AMEDEO MODIGLIANI. UN PITTORE UMANISTA DEL NOVECENTO
A cura di Arianna Marilungo
Dedo, Maudit, Modì
L’infanzia e la prima formazione artistica
Amedeo Modigliani (fig. 1) nasce il 12 luglio 1884 a Livorno da Eugenia Garsin e Flaminio Modigliani. La famiglia, precedentemente benestante, viveva un momento di decadenza a causa del fallimento dell’azienda di legna e carbone e di alcune miniere in Sardegna.
Nonostante ciò, Modigliani cresce in un ambiente culturalmente e letteralmente vivace: la madre Eugenia, infatti, nel 1886 organizza una scuola nella casa livornese dove vivevano in via delle Ville.
Già all’età di 13 anni Modigliani manifesta un precoce interesse per il disegno e la pittura e inizia a chiedere insistentemente alla madre di poter frequentare lezioni di disegno.
Nel 1898 l’artista livornese si ammala di febbre tifoidea che gli danneggia gravemente i polmoni. Dopo la guarigione inizia a prendere lezioni di disegno nello studio di Guglielmo Micheli in Villa Baciocchi a Livorno.
L’ambiente culturale e intellettuale in cui cresce Amedeo Modigliani si vivacizza grazie agli interessi filosofici di sua zia materna, Laura Garsin[1].
«Dedo […] non fa più che della pittura, ma ne fa tutto il giorno e tutti i giorni con un ardore sostenuto che mi stupisce e che mi incanta… Il suo professore è molto contento di lui, io non me ne intendo ma mi sembra che per avere studiato solo tre o quattro mesi non dipinga troppo male e disegna benissimo» (Eugenia Garsin, 10 aprile 1899).
Il tracciato artistico da cui prendono le mosse gli insegnamenti del Micheli, seguace di Giovanni Fattori, è lo stile macchiaiolo toscano[2]. Fattori, anch’esso livornese, visitava spesso lo studio di Micheli. In quegli anni Amedeo Modigliani, allievo disciplinato e rispettoso, stringe amicizia con Oscar Ghiglia o Renato Natali, suoi compagni di studi e che diventeranno anch’essi artisti di successo.
«Caro amico,
io scrivo per sfogarmi con te e per affermarmi dinanzi a me stesso. Io stesso sono in preda allo spuntare e al dissolversi di energie fortissime.
Io vorrei invece che la mia vita fosse come un fiume ricco d’abbondanza che scorresse con gioia sulla terra. […]»
(lettera di Amedeo Modigliani a Oscar Ghiglia. Roma, aprile 1901)[3].
Tra la fine del 1900 e l’inizio del 1901, l’artista livornese affronta un nuovo attacco di pleurite che si complica in tubercolosi. Nell’inverno del 1901, una volta ristabilito, la madre lo accompagna in un viaggio verso il sud Italia: visitano Napoli, Capri, Amalfi e infine Roma e Firenze. Modigliani si esercita copiando opere esposte nelle gallerie e nelle Chiese e sente nascere in lui il “bisogno dell’opera” (A. Modigliani, Lettera a Oscar Ghiglia, Roma, aprile 1901) che riuscirà a soddisfare solo uscendo dalla realtà in cui vive ed esplorando nuovi contesti artistici e culturali. Decide così di lasciare la sua città natale, Livorno, e di trasferirsi nella vicina Firenze, aiutato economicamente dallo zio materno. A Firenze il giovane artista trova un ambiente cosmopolita e il vecchio amico Oscar Ghiglia. Si iscrive alla Scuola libera di nudo tenuta da Giovanni Fattori. Frequenta spesso la Biblioteca Nazionale dove studia appassionatamente la storia dell’arte italiana. Nell’estate del 1902 si reca a Pietrasanta e inizia ad avvicinarsi alla scultura.
“Era a quel tempo un giovinetto di belle fattezze e di volto gentile, né alto né basso, bello e vestito con parca eleganza. I suoi modi erano graziosi al pari della persona, tranquilli; e quello che diceva ispirato a grande intelligenza e serenità” (Ardengo Soffici, 1930)[4].
Questa è l’impressione che Soffici ha di Modigliani: i due si incontrarono a Venezia poco dopo il trasferimento dell’artista livornese, avvenuto nel 1903. Nella città lagunare Modigliani frequenta la “Scuola libera di nudo” dell’Istituto di Belle Arti. Inizia qui la sua carriera ritrattistica e di lui scrive così la madre:
“Dedo a Venezia ha finito il ritratto di [Leone] Olper e parla di farne altri. Non so ancora quel che diventerà ma siccome sinora ho pensato solo alla sua salute, non posso ancora – nonostante la situazione economica – dare importanza al suo futuro lavoro”.
Di questo periodo veneziano ci è pervenuto solo un ritratto: il disegno che ritrae Fabio Mauroner, suo grande amico grazie al quale apprende la tecnica dell’acquaforte. Entrambi frequentavano anche Umberto Boccioni, Guido Marussig e Guido Cadorin con i quali visitano chiese e musei per studiare l’arte veneziana. Grazie a queste visite Modigliani si appassiona all’arte di Carpaccio e alla pittura veneziana due-trecentesca, continuando a studiare i primitivi senesi.
Parigi: la maturità
All’inizio del 1906 Amedeo Modigliani si trasferisce a Parigi, dopo averne subito il fascino grazie agli entusiasti racconti di alcuni suoi amici artisti, come il cileno Ortiz de Zàrate. Affitta un appartamento vicino alla Madeleine e apre uno studio a Montmartre. Nella capitale francese conosce i più grandi artisti a lui contemporanei: Picasso, Derain, Apollinaire, Meidner, Severini. Studia all’accademia Colarossi.
Nell’ottobre del 1907 è ammesso al Salon d’Automne, esponendo per la prima volte sette opere: Ritratto di L. M., Studio di testa e cinque acquerelli. Qui osserva e studia la grande retrospettiva di Cézanne, che lo influenza profondamente. Frequenta il vivace ambiente artistico di rue du Delta 7 dove conosce Paul Alexandre, un giovane medico parigino che, affascinato dai suoi dipinti, diventa il suo primo mecenate. Grazie a lui, l’artista livornese si iscrive alla Societé des artistes Indépendants e conosce Brancusi, con cui stringe un forte legame.
Al Salon des Indépendants espone sei opere nel 1908: L’ebrea (fig. 2), L’idolo, due nudi, uno Studio e un disegno.
«Ciò che cerco non è né l’irreale né il reale, ma l’inconscio, il mistero dell’istintività della razza umana»
(Amedeo Modigliani, 1909).
Nel 1909 dipinge Il violoncellista (fig. 3) in cui è evidente il riferimento a Cézanne. Le sue condizioni finanziarie sono precarie e si trasferisce a Montparnasse, dove cambia vari alloggi. In questo anno conosce Gaudier-Brzeska e Rousseau, la cui pittura lascia una traccia rilevante nello stile del livornese. Si appassiona all’arte africana, primitiva e orientale, specialmente a quella cambogiana ed egizia.
Nel 1910 espone altre sei opere nel Salon des Indépendants: Il violoncellista, Il mendicante di Livorno, La mendicante, Lunaire e due studi.
È proprio in questo anno che Severini gli chiede di aderire al futurismo, ottenendo dall’artista livornese un netto rifiuto. Negli anni successivi aumenta notevolmente il suo interesse per la scultura conducendo il suo stile ad esiti che egli stesso definisce maturi. Malauguratamente dovrà abbandonare questa passione nel 1914 a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Proprio per questo motivo non parte per il fronte allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma conosce in questo anno il suo primo mercante: Paul Guillaume.
Negli anni successivi dipinge alcuni dei suoi ritratti più famosi: Ritratto di Picasso (fig. 4), Ritratto di Beatrice Hastings (fig. 5), Ritratto di Paul Guillaume (fig. 6), Ritratto di Kisling (fig. 7). Se nel primo è evidente una matrice puntinista, i successivi sono caratterizzati da forme con contorni nitidi, risultato di una profonda influenza della lezione di Cézanne e dei cubisti. Aumenta il consumo di droghe, di cui già faceva uso, contribuendo ad alimentare la fama di “artista maledetto” che gli costerà il soprannome di Maudit, in italiano Modì.
«Guardo con interesse al nuovo stile di Modigliani, che allunga i volti stilizzandoli come in Derain e nelle sculture del Dahomey, creando interessanti rapporti cromatici» (L. Vauxcelles, Quelques cubistes, “L’Evénement”, 21 novembre, p. 2).
Nei suoi dipinti continua a sperimentare nuove forme espressive: l’anatomia dei suoi ritratti si allunga facendo emergere la lezione appresa dall’arte gotica e manierista– il colloquio con l’arte italiana è sempre vivo nelle sue opere. Nei ritratti tende ad allungare l’anatomia dei volti e dei colli influenzato dallo studio delle maschere africane, ma anche dalla lezione appresa dall’arte medievale senese. Nel 1916, Grazie a Kisling, conosce il suo nuovo mercante: Léopold Zborowski, un poeta polacco e commerciante di libri e quadri. Quest’anno è molto fiorente grazie a diverse occasioni in cui può esporre le sue opere. Alla Modern Gallery di New York espone due Teste e a Parigi espone in tre diversi saloni: nella sartoria di Madame Bongard espone una serie di disegni, il luglio alla mostra “L’Art moderne en France” al Salon d’Antin mostra tre ritratti e dal 19 novembre al 5 dicembre dello stesso anno partecipa ad una collettiva con Kisling, Matisse, Picasso e Zàrate in cui espone 25 opere.
I suoi lavori sono caratterizzati da una costante aspirazione all’essenzialità dimostrata dalla semplificazione della forma, dall’assenza di elementi descrittivi e dalla purezza della linea.
Dopo numerosi e spesso combattuti legami affettivi, alla fine del 1916 conosce Jeanne Hébuterne (1898-1920), allieva dell’Accademia Colarossi, con cui intreccerà una faticosa relazione d’amore l’anno successivo. Il 1917 si chiude con la prima mostra personale di Modigliani tenuta alla Galerie Berthe Weill: espone 32 dipinti e 30 disegni. Purtroppo, però, riesce a vendere solo due disegni.
Il suo stile continua ad evolversi in una continua ricerca espressiva in cui si avvertono anche suggestioni classiche: i ritratti sono ora caratterizzati da ondulazioni e tensioni longitudinali di chiara impronta manierista (Jeanne Hébuterne con grande cappello (fig. 8), Ritratto di Zborowski (fig. 9)), ma anche da una plasticità più ortogonale (La giovane lattaia, Il giovane apprendista (fig. 10)). Affronta ripetutamente il tema del nudo femminile in cui affiora la sensualità cromatica delle Veneri veneziane[5] (figg. 11 e 12).
Le sue condizioni di salute si aggravano ulteriormente: in primavera parte per il sud della Francia convinto dal suo mercante. A Nizza, in novembre, nasce sua figlia Jeanne (1918-1984). Il mese successivo partecipa alla mostra collettiva “Peintres d’Aujourd’hui” alla galleria Paul Guillaume.
Durante una mostra tenutasi a Londra - “French Art 1914-1919” – il critico d’arte R. Fry elogia le sue opere sottolineando la sua concezione della forma: plastica e lineare che non nasconde una tensione rinascimentale. Partecipa, in ottobre, al Salon d’Automne con quattro opere.
Le sue condizioni di salute precipitano: il 24 gennaio 1920 muore di meningite tubercolare dopo l’ennesimo aggravarsi della sua salute. Pochi giorni dopo la sua compagna, Jeanne Hébuterne, muore gettandosi da una finestra della casa dei suoi genitori incinta di otto mesi[6].
Lo stile umanista
La sua eredità artistica e stilistica è incentrata sullo studio profondo, appassionato e innamorato della figura: Modigliani non dipinge mai gruppi di figure, scene di vita quotidiana o cittadine. Il suo interesse pittorico e scultoreo è totalmente incentrato sull’uomo e sulla donna quasi a volerne scavare l’anima. La sua arte ha un solo soggetto. Predilige la figura femminile, a cui assegna una nobiltà superiore, quasi a voler indicare che non c’è niente che sia più meritevole di interesse, di indagine, di analisi e, dunque, di rappresentazione figurativa.
Il suo umanesimo non nasconde la fragilità della persona, anzi la esalta. I suoi ritratti - spesso caratterizzati da un accentuato senso ieratico - non sono trionfali, gloriosi, eroici, ma esprimono la debolezza del soggetto raffigurato, pur campeggiando e dominando l’intera scena. Modigliani, però, non si sofferma mai sulla condizione economico-sociali dei soggetti che dipinte, poiché comprende che la debolezza umana non consiste in questo, ma dalla condizione esistenziale della persona. La fragilità che intende rappresentare è racchiusa nella bellezza stessa dei soggetti: esse convivono nell’animo umano poiché il sentimento che più gli appartiene è quello dell’esistenza, ovvero il ruolo del singolo individuo nella quotidianità. Questo sentimento viene continuamente indagato e mai colto fino in fondo. I volti ritratti spesso sono privi dell’iride: come figurare l’anelito di vita chiuso nel cuore dell’uomo?[7]
Note
[1] F. Marini, La vita e l’arte, in L. Piccioni (presentazione di), Modigliani, Milano, Skira, Corriere della Sera, 2004, pp. 25-32
[2] Il termine Macchiaioli indica un gruppo di artisti attivi in Toscana negli anni ’50 e ’60 del XIX secolo. Il loro stile si caratterizza per una adesione al “vero” in cui i soggetti sono paesaggi e scene di vita quotidiana, dipinti “a macchia”. Lo stile dei Macchiaioli prescinde dal disegno e dal chiaroscuro anche in virtù del principio che in natura i contorni non esistono.
[3] E. Pontiggia (a cura di), Amedeo Modigliani. Le lettere, Abscondita, Milano, 2006, p. 11
[4] Ricordo di Modigliani, «Gazzetta del Popolo», Torino, 16 gennaio 1930
[5] Elena Pontiggia (a cura di), cit., p. 51
[6] Ivi, pp. 71-79
[7] Ivi, pp. 50-65
Bibliografia
Elena Pontiggia (a cura di), Amedeo Modigliani. Le lettere, Milano, Abscondita, 2006
Leone Piccioni (presentazione di), Modigliani, Milano, Skira, Corriere della Sera, 2004
Giorgio Cortenova, Modigliani, Art e dossier n. 30, dicembre 1988, Firenze, Giunti, 1988
Nasce nel 1989 a Fermo e cresce in un piccolo paese di provincia, Campofilone. Nel 2008 consegue il diploma come perito per il turismo e prosegue gli studi nel corso di laurea triennale in Beni Culturali presso l'Università degli studi di Bologna, sede di Ravenna. Si laurea nel 2012 con una tesi in Museografia e museotecnica dal titolo “L'applicazione degli standard conservativi nei musei del fermano e del piceno”. Nel 2015, presso la stessa università, consegue la laurea magistrale in Storia e conservazione delle opere d'arte con la tesi “La funzione comunicativa nei musei italiani: l'esempio del Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo” in Museologia e storia del collezionismo. Nello stesso anno inizia una collaborazione con Tu.ris.Marche, cooperativa di promozione turistica operante nella provincia di Fermo.
Nel 2016 svolge il servizio civile presso il Comune di Fermo, settore biblioteca e musei. Nel 2017, a seguito del sisma nel centro Italia, partecipa ad un secondo progetto di Servizio Civile intitolato “non3mo” presso la Biblioteca Civica di Fermo “Romolo Spezioli”.
Dal 2018 lavora come operatrice museale nei Musei Civici della città di Fermo.
All'interno di Storia dell'Arte è redattrice per la regione Marche.
e-mail: [email protected]
GIOVANNA GARZONI. ARTISTA COSMOPOLITA
A cura di Alessandra Becattini
Introduzione
La recente mostra "La grandezza dell'universo nell’arte di Giovanna Garzoni”1, curata da Sheila Barker e tenutasi a Palazzo Pitti a Firenze, è stata la prima monografica mai dedicata interamente all’artista ed ha consentito di riportare l’attenzione sulla figura di questa protagonista dell’arte del ‘600.
L’artista lavorò per alcuni dei più importanti committenti del suo tempo, tessendo relazioni con artisti ed intellettuali dei più sofisticati. Come un’altra famosa pittrice del XVII secolo, Artemisia Gentileschi, anche Giovanna fu una donna cosmopolita: non solo viaggiò ampiamente in Italia, ma fu anche accolta alle corti internazionali di Parigi e Londra.
