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A cura di Veronica Pacini

La violenza contro le donne, i diritti e la riproduzione sociale

I linguaggi e i contesti socio-culturali che riproducono la violenza e i femminismi come pratiche trasformative

La violenza contro le donne può essere eliminata, come si propone la Giornata Internazionale indetta dall’ONU che ricorre il 25 Novembre? Sì. E questo perché la violenza contro le donne non è un dato iscritto nella biologia dell’essere umano, non è una tendenza naturale socialmente disdicevole da tenere sotto controllo. È una modalità di pensiero, un modello culturale e, in quanto tale, arbitrario, costruito, trasformabile. Allora perché, a quasi quaranta anni dalla Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne ratificata dall’ONU e a più di un secolo dalla prima ondata femminista, ci ritroviamo ancora oggi, in Italia, a parlarne? Proveremo a rispondere in due momenti diversi: in questo articolo partiremo da un’analisi linguistica della violenza per cercare di osservare quali questioni sociali si giocano oggi sul corpo delle donne. Nel prossimo utilizzeremo gli strumenti dell’antropologia per capire come le società costruiscono gli stereotipi di genere, come li riproducono e perché è così difficile decostruirli.

Le narrazioni della violenza. Il linguaggio con cui i principali mezzi di comunicazione (giornali, radio, televisione, internet) raccontano la violenza sulle donne, parla di stereotipi di genere molto radicati nell’immaginario collettivo[1].

  1. La violenza viene rappresentata come una forma d’amore, una sua degenerazione o esagerazione. Espressioni come amore sbagliato o amore malato vengono accompagnate spesso da raptus, delitto passionale, accecato da/folle di gelosia. Inoltre la sintassi dei titoli tende a tenere insieme la violenza e l’azione che si reputa scatenante: “Tu mi tradisci”. E dà fuoco alla fidanzata. Oppure: Latina, rifiuta di sposarlo e lo lascia. Lui la uccide con due colpi di pistola. L’effetto della narrazione è di costruire una dinamica di causa-effetto tra una libera scelta della donna (di solito non amare, smettere di amare, tradire) con la violenza subita, suggerendo l’idea della punizione (delitto passionale) o dell’impossibilità da parte dell’uomo di domare un istinto che è per sua natura incontrollabile, a cui non ci si può sottrarre (raptus).
  2. L’aggressore tende a essere deresponsabilizzato: presentare l’aggressione come un fatto la cui inevitabilità è conseguenza della gravità dell’azione della partner, vuol dire deresponsabilizzare l’aggressore, che viene così promosso da colpevole a vittima. L’aggressore diventa allora il fidanzatino, il gigante buono, il marito disperato. Vengono poi aggiunte spesso altre informazioni che hanno come effetto di funzionare nell’immaginario del lettore come attenuanti: drogato, disoccupato, depresso.
  3. La vittima tende a essere colpevolizzata: non solo nei giornali ma spesso anche nei tribunali, alla donna che subisce un’aggressione viene chiesto com’era vestita, che atteggiamenti aveva avuto con l’aggressore; talvolta viene persino valutato il suo grado di bellezza e di femminilità[2]. Sono passati quasi settant’anni dal processo a Franca Viola, la prima ragazza italiana a sottrarsi alla prassi del matrimonio riparatore e portare a processo il suo stupratore, ma è ancora attuale la prassi di screditamento della vittima, cioè la tendenza a rovesciare il processo e rendere la vittima colpevole e di essersi meritata lo stupro come conseguenza di atteggiamenti provocanti e perciò immorali o di essersi inventata tutto o di essere stata consenziente in caso di impossibilità di dimostrare, con tracce visibili sul corpo, la ribellione al suo aggressore.

