i resti di un antico edificio di spettacolo, da lui subito ribattezzato “Teatro Stabiano”, pur ignorando che quello che aveva scoperto e portato alla luce dopo migliaia di anni era in realtà il monumentale Anfiteatro di Pompei. Al di là della grande eco generatasi dopo queste prime grandi scoperte, quelli dell’Alcubierre furono scavi tutt'altro che sistematici, in quanto il vero intento delle ricerche era quello di trovare antichità ed oggetti preziosi che potessero arricchire e affollare le vetrine del Museo di Portici. Successivamente gli scavi vennero sospesi, in seguito alla scoperta ad Ercolano della ben nota Villa dei Papiri. Ripresero nel 1754, e nemmeno un anno dopo fu scoperta la Villa di Giulia Felice, un treppiede sorretto da satiri in bronzo, e nel 1763 fu portata in luce la Porta Ercolano ed una nuova epigrafe.

Fig. 3 - La scoperta di Via dell’Abbondanza.

Nel 1780 l’ingegnere Francisco de la Vega sostituì l’Alcubierre nell'esplorazione di Pompei, e per primo ne migliorò la pianificazione dei lavori e delle fasi di scavo, nonché le tecniche di conservazione di ciò che era già stato precedentemente portato alla luce. Con l’arrivo delle truppe francesi e l’insediarsi di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, le operazioni di scavo non si fermarono, ma continuarono con eccezionali risultati, specie nell'area del Foro Civile, portato alla luce tra il 1806 e il 1815 attraverso il prolungamento degli scavi aperti in precedenza: vennero, infatti, alla luce la “Basilica”, l’area del Foro, il tratto di strada tra la Villa di Diomede e la Casa di Sallustio e le case dette del Poeta e del Fauno.

La storia degli studi su Pompei e il Grand Tour

Con il ritorno del dominio borbonico i nuovi scavi portarono in superficie ciò che rimaneva del monumentale Tempio della Fortuna e delle Terme del Foro e fu in quegli anni che Pompei diventò una sorta di “museo a cielo aperto”, attirando a sé moltissimi visitatori. Sino alla metà del XIX secolo, infatti, il viaggio sino a Ercolano, Stabia e Pompei era quasi un’avventura epica, sentita con grande entusiasmo da curiosi e visitatori provenienti da tutta Europa. Il viaggio a Pompei offriva diverse attrattive ai numerosi viaggiatori europei che percorrevano l’Italia intera, da nord a sud, nel loro Grand Tour, un percorso turistico educativo che li portava a visitare siti e città di assoluta e straordinaria importanza storica, culturale, ma anche naturale e paesaggistica. E Pompei rispondeva alla perfezione a tali esigenze: da un lato mostrava le rovine di un’antichissima città romana sospesa nel tempo a causa di una catastrofe naturale, emozionante per l’animo romantico dei visitatori, che meditavano sulla fragilità della vita e sui capricci del fato; dall'altro, la vicinanza dell’imponente Vesuvio, allora fumante, permetteva di addentrarsi nei misteri della vulcanologia. Ma a recarsi a Pompei non erano solo i rampolli delle ricche famiglie aristocratiche di tutta Europa, ma anche le personalità del mondo accademico o politico del tempo, visite preparate con cura affinché risultassero particolarmente spettacolari e sorprendenti. A tal scopo si preparavano persino delle scoperte archeologiche, che dovevano sembrare fortuite agli occhi di chi le ammirava estasiato, e si disseppellivano, così, come per caso, scheletri di vittime dell’eruzione per sorprendere, ma anche commuovere, gli astanti. Il fascino che Pompei emanava era talmente unico e straordinario che frequenti furono le richieste per visitare le rovine al chiaro di luna o addirittura per fare dei pic-nic tra le sue immortali vestigia. Tra i moltissimi visitatori che rimasero profondamente colpiti da Pompei e dalla sua bellezza ci fu anche il poeta tedesco J.W.Goethe (1749-1832), che la visitò già nel 1816, e che con molto cinismo nel suo Viaggio in Italia così scrisse: “Di tutte la catastrofi che si sono abbattute sul mondo, nessuna ha provocato tanta gioia alle generazioni future. Credo che sia difficile vedere qualcosa di più interessante”.

Fig. 4 - Vecchia fotografia ritraente la Via Stabiana.