La formazione
Originaria delle Marche, Giovanna nacque ad Ascoli Piceno nel 1600 circa, data dedotta dagli storici grazie alla Sacra Famiglia firmata e datata 1616 e dipinta da una giovane Giovanna sedicenne.
Dopo una prima formazione probabilmente con lo zio Pietro Gaia, la Garzoni ben presto si trasferì a Venezia per proseguire lo studio dell’arte, meta quasi naturale dato che il padre era veneziano e la madre proveniva da una famiglia d’artisti, i Gaia appunto, anch’essa d’origine lagunare.
La vicinanza tra le prime opere della pittrice, come per esempio la suddetta Sacra Famiglia, e lo stile di Jacopo Negretti (meglio conosciuto come Palma il Giovane) ha spinto la critica ad ipotizzare che la Garzoni abbia studiato a fianco del maestro veneziano. Più sicuro è però l’alunnato presso Giacomo Rogni, dal quale l’artista apprese l’arte della calligrafia, come si evince dal Libro de’ caratteri cancellereschi corsivi (1617-20 circa), il quaderno manoscritto con 42 complessi esercizi calligrafici di mano di Giovanna ed oggi conservato all’Accademia di San Luca di Roma.
Un primo soggiorno fiorentino
A questi anni risalirebbe anche il suo primo soggiorno a Firenze, avvenuto probabilmente tra il 1618 e il 1621. Un capitolo inedito del manoscritto Della dignità et della nobiltà delle donne di Cristofano Bronzini, rinvenuto da Sheila Barker, ha infatti gettato nuova luce sugli anni giovanili della pittrice2.
Lo scrittore ci parla della precoce bravura di Giovanna nella pittura, già elogiata non solo per le rappresentazioni di natura morta, genere che l’ha resa famosa, ma anche per le sue abilità calligrafiche. Inoltre, secondo il racconto del Bronzini, la pittrice si sarebbe presentata al cospetto della Granduchessa, Maria Maddalena d’Austria, con
in dono una miniatura (oggi perduta) della santa omonima. Questa notizia conferma come Giovanna fosse già attiva nel genere della miniatura e indica che proprio la Granduchessa potrebbe essere stata una dei primi committenti della pittrice. Ma le notizie dedotte da Barker non si fermano qui; Bronzini ci racconta che la giovane si era fatta notare a corte anche per le sue capacità musicali e canore. Sono tutte doti, queste, che riflettono l’interesse di Giovanna di intraprendere una prestigiosa carriera internazionale a stretto contatto con l’ambiente cortigiano del tempo3.
Proprio a Firenze la giovane avrebbe potuto anche ammirare e studiare le tavole naturalistiche di Jacopo Ligozzi, fondamentali per l’evoluzione della sua tecnica pittorica per l’illustrazione botanica e zoologica. Ne sono la prova alcuni dei disegni successivi della Garzoni, come le quattro illustrazioni provenienti dalla serie delle Carte dei semplici, eseguita per il granduca Ferdinando I nel 1648 (fig.2), conservate al Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi. Al centro del foglio è riprodotto, con estremo rigore scientifico, il soggetto botanico che, in rispetto delle regole dell’illustrazione scientifica, non è ombreggiato. Accanto al fiore l’artista si cimenta nella rappresentazione di altri elementi naturalistici con un chiaroscuro che rafforza la tridimensionalità della rappresentazione.
Infine, fu probabilmente durante questo stesso soggiorno fiorentino che la Garzoni entrò in contatto non solo con l’erudito Cassiano dal Pozzo, presente alla corte medicea nel 1620 nonché futuro committente e garante dell’artista, ma anche con due artiste donne all’epoca attive alla corte medicea: Arcangela Paladini e Artemisia Gentileschi. Parte della critica ritiene che proprio con quest’ultima la Garzoni instaurò probabilmente un rapporto d’amicizia e/o collaborazione di lunga durata: un’ipotesi suggestiva è infatti quella che le due artiste abbiano viaggiato assieme e condiviso alcune tappe del loro percorso lavorativo.
Venezia, Napoli e Roma
Dopo il soggiorno fiorentino Giovanna rientrò a Venezia, dove è nuovamente documentata nel 1625, e proprio qui la Gentileschi arrivò verso la fine del 1626. Allo scoccare del 1630 poi entrambe le artiste accettarono l’invito di Alfán de Ribera, duca di Alcalà e viceré di Napoli, di recarsi nella città partenopea, probabilmente raccomandate entrambe dal già citato Cassiano dal Pozzo. Diversamente dalla collega, durante la discesa della penisola Giovanna si fermò brevemente a Roma, dove sostò nuovamente tra la fine del 1631 e il 1632 dopo il breve e lacunoso soggiorno napoletano.
Nella città papale la nostra artista consoliderà il rapporto con l’erudito dal Pozzo, appassionato collezionista d’arte ma anche di oggetti scientifici e reperti naturali.
Grazie a lui, Giovanna entrò in contatto con l’Accademia dei Lincei, la famosa comunità scientifica fondata da Federico Cesi nel 1603 e della quale Cassiano fu membro. La critica ritiene che proprio a questi anni potrebbero risalire le illustrazioni botaniche realizzate dalla Garzoni per il manoscritto Piante varie, oggi conservato a Dumbarton Oaks (Washington). Si tratta di una raccolta di cinquanta acquerelli con illustrazioni botaniche all’interno di una rilegatura moderna e acquistata sul mercato americano nel 1959. Il manoscritto, ancora oggetto di studio da parte della critica soprattutto per quanto concerne l’attribuzione di alcune delle tavole, reca sul frontespizio un ritratto senile della Garzoni (fig. 3), già ritenuto un autoritratto dell’artista, ma più probabilmente da riferirsi ad una mano differente4. In queste illustrazioni Giovanna mostra una minuziosa attenzione dedicata all’osservazione scientifica della natura, in linea con la coeva tassonomia, senza tuttavia venire meno alla sua sensibilità artistica e coloristica.
Il soggiorno alla corte sabauda
Dopo il soggiorno romano, su richiesta dalla duchessa “Madama Reale”, Maria Cristina di Borbone in persona, nel novembre del 1632 Giovanna si trasferì a Torino. Alla corte sabauda lavorò attivamente per molti anni soprattutto come ritrattista, genere che l’aveva resa famosa e che le aveva assicurato la posizione di artista residente. Oltre che dedicarsi alla realizzazione della serie di ritratti dinastici, si dedicò anche alla miniatura, sia di soggetto sacro che mitologico, e alla natura morta: proprio al soggiorno torinese risale infatti la prima natura morta documentata e firmata dalla nostra.
Tra le opere rimaste di questo periodo, vale la pena di ricordare il ritratto di Zaga Christ (fig. 4), firmato e datato 1635. Il soggetto rappresenta un principe pretendente al trono d’Etiopia che viaggiò per anni in Europa e che all’epoca fu ospite del duca Vittorio Amedeo I. Si tratta della prima miniatura rappresentante un soggetto etiope con caratteristiche fisiognomiche ben identificate. Giovanna infatti, allontanandosi dalla tradizione iconografica sviluppata da Paolo Giovio negli anni settanta del ‘5005, rappresenta il soggetto in modo estremamente personale rendendolo vivido grazie all’utilizzo della tecnica del puntinato.
Tra Londra e Parigi
Il soggiorno torinese si concluse nel 1637 con la morte di Vittorio Amedeo di Savoia: è l’inizio della parentesi estera del percorso artistico della Garzoni.
L’ipotesi di un soggiorno londinese era emersa la prima volta dalla scoperta di una lettera del 1648 dove la pittrice riferiva di aver eseguito il ritratto dell’ambasciatore savonese in Inghilterra, Alessandro Cesare Scaglia di Verrua6.
Nuovi elementi recentemente emersi dagli studi sulla pittrice avvalorano la tesi che Giovanna si recò in Inghilterra nel 1638, plausibilmente accompagnata da Artemisia Gentileschi, che proprio a Londra soggiornò nel medesimo periodo7. Infatti, sette dei disegni raccolti dalla Garzoni nel Libro di miniature e disegni, oggi all’Accademia di San Luca a Roma, provengono dallo Studio di animali e paesaggi (1521) di Albrecht Dürer. Dana Hogan ha rintracciato che questo foglio del maestro tedesco, oggi al Clark Art Institute, apparteneva in origine alla collezione di Inigo Jones, famoso architetto inglese conosciuto soprattutto per la progettazione della Queen’s House di Greenwich. Non essendo note ad oggi altre copie di questo disegno di Durer, la storica sostiene quindi che sia altamente probabile che Giovanna abbia copiato l’opera proprio di persona8. La presenza, poi, di una miniatura dell’artista nelle collezioni di Carlo I Stuart potrebbe indicare anche che l’artista ebbe contatti con la corte reale, la cui regina del tempo era inoltre la sorella della già citata duchessa di Savoia, patrona di Giovanna a Torino.
Probabilmente sempre grazie alle connessioni di Cristina di Borbone, nel 1640 la pittrice lasciò l’Inghilterra per recarsi a Parigi, all’epoca governata da Luigi XIII, fratello della duchessa sabauda. A questo periodo risale il ritratto del cardinale Richelieu eseguito dalla pittrice, prova del fatto che Giovanna ebbe modo di lavorare a stretto contatto con la corte francese e plausibilmente anche per la regina Anna d’Austria. Questo soggiorno, confermato dalle lettere della Garzoni riguardanti il viaggio e rinvenute da Elena Fumagalli già alcuni anni orsono, fu estremamente formativo per la pittrice soprattutto per l’influenza che la pittura di genere francese e olandese ebbe sullo sviluppo della rappresentazione delle sue nature morte.
Firenze, Roma e la maturità artistica
Non a caso è questo il genere che popola principalmente le miniature della sua maturità artistica. Quando nel 1642 si trasferì a Firenze per la seconda volta, Giovanna era ormai un’artista acclamata e con uno stile personale perfezionato grazie alle esperienze compiute durante i suoi viaggi.
L’ambiente gravitante la corte medicea, per la quale continuò a lavorare assiduamente anche dopo il definitivo trasferimento a Roma nel 1651, stimolò l’interesse di Giovanna per quella che lei stessa definì “la grandezza dell’Universo”9.
Nelle sue opere l’artista mostrò una grande sensibilità non solo per il dato naturale ma anche per “l’immaginario geografico”10 del suo tempo.
Un esempio calzante in questo senso è la Canina con biscotti e tazza cinese (fig. 5), eseguita per la granduchessa Vittoria della Rovere. La giustapposizione della cagnolina, di probabile provenienza inglese, alla tazza orientale, rappresenterebbe la portata internazionale del potere familiare mediceo. Piccoli cani di questo tipo erano infatti molto comuni nell’ambiente di corte e venivano spesso ottenuti come regali diplomatici tra le famiglie delle corti europee. Nelle corti del XVII secolo era norma comune commissionare ritratti di animali quali simbolo di ricchezza, ma anche stavolta Giovanna si allontanò dalla rappresentazione più tradizionale. La sua sensibilità artistica la porta a rappresentare l’animale in una visione più domestica, attraverso l’espressione delle sue qualità. La minuta cagnolina è infatti docile e dolce come i biscotti poggiati sul tavolo dove posa accucciata.
Tra le opere degli ultimi anni della carriera della Garzoni troviamo anche numerosi vasi di fiori e composizioni di frutta, sempre diversificati dal punto di vista compositivo ed estremamente particolareggiati (figg. 6-7). Realizzate sul medium preferito dall’artista, la pergamena, queste opere sono ricche di effetti cromatici e il fitto puntinato ne accentua la luminosità, rendendo viva la materia delle cose. La serie di venti miniature (fig. 8) eseguite su commissione del granduca Ferdinando II per la villa di Poggio Imperiale, iniziata durante il soggiorno fiorentino e terminata a Roma entro il 1662, presenta alcuni tra gli esemplari più virtuosi della pittrice. Un esempio è il Piatto con ciliegie, baccello e calabrone (fig. 9), dove si nota la bravura di Giovanna nel rappresentare le differenze tattili tra gli elementi che riempiono il piatto di ceramica: alle lucenti e succose ciliegie si contrappone la delicatezza dei petali delle rose bianche.
Non manca di virtuosismo nemmeno il Buffone di vetro con diversi fiori eseguito per il cardinale Leopoldo de’Medici (fig. 10), dove è riconoscibile la tipologia di ogni singolo fiore rappresentato, a riprova ancora dell’estrema attenzione scientifica dedicata da Giovanna alla rappresentazione della natura.
Giovanna Garzoni morì a Roma nel febbraio del 1670 e venne sepolta nella chiesa romana dei Santi Luca e Martina. Qui, nel 1698, venne realizzato un monumento funebre in suo onore da parte dell’Accademia di San Luca, con la quale la pittrice aveva stretto un forte rapporto fin dal suo trasferimento a Roma. Infatti, con legato testamentario proprio all’Accademia lasciò in eredità tutti i suoi beni, comprese alcune delle sue opere e la serie di disegni che ancora oggi sono conservati nella collezione di questo istituto romano.
Note
1 La mostra (maggio-giugno 2020) è stata la nona di una serie di mostre dedicate alle donne artiste e organizzate dalle Gallerie degli Uffizi.
2 Nel manoscritto, il Bronzini non solo descrive il primo soggiorno fiorentino della pittrice, ma riporta anche una poesia a lei dedicata da Francesco Maria Gualterotti. Entrambe le fonti sembrano indirizzare su una datazione successiva per la nascita di Giovanna (1605), oltre che ad una probabile provenienza veneta (Adria). Tuttavia, tali notizie non sono ancora state confermate da fonti più sicure.
3 Barker, The Universe of Giovanna Garzoni. Art, Mobility, and the Global Turn in the Geographical Imaginary, in "La grandezza dell'universo" nell'arte di Giovanna Garzoni, p. 16.
4 Barker-Tchikine, Art in the Service of Botany: Giovanna Garzoni’s Piante Varie at Dumbarton Oaks, in "La grandezza dell'universo" nell'arte di Giovanna Garzoni, p. 32. I due storici propongono un probabile collegamento al progetto per il monumento funerario della Garzoni realizzato dal pittore Giuseppe Ghezzi.
5 Groen, Scheda 5, in La grandezza dell'universo" nell'arte di Giovanna Garzoni, pp. 128-129.
6 Il diplomatico Verrua fu anche collezionista d’arte, conoscente di Cassiano dal Pozzo e dell’architetto Inigo Jones.
7 Barker, The Universe of Giovanna Garzoni. Art, Mobility … cit., p. 22. Artemisia sostò a Londra fino al 1641 circa.
8 Hogan, Scheda 7, in La grandezza dell'universo" nell'arte di Giovanna Garzoni, pp. 132-133.
9 Citazione presa da Barker, The Universe of Giovanna Garzoni. Art, Mobility … cit., p. 29.
10 Barker, The Universe of Giovanna Garzoni. Art, Mobility … cit., p. 24.
Bibliografia
Gerardo Casale, Giovanna Garzoni “insigne miniatrice”, Milano, 1991
Sheila Barker, ‘Marvellously gifted’: Giovanna Garzoni’s first visit to the Medici court, in “The burlington magazine”, 160 (agosto 2018), pp. 654-659.
"La grandezza dell'universo" nell'arte di Giovanna Garzoni, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, 28 maggio-28 giugno 2020), a cura di Sheila Barker, Sillabe, Livorno, 2020
Sitografia
https://artherstory.net/two-of-a-kind-garzoni-and-gentileschi/
Sono Alessandra, classe ’89 e “fiorentina doc”. Ho studiato all’Università di Firenze, dove ho conseguito la laurea magistrale in Storia dell’Arte con una tesi di ricerca sul percorso artistico dei pittori bolognesi Rolli in Toscana. La mia anima è artistica e fin da piccola ho sempre armeggiato con pennelli e colori e proprio questa mia inclinazione mi ha portata spontaneamente ad innamorarmi dell’arte. Sono affascinata dall’arte barocca ed ho una particolare passione per il restauro e i gender studies. In cerca della mia strada, attualmente vivo alternativamente tra Firenze e Londra.
Per Storia dell’Arte sono referente della regione Toscana.
FRANCESCO SOLIMENA
A cura di Ornella Amato
Introduzione
Francesco Solimena è considerato l’interprete di una corrente artistica che trae spunto dal naturalismo e dal barocco, ma è ingentilito da una componente classicista che trova nelle sue opere e nei colori della sua tavolozza il punto più alto della scuola pittorica napoletana negli ultimi decenni del XVII sec. e la prima metà del XVIII, di cui diventa il protagonista indiscusso.