 

Il corpo come luogo della scrittura delle regole sociali. La narrazione della violenza sulle donne prevede sempre un indugiare sul corpo della vittima, un’indagine, una perizia: si raccontano nei minimi particolari le violenze subite (anche in caso di femminicidio) più che per un intento di realtà per un gusto voyeuristico, morboso, quasi ammiccante. All’analisi segue, come già detto, il giudizio, cioè la valutazione da parte della società dell’aderenza del corpo violato ai dettami della moralità. Lo sguardo sorvegliante e giudicante del grande occhio sociale sul corpo della donna non è una particolarità che si attiva solo nei casi di violenza, ma è il retroterra culturale in cui la violenza si innesta, è un atteggiamento costante e legittimato. La società si sente in diritto di rendere oggetto di dibattito pubblico alcuni aspetti della gestione del corpo da parte delle donne: l’esposizione di alcune sue parti (si può non indossare il reggiseno in tribunale[3]? si può indossare la minigonna a scuola[4]?), l’estetica (si può ingrassare? si può dimagrire[5]? si possono avere i capelli grigi[6]? si può indossare un vestito blu a balze[7]?), le scelte religiose (si può portare il velo[8]?). Se i membri di un gruppo sociale si sentono legittimati a discutere e decidere collettivamente le regole attraverso cui i corpi di una parte della società possono esistere e agire, allora si sentiranno altrettanto legittimati a far rispettare quelle regole, redarguendo e punendo i corpi che quelle regole non vogliono rispettarle.

L’aspetto principale, però, per cui il corpo delle donne è soggetto a un’attenzione particolare risiede nel suo potere riproduttivo. Come vedremo nel prossimo articolo, le società umane hanno strutturato e strutturano le prassi sociali attorno a diverse strategie di determinazione del genere (cioè stabilendo cosa è maschile, cosa è femminile e cosa non è né l’uno né l’altro e ha bisogno di altre categorie[9]) e di controllo sociale della riproduzione. La donna si fa officina, tana e custode dell’embrione che diventa feto, del feto che diventa bambino: il suo corpo si trasforma, quindi, da questione privata a strumento collettivo della riproduzione di una comunità. In altre parole: a un certo gruppo sociale, le donne, viene chiesto di rinunciare a un certo numero di diritti in favore di funzioni collettive. Il privato viene subordinato al pubblico; un potere, quello della riproduzione, viene socializzato; un gruppo sociale viene sottoposto a controllo e normazione dall’intera società. Ancora oggi le donne devono costantemente negoziare tra diritti privati (e quindi libertà di autodeterminarsi) e controllo pubblico: di qui la difficoltà di accesso alla contraccezione[10], gli attacchi all’aborto[11], la retorica dell’orologio biologico[12].

La maternità, rispetto ad altri paesi occidentali, è una questione ancor più complessa in Italia per via di un fenomeno tutto particolare che viene sintetizzato nella parola mammismo da Corrado Alvaro per la prima volta nel 1952 e che analizza la centralità del ruolo materno nella costruzione di una società, quella italiana, di uomini allevati dalla mamma come protagonisti[13]. L’attenzione alla maternità, intesa non come possibilità riproduttiva ma nei suoi aspetti di maternage, cioè di relazione madre-figlio, inizia a essere investita di un certo tipo di significato in epoca risorgimentale: fatta l’Italia, alle madri toccava fare gli italiani. Anche il fascismo investì molte energie nella costruzione di modelli materni che fossero di sostegno al regime: fatto il regime, alle madri toccava fare i fascisti[14] (e per fortuna non tutte lo fecero). Quasi due secoli di sovrascritture continue ed enfatiche sul ruolo materno hanno portato oggi al moltiplicarsi di romanzi e saggi che rispondono al bisogno delle madri di raccontare la maternità in modo non stereotipato, quindi anche nei suoi aspetti distruttivi, e le non madri a dover alzare la voce per ribadire che per una donna la maternità è solo una delle scelte possibili.

Diritti delle donne e femminismi. Perché, se le donne hanno acquisito tanti diritti – non ancora tutti – nella nostra società c’è ancora posto per il controllo, il giudizio e la violenza sul corpo delle donne? Torniamo, di nuovo, al linguaggio.