Dal Regno d'Italia ad Amedeo Maiuri

Con la nascita del giovane Regno d’Italia la direzione degli scavi venne affidata, nel 1863, all'archeologo napoletano Giuseppe Fiorilli (1823-1896), il quale per primo introdusse delle innovazioni fondamentali nelle operazioni di scavo e nell'organizzazione del sito, stabilendo, infatti, un sistema di numerazione delle strade e delle case. Fu così il primo a dividere la città in regiones, ossia in quartieri, e in insulae, ossia in agglomerati di abitazioni. Inoltre introdusse un’altra eccezionale innovazione: facendo colare del gesso nei vuoti del terreno lasciati dai corpi consunti delle vittime, ottenne dei calchi in modo tale che le impronte dei corpi potessero così essere conservate nel tempo. I lavori del Fiorilli terminarono nel 1875, e a lui seguirono Michele Ruggiero e poi Giulio de Petrai, scavatori di alcuni sepolcreti nelle vicinanze della Casa dei Vettii, e ancora Antonio Sogliano e Vittorio Spinazzola, i quali perfezionarono le tecniche di recupero e di conservazione degli edifici portati in luce.

Nel 1924 la guida agli scavi del sito passò nelle mani di Amedeo Maiuri (1908-1955), il quale venne nominato direttore durante il governo fascista. Fu lui ad inaugurare lo scavo stratigrafico a Pompei, puntando ad individuare soprattutto le fasi più antiche dell’abitato, arrivando anche a restituire nella sua completezza il circuito murario della città e rinvenendo sul versante meridionale di Porta Nocera la più estesa area di necropoli oggi nota a Pompei. Sotto la sua direzione fu avviata una nuova, assai fitta e costante attività di scavo, volta a meglio esplorare i confini del sito e dell’area di scavo sino ad allora nota, connettendola così agli scavi già effettuati, a sgomberare la terra di riporto accumulata in molti punti e che ostruiva la visione del sito, ma anche a creare attrezzature per la fruibilità dell’area, come l’Antiquarium, le biglietterie, i giardini e gli impianti di illuminazione. Grande attenzione fu da lui riposta anche alla conservazione e al restauro delle strutture, prefissandosi, assieme all'allora soprintendente Alfonso de Franciscis, di conservare pressoché intatte quante più strutture possibili, sia nelle loro composizioni architettoniche, sia nelle loro ricche decorazioni parietali, ritenendo più urgente l’arresto del degrado (causato anche dai molti bombardamenti alleati che negli ultimi momenti della Seconda Guerra Mondiale  portarono alla distruzione di molte case e altre strutture). Alla fine dei suoi lavori, nel 1945, solo un terzo della città rimaneva non scavato.

Fig. 5 - L’archeologo e Direttore degli scavi Amedeo Maiuri.

Gli scavi scientificamente condotti continuarono sino ai giorni nostri, e continuano ancora oggi sotto la direzione di Massimo Osanna, professore ordinario di Archeologia Classica presso l’Università Federico II di Napoli. Negli ultimi 40 anni le novità in sito sono state molte, soprattutto in materia istituzionale, a partire dalla nascita della Soprintendenza Archeologica di Pompei decretata nel 1981 operando il distacco territoriale dei comuni vesuviani dal resto della provincia di Napoli e dal Museo Archeologico Nazionale, il quale, per volontà dei Borbone, era stato destinato ad accogliere, oltre alla collezione Farnese, anche le antichità provenienti dagli scavi di Pompei ed Ercolano. Solo 16 anni più tardi un altro passo ulteriore: per preservarne l’integrità, nel 1997, le rovine, gestite dalla Soprintendenza di Pompei, insieme ai siti di Ercolano ed Oplonti, sono entrate a far parte della lista mondiale dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Recentemente, nel 2016, la Soprintendenza prende la nuova denominazione di Soprintendenza di Pompei, mentre l’anno successivo il DM 12 gennaio 2017 attribuisce alla Soprintendenza la nuova denominazione di Parco Archeologico di Pompei, a seguito dell’adeguamento agli standard internazionali in materia di istituiti e luoghi della cultura. Contestualmente anche il vicino sito di Ercolano fuoriesce dalla competenza di Pompei e diviene Parco Archeologico di Ercolano.

 

Bibliografia

- “Pompei” in Collana ARCHEOLOGIA National Geographic, testi a cura di Elena Castillo, traduzioni di Enrica Zaira Merlo, pubblicazione periodica quattordicinale, Editore RBA Italia s.r.l., Milano 7 marzo 2017.

- “Prima del Fuoco, Pompei storie di ogni giorno”, Mary Beard, traduzione di Tommaso Casini, Editore Laterza nelle “Economica Laterza”, Bari, luglio 2012.

 

Sitografia

- www.Pompei.it

- www.Pompeiisites.it

- www.Vesuviolive.it

- www.Treccani.it

- www.Pompeiitaly.org