Terziario domenicano, noto alle cronache contemporanee come ‘l’Abate Ciccio’, era solito presentarsi in pubblico – e nei suoi autoritratti - indossando abiti clericali.
Biografia
Francesco Solimena nacque a Canale di Serino, nell’avellinese, il 4 ottobre 1657 da Angelo Solimena e Marta Resignano. Iniziò a formarsi presso la bottega del padre[1] a Nocera dei Pagani, una piccola comunità di cui era originaria la madre e dove viveva la sua famiglia.
In realtà, quella con il padre era una collaborazione sporadica più che una vera e propria formazione all’arte pittorica, poiché in realtà era stato avviato ad importanti studi umanistici e letterari. Questa collaborazione che si esplicò inizialmente nella tela della chiesa del Corpo di Cristo a Nocera Inferiore raffigurante San Gennaro intercede per fermare l’eruzione del Vesuvio.
La visita alla sua famiglia compiuta da Papa Benedetto XIII quando era ancora cardinale, lo indirizzò definitivamente all’arte pittorica, poiché lo stesso porporato rimase fortemente colpito dal talento del giovane Francesco ed insistette presso il padre affinché lo avviasse definitivamente alla pittura. All’età di 17 anni, nel 1674, giunse a Napoli, ma continuò la collaborazione col padre in particolare per la realizzazione degli affreschi per la chiesa di San Domenico a Solofra a partire dal 1675 fino al 1680.
L’arrivo nella capitale
A Napoli si formò inizialmente presso l’accademia di pittura di Francesco De Maria[2], ma l’arrivo nella capitale lo portò inevitabilmente a studiare anche le tele del Merisi, presenti al Pio Monte della Misericordia e in San Domenico Maggiore, i caravaggeschi, la fabbrica della Cappella Tesoro di San Gennaro al Duomo, il realismo del cavalier calabrese Mattia Preti ed la nuova corrente barocca che in quegli anni andava prendendo forma attraverso l’opera pittorica di Luca Giordano.
La conoscenza delle opere di artisti di tale portata lo spinse a cercare nuove esperienze cromatiche, portando sulla sua tavolozza sia i colori scuri del tenebrismo pretiano, sia il cromatismo brillante del barocco giordanesco, applicando il tutto all’interno delle opere che realizzò nella capitale a partire dagli anni Ottanta del XVII secolo.
Le committenze dell’epoca riscontravano nelle sue tele personaggi caratterizzati da gentilezza ed eleganza, nobiltà nella forma ed un raro equilibrio composito.
La critica coeva lo apprezzò sin da subito e colse in lui la somma di tutte le arti pittoriche a partire dall’arrivo del Caravaggio a Napoli; di certo, testimonianza di tale qualità la offriva l’affresco nella controfacciata della chiesa del Gesù Nuovo con l’episodio biblico della Cacciata di Eliodoro dal Tempio che indubbio stupore dovette suscitare tra i contemporanei. Immediatamente prima realizzava Il Martirio dei Giustiniani a Scio, il cui virtuosismo preludeva proprio all’affresco del Gesù Nuovo.
A Napoli, il giovane Solimena inevitabilmente si confrontò anche con la pittura di Giovanni Lanfranco. Il Lanfranco era giunto in città nel 1633 ed il suo nome era tra i più blasonati tanto da essere presente ai maggiori cantieri artistici dell’apoca, come quello della Certosa di San Martino, la cupola del Gesù Nuovo e la Cappella del Tesoro al Duomo, così come era stato per Luca Giordano. Considerando che il Lanfranco – nel suo decennio napoletano- aveva rotto la tradizione caravaggesca insieme al Giordano, non si esclude possa aver rappresentato il punto di svolta del Solimena che, abbandonati gli insegnamenti paterni e del De Maria, riuscì ad imprimere una svolta alla sua carriera iniziando ad emergere con uno stile proprio che era elegante e formale, squarciando i colori della tavolozza con un velo dorato che definiva e illuminava le figure.
Le commissioni
L’estro e la velocità di esecuzione – che fu seconda solo al Giordano – gli procurarono un’enorme quantità di committenze non solo private ma anche pubbliche, in tutta la capitale ed oltre.
A Napoli lavorò alla volta della cappella dedicata a Sant’Anna del Gesù Nuovo, andata perduta col violento terremoto che colpì la città nel 1688, ed anche alla tela raffigurante SS. Francesco, Domenico, Ignazio, e Filippo Neri[3] per la chiesa di Santa Maria dei Miracoli. Fuori dalla capitale si occupò della tela dedicata alla Madonna del Rosario per il convento delle monache domenicane di Sessa Aurunca[4] e della commissione che gli venne dal monastero di Montecassino – nel 1681 – col San Girolamo, San Francesco e sant’Antonio Abate[5].
L’ultimo ventennio del XVII secolo fu tra i più proficui: le commissioni pubbliche aumentavano incessantemente, non c’era chiesa o ordine religioso del regno che non cercasse “l’Abate Ciccio” per offrirgli un incarico.
Seguirono infatti le commissioni delle chiese napoletane dei Santi Apostoli, dove nel 1683 realizzò gli affreschi dedicati alla Maddalena e a Santa Teresa, quelle di San Nicola la Carità e Santa Maria Donnaregina col Miracolo delle Rose[6] del 1684, dove affrescò anche il coro delle monache che era stato iniziato dal Giordano, e il San Francesco davanti al Papa.
Solimena compì pochissimi viaggi, di cui uno a Firenze, ma la sua opera si esplicò soprattutto nelle chiese del regno. Nella sua casa era attivo ed operante il suo studio: qui le tele venivano realizzate e poi spedite ai committenti.
Nonostante la fama acquisita, fu continuo il confronto con le opere del Giordano e del Lanfranco[7], un raffronto che gli consentì uno studio quasi permanente delle figure e dei cromatismi, ma che finì per coinvolgerlo in lavori sempre più importanti, come quelli eseguiti nell’ultimo decennio del XVII secolo per la sagrestia del basilica napoletana di San Paolo Maggiore, che affrescò per intero. Fu questo il lavoro della sua consacrazione. In particolare, firmò e datò gli affreschi raffiguranti La caduta di San Paolo (1689) e La caduta di Simon Mago (1690).
Intanto a Roma nel 1690 fu fondata l’Accademia dell’Arcadia[8] promossa dalla regina Maria Cristina di Svevia e da un gruppo di letterati radunati intorno a lei. Ne derivò una committenza che ordinava tele ed affreschi le cui tematiche non fossero lontane dalle argomentazioni della neonata Accademia, come l’affresco che Solimena realizzò nella volta di Palazzo Tirone Nifo[9] a Napoli[10], commissionatogli dal commerciante Giuseppe Tirone. A questi anni è anche databile la tela Agar e Ismaele nel deserto confortati dall’Angelo, che rappresenta l’episodio biblico nel momento in cui l’angelo ordina ad Agar di ritornare a casa da Abramo e da Sara, insieme al figlio Ismaele.
Nello stesso anno realizzò anche l’Allegoria di un Regno, in cui rimarcò i canoni dell’Accademia.
Al 1699 è datato il Riposo durante la fuga in Egitto.
Nel 1700 a Roma fu proclamato l’Anno Santo[11]. Il Solimena volle recarsi nella città papale in occasione del Giubileo. Era per lui la prima volta nella città eterna e fu l’occasione di vedere e apprezzare tutta l’arte classica e tutto quanto era presente in città: a seguito di questo viaggio ed in conseguenza dell’elezione del soglio pontificio di Papa Clemente XI, realizzò la tela Clemente XI che veste monaca una sua nipote[12].
Nell’aprile del 1702 giunse a Napoli Filippo V di Spagna e, contemporaneamente, rientrò da Madrid Luca Giordano, dopo avervi trascorso ben dieci anni. Il rientro nel regno dell’ormai anziano Giordano non scalfì minimamente la fama e le committenze del Solimena che, all’arrivo del Re di Spagna, fu convocato a corte perché realizzasse un suo ritratto. La committenza reale non fu di facile realizzazione poiché il pittore dovette lavorare con intorno l’intera corte, ciononostante il Ritratto di Filippo V fu un successo e ne furono richieste di diverse copie, inoltre l’alta aristocrazia napoletana moltiplicò eccezionalmente le sue committenze all’ormai famosissimo Francesco Solimena, richiedendogli tele con i propri ritratti.
Nel 1705 realizzò l’opera mitologica Diana e Endimione e nel 1709 l’affresco Trionfo della fede sull’eresia ad opera dei Domenicani per la volta della sagrestia della chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli.
Sviluppò la scena dividendola in tre ordini centralizzati: i personaggi rappresentati furono raffigurati in maniera disordinata, come se stessero vivendo un momento caotico in cui sta trionfando la Fede e si sta consumando la caduta degli eretici.
Nel 1710 fu l’anno della tela dal tema biblico Rebecca al pozzo, con l’episodio tratto dal Libro della Genesi. La tela rimarcava l’episodio in cui il servo di Abramo, Eliezer, cerca una sposa per Isacco e la scelta ricade proprio su Rebecca; il pittore scelse di raffigurare i personaggi con abiti contemporanei e su una scena del quotidiano di inizio ‘700.
Il decennio successivo fu caratterizzato da un ritorno al tema sacro, in particolare quello mariano: le Madonne con Bambino si caratterizzarono per le iconografie estremamente delicate, con toni caldi e figure morbide, come la Madonna con Bambino del 1720. Tra il 1722 e il 1723 realizzò la pala San Filippo Neri intercede con la Madonna e il Bambino per la città di Torino e, negli anni 1725-1730, la tela Madonna e Bambino con San Mauro.
Continuavano intanto le committenze per i ritratti reali, come dimostra l’opera L’Imperatore Carlo VI e il Conte Althann Gundacher, del 1728.
Probabilmente eseguita nel 1729[13] è la Deposizione commissionata al pittore dal principe Eugenio di Savoia.
Nel 1730 realizzò la tela Rebecca lascia la casa del padre e nel 1732 lavorò al ritratto del principe Diego Pignatelli d’Aragona.
L’anno successivo gli fu commissionata l’Annunciazione per la Chiesa di San Rocco a Venezia, in occasione di un grande restauro che interessò la struttura.
Dal 1734 e fino al 1738, lavorò incessantemente al Palazzo Reale di Napoli, per la corte dei Borbone, partecipando anche alla decorazione dell’appartamento del piano nobile, lavori che furono ordinati per le nozze di Carlo di Borbone[14] con Maria Amelia di Sassonia. Successivamente, negli anni 1739-41, sebbene anziano, si dedicò alla realizzazione della grande tela Enea si presenta a Didone.
L’architettura
La naturale inclinazione al disegno e l’inserimento di elementi architettonici all’interno dei suoi dipinti sono, probabilmente, alla base del suo essere anche un architetto. La sua figura in qualità di architetto[15] non è particolarmente nota anche se di sua mano sono i disegni per il Palazzo Solimena a Napoli, la villa in cui visse a Barra e, soprattutto, diede un notevole contributo per la realizzazione delle ville del Miglio d’oro[16], in particolare Villa Campolieto ad Ercolano, realizzata da Mario Gioffredo, suo allievo. Realizzò anche disegni preparatori per altari.
La ‘bottega’ di Solimena e i suoi allievi
Francesco Solimena non ebbe una vera e propria bottega poiché il suo fu piuttosto uno studio pittorico ubicato all’interno della sua villa; ciononostante ebbe numerosi allievi. Egli, infatti, credeva molto nell’insegnamento non solo dell’arte pittorica, ma di tutte le arti poiché riteneva che la pittura fosse subordinata sia alla scultura che all’architettura, sebbene rimanesse quasi esclusivamente un pittore. La sua grandezza nell’arte pittorica e il rispetto per le altre forme d’arte, fecero sì che dai suoi insegnamenti traesse forma anche la scuola scultorea napoletana che fiorì proprio in quei decenni.
Gli ultimi giorni
La quantità di committenze ricevute fece di lui un uomo estremamente ricco; l’amore per l’arte pittorica lo portò a dipingere fino alla fine dei suoi giorni. Il grande artista si spense a Barra[17] il 5 Aprile 1747 nella sua villa che disegnò e costruì e presso la quale aveva il suo studio[18]. Le sue spoglie oggi sono conservate ancora a Barra, nella chiesa domenicana di Santa Maria della Sanità.
Il 5 Aprile del 1997, nel duecentocinquantesimo anniversario della sua scomparsa, la circoscrizione del quartiere Barra gli ha dedicato una targa commemorativa a nome del comune di Napoli e dell’ordine dei Domenicani.
Conclusioni
Erede della pittura di Luca Giordano, Solimena rappresenta da un lato il punto di arrivo della scuola pittorica napoletana, che aveva visto la luce negli anni in cui era presente in città il Caravaggio, e dall’altro il punto di partenza della sua internazionalità, fatta non più di pittori che lasciano la città alla volta delle corti straniere, ma di tele realizzate in città e spedite all’estero.
Così come per Luca Giordano, anche per Francesco Solimena è tuttora difficile una catalogazione definitiva delle sue opere data la vastità del suo catalogo ricco e che si arricchisce sempre più spesso.
La sua vita e il suo lavoro, infatti, furono un tutt'uno: la sua fu una “formazione continua”, sempre alla ricerca di armonie cromatiche; uno studio dell’arte pittorica organizzato e destinato alla realizzazione di un vero e proprio perfezionismo artistico; le sue opere furono molto apprezzate a Napoli ma anche alle corti presenti sull’intera penisola italiana e all’estero.
La sua committenza fu esigente, raffinata ed elegante, così come raffinati ed eleganti furono i protagonisti delle sue opere e così come fu egli stesso: nei suoi autoritratti si rappresentò come un uomo colto, raffinato ed elegante. Certamente trasportò sulla tela, tramutandole in pittura, queste stesse qualità, accentuate dai colori brillanti del Barocco trionfante.
Note
[1] Angelo Solimena si era formato presso la scuola di Luca Giordano.
[2] Franceso De Maria era un seguace tardivo della scuola bolognese dei Carracci e aveva fondato un’accademia in città.
[3] La tela è andata perduta.
[4] Oggi la tela si trova al Gemaldegalerie di Berlino.
[5] Tela oggi perduta.
[6] La tela non è più nella collocazione iniziale poiché è stata estremamente compromessa durante i diversi rifacimenti subiti dal complesso Donnaregina
[7] Quest’ultimo operante spesso all’interno delle stesse chiese in cui il Solimena lavorava.
[8] Le tematiche dell’Accademia richiamavano tematiche della storica regione della Grecia, legate ai pastori e nel genere letterario a mondi e tematiche idilliache.
[9] Oggi all’interno del palazzo vi è una scuola media statale di I° grado.
[10] L’affresco è datato agli anni immediatamente successivi la fondazione dell’Accademia dell’Arcadia per la scelta iconografica.
[11] L’Anno Santo venne proclamato da Papa Innocenzo XII, ma poiché il Pontefice venne a mancare fu chiuso da Papa Clemente XI nel gennaio del 1701.
[12] Il disegno preparatorio è conservato al British Museum di Londra.
[13] L’opera è stata datata al 1729 grazie allo studio di documenti d’archivio, ma la datazione resta incerta.
[14] Carlo III di Borbone di Spagna nel 1734 aveva conquistato il regno di Napoli e divenne re di Napoli e del regno delle due Sicilie semplicemente col nome di Carlo senza aggiungere numerazione alcuna.
[15] Il lavoro di architetto fu limitato alla realizzazione di disegni, mai alla costruzione.
[16] Il Miglio d’oro è un tratto di strada lungo un miglio, nel quale sono presenti diverse ville realizzate nel corso del ‘700. È detto “d’oro” proprio per la bellezza che le caratterizza. Oggi l’insieme delle ville dell’area è curato dalla Fondazione Ville Vesuviane.
[17] Ai tempi del Solimena, l’area di Barra era poco fuori la città di Napoli. Oggi è un quartiere del capoluogo campano.
[18] La villa è andata perduta durante un bombardamento della Seconda guerra mondiale.
Bibliografia
Vincenzo Pacelli, La pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, Napoli Ed. Scientifiche Italiane, 1996, pp. 8, 149-156.