Quando si parla di diritti si usa spesso una parola che evoca almeno due immagini nella nostra mente. La parola è conquistare e le immagini sono la lotta e una porzione di territorio finito che due o più parti si contendono e sottraggono a vicenda con la forza. Le due metafore sono collegate: se la torta è una sola, chi ce l’ha nel piatto farà di tutto per difenderla, mentre chi ha fame farà di tutto per prendersela. Se invece immaginiamo i diritti come la possibilità di riempire i piatti di tutti, chi la torta ce l’ha già non avrà più paura di perderla e potrà investire le sue energie per aiutare gli altri a trovare gli ingredienti e cucinare tante torte quanti sono i piatti da riempire. Potremmo allora usare il verbo moltiplicare: moltiplicando i diritti nessuno sentirebbe i propri minacciati.

Pensare ai diritti come a un bene finito e insufficiente che le parti sociali devono contendersi impedisce di vedere un aspetto importante della questione: quando un frammento della società è oppresso, tutta la società ne risente in maniera negativa. Allargare la sfera dei diritti vuol dire aumentare il benessere di tutte le parti sociali (ex-oppressi ed ex-oppressori) ma soltanto se ogni frammento sociale avrà la capacità di ridefinirsi di fronte all’identità ampliata di chi quel diritto lo ha appena acquisito. Se invece gli altri frammenti proveranno un senso di smarrimento di fronte all’identità più forte dell’altro, se da quella nuova forza si sentiranno minacciati anziché corroborati, allora troveranno il modo di vendicarsi o progettando piani per recuperare il terreno che credono di aver perduto, o creando nuove forme di oppressione o rendendo la vita impossibile a coloro che si sono appena liberati. È quello che accade quando il diritto di una parte sociale si fonda sulla negazione di uno o più diritti di un’altra parte sociale: abbiamo a che fare allora con un privilegio. Per moltiplicare i diritti, cioè estenderli a tutte le parti sociali, occorrerà allora eliminare i privilegi e questo sì, implicherà una lotta perché chi detiene un privilegio, di solito, se lo vuole tenere.

Semplificando molto, il femminismo è l’insieme delle filosofie e delle pratiche che si pongono come obiettivo la liberazione della donna attraverso l’eliminazione dei privilegi maschili e il raggiungimento della parità dei diritti. È un contenitore di idee e di azioni, anche molto diverse (per questo spesso si parla di femminismi) che si propone di mettere in evidenza il patriarcato, ovvero il sistema socio-culturale che fonda e giustifica la subordinazione del sesso femminile al sesso maschile. È importante sottolineare di nuovo però la portata collettiva e universale del femminismo, cioè il suo valore liberante per le oppresse ma, in una certa misura, anche per gli oppressori: il patriarcato struttura modelli identitari e di comportamento che entrambi i sessi contribuiscono a riprodurre (anche la parte oppressa) e a cui entrambi i sessi debbono sottomettersi per far parte della società, e se è vero che il sesso maschile ne trae principalmente vantaggi è altrettanto vero che non tutti gli uomini riescono a conformarsi ai modelli di virilità imposti, cioè agli stereotipi maschili a cui viene richiesto loro di aderire. Gli stereotipi sono semplificazioni e generalizzazioni mentre la realtà e l’essere umano sono entità complesse: adattarsi agli stereotipi vuol dire sottostare a divieti e regole che limitano le possibilità espressive anche dei membri della parte sociale più forte. Nel movimento di presa di coscienza del patriarcato avremo allora uno scenario sociale complesso e articolato di parti diverse, trasversali, inaspettatamente conservatrici o trasformative, più o meno intransigenti. Ci saranno, ad esempio, uomini desiderosi di liberarsi dalle costrizioni quanto le donne e donne incapaci di fare quel passo laterale necessario a vedere la costrizione, o che si porranno in difesa della conservazione; oppure, partendo da una stessa base di decostruzione del patriarcato, si potranno immaginare forme diverse, più o meno conciliabili, di trasformazioni possibili, orientate, per esempio, da possibilità economiche diverse, da credenze religiose diverse, da convinzioni più o meno ambientaliste. La questione del rapporto dei generi interseca inevitabilmente altri campi sociali, interagisce con gli altri aspetti che definiscono l’umanità individuale: esisteranno allora più risposte al problema del patriarcato, più movimenti tellurici che tenderanno a farlo franare, diversi a seconda della matrice culturale da cui scaturiscono. Esistono femminismi islamici[15], femminismi neri[16], femminismi delle donne zingare[17] e femminismi che lottano le disparità di genere ragionando sullo sradicamento del sistema economico (capitalista e neoliberista) che lo sostiene o che sfrutta a suo vantaggio alcuni aspetti del femminismo[18]. Alla luce di tutto questo, delle complessità della società in cui viviamo, oggi si parla di femminismo intersezionale, ovvero di un movimento capace di riconoscere allo stesso tempo la molteplicità delle cause che stanno alla base della discriminazione, quindi non solo il sessismo – contro le donne ma anche contro tutti i generi non binari e tutti gli orientamenti sessuali – ma anche il razzismo – etnico, culturale, religioso – e le disuguaglianze economiche. Il femminismo diventa una filosofia di parola e di azioni trasformative che interessa più aspetti della società e che può essere attuato da più gruppi sociali. In questo senso è interessante vedere il cambiamento di alleanze col genere maschile, spesso impegnato in una revisione del proprio ruolo nell’ottica di una liberazione collettiva dagli stereotipi e nell’uso del proprio privilegio di genere per aumentare i diritti delle donne[19].