Sitografia
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https://museosandomenicomaggiore.it/sagrestia-affresco-solimena-museo-san-domenico-maggiore/ consultato il 20/06/2022
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https://progettocultura.intesasanpaolo.com/patrimonio-artistico/opere/agar-e-ismaele-nel-deserto-confortati-dallangelo/ consultato il 22/06/2022
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https://www.palazzomadamatorino.it/en/node/25210 consultato il 23/06/2022
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https://news-art.it/news/francesco-solimena-ed-eugenio-di-savoia--precisazioni-sulle.htm consultato il 23/06/2022
Laureata nel 2006 presso l'università di Napoli "Federico II" con 100/110 in Storia * indirizzo storico - artistico. Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.
Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it
CARLO DOLCI
A cura di Luisa Generali
Sebbene si pensi che l’apice dell’arte fiorentina sia principalmente relativo al periodo del Rinascimento, anche nel Seicento la città di Firenze vive un momento di grande splendore, riportato all’attenzione della critica e del pubblico solo nel secolo passato grazie alle ricerche di grandi studiosi che hanno realmente “riscoperto” un periodo storico-artistico quasi del tutto dimenticato.
Lambita solo in parte dalle novità del Barocco romano, la scuola fiorentina progredì sulla scia di un certo rigore ancora strettamente legato agli insegnamenti della tradizione e ai grandi maestri della Controriforma: tocca la vetta più alta di questo momento artistico Carlo Dolci (1616-1686), considerato uno dei maggiori esponenti del Seicento fiorentino in pittura, che iniziò la sua formazione nella bottega di Jacopo Vignali, a sua volta maestro tra i capifila dello stile controriformato in ambito toscano, e grazie al quale entrò subito nelle grazie della famiglia Granducale dei Medici.
Fanno parte dei primi lavori documentati di Carlo Dolci i ritratti di Stefano della Bella e Fra' Ainolfo de' Bardi (fig.1-2), personaggi protetti dei Medici, oggi rispettivamente alla Galleria Palatina e agli Uffizi, entrambi realizzati dall’artista in precocissima età. Dai dipinti emerge già la piena padronanza della tecnica pittorica nell’uso del colore e nella modulazione delle luci e delle ombre, carattere distintivo del pittore anche nella sua fase più matura. Oltre all’indagine psicologica che emerge dai volti dei due personaggi in un atteggiamento naturale e al contempo nobile e fiero, che li esalta nel loro ruolo di protetti della famiglia Granducale, si nota inoltre una peculiare attenzione ai dettagli che già spiccano nei particolari delle vesti.
Tra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento va consolidandosi quello che sarà l’impronta stilistica propria del Dolci, che si specializza nella rappresentazione in prevalenza di soggetti religiosi-devozionali a figure singole o con pochi personaggi, caratterizzati nelle forme da una poetica dolcezza: al contempo la tecnica dell’artista si affina privilegiando una materia pittorica densa a colori smaltati che negli incarnati raggiunge il nitore dell’alabastro. Tra le tante raffigurazioni sacre che hanno per soggetto la Madonna col Bambino (fig.3), e che fanno parte del catalogo attribuito al pittore, portiamo come esempio l’opera conservata al Musée des Beaux-Arts di Houston datata agli anni Trenta, in cui emergono i tratti distintivi della maniera del maestro: bellezza eburnea, atteggiamento raccolto e affettuoso, attenzione scrupolosa ai dettagli, il tutto purificato da una pellicola pittorica impeccabile.
Tra i dipinti più noti ricordiamo il ciclo dedicato alle Virtù di cui fanno parte La Carità di Palazzo Alberti a Prato e La Pazienza, in collezione privata, (fig.4-5), opere a figure singole caratterizzate da una meticolosa attenzione alla perfezione dell’immagine, in cui la fervente spiritualità espressa dai volti languidi delle allegorie inizia a volgere piuttosto verso un intenso pietismo. Le espressioni estatiche delle Virtù sono accompagnate dagli attributi, più celati nella raffigurazione della Pazienza, avvolta da un rigoglioso panneggio violetto ed incatenata ad una roccia in attesa della sua liberazione, mentre appaiono platealmente esibiti nella Carità, nell’atto di allattare un neonato e di mostrare al riguardante un cuore ardente.
Arrivata la sua fama fino in Inghilterra, appartiene alla Royal Collection of the United Kingdom una delle opere più rappresentative del Dolci: Salomè con la testa di Battista (fig.6). La scena è completamente focalizzata sulla figura femminile di Salomè, candida quanto spietata mentre mostra sul piatto la testa del Santo. Spicca sullo sfondo scuro, che isola la scena, il ricco abito blu indossato dalla giovane insieme ai preziosismi gioielli: uno splendore che contrasta terribilmente con la macabra scena del martirio appena avvenuto.
Ricalca un’impostazione simile ma con protagonista un personaggio biblico maschile anche David con la testa di Golia (fig.7), opera conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano: calato nel contesto paesaggistico dove è avvenuto lo scontro, l’eroe posa fieramente mostrando la spada e il suo trofeo con ancora il sasso in mezzo alla fronte del gigante. Dolci prosegue sulla scia della mitizzazione di David, già esaltata in pittura e scultura da precedenti illustri, per cui la bellezza del giovane vincitore diventa metafora di forza e coraggio; così anche l’abbigliamento diventa un pretesto per nobilitare il suo valore, ammantato da una veste arancio arricchita di particolari, tra cui emerge la resa materica decisamente naturalistica della bisaccia in pelle maculata.
A proposito dell’attenzione del pittore verso la natura, si trova proprio a Firenze alla Galleria degli Uffizi la tela raffigurante Vaso di fiori e bacile (fig.8), che testimonia la straordinaria capacità di Carlo Dolci di cimentarsi anche nella nature morte ed in particolare nei ritratti floreali. L’opera, commissionata dal cardinale Giovan Carlo de’ Medici nel 1662, fu realizzata con lo scopo di riprodurre fedelmente ogni fiore con una precisione botanica esemplare, a cui il pittore, oltre al fine estetico, unì anche un significato morale paragonando il rigoglio dei fiori e la loro fragilità al destino della vita umana, come raffigura il tulipano appassito caduto sul tavolo. Ancora una volta quest’opera formalmente perfetta conserva lo stile del maestro all’apice della consacrazione, che non manca mai di particolareggiare i suoi soggetti con un tocco di eleganza e sontuosità data spesso dalla verosimiglianza delle stoffe e dei materiali: la tovaglia in velluto rosso, il bacile smaltato bianco (forse porcellana) e il magnifico vaso dorato e cesellato a motivi decorativi con al centro lo stemma della famiglia Medici.
È del 1663 un’altra celebre opera di Carlo Dolci, Gesù bambino con una ghirlanda di fiori (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza), la cui fortuna iconografica ha contribuito notevolmente a intensificare il culto proprio di questa tenera immagine del Redentore fanciullo (fig.9). La scena presenta Gesù all’età di circa sei anni seduto sui gradini d’ingresso ad un giardino, mentre sembra accogliere chi guarda esibendo una ghirlanda di fiori. Il soggetto, non particolarmente frequente prima del Dolci, si presta a varie letture simboliche, tra cui l’esortazione a cogliere le virtù cristiane, ognuna delle quali espresse dai fiori che compongono la ghirlanda: un’altra interpretazione, più devozionale, potrebbe invece indicare l’invito di Gesù a varcare le porte del Paradiso per quelle anime prossime al trapasso che vengono accolte dal volto rassicurante del Bambino.
Chiude questa rassegna dedicata a Carlo Dolci la Santa Cecilia conservata a Dresda (Gemäldegalerie) e datata al 1671, opera tra le più identificative della maniera dell’artista nonché una delle più riprodotte successivamente in copie e riproduzioni (fig.10). La composizione vede la Santa nei canoni tipici della bellezza dolciana, colta di profilo mentre suona l’organo: questo attributo identifica e accompagna l’iconografica di Cecilia, nobildonna romana e martire cristiana votata alla musica e per questo proclamata patrona dei musicisti. Il primo piano sul volto della donna e sullo strumento è contestualizzato in uno spaccato di vita quotidiana, in un ambiente sobrio e raccolto, rafforzando così lo scopo votivo dell’opera che si prestava ad essere adorata soprattutto in ambito domestico: proprio questa immediata e facile lettura ha permesso la fortuna delle opere di Dolci che incontrarono il gusto degli artisti e dei fedeli nei secoli avvenire. Anche in questo caso, oltre alla bellezza incantevole della Santa, è protagonista indiscusso il suo abito tessuto da sfarzose stoffe, mentre un velo leggero che le copre le spalle va a chiudersi sul petto da una spilla-gioiello, altro dettaglio abituale nella produzione del pittore. Contribuiscono alla grazia della scena anche i gigli bianchi posati sulle ginocchia di Cecilia, i dettagli lignei decorativi dell’organo, e il drappo rosso utilizzato per proteggere lo strumento, in questo caso raccolto di lato a ornamento dell’ambiente.
Acclamato come il più grande pittore del Seicento fiorentino, Carlo Dolci supera il suo tempo prendendosi il merito di aver dettato i canoni e i modelli di un vero e proprio genere devozionale che ha ispirato generazioni di artisti alle prese con il tema del sacro.
Bibliografia
Carlo Dolci, 1616 – 1687, Catalogo della mostra a cura di Sandro Bellesi e Anna Bisceglia, (Palazzo Pitti, Galleria Palatina, 30 giugno - 15 novembre 2015), Livorno 2015.
Francesco Saracino, Il bambino in paradiso: Carlo Dolci e l’immaginazione devota, in Gregorianum, 101,2 (2020), pp. 445-466.
Francesca Baldassari, La collezione Piero ed Elena Bigongiari: il Seicento fiorentino tra "favola" e dramma, Milano 2004.
Sitografia
Biografia Carlo Dolci: https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-dolci_%28Dizionario-Biografico%29/#:~:text=Figlio%20di%20Andrea%20e%20di,(pubblicata%20postuma%20nel%201728)
Sul ritratto di Ritratto di fra’ Ainolfo de Bardi: https://www.uffizi.it/opere/ainolfo-de-bardi
Natura morta Vaso di fiori e bacile: https://www.uffizi.it/opere/dolci-fiori-bacile
Sono nata a Empoli (FI) nel 1991, e dopo aver vissuto per qualche anno a Vinci, sono residente da tempo a San Miniato (PI). Ho studiato storia e tutela dei beni culturali per poi proseguire conseguendo la laurea in storia dell´arte all´Università degli di Studi di Firenze con una tesi in arte moderna. La mia passione per le arti figurative e la cultura in senso lato mi porta ad essere spesso curiosa, andando alla ricerca di meraviglie e splendidi capolavori, anche negli angoli meno pensati.
Per storia dell´arte sono la referente della regione Toscana.
Email: [email protected]
LUCIO FONTANA: A METÁ TRA DUE CONTINENTI
A cura di Denise Lilliu
Una vita tra Italia e Argentina
Lucio Fontana è stato senza dubbio uno dei più grandi artisti della storia dell'arte contemporanea, non solo italiana. Fontana nacque nel 1899 a Rosario di Santa Fe, in Argentina, da genitori di origine italiana – il padre lavorava come scultore mentre la madre era un’attrice – che vivevano lì da circa dieci anni.
All'età di sei anni, Lucio si trasferì in Italia dagli zii per intraprendere il percorso scolastico. Dopo aver ottenuto la licenza elementare, proseguì frequentando un istituto tecnico, cominciando un apprendistato e avvicinandosi contemporaneamente alla scuola dei maestri edili dell'Istituto tecnico Carlo Cattaneo di Milano. Nel 1916, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Fontana fu costretto ad abbandonare gli studi, arruolandosi nell’esercito che abbandonò due anni dopo – nel 1918 – dopo essere rimasto ferito in battaglia. Tornato a Milano, l’artista decise di proseguire gli studi, riuscendo a diplomarsi come perito edile. Il 1921 fu invece l’anno del ritorno in patria. A Rosario iniziò a lavorare nello studio del padre, e ad avvicinarsi alla scultura. Dopo essersi messo in proprio, nel 1927 Fontana partì nuovamente alla volta di Milano, dove cominciò a studiare presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Al 1930 risale la sua prima mostra, nonché la partecipazione alla diciassettesima edizione della Biennale di Venezia, che lo vide protagonista con due opere scultoree, Eva e Vittoria fascista.
Alla prima stagione milanese fa seguito il trasferimento a Parigi, attorno alla metà degli anni ’30. Nella capitale francese Fontana aderì al gruppo Abstraction-Creation, realizzando molte sculture dal taglio espressionista in bronzo e in ceramica. Dal 1935 al 1939, poi, intraprese un percorso da Ceramista presso la manifattura dell’amico Giuseppe Mazzotti ad Albisola, prima di effettuare un altro viaggio in Argentina (1940), motivato dalla partecipazione al concorso per il Monumento Nacional a la Bandera. Allo stesso periodo risale la redazione del Manifiesto Blanco, in cui Fontana, coadiuvato da altri artisti, mise nero su bianco la volontà di superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica.
Nel 1947 l’artista fece nuovamente ritorno in Italia, ad Albisola, riprendendo la sua attività di ceramista, entrando in contatto con artisti come Giorgio Kaisserlian, Beniamino Joppolo e Milena Milani, firmatari, con lui, del Manifesto dello Spazialismo. La premessa dello Spazialismo, come esplicitato dalla seconda stesura del Manifesto (1948), andava ricercata nella volontà di superare l’arte del passato, di far uscire il quadro dalla cornice e la scultura da una sorta di “campana di vetro” con l’obiettivo di creare nuove forme d’arte, originali e alternative rispetto ai modelli precedenti.
Il 1949 è l’anno in cui Fontana inizia ad approfondire la sua personale ricerca pittorica; nella serie dei Buchi – presentati per la prima volta nel 1952 in occasione della mostra Arte Spaziale, alla Galleria del Naviglio – egli aggiunse, in seguito all’intervento cromatico vero e proprio, dei fori sulla superficie, eseguiti con un punteruolo. L’anno successivo fu il turno di un altro concorso, quello preliminare alla realizzazione della quinta porta del Duomo di Milano, indetto dalla fabbrica del Duomo stesso. Nel 1950 e nel 1951 nascono rispettivamente il terzo e il quarto Manifesto dell’Arte Spaziale, che coinvolgono altri artisti (Anton Giulio Ambrosini, Giancarlo Carozzi, Roberto Crippa, Mario De Luigi, Gianni Dova, Virgilio Guidi, Beniamino Joppolo, Milena Milani, Berto Morucchio, Cesare Peverelli, e Vinicio Vianello), mentre il 1952 – anno in cui Fontana si unì in matrimonio con Teresita Rasini – vide la nascita del Manifesto Spaziale per la Televisione. Il sodalizio di Fontana con il nuovo medium venne confermato dalla partecipazione in trasmissioni sperimentali della Rai di Milano.
Chiusa la stagione dei Buchi, Fontana intraprende il ciclo delle Pietre, con cui crea la serie dei Barocchi e dei Gessi. Nel 1958, invece, i tempi sono maturi per la serie più iconica del maestro argentino, ovvero quella dei Tagli, presentati per la prima volta in una personale – anche questa alla Galleria del Naviglio – del 1959, prima di essere esposti in altre occasioni a San Paolo, a Parigi, Roma, Dusseldorf, Londra e Kassel.
Due anni dopo è la volta della prima mostra in terra americana, esponendo i suoi lavori alla Martha Jackson Gallery di New York, inaugurando – sempre nello stesso anno – una nuova tipologia di lavori in metallo, delle lamiere squarciate e tagliate in superficie. A cinque anni dalla prima personale americana, nel 1966, il successo di Fontana è tale da renderlo il protagonista di due grandi esposizioni americane (Walker Art Center di Minneapolis, Marlborough Gallery di New York) e di una mostra alla Galleria Alexander Jolas di Parigi. Nello stesso anno, Fontana viene omaggiato anche in Italia, e in occasione della trentatreesima edizione della Biennale di Venezia, a due anni dal clamoroso trionfo di Robert Rauschenberg e della Pop americana, Fontana ottiene una sala personale, l’Ambiente Ovale allestito insieme a Carlo Scarpa.
Nel 1968 Fontana si trasferì a Varese, dove morì, all’età di sessantanove anni, il 7 settembre, lasciando un patrimonio artistico di indiscusso valore, oggi presente in più di cento musei in tutto il mondo.
L’arte di Lucio Fontana
Fontana è un autore di un'opera poliedrica, diversa, che varia nei contenuti, nelle forme che di primo acchito sarebbe anche difficile da attribuire ad un unico artista. La sua opera pare racchiudere più artisti ma è anche vero che questa fu molto condizionata dalla dittatura fascista, perché la politica culturale del regime portò già nel 1922 all'organizzazione degli artisti in sindacati fascisti di Belle Arti, e l'adesione a questa organizzazione era il presupposto per la partecipazione alle mostre nazionali e internazionali. Allo stesso tempo, il regime promuoveva una massiccia attività artistica attraverso l'attribuzione di premi e incarichi pubblici. In seguito, la ricerca spazialista di Fontana iniziò a voler proiettare la forma e il colore nello spazio, servendosi in particolare delle celebri tele che venivano completamente graffiate o squarciate, come quelle che compongono la serie di concetto spaziale e attese. Quello di Lucio Fontana è, assieme a quello di altri autori, uno degli esempi più eloquenti di come talvolta il nome di un artista vada a legarsi in maniera esclusiva a un gesto, in questo caso Il buco o il taglio, concepito da un presupposto fondamentale: Fontana, infatti, considerava la carta come una materia plastica, dalle potenzialità spaziali rimaste ancora esplorate. A partire dalla realizzazione dei primi Buchi, infatti, tutte le sue opere recano il titolo di concetto spaziale.
I buchi erano di varie dimensioni, ornamentali o disposti a caso, davanti o sul retro del quadro. Spesso, poi, l'effetto spaziale era forzato dall'inserimento di lustrini o frammenti di vetro colorato. I buchi furono una tarda scoperta del suo lavoro, infatti furono realizzati quando lui aveva già cinquant'anni e aveva alle spalle una carriera di più di 20 anni trascorsi perlopiù come scultore.
Lo Spazialismo
Verso il 1947, Fontana lanciò lo spazialismo, una corrente artistica che faceva proprie le idee del Futurismo. Il raggio d'azione di questo gruppo era circoscritto al Nord Italia. Radicato nel Futurismo, come già anticipato, questo movimento faceva parte di quell’insieme di fenomeni artistici del dopoguerra per cui Peter Burger arrivò a coniare il termine di Neoavanguardia.
Fontana allestì il suo primo ambiente spaziale nel febbraio del ’49, alla galleria del Naviglio di Milano. L’impressione sembrava essere quella di una grotta, dove la luce violacea rendeva l’atmosfera complessiva particolarmente spettrale. Non c'erano confini e tutto riportava alle zone dell'inconscio. Anche le pareti della galleria erano nere. Dal soffitto, inoltre, pendeva un allestimento di elementi tondeggianti in cartapesta, dipinti con colori fluorescenti. L’ illuminazione della stanza con i raggi ultravioletti faceva risaltare come lampi nel buio le forme dipinte. Per l'installazione al neon, Fontana trasse ispirazione da una fotografia pubblicata nella rivista AZ arte d'oggi. Essa ritraeva Picasso intento a praticare il light painting, a tracciare in aria le linee di un disegno, grazie alla luce di una lampadina tascabile.
Il manifesto tecnico dello Spazialismo riprese, altresì, la questione tipicamente barocca della rappresentazione di tempo e spazio, e l'esemplarità tutta futurista del dinamismo plastico.
Bibliografia
Barbara Hess, Fontana, Taschen, 2017.
Sitografia
Fondazione Lucio Fontana - Home, consultato il 24/08/22 e 31/08
Sono nata a Cagliari, nel Sud Sardegna. La mia passione per la Storia dell‘arte é nata solo recentemente, quando frequentavo le superiori.
Ora frequento il terzo anno di Beni culturali e spettacolo all’università di Cagliari, di preciso seguo il percorso Storico Artistico e mi sento legata particolarmente alla Storia dell‘arte contemporanea. Amo la fotografia e ho deciso di aderire al progetto per dare maggior risalto in termini di ricerca e immagine al patrimonio che offre la mia regione.
Per il progetto Discovering Italia ricopro il ruolo di redattrice per la regione Sardegna.
GIANLORENZO BERNINI
A cura di Federica Gatti
Mentre il Cinquecento è stato il secolo della riforma luterana e del manierismo, il Seicento è stato quello della Controriforma cattolica e del barocco. In questo clima di cambiamenti la Chiesa individuò come strumento principale per la diffusione dei nuovi dogmi l’arte, la quale assunse un ruolo di maggiore importanza.
Era necessario che l’arte seicentesca avesse la forza necessaria ad imporsi, penetrare le coscienze, sedurre, commuovere, ma soprattutto suscitare sentimenti. La soluzione fu quella di guardare al teatro come all’esempio più persuasivo: si venne a creare una rete di scambio reciproco tra le singole arti, fino a che la forma, ovvero l’ornamento, non ebbe il sopravvento sulla funzione, ovvero la struttura.
Fu proprio in questo nuovo clima artistico che crebbe Gian Lorenzo Bernini.
Nato a Napoli nel 1598, Gian Lorenzo si trasferì a Roma con il padre Pietro, artista che aveva già lavorato a Firenze, a Roma e in Campania e che nel 1606, con l’elezione al pontificato di Paolo V Borghese, decise di lasciare Napoli per trasferirsi la città eterna. Proprio in questi anni Gian Lorenzo iniziò ad assistere all’evoluzione stilistica del padre, ancora radicato alla tradizione rinascimentale toscana, ma attento alle innovazioni conseguenti la riforma cattolica. Questa collaborazione precoce con il padre permise a Gian Lorenzo di consolidare la sua padronanza tecnica, riscontrabile già nelle sue prime opere come la Capra Amaltea con Giove bambino e un fauno, databile tra il 1609 e il 1615: in questa opera si può riscontrare come la sua attività fosse orientata verso una riscoperta della realtà.
Fondamentale fu anche il precoce avvicinamento ai cantieri artistici: imparò fin da subito l’importanza di fondere architettura, scultura e pittura, ma anche l’importanza dell’organizzazione di una bottega e la capacità di delegare. Influente punto di riferimento artistico fu anche la pittura contemporanea, come ricorderà lo stesso Bernini, soprattutto quella di Annibale Carracci e Guido Reni. Bernini non esercitò molto questa pratica artistica, anche se è importante sottolineare come la novità delle sue esigue pitture non sia riscontrabile nel tema o nel motivo, ma piuttosto nel modo in cui venivano elaborate:
«Che nel ritrarre alcuno non voleva che ei stesse fermo, ma ch’eri si muovesse e che ei parlasse perché in tal modo, diceva egli, che si vedeva tutto il suo bello e lo contraffaceva come egli era […] asserendo che, nello starsi al naturale immobilmente fermo, egli non è mai tanto simile a se stesso quanto egli è nel moto, n cui quelle qualità consistono che son tutte sue e non di altri e che danno la somiglianza al ritratto» [1].
Questa tecnica descritta dal Baldinucci può essere rilevata in una delle sue prime incursioni nel campo della pittura, l’Autoritratto databile al 1623 e conservato alla Galleria Borghese, ma anche nei busti marmorei, i quali non vennero più presentati frontali.
In quest’opera il punto di vista è molto ravvicinato, come se il protagonista si stesse voltando all’improvviso verso lo spettatore. L’attenzione viene posta sullo sguardo teso dell’artista, grazie anche all’uso sintetico ed economico dei colori e della luce [2].
Ad eccezione delle poche opere dipinte, il pittoricismo innato in Gian Lorenzo si rivelò anche nelle opere architettoniche e scultoree, sia per la varietà di toni chiaroscurali, sia per la tendenza al cromatismo.
Le sue qualità artistiche attirarono l’attenzione di amatori d’arte come Maffeo Barberini o il cardinale nipote Scipione Caffarelli Borghese, e la sua fama lo portò a diventare il successore di Carlo Maderno nell’incarico di primo architetto della Fabbrica di San Pietro. Fu soprattutto durante gli anni del pontificato di Urbano VIII Barberini e di Alessandro VII Chigi che si venne a palesare l’aderenza dell’arte berniniana alle idee controriformistiche della Chiesa: portò avanti i piani urbanistici volti ad incrementare la grandiosità e la potenza della Chiesa stessa e si dedicò alle opere commissionate dai pontefici per l’esaltazione della loro personale magnificenza.
Nel 1627 Urbano VIII commissionò al Bernini la realizzazione del proprio sepolcro, che venne concluso tre anni dopo la morte del papa, nel 1647. Originariamente, il monumento doveva essere collocato nell’abside di San Pietro, di fronte al Monumento a Paolo III Farnese di Guglielmo Della Porta, istituendo un legame storico tra il pontefice del Concilio di Trento e Urbano VIII, intento a difendere il primato della Chiesa. Il modello di partenza per le figure è quello delle tombe medicee realizzate da Michelangelo nella basilica di San Lorenzo a Firenze; alle sue figure però il Bernini dona dinamicità e una varietà cromatica e delle pose.
La Carità e la Giustizia sono rappresentate in piedi appoggiate al sarcofago, sul quale svetta la figura bronzea del pontefice benedicente. Sopra alla tomba è posto uno scheletro alato, simbolo della morte, intento a scrivere il nome del papa sul libro nero a ricordare come la morte sia nel destino di ogni uomo, anche di un pontefice che possiede il potere assoluto [3]. La collocazione della Morte al centro del sarcofago recupera un’idea michelangiolesca, ma favorisce anche l’accordo di colore tra il marmo e il bronzo, riallacciandosi cromaticamente anche al Baldacchino e alla Cattedra. Si può dire che Bernini interrompa la tradizione dei monumenti funerari cinquecenteschi, realizzando monumenti completi grazie alla fusione delle varie arti, in cui il defunto viene rappresentato vivo e non più disteso sul sarcofago.
La supervisione dell’opera fu affidata al cardinale Angelo Giori da Camerino, di cui possiamo leggere il nome in un’iscrizione posta dietro la figura della Carità: ANGELI CARDINALI GIORII/ PROBATAE FIDEI AC SPECRATAE VIRTVTI/ SEPVLCHRALE HOC OPVU/ SIBI EXTRVENDVM MANDAVIT/ VRBANVS PP. VIII [4].
La realizzazione delle varie sculture, create partendo da modelli compiuti dallo stesso Bernini [5], venne affidata dalla bottega dell’artista. Nel 1647, quando l’opera venne parzialmente collocata in situ, Bernini si rese conto che il sarcofago era troppo sporgente rispetto alla navata, impedendo di trovare una giusta interazione con le figure delle virtù; lo fece quindi arretrate di circa 20 cm addossandolo al piedistallo, in modo che il colloquio tra il sarcofago e le virtù fosse più coerente.
Partendo da questo monumento funebre, l’artista ne realizzò uno per papa Alessandro VII, commissionatogli già durante i primi anni del suo pontificato, anche se alla morte del pontefice i lavori non avevano ancora avuto inizio. Il suo successore, Clemente IX Rospigliosi, avrebbe voluto collocare entrambi i sepolcri nel coro della basilica di Santa Maria Maggiore, ma a seguito della sua morte precoce il successore Clemente X Altieri decise invece di rispettare il desiderio di Alessandro VII di collocarli in San Pietro.
Il sepolcro del papa Chigi venne collocato al di sopra di un’apertura e Bernini utilizzò un drappo di diaspro per coprire l’architrave della porta sottostante. Lo scheletro che regge in mano la clessidra è la personificazione della Morte, mentre le virtù raffigurate a figura intera sono la Carità e la Verità; dietro si trovano invece Giustizia e Prudenza.
Al di sopra di un piedistallo verde è collocata la statua di Alessandro VII inginocchiato in preghiera [6]. Bernini, ormai ottantenne, elaborò il progetto e attuò un intervento di ritocco sul viso del papa, mentre il resto del monumento venne realizzato dalla sua bottega [7].
Per realizzare questo monumento funebre l’artista, come anticipato, parte dal modello del sepolcro di Urbano VIII, ma ne moltiplica l’effetto teatrale che nell’altra tomba è relegato alla morte vivificata: qui le virtù assistono, assieme a noi, alla preghiera del pontefice alla sommità del monumento. Inoltre, tutte le figure sono unificate dal drappo in diaspro che in parte le copre e che è da considerare come una soluzione che costituisce l’elemento sorpresa e teatrale.
La fusione di architettura, scultura e pittura, una tendenza tipicamente barocca che venne perseguita da Bernini fin dalle prime opere [8], è esemplificata nella Cappella Cornaro nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, dove si assiste ad una vera e propria rappresentazione teatrale.
Quest’opera venne realizzata da Bernini all’interno della chiesa di Santa Maria della Vittoria negli anni dal 1647 al 1652, periodo in cui l’artista si dedicò prevalentemente a commissioni private poiché Innocenzo X Pamphilj prediligeva Francesco Borromini. L’Estasi di Santa Teresa venne collocata in una nicchia sopraelevata e, ai due lati della cappella, vennero posti due rilievi nei quali furono ritratti i membri della famiglia committente, identificati come veri e proprio spettatori dell’estasi assieme ai visitatori.
Riprendendo un passo scritto dalla stessa Santa Teresa - «anima mia si riempiva tutta di una gran luce, mentre un angelo sorridente mi feriva con pungente strale d’amore» - Bernini rappresenta la santa accasciata su una coltre di nuvole con le vesti scomposte, la bocca socchiusa e le palpebre abbassate, mentre un angelo sorridente tiene in mano una freccia che sta per scagliarle addosso.
Il gruppo, realizzato a partire da un unico blocco di marmo, è illuminato dalla luce proveniente da un oculo posto sulla cupola della cappella, risaltata dai raggi dorati posti dietro le due figure.
Come precedentemente accennato, sulle pareti laterali vennero realizzati due finti balconi in marmo nero e giallo dai quali sono rappresentati affacciati otto membri della famiglia Cornaro [9], che diventano i testimoni attivi dell’estasi della santa. L’obiettivo è quello di creare un’opera totale: le sculture, infatti, sono collegate tematicamente con gli stucchi e le pitture della volta, nella quale sono rappresentati episodi della vita della santa, in parte celati dalla gloria di angeli. La cappella Cornaro, impresa che costò oltre 12.000 scudi, rappresenta il culmine dell’idea berniniana di totalità e di integralità dell’arte: come scriveva Filippo Baldinucci: «il Bernino medesimo era solito dire […] essere stata la più bell’opera che uscisse dalla sua mano» [10].
Durante il pontificato di Alessandro VII Chigi, successore di Innocenzo X, Bernini portò avanti il progetto papale di abbellire e migliorare il tessuto viario della città: di questo progetto l’opera cardine fu la risistemazione di San Pietro e della piazza antistante la basilica.
Il Colonnato, che venne commissionato nel 1657, si compone di 248 colonne e 88 pilastri, disposti su quattro file. A coronamento della struttura vi è un architrave sormontato da una cornice marmorea, sopra la quale si innalza una balaustra dove sono collocate 140 statue di santi, martiri, papi, vescovi e fondatori degli ordini religiosi [11]. La struttura del colonnato ha una forma ad ellisse e si accosta alla basilica tramite due ali laterali divergenti: capovolgendo l’effetto prospettico, la facciata della basilica sembra più vicina e più grande.
Bernini stesso, riferendosi al colonnato, scrisse: «essendo San Pietro quasi matrice di tutte le chiese doveva haver un portico che dimostrasse di ricevere a braccia aperte maternamente i Cattolici per confermarli nella Credenza, gli Eretici per riunirli alla Chiesa, e gli infedeli per illuminarli alla vera fede». I due bracci del colonnato fanno infatti pensare a un abbraccio simbolico.
La struttura, come si vede in un’incisione seicentesca di Giovan Battista Falda, doveva essere completata da un’altra porzione di colonnato posta di fronte alla basilica, concludendo la forma dell’ellisse e lasciando aperti due passaggi non in asse con la facciata stessa. Questo stratagemma avrebbe portato il visitatore ad accorgersi gradualmente della grandezza della basilica e del colonnato stesso .
Le due ali del colonnato non sono una costruzione compatta, ma permettono un continuo collegamento tra la basilica e la città e creano visioni multiple: si ha, quindi, una concezione di spazio dinamico, in contrapposizione con la staticità rinascimentale. La novità principale apportata con quest’opera da Bernini sta però nell’aver concepito una macrostruttura simbolica che sottopone a una relazione tutti gli elementi che la circondano.
Nelle ultime sue opere la ricerca di Bernini si incentrò sulla rappresentazione emozionale dei soggetti per portare lo spettatore a commuoversi: questa caratteristica si può vedere nella Beata Ludovica Albertoni, antenata del principe Angelo Paluzzi Albertoni Altieri, nipote adottivo di papa Clemente X e committente dell’opera, realizzata a partire dal 1671 e collocata in una cappella laterale della chiesa di San Francesco a Ripa.