Il desiderio. I diritti delle donne hanno anche a che fare con un riposizionamento della donna in relazione al desiderio. Il passaggio da oggetto desiderato a soggetto desiderante, infatti, non è ancora completo: nonostante la proliferazione di manuali, sex toys, associazioni e collettivi che incoraggiano le donne a vivere il piacere e ad avere una vita sessuale piena e autodeterminata, spesso le donne si trovano a dover affrontare il giudizio esteriore di una società che le vuole castigate e represse (perché i corpi siano funzionali soltanto alle esigenze riproduttive) o sexy e sessualmente disponibili (perché i corpi siano arredamento, premio o strumenti del piacere maschile) oppure si trovano a dover affrontare il proprio senso di colpa, cioè un giudizio interiore frutto del patriarcato introiettato. Desiderio come libera ricerca ed espressione della sessualità, quindi, ma non solo. Desiderio è ogni spinta che attiva una capacità generativa e autopoietica, è la possibilità reale di immaginare proiezioni di sé più ricche e soddisfacenti di quella di partenza. Le lotte femministe hanno come obiettivo, allora, quello di ridare pieno spazio anche al desiderio delle donne. Nel suo libro Ripartire dal desiderio[20], però, Elisa Cuter analizza come si siano create delle dinamiche che invece che ampliare hanno depotenziato il desiderio non solo femminile, ma anche maschile. Un certo tipo di femminismo, abilmente colonizzato dalle strategie di espansione del profitto del capitalismo, ha spostato l’asse del discorso dalla presa di coscienza del dato culturale del genere (il genere è una costruzione sociale) a un essenzialismo di ritorno (il genere è un dato naturale) che vede una nuova cristallizzazione del maschile e del femminile e un rigido protocollo a regolarne i rapporti. Questo si struttura attorno a una serie di norme che partono da buone pratiche e buoni propositi (l’attenzione al linguaggio e alla rappresentanza, ad esempio), ma che stanno portando a una messa al bando del desiderio e a un nuova cultura del sospetto reciproco con la conseguenza, tra le altre cose, di disegnare delle donne ancora più vittime e degli uomini ancora più carnefici. La sfida è allora quella di tenere insieme la parità di genere e il desiderare, decostruire gli stereotipi senza che le relazioni diventino un territorio freddamente amministrato da norme che invalidano il desiderio, che è invece l’impulso che alimenta e nutre le relazioni stesse. Se il desiderio è spinta verso l’umanità dell’altro, la violenza è il suo contrario: una forza distruttiva e degradante, disumanizzante. L’eliminazione della violenza di genere non può prescindere allora dalla capacità collettiva di immaginare e realizzare spazi in cui il desiderio di tutti e di tutte sia possibile.