Per realizzare questo spazio teatrale Bernini parte dall’estasi della santa, sottoponendola però ad una vista a tutto tondo, collegando così il soggetto al quadro di Giovan Battista Gaulli, la Madonna con Bambino e S.Anna, e a due figure di santi affrescati. L’estasi è espressa con un maggiore patetismo e un’incontenibile passionalità: la Beata viene rappresentata nell’atto della morte, con il volto riverso e le labbra spalancate ad esalare l’ultimo respiro, stesa su un letto sul quale si riversano le pieghe della veste. Il forte panneggio riflette lo spasmo della beata e del suo trapassare. Il letto è collegato al pavimento grazie ad un drappo di diaspro colorato che crea un continuum visivo ma anche una variazione nel materiale e nei colori. Per ottenere il massimo effetto desiderato, Bernini rifece la cappella, creando quindi una luce che potesse partecipare e aumentare il dramma in atto. Attorno all’opera pittorica di Gaulli vennero posti dei putti cherubini in stucco, per creare un ulteriore movimento nella scena e nella luce.
Gian Lorenzo Bernini morì a Roma il 28 novembre del 1680.
Note
[1] F. Baldinucci, Vita del Cavaliere Gio Lorenzo Bernino scultore, architetto e pittore, Stamperia di Vincenzio Bangelisti, FIrenze, 1682.
[2] La pennellata viene definita dalla critica sintetica e incisiva come un colpo di scalpello e per questo possiamo trovare somiglianze tra i capelli dell’Autoritratto e quelli del Busto di Costanza Bonarelli (1636, Museo Nazionale del Bargello, Firenze).
[3] Nelle pagine del libro nero si scorgono le iniziali dei nomi appartenenti ai predecessori di papa Urbano VIII: la G di Gregorio XV Ludovisi e la P di Paolo V Borghese.
[4] «Alla provata fedeltà e alla sperimentata virtù del cardinale Angelo Giori, papa urbano VIII affidò la costruzione di questo suo sepolcro».
[5] Nei bozzetti relativi allo Studio per il monumento di Urbano VIII si nota come si siano applicate modifiche nella realizzazione delle virtù e nell'inserimento della Morte per risolvere il problema del sarcofago che nel bozzetto appare come troppo vuoto.
[6] In un disegno preparatorio il pontefice era inginocchiato davanti al sarcofago; ai suoi lati erano collocate delle figure che piangevano la sua morte mentre in alto era posto un angelo per celebrare la gloria del defunto.
[7] Realizzarono questa opera corale Michele Maille, Giuseppe Mazzuoli, Lazzaro Moerelli, Giulio Cartari, Carlo Baratta e Girolamo Lucenti.
[8] Quello che nel 1682 Filippo Baldinucci definì “bel composto”.
[9] Si tratta di sette cardinali, tra cui il committente Federico Cornaro e il doge Giovanni, padre di Federico.
[10] F. Baldinucci, Vita del Cavaliere Gio Lorenzo Bernino scultore, architetto e pittore, Stamperia di Vincenzio Bangelisti, FIrenze, 1682.
[11] Le gigantesche statue in travertino furono realizzate da un cantiere di 14 scultori berniniani diretti dallo stesso Bernini.
Bibliografia
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https://www.artesvelata.it/cappella-cornaro-estasi-santa-teresa/
https://www.geometriefluide.com/it/cappella-cornaro-bernini/
http://www.apicolturaonline.it/apeartebernini.pdf
https://metropolitanmagazine.it/gian-lorenzo-bernini/
Nata a Firenze nel 1995, ho conseguito la laurea triennale in Storia e tutela dei beni culturali e successivamente magistrale in Storia dell’Arte presso l’Università di Firenze.
La mia passione per la storia dell’arte e soprattutto per la storia dell’architettura, alla quale si va ad aggiungere la mia passione innata per la fotografia, nasce grazie alla mia professoressa di storia dell’arte del liceo. Per me l’arte è libertà in ogni sua sfaccettatura, libertà che spero di trasmettere a chi legge.
All’interno del progetto Storia dell’Arte sono redattrice per la regione Toscana.
EDITA BROGLIO
A cura di Marco Bussoli
Nella scelta compiuta da Anna Banti per scrivere Quando anche le donne si misero a dipingere tante dovettero essere le artiste escluse, per i più svariati motivi, come Artemisia Gentileschi, esclusa dall’autrice che già le aveva dedicato una monografia nel 1947; a chiusura del libretto viene però scelta un’artista, l’unica conosciuta personalmente dalla critica e storica, Edita Walterowna Zur Muehlen, che così viene descritta:
“Alta, fragile, il suo sorriso bianco sotto i capelli biondissimi aveva qualcosa di infantilmente incantato e anche di spontaneamente affabile.”[1]
Con estrema sintesi, Banti restituisce un ritratto preciso della scrittrice, oramai anziana, che chiusa nelle sue stanze non ha bisogno di mostrare i suoi quadri, che evoca col pensiero, nitidamente, lasciando impressionata la sua ospite.
Una vita europea
Nata a Smiltene, nell’odierna Lettonia, nel 1880 Edita Zur Muehlen resta nel suo paese d’origine fino ad inizio ‘900, quando, in seguito alla prima Rivoluzione russa, si trasferisce prima a Berlino e poi a Königsberg, dove studia per un breve periodo all’Accademia di belle Arti, che lascerà dopo un breve periodo per trasferirsi a Parigi.
Durante la breve permanenza parigina, a cavallo del 1910, la pittrice ha modo di avvicinarsi al vivace ambiente artistico della città che in quel momento era la principale fucina europea di nuove idee e di nuovi modi di fare arte. In questo momento, Edita è profondamente influenzata dalle avanguardie, soprattutto dalle opere del Blaue Reiter, e le sue opere testimoniano la vicinanza ad un astrattismo e un espressionismo che resteranno nelle sue opere fin dopo il suo trasferimento in Italia.
Proprio a Parigi la pittrice inizia ad accarezzare l’idea del viaggio in Italia, che si concretizza già dal 1912, decidendo poi di stabilirsi definitivamente a Roma. Già subito dopo il trasferimento a Roma inizia ad esporre le sue opere, comparendo alla mostra della Secessione romana nel 1913 con tre tele ed esponendovi nuovamente anche nel 1914.
Lo scoppio del conflitto mondiale porta Edita a chiudersi in se stessa, ad isolarsi e, in quegli anni, anche a smettere di dipingere. Nel 1917 avvenne però l’incontro fortuito con Mario Broglio, giovane pittore rivoluzionario, da cui non si separerà più.
I valori plastici dei Broglio
Quando i due si conoscono, Mario sta già lavorando al progetto di Valori Plastici, una rivista d’arte che ha la funzione di promuovere le idee del suo fondatore e di un ampio gruppo di pittori, come De Chirico, Savinio e Carrà. Edita si unisce al gruppo ed inizia a lavorare alla rivista, che verrà pubblicata a partire dal 1918.
Da inizio secolo le avanguardie avevano rappresentato un momento esplosivo per la produzione artistica europea; l’orrore del conflitto mondiale aveva però segnato enormemente molti dei suoi protagonisti, che si erano quindi appellati a quello che viene chiamato Ritorno all’ordine o, usando le parole di Mario Broglio, Ritorno al mestiere. Se la mira delle avanguardie era rivolta al futuro, il ritorno all’ordine guarda al passato, cercando di ritrovare nella pittura un momento di grande razionalità individuata soprattutto nella pittura del primo Rinascimento.
Il pregio che va riconosciuto a Valori Plastici di Valori è quello di essersi fatto portatore di un pensiero molto complesso e sfaccettato, ospitando le dispute teoriche che vedevano contrapposti i gruppi di De Chirico e Carrà. Il padrone di casa, poi, ebbe sempre un ruolo neutrale nella disputa, occupandosi soprattutto di critica, senza entrarvi nel merito. Nei quindici numeri pubblicati, Edita, che prese il cognome del compagno, ebbe numerose occasioni per presentare suoi quadri, soprattutto dipinti anteriori alla guerra, causando però il fastidio di Carlo Carrà in particolar modo. Ciò che il pittore non riusciva ad accettare, delle opere della Broglio, era il carattere astratto delle opere, il forte carattere espressivo.
Proprio in quel periodo, però, le riflessioni di Edita Broglio, perdurate per tutto il conflitto mondiale, vengono ad una sintesi, che la porta anche a riprendere la produzione di disegni e dipinti. Il modo di fare arte di Edita si asciuga, diventa più aderente alla realtà, meno espressionista ma con un carattere più trasognato anche nella scelta dei soggetti, una serie di vedute paesaggistiche dei borghi ciociari, come se questi fossero sospesi nel tempo e dello spazio. Pian piano questi modi più “plastici” si avvicinano sempre più alle opere di Morandi, spostando la sua produzione sulle nature morte.
La maniera chiara di Edita Broglio contraddistingue gran parte della sua produzione, soprattutto dopo la presentazione di queste opere con le altre di Valori Plastici. L’adesione alle forme più nette e solide, che contraddistinguevano il gruppo, trova però in Broglio una declinazione diversa, più lontana dalla realtà, che rende i suoi soggetti lievi, diafani, come se si svuotassero dal loro peso per incarnarne uno nuovo, simbolico. I gomitoli e Le bottiglie sono un esempio di questo modo di rappresentare ciò che la circonda, facendo perdere all’immagine il suo valore di realtà.
Edita Broglio ed il Realismo Magico
Proprio per le caratteristiche della pittura dell’artista italo-russa è impossibile parlare di Realismo Magico senza che essa venga citata in prima persona. Le opere che sotto questo nome vengono raggruppate sono tutte accomunate dall’essere solide, concrete, ma allo stesso tempo trasognate nello spirito, irreali, talvolta stranianti e sorprendentemente accurate, facendo emergere la soggettività celata nella realtà e rileggendola in concerto con l’ideale.
Tutti questi caratteri sono ben presenti nelle opere di numerosi pittori, come in quelle del marito, Mario Broglio, ma sono ancor più chiare nelle nature morte di Edita. Le scarpe, opera in cui l’artista riesce ad astrarre un suo ritratto, sono evidentemente studiate, ma allo stesso tempo lievi, quasi un tutt’uno con lo sfondo, affidando ai tipi di scarpe ed ai piccoli dettagli di fattura il racconto della propria soggettività.
Già a partire dalla metà degli anni ’20 questo tipo di pittura inizia a mutare nei colori e nelle forme, acquistando pian piano una solidità mai avuta. Già nei Carciofi, del 1926, le figure sono più solide e definite, ma nell’Autoritratto del 1938 si giunge definitivamente al culmine di questa ricerca.
Dipingendo sè stessa nel 1938, Broglio approda ad una concretezza mai posseduta, innanzitutto nel modo di rappresentarsi, usando dei contorni netti e ben evidenti, ma soprattutto utilizzando come sfondo una tarsia lignea, la cui decorazione spinge, in qualche modo, in fuori la figura umana. Se si analizza l’opera La Merenduola, dipinta oltre un decennio prima, ci si accorge come, non tanto la scelta di personificare nelle maschere teatrali sé e il marito, ma l’uso del colore e della luce, denuncino il nuovo approdo della poetica di Broglio.
Il secondo dopoguerra
Come durante il primo conflitto mondiale Edita Broglio smette di dipingere durante il secondo, chiudendosi in una riflessione che però rafforza le credenze acquisite nei precedenti decenni, radicando ulteriormente nel suo classicismo purezza ed equilibrio. Finita la guerra, Broglio riprende a dipingere, e, nel 1959, di esporre anche alla Quadriennale romana.
Nel 1967 viene coinvolta da Carlo Ludovico Ragghianti per partecipare ad Arte italiana 1915-1935, mostra tenutasi a Firenze che ne accresce ancor di più la fama. Da quel momento in particolar modo, sebbene anziana, Edita Broglio compare sempre più spesso nelle mostre italiane, sino al 1973, quando viene addirittura presentata con una testimonianza di Giorgio de Chirico.
Le foto dalla 2 alla 6 sono state scattate dal redattore
Bibliografia
Anna Banti, Quando anche le donne si misero a dipingere, Milano, Abscondita, 2011
Emanuele Greco, «Un culto della realtà compresa come specchio di umana trasfigurazione». Ragghianti e la riscoperta di Edita Broglio, 1967-1971, in Paolo Bolpagni, Mattia Patti (a cura di), Carlo Ludovico Ragghianti e l’arte in Italia tra le due guerre. Nuove ricerche intorno e a partire dalla mostra del 1967 “Arte moderna in Italia 1915-1935”, Atti del Convegno (Fondazione Ragghianti di Lucca, Università di Pisa) 14-15 dicembre 2017, Edizioni Fondazione Ragghianti Studi sull’arte, Lucca, 2020
Elena Pontiggia, Figure di artiste nel panorama italiano tra le due guerre, in Maria Antonietta Trasforini (a cura di), Donne d’arte, storie e generazioni, Roma, Meltemi editore, 2006
Renato Barilli, Dalla Metafisica agli anni Venti, in Renato Barilli, Franco Solmi (a cura di), La Metafisica, gli anni Venti. Volume primo, pittura e scultura, catalogo della mostra (Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna, maggio-agosto 1980), Grafis, Bologna 1980
Roberto Daolio, Edita Broglio, in Renato Barilli, Franco Solmi (a cura di), La Metafisica, gli anni Venti. Volume primo, pittura e scultura, catalogo della mostra (Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna, maggio-agosto 1980), Grafis, Bologna 1980
L. Parmesani, Edita Broglio, in Lea Vergine (a cura di), L’altra metà dell’avanguardia, 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, catalogo della mostra (Milano, Civico Museo d’Arte Contemporanea, 1980), Mazzotta, Milano 1980
Maurizio Fagiolo dell’Arco, Edita Broglio, in Maurizio Fagiolo dell’Arco (a cura di), Realismo magico: pittura e scultura in Italia, 1919-1925, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 16 febbraio – 2 aprile 1989), Mazzotta, Milano 1988
Sono nato a Termoli (CB) nel 1997 e dopo il liceo mi sono trasferito a Ferrara per studiare architettura. Sto per concludere il mio percorso con una tesi in Restauro dei monumenti, uno degli ambiti che più mi interessa, insieme alla storia dell’architettura e dell’arte. A ciò si aggiunge la mia passione per la lettura, abbracciando soprattutto opere otto-novecentesche e, nell’ultimo periodo, contemporanee. La mia adesione a questo progetto ha una precisa finalità: far conoscere la regione che non c’è: il Molise.
HENRI TOULOUSE - LAUTREC
A cura di Camilla Giuliano
Biografia
Simbolo di trasgressione e frequentatore di bordelli, bohémien, dipendente dall’assenzio e amante delle donne, è stato il più importante artista a cavallo fra Ottocento e Novecento.
Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Montfa nacque il 24 novembre del 1864 a Saint-André-du-Bois, di nobili origini, la sua famiglia fu una delle più illustri di Francia.
Primogenito dalla salute cagionevole, aveva inoltre i genitori consansanguinei [1], situazione che ebbe gravi conseguenze sullo sviluppo fisico di Lautrec, infatti, una malformazione ossea gli impedì la giusta formazione e lo sviluppo degli arti inferiori, facendo sì che non crescesse più di 1,52 metri [Fig. 1].
Da bambino si ruppe il femore sinistro cadendo nella sua casa ad Albi, a causa del pavimento male incerato e pochi mesi dopo si ruppe la gamba destra.
Le ferite, che non guarirono mai del tutto, si aggiunsero alla già presunta malattia, picnodisostosi [2] (conosciuta come sindrome di Toulouse) determinata da un difetto genetico dovuto alla comunanza di sangue dei genitori. Il piccolo Lautrec venne sottoposto a frequenti cure termali che si rivelarono fallimentari.
Con gli anni il pittore imparò a celare le sue malformazioni fisiche: non faceva mai a meno del cappello rigido, forse per nascondere la non chiusura delle fontanelle craniali, del suo bastone e della barba folta, che mitigava l’aspetto della mandibola.
L’artista cominciò a disegnare in tenera età: aveva circa quattro anni quando, costretto a lunghi periodi di immobilità, iniziò a coltivare la passione per la pittura e la letteratura.
In seguito alla separazione dei genitori, nel 1872 si trasferì a Parigi con la madre, dove frequentò il Lycée Fontanes in cui conobbe Maurice Joyant [3].
Nel 1881 capì di volersi dedicare totalmente all’arte, così iniziò a frequentare lezioni di René Princeteau [4] dopo che venne bocciato agli esami di maturità a Parigi, che, invece, riuscì invece a superare a Tolosa. Un anno dopo, nel 1882 si trasferì nella Parigi della belle époque, nel chiassoso quartiere di Montmartre [Fig. 2], ad oggi famoso per essere il sobborgo degli artisti di strada.
Lautrec voleva completare la propria formazione pittorica seguendo le lezioni dell’artista Alexander Cabanel, ritenuto insegnante di grande prestigio ed in grado di assicurare ai propri allievi un notevole successo, ma a causa del sovrannumero di richieste per accedere al corso del maestro, il giovane Henri optò per lo studio di Léon Bonnat (che formò anche Edvard Munch).
Negli anni successivi l’artista passò da una bottega ad un’altra fino al 1884 quando, nello studio di Fernand Cormon entrò in contatto con le più importanti personalità dell’impressionismo e del post-impressionismo: strinse rapporti con Louis Anquetin, Emile Bernard, Degas e Vincent Van Gogh.
A Montmartre diventò frequentatore assiduo del Moulin Rouge [Fig. 3 - 4], inaugurato il 6 ottobre del 1891, assieme ad una folta cerchia di artisti e letterati. Il cabaret della belle époque era famoso per le sue ballerine di can-can [5] e Lautrec ne divenne il disegnatore.
Ebbe una relazione sentimentale con Susanne Valadon [6] che terminò burrascosamente dopo tre anni, portando ad un tentato suicidio da parte della giovane.
Oltre ad essere stato un artista, Toulouse-Lautrec fu instancabile viaggiatore ed ebbe modo di visitare i Paesi Bassi, la Spagna, la Franciae Londra. In quest’ultima tappa conobbe personalmente e strinse amicizia con l’irlandese Oscar Wilde.
Gli ultimi anni della sua vita furono devastati dalla sifilide [7], contratta nei bordelli parigini, e dalla dipendenza dall’alcol che lo portò poi, nel 1897, ad avere forti allucinazioni che talvolta scoppiavano in violenti attacchi di rabbia. Venne internato per qualche mese nel 1899, con l’intento di disintossicarlo dalla sua dipendenza dall’assenzio.
A seguito di diverse crisi psichiche dovute all’astinenza, riprese a bere. Nell’aprile del 1901 un ictus lo spinse a trasferirsi presso la madre nel castello di famiglia a Malromé.
Henri Toulouse-Lautrec si spense il 9 settembre dello stesso anno a soli trentasei anni.
Il Post-impressionismo
Lautrec fu da sempre interessato all’arte, ma il suo sguardo fu per lo più rivolto alla cerchia degli impressionisti dei quali abbracciava le idee e condivideva la tecnica.
I suoi dipinti ritraevano i soggetti più disparati: dai ritratti di amici (Ritratto di Vincent Van Gogh; Ritratto di Émile Bernard; Donna in studio; La contessa Adéle de Toulouse-Lautrec nel salone del Chateau de Malromé), a scene di stampo equestre (Alphonse de Toulouse-Lautrec alla guida della sua carrozza). Frequentando la bohème di Montmartre cominciò a sviluppare un certo interesse per le classi popolari urbane che era solito rappresentare in illustrazioni fortemente influenzate dallo stile dei dipinti di Raffaello, Forain e Degas.
Tra il 1880 e 1890 l’artista ricercò un nuovo tipo di rappresentazione, trovandolo nella caricatura: disegni, schizzi e illustrazioni dai quali trapelava l’ironia e la comicità esasperata dei personaggi e delle scene ritratte. Fu inoltre disegnatore per le Histoires naturelles di Jules Renard. [Fig. 5 - 6].
Le opere
Le sue opere più famose si contraddistinsero per la rappresentazione delle scene nelle maison closes, i bordelli parigini. I dipinti di Toulouse-Lautrec vennero spesso accolti con ostilità, seppure, in realtà, il tema della prostituzione aveva già fatto il suo ingresso nel mondo della borghesia benpensante con l’Olympia di Manet.
La permanenza al Moulin Rouge permise a Lautrec di mettere su tela scene di intima quotidianità delle prostitute, fissando i momenti, anche diurni, di quegli ambienti senza malizia alcuna e dall’erotismo assente. Frequente era il tema dei rapporti lesbici diffuso nelle “case chiuse”: A letto [Fig. 7];
Il bacio a letto [Fig. 8]; Il sofà; Il bacio, sono solo alcuni dei dipinti con cui l’artista volle lanciare un grido di protesta contro la società del tempo, in cui destavano scandalo i nudi contemporanei.
La toilette del 1889 [Fig. 9] è sicuramente uno dei suoi dipinti più famosi: una donna svestita e dai capelli rossi [8], è ritratta di spalle mentre è intenta a lavarsi con la tinozza posata sul pavimento, davanti a lei. Il piano d’inquadratura è sopraelevato rispetto alla figura e lo stile richiama fortemente la pittura di Degas. L’opera venne presentata dall’artista in occasione del Salon des XX di Bruxelles nel 1890.
Al Moulin Rouge [Fig. in copertina] del 1892 - 1895, altra opera emblematica di Toulouse-Lautrec, rappresenta un momento di vita notturna all’interno del locale. Sullo sfondo del dipinto è presente lo stesso autoritratto dell’artista, posto di profilo di fianco al cugino, medico di professione, Gabriel Tapié de Céleyran, a destra, dal viso avvolto di luce, resa con il colore verde, compare May Milton una cantante inglese.
Intorno al tavolo sono seduti il critico d’arte Edouard Dujardin, la ballerina spagnola “la Macarona”, Paul Sescau, Maurice Guiberte e Jane Avril [9] che volge le spalle all’osservatore; sul fondo, la ballerina Louise Weber, soprannominata La Goulue ovvero “La golosa”, si sistema l’acconciatura. A destra infine compare Môme Fromage protagonista delle serate parigine e presente in diverse litografie.
In Ballo al Moulin Rouge [Fig. 10] l’artista sceglie una tipica scena della vita parigina nel locale notturno. Al centro le due figure della Goulue (Louise Weber) e Valentin le Désossé, danzano occupando gran parte della pista e portando l’osservatore a rivolgere l’attenzione proprio su di loro; in primo piano, dagli abiti appariscenti, una donna accompagnata da una dama, rivolge lo sguardo verso il basso. Nella sala da ballo sono presenti anche personaggi familiari all’artista, come il padre, figura dalla barba bianca posta di profilo in alto a destra della tela.
La composizione assume un taglio quasi fotografico, alcuni soggetti invece presentano espressività caricaturale.
Inizialmente le opere di questo periodo vennero firmate dall’artista sotto falso nome: nel 1885 espose al Salon des arts incohérents e si firmò come Toulav-Segroeg ed ancora, in altre occasioni aveva usato gli pseudonimi di Monfa o Trecleau.
Poco dopo, stanco di assecondare la richiesta del padre che temeva per la reputazione della famiglia, decise di usare il suo nome.
Lo stile
Sperimentatore di tecniche, lo stile di Lautrec è da accostare, almeno per quanto riguarda gli esordi della sua carriera, a quello degli impressionisti.
Le colorazioni dei dipinti e dei manifesti, inizialmente sormontate da toni caldi, assunsero toni scuri, quasi plumbei, nelle sue opere più tarde.
I tratti nei disegni a grafite e le pennellate nei dipinti erano veloci ma meditati: la volontà dell’artista era quella di rendere le figure dinamiche, cosa che contraddistinguerà i movimenti d’avanguardia del ventesimo secolo.
Il modo di firmarsi nelle opere anticipa uno dei caratteri salienti dell’Art Nouveau: la lettera H di Henri sovrapposta dalla T di Toulouse ed accompagnata dalla L di Lautrec [Fig. 11 - 12], furono d’ispirazione per i monogrammi della secessione viennese.
La passione per i manifesti grafici
Appassionato d’arte giapponese, Toulouse-Lautrec si accostò alla stampa in maniera autentica,
fu infatti uno dei primi a capire l’importanza del nuovo mezzo di comunicazione: gli schizzi a matita venivano talvolta colorati ad acquerello per poi passare alla fase di riproduzione, con la tecnica grafica della litografia a colori, appresa da Le Nabis [10]. Le litografie venivano realizzate su blocchi di pietra calcarea inchiostrata e le immagini poi, impresse sulla carta attraverso un torchio a mano, erano rifinite dall’artista facendo ricorso alla tecnica dello “crachis” con uno spazzolino da denti.
Disegnatore esaustivo, come grafico produsse circa una trentina di manifesti: il primo di questi Moulin Rouge: la Goulue [Fig. 13] gli venne commissionato dal direttore dello locale e venne successivamente esposto al Salon des Indépendants del 1892. La ballerina Louise, intimamente legata in amicizia con l’artista, rappresentava la stella del locale parigino ed il manifesto era un atto di promozione non solo del cabaret ma delle stesse danzatrici.
Lo stesso anno d’uscita del primo manifesto, Toulouse ne produsse altri, il secondo per importanza è sicuramente l’Ambassadeurs: Aristide Bruan [Fig. 14].
Il cantautore e cabarettista francese divenne amico dell’artista e fu qui rappresentato con un largo cappello e una sciarpa rossa, colori che rendono la tavola cromatica equilibrata.
Il manifesto più conosciuto e ben riuscito è Divan Japonais [11], in cui la cantante Yvette Guilbert sul palco fa da sfondo, mentre il primo piano è occupato dalla figura di Jane Avril che poggia il gomito destro sulla balaustra come una qualsiasi spettatrice. Alla destra della donna spunta la figura di Édouard Dujardin, suo compagno e importante critico musicale fondatore della rivista Revue Wagnérienne.
Artista dallo stile unico, condottiero di una vita dissoluta, in breve tempo divenne uno dei disegnatori più richiesti di Parigi, di cui ne divenne figura chiave.
Nonostante Lautrec sia scomparso precocemente, ha lasciato più di 600 opere tra schizzi, disegni, bozzetti preparatori, dipinti e litografie, oggi sparse in tutto il mondo.
Note
[1] Il padre Alphonse-Charles-Marie de Toulouse-Lautrec-Montfa e la madre Adèle-Zoë-Marie-Marquette Tapié de Céleyran erano cugini di primo grado, le madri erano sorelle.
[2] È una malattia autosomica recessiva da accumulo lisosomiale per mutazione del gene codificante la proteina catepsina K. Si caratterizza per osteopetrosi, nanismo, ipoplasia dell'angolo mandibolare, agenesia delle dita di mani e piedi, unghie distrofiche, mancata chiusura della fontanella bregmatica, sclere blu.
[3] Scrittore e mercante d’arte, fu uno dei più intimi amici di Lautrec.
[4] Amico del padre, era un pittore specializzato nella rappresentazione di animali.
[5] “Can - can” deriva dalla storpiatura della parola che in francese significava “scandalo”, era una danza derivante dal galoppo della quadriglia.
[6] Modella, pittrice e madre del pittore Maurice Utrilo, è stata la prima donna a venire ammessa alla Société nationale des beaux-arts. Musa degli impressionisti, la ritroviamo in alcune delle tele più importanti di Renoir.
[7] Il suo appetito sessuale e l’essere “ben dotato” gli valsero l’appellativo di cafetière.
[8] L’opera infatti prende anche il titolo di Rousse.
[9] Alla ballerina l’artista dedicherà una serie di disegni e litografie, nonché la sua immagine farà da locandina.
[10] Gruppo di artisti parigini dell’avanguardia post-impressionista.
[11] Era un locale situato a Parigi al 75 di rue des Martyrs; sorto come Caffè nel 1883 per opera di Jehan Sarrazin, venne poi trasformato in caffè concerto da Édouard Fournier dieci anni dopo ed in stile giapponese.
Bibliografia
Elemond Arte, Toulouse - Lautrec, Editrice l’Unità s.r.l 1992 Milano.
Sitografia
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Sono cresciuta circondata dai manuali d’arte di mia madre ed ho cominciato a dipingere ad olio quando avevo 16 anni, poiché presa dalla voglia d’emulare Van Gogh. Il grande amore per l’arte mi accompagna ogni giorno con curiosità e creatività partecipando a mostre, eventi e vernissage di ogni tipo. Quando sono in un museo, è mia abitudine ricercare quei difetti o dettagli nei dipinti a cui nessuno fa caso.
Nata a Napoli nel giugno del 2002, mi sono diplomata al liceo artistico Ettore Majorana di Pozzuoli con votazione 100/100 e lode in Arti Figurative. Amante dell’architettura gotica, del neoclassicismo e instancabile contemporaneista, ad oggi frequento la facoltà di Archeologia, storia delle arti e scienze del patrimonio culturale dei Beni culturali alla Federico II di Napoli.
Per il progetto Discovering Italia sono redattrice della regione Campania, interessata particolarmente alla zona dei Campi Flegrei.
GUSTAV KLIMT
A cura di Alessia Zeni
“Chi vuole sapere qualcosa su di me, in quanto artista, l’unico mio aspetto che valga la pena di conoscere, deve osservare attentamente i miei dipinti e cercare di rintracciare in essi chi sono e cosa voglio” [1]. Le parole di Gustav Klimt in una delle sue rare dichiarazioni pubbliche.
Ad oggi la produzione artistica di Gustav Klimt (1862-1918) è caratterizzata da una raccolta di circa duecento dipinti e di oltre tremila disegni: circa un terzo è costituito da ritratti di signore dell’alta borghesia viennese, meno di un terzo da paesaggi e il resto da soggetti allegorici. Al contrario della sua fama di “pittore dell’eros”, Gustav Klimt fu soprattutto un prolifico disegnatore, tanto che può essere considerato uno dei maestri del disegno del Novecento. Conosciamo poco della sua vita privata, sappiamo che era un uomo schivo e introverso, innamorato della sua patria dove visse tra la buona borghesia viennese. Fu sposato con Marie Zimmermann che gli diede due figli, ma ebbe anche diverse relazioni extraconiugali e le poche notizie della sua vita privata si devono alle lettere che scrisse alle amanti e alle sue poche dichiarazioni pubbliche [2].
Gli inizi
L’artista Gustav Klimt nacque il 14 luglio 1862, nella Vienna della Belle Époque, da padre di origine boema, che fu un orafo incisore, e da madre amante della musica e mancata cantante lirica. Gustav fu il secondo di sette figli e l’attività del padre lo condizionò nella scelta di frequentare la Scuola d’Arti applicate del Museo per l’arte e l’industria di Vienna, dove qui conobbe il compagno di studi e collega, Franz Matsch (1861-1942). Frequentò la scuola fino al 1883, dove apprese diverse tecniche artistiche, un vasto repertorio di motivi decorativi di epoche e culture diverse e dove si specializzò nella pittura, elaborando il suo stile degli esordi con lo stile storicistico accademico.
Nel 1883, Gustav con il fratello Ernst e l’amico Franz Matsch diedero vita ad una piccola “Società di artisti” che ebbe fin dagli esordi importanti commissioni ufficiali, come la decorazione dei palazzi di Vienna, il castello reale di Pelesch in Transilvania, i teatri di Bucarest, Karlsbad, Fiume e Reichenberg.
Il debutto dell’artista fu solo nel 1886 quando la “Società degli artisti” ottenne la decorazione del nuovo Burgtheater di Vienna e qui, per la prima volta, lo stile dei tre artisti si andò differenziando. Qui furono impegnati nella decorazione dello scalone d’ingresso con scene della storia del teatro; a Klimt andò il compito di decorare le volte dell’ingresso e il soffitto centrale con la famosa scena del Teatro di Taormina. In questi dipinti dal sapore storicista, i familiari di Klimt furono i modelli e i tratti della sua pittura fecero la loro prima comparsa: la fedele riproduzione della realtà, il decorativismo, l’interesse per la figura femminile e l’orientamento verso il simbolismo.
Dopo questo importante incarico, la “Società degli artisti” ottenne la decorazione dello scalone d’entrata nel nuovo museo di Vienna, il Kunsthistorisches, con la rappresentazione dei momenti più alti della storia dell’arte europea. Attraverso questo racconto della storia dell’arte, Klimt dipinse la sua prima “femme fatale”, sensuale e seducente, qui impersonata da Pallade Atena (1890-1891) e dalla Fanciulla di Tanagra (1890-1891), personificazione dell’antica Grecia, con un abito a fiori stilizzati e la chioma preraffaelita.