 

 

Note

[1]   Si vedano, per questa parte, i lavori di Francesca Pischedda https://core.ac.uk/download/pdf/31145165.pdf; di Chiara Gius e Pina Lalli https://www.essachess.com/index.php/jcs/article/viewFile/249/291; di Silvia Bonacini https://www.cddonna.it/wp-content/uploads/2019/11/Silvia-Bonacini-.pdf

[2]   È il caso degli stupratori assolti perché la vittima era troppo mascolina: https://www.repubblica.it/cronaca/2020/10/19/news/ancona_verdetto_ribaltato_per_strupratori_assolti_perche_la_vittima_era_mascolina_-271119797/

[3]   Il caso di Carola Rackete sollevato dal quotidiano Libero:  https://www.liberoquotidiano.it/gallery/personaggi/13485460/sea-watch-carola-rackete-senza-reggiseno-procura-agrigento-patronaggio-ong.html

[4]   https://www.lastampa.it/cronaca/2020/09/19/news/divieto-di-minigonna-la-rivolta-delle-liceali-mi-vesto-come-voglio-1.39322724

[5]   Si veda il dibattito pubblico su Vanessa Incontrada, Rihanna, Adele, Laura Chiatti.

[6]   Accaduto alla giornalista Giovanna Botteri: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/02/striscia-la-notizia-contro-giovanna-botteri-lancia-servizio-sugli-haters-che-criticano-la-giornalista-per-laspetto-lei-sulla-bbc-croniste-con-rughe-culi-nasi-orecchie-grosse-conta-cio-che-d/5788902/

[7]   I commenti al vestito della Ministra Bellanova: https://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/governo_teresa_bellanova_ministro_insulti_social_capezzone-4715871.html

[8]   Si vedano i commenti sul rientro in Italia di Silvia Romano https://www.internazionale.it/opinione/annalisa-camilli/2020/05/13/silvia-romano-sequestro-liberazione

[9]   Per un primo approccio alle identità non binarie si veda https://www.apadivisions.org/division-44/resources/advocacy/non-binary-facts.pdf

[10]  Perché in Italia è così difficile accedere alla contraccezione, di Jennifer Guerra https://thevision.com/attualita/italia-contraccezione/

[11]  Dagli Usa all’Europa il diritto all’aborto è sotto attacco, di Claudia Torrisi https://www.valigiablu.it/usa-europa-diritto-aborto/

[12]  https://femministerie.wordpress.com/2016/09/11/ancora-su-fertilita-e-orologio-biologico/

[13]  C. Alvaro, Saggi di vita contemporanea, Milano 1960, pp. 183-190

[14]  Marina d’Amelia, La mamma, Il Mulino 2005, Bologna.

[15]  Un possibile riferimento bibliografico è il lavoro di Luciana Capretti, La jihad delle donne, Salerno Editrice 2017. Si veda anche il sito islamandfeminism.org/

[16]  Si veda l’articolo https://www.bossy.it/perche-abbiamo-bisogno-di-un-femminismo-nero.html

[17]  Laura Corradi, Femminismo delle zingare, Mimesis edizioni, 2018

[18]  Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser,Femminismo al 99%. Un manifesto, Laterza, 2019; Catherine Rottemberg, L’ascesa del femminismo neoliberista, Ombre Corte, 2020

[19]  Si vedano le esperienze di Maschile Plurale (maschileplurale.it) e del filosofo femminista Lorenzo Gasparrini (questuomono.tumblr.com)

[20]  Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, Minimux Fax, 2020

 

VERONICA PACINI

Sono nata nel 1987, nelle Marche. Sono laureata in Antropologia – Scienze delle religioni presso l’università di Bologna e in Ethnologie et anthropologie sociale presso l’EHESS di Parigi. Mi interesso di letteratura, antropologia, femminismo e infanzia.

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