In questo clima sono nati anche i primi ritratti e i primi capolavori klimitiani come la Musica I (1895), l’Amore (1895) e il Ritratto del pianista Pembauer (1890) dove compare il contrasto tra il realismo fotografico del volto e il fondo bidimensionale con il suo marchio di fabbrica, l’oro.
La morte prematura del fratello Ernst, nel 1892, segnò profondamente l’artista e lo portò ad intraprendere una nuova strada artistica volta ad esprimere attraverso il simbolismo le sue idee e i suoi concetti psicologici. Nel frattempo, fu impegnato ad elaborare i pannelli per la decorazione dell’aula magna dell’Università di Vienna, commissionati nel 1894, dal Ministero per la cultura e l’istruzione di Vienna che dovevano celebrare il trionfo della luce del sapere sulle tenebre dell’ignoranza.
I pannelli decorativi per l’università di Vienna: Filosofia, Medicina, Giurisprudenza. I pannelli sono stati progettati da Klimt tra Otto e Novecento, nella sua piena fase simbolista. Sono stati oggetto di vivaci polemiche per il rifiuto dell’artista di celebrare il sapere umano, tanto che nel 1905 decise di rinunciare all’incarico, ricomprando dallo stato austriaco le sue stesse opere. Nella Medicina Klimt sottolineò l’inevitabilità della sofferenza e della morte, nella Filosofia abbandonò ogni fiducia nelle possibilità di comprensione razionale del mondo e nella Giurisprudenza denunciò l’indifferenza della legge al dramma umano. Ad oggi ne rimane solo la documentazione fotografica e un unico bozzetto della Medicina (1897-1898), in quanto i pannelli decorativi sono andati perduti in un incendio del 1945 nel Castello di Immendorf, dove erano conservati.
La Secessione viennese
Il fenomeno delle Secessioni artistiche che prese piede in alcuni paesi del centro Europa tra Otto e Novecento fu seguito dalla famosa Secessione viennese: la rivolta delle arti contro la tradizione accademica che scoppiò nella capitale austriaca nel 1897. Sotto il termine di Secessione viennese si unirono gli architetti Otto Wagner, Joseph Maria Olbrich, Joseph Hoffmann, i pittori Carl Moll, Koloman Moser e Alfred Roller. Anche Klimt aderì alla Secessione e ne divenne il presidente e il motore del rinnovamento fondato sul principio di diffondere una nuova sensibilità artistica aperta alle novità provenienti dall’estero. L’unione si dotò di una rivista, Ver Sacrum, di una sede ufficiale e organizzò le celebri mostre dei secessionisti.
Per la prima esposizione dei secessionisti, Klimt ideò ed espose il manifesto dei secessionisti Teseo e il Minotauro (1898), ma l’opera fu oggetto di censura per il messaggio di ribellione artistica che nascondeva e le nudità dell’eroe Teseo, che Klimt fu costretto a coprire.
Nella seconda mostra dei secessionisti un’altra opera di Klimt fu oggetto di polemiche, la celebre Pallade Athena (1898). La dea di Klimt, protettrice della secessione viennese, è dipinta frontalmente con il volto pallido, gli occhi grandi e celesti, i capelli fini e rossi e un volto imperturbabile. Vestita con elmo, corazza e bastone d’oro, ha nella mano un piccolo nudo di donna dai capelli e dal pube rosso fiamma con le braccia allargate, quest’ultima rappresenta la Nuda Veritas, emblema del rinnovamento artistico austriaco ed esempio della donna sensuale klimtiana.
Nuda Veritas (1899). Dipinta da Klimt per lo studio di Hermann Bahr, scrittore e padre spirituale dei secessionisti viennesi. Il quadro è la versione pittorica di un disegno apparso in Ver Sacrum nel marzo del 1898 ed è accompagnato da un’iscrizione di Friedrich Schiller: “Se non puoi piacere a molti con le tue azioni e la tua arte, piaci a pochi. Piacere a molti è male”. Un quadro fortemente polemico nei confronti dell’arte accademica che raffigura una donna senza vesti con un velo azzurro che le fluttua dietro la schiena a rappresentare la “Verità” denudata dal velo. I due fiori ai piedi della figura sono denti di leone che al minimo soffio di vento si spargono ovunque e simboleggiano il rapido diffondersi delle nuove idee, lo specchio tenuto in mano dalla donna, invece, simboleggia la verità dell’arte rivelata al pubblico ed infine il serpente ai piedi la saggezza e la libido.
Lo “stile d’oro”
È al volgere del nuovo secolo che Klimt raggiunse la sua piena maturità artistica grazie ai viaggi in giro per l’Europa e alle visite nella penisola italiana, in particolare grazie alla città di Ravenna e ai suoi mosaici bizantini. Questi viaggi influenzarono il periodo aureo dell’artista: un periodo artistico che iniziò con la Giuditta del 1901 e raggiunse il suo apice con lo stesso soggetto, la Giuditta del 1909. Fu caratterizzato da un uso massiccio della foglia d’oro, dello stile allegorico e dall’elevata presenza di ritratti femminili dell’alta borghesia che celebrano la donna nella sua bellezza e sensualità: donne dipinte nel realismo dei loro volti e nella plasticità dei loro corpi, ma allo stesso tempo abbinate a motivi astratti e geometrici creati dalla fantasia klimtiana.
Lo stile d’oro di Klimt è inaugurato da uno dei fregi decorativi più celebri della sua opera artistica, il Fregio di Beethoven, eseguito nel 1902 per la mostra della Secessione dedicata alla scultura di Max Klinger raffigurante l’apoteosi di Beethoven.
Fregio di Beethoven. Il fregio è lungo 24 metri ed è stato sviluppato su tre pareti. Si ispira alla Nona sinfonia di Beethoven, l’Inno alla gioia, e fu pensato da Klimt come metafora della forza dell’arte e del cammino dell’uomo verso l’elevazione spirituale. L’opera ottenne un enorme successo grazie al suo alto livello simbolico che è qui rappresentato da un cavaliere che deve sconfiggere le forze del male incarnate dalle Gorgoni e dal mostro Tifeo, il gigante dalla testa di scimmia e il corpo di drago, per stringere tra la braccia la donna amata, personificata dalla Poesia. L’abbraccio della coppia è protetto dalle avversità del mondo da una “campana” dorata ricca di elementi decorativi e simbolici.
I capolavori che seguirono nel primo decennio del Novecento sono tra i più celebri della produzione klimtiana: Il bacio, Pesci rossi, Bisce d’acqua e La speranza. Si ricorda Il ritratto di Adele Bloch-Bauer I (1907) per il forte contrasto tra la resa realistica del viso e la decorazione del vestito, entrambi inseriti nell’oro dello sfondo come una perla preziosa incastonata in un anello. Il ritratto di Emilie Flӧge I (1902) dove l’artista allunga in modo innaturale il corpo della ritratta per sottolinearne la femminilità. La speranza I (1903) che suscitò reazioni ostili per il realismo della donna gravida che Klimt rappresentò nuda e in contrasto con gli scheletri dipinti sul fondo del quadro. La nudità della Speranza I è ripresa, poi, nelle Tre età della donna (1905) dove una giovane donna trasognante con in braccio una bambina è accostata alle nudità di un’anziana.
Un altro tema che ricorre in questo periodo è quello delle sirene, - creature affascinanti che fluttuano in ambienti subacquei - è il caso di Pesci d’oro (1901-1902) che richiama l’aspetto erotico delle sirene, di Bisce d’acqua I (1904-1907) e Bisce d’acqua II (1904-1907).
Non può essere dimenticata la sua opera più famosa, Il bacio del 1907-1908, al culmine dello stile aureo, in cui viene celebrata la coppia e la donna abbandonata all’uomo, entrambi dipinti con volti realistici, ritagliati in un paesaggio dorato. Alla stessa epoca risala Danae (1907-1908), qui Klimt celebra la sensualità e l’eros femminile, attraverso una donna a seno scoperto, senza vesti, in una singolare posa uterina. Si può concludere il periodo aureo con I fregi di Palazzo Stoclet a Bruxelles (1905-1909), l’ultima impresa collettiva a cui partecipò Klimt con il laboratorio di arti applicate, la Wiener Werkstӓtte.
Fregio Stoclet. Gustav Klimt fu chiamato a realizzare il fregio decorativo per le pareti della sala da pranzo di Palazzo Stoclet nel 1905. Egli disegnò per la sala il famoso Albero della vita, motivo centrale e “trait d’union” dell’opera, entro cui sono inseriti i due personaggi emblematici della fine del periodo aureo, L’attesa e L’abbraccio. L’Attesa è rappresentata da una danzatrice che ricorda gli egizi nell’acconciatura e nell’orizzontalità della figura, ma anche l’arte giapponese nella veste della giovane danzatrice. Invece l’Abbraccio celebra nuovamente l’amore di coppia, attraverso l’uomo che avvolge la sua compagna, come nel Fregio di Beethoven e nel Bacio di Klimt.
Verso la fine del primo decennio del Novecento, il contatto con la pittura espressionista delle giovani generazioni provocò in Klimt una crisi artistica e psicologica che durò alcuni anni. A ciò si aggiunse il tramonto della Secessione viennese e l’interruzione dell’attività di Klimt come promotore ed innovatore della vita artistica viennese.
Lo “stile fiorito”
La depressione che colpì Klimt tra il 1908 e il 1910 determinò una riduzione della sua attività pittorica e le poche opere di questo periodo abbandonarono lo stile decorativo e allegorico - i fondi d’oro e i soggetti mitologici - per avvicinarsi ai toni scuri e alla pittura lineare ed espressionista, com’è il caso di Signora con cappello e boa di piume (1909), Madre con figli (1910) o il Ritratto di signora con il cappello nero (1910) che richiama l’influenza dell’artista parigino Toulouse-Lautrec .
Questa crisi durò fino al 1912, quando con il secondo Ritratto di Adele Bloch-Bauer II (1912) inaugurò la sua nuova fase artistica, denominata “stile fiorito”. In questa fase ritornò il colore sulle tele di Klimt, un cromatismo però più acceso e una pennellata più libera, dove accentuò l’espressività dei volti e frantumò i contorni per dare leggerezza e semplicità a corpi ed oggetti, avvicinandosi in ciò all’arte di Van Gogh e di Matisse. Le opere di quest’ultima fase artistica sono un variopinto tessuto di fiori, colori e una raccolta di motivi orientali, in linea con la sua passione per il nipponismo che sostituì l’oro dei mosaici bizantini.
La tela di Klimt fitta di colore, senza vuoti, la ritroviamo nei paesaggi come in Viale nel parco dello Schloss Kammer (1912) o La casa del guardaboschi (1912), ma anche nei ritratti come quello di Friederike Maria Beer (1916), dove una singolare e colorata scena orientale fa da sfondo della ritratta.
Altre opere famose dello “stile fiorito” sono: La vergine (1912-1913) e il suo pendant La sposa (1917-1918), dove il tema dell’eros e del simbolismo erotico rimangono centrali. La sposa rimase incompiuta perché l’artista venne colpito da un ictus l’11 gennaio del 1918 che lo portò alla morte il 5 febbraio all’età di cinquantasei anni: accanto al suo letto di morte chiese di avere vicino solo Emilie Flӧge, amica e compagna di una vita. In queste ultime opere Klimt era alla ricerca di una nuova strada artistica, infatti, La Sposa è considerata un’opera di transizione perché abbandona lo “stile fiorito” dei suoi precedenti quadri per lasciare il posto ad immagini allucinatorie. Altre opere ritrovate nel suo atelier dopo la morte, rimaste purtroppo incompiute sono Adamo ed Eva (1917-1918), La culla (1917-1918), il Ritratto di Johanna Staude (1917-1918) o il Ritratto di signora di Piacenza (1917-1918) e numerosi altri ritratti che mostrano le differenti fasi dell’elaborazione artistica di Klimt negli ultimi anni della sua vita.
Bibliografia
Gabriella Belli, Elena Pontiggia, Klimt: l'uomo, l'artista, il suo mondo, Catalogo della mostra tenuta a Piacenza nel 2022, Milano, Skira, 2022
Eva di Stefano, Klimt, 1862-1918, Dossier Gold, Firenze, Milano, Giunti Editore, 2018
Matteo Chini, Klimt, Firenze, Giunti Editore, 2007
Eva di Stefano, Gustav Klimt. L'oro della seduzione, Firenze, Milano, Giunti Editore, 2006
Gilles Néret, Klimt, Germania, Taschen, 1994
Eva di Stefano, Klimt, Firenze, Giunti Editore, Art dossier, 29, 1988
Sono Alessia Zeni, abito a Cavedago, un piccolo paese del Trentino Alto-Adige, situato nella bassa valle di Non. La mia passione per la storia dell’arte e le discipline artistiche è iniziata in giovane età conseguendo il diploma di “Maestro d’arte applicata” presso l’Istituto Statale d’Arte Alessandro Vittoria di Trento e successivamente la laurea specialistica in “Storia dell’arte e conservazione dei beni storico-artistici e architettonici” presso l’università degli studi di Udine.
In seguito al conseguimento del diploma di Guida ai Beni Culturali Ecclesiastici rilasciato dall’Associazione Anastasia della Diocesi di Trento, ad oggi mi occupo di visite guidate ad alcune chiese del Trentino. Mi dedico alla redazione di articoli storico-artistici per riviste regionali e collaboro con il FAI - Fondo Ambiente Italiano - Gruppo Val di Sole (delegazione di Trento) per l’organizzazione di visite guidate alle giornate FAI di primavera. Sono redattrice per il quotidiano on line “La voce del Trentino” e ho lavorato come hostess per i gruppi di turisti in visita alla regione Trentino Alto-Adige.
Nel progetto Discovering Italia sono referente del Trentino Alto-Adige.
LA MITOLOGIA E LE IMMAGINI DI ANSELM KIEFER
A cura di Arianna Canalicchio
La realizzazione di un quadro è un costante avanti e indietro tra il nulla e qualcosa. Un’incessante oscillazione da uno stato all’altro. Questo processo in ogni caso non segue nessuna regola, è incontrollato, come la fibrillazione cardiaca […]. La vibrazione smette solo quando il quadro lascia lo studio.
Nato in Germania durante gli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale, Anselm Kiefer riflette, in molto del suo lavoro, sulla memoria storica di un evento che ha profondamente segnato il paese. La prossimità con le macerie durante l’infanzia ha condizionato la memoria e il successivo immaginario dell’artista portandolo, con le sue opere, a riflettere sull’identità di una nazione che anche dopo la fine del conflitto ha continuato a sentire il peso della mitologia nazionalista del Terzo Reich.
Kiefer nasce l’8 marzo del 1945 a Donaueschingen, cittadina del sud della Germania. Dopo aver abbandonato gli studi in giurisprudenza, si dedica completamente alla pittura frequentando la Scuola di Belle Arti di Friburg in Brisgovia e l’Accademia di Arte di Karlsruhe. Kiefer rappresenta, insieme a Georg Baselitz, uno dei grandi nomi della Neuen Tilden, il gruppo neo-espressionista tedesco che si sviluppa durante gli anni Ottanta. Il debutto di Kiefer nel mondo dell’arte avviene ad appena 25 anni, nel 1969, quando inizia a scattare una serie di autoritratti fotografici denominati Heroische Sinnbilder, ovvero ‘Simboli Eroici’. All’interno delle fotografie l’artista si fa ritrarre mentre compie delle ‘azioni’ o, come vengono definite da lui, delle ‘occupazioni’. Il filo conduttore delle fotografie è la posizione dell’artista intento ad imitare il saluto nazista Sieg Heil in posti e con abiti ogni volta differenti. Le fotografie vengono scattate nei paesi occupati dalla Germania durante la guerra, tra cui Francia e Italia; l’intento di Kiefer non era quello di celebrare il nazismo ma, al contrario, di partire da un gesto caratteristico del regime per dare il via ad un nuovo inizio, eliminando la vergogna di un popolo che a distanza di anni continuava ad essere marchiato dal proprio passato politico. Diciotto di queste foto furono pubblicate nel 1975 in un saggio fotografico, sul numero 12 della rivista tedesca Interfunktionen. Dal 1945 il saluto nazista era però vietato e la serie di Kiefer scatenò moltissime critiche tanto da costringere la rivista a chiudere. Il lavoro dell’artista non venne subito apprezzato in Germania, la critica lo etichettò come neo-nazista e nostalgico nazionalsocialista, creandogli non pochi problemi a livello espositivo e di conseguenza economico. A sostenere il suo lavoro in quegli anni ci fu però Joseph Beuys che lo incoraggiò a continuare a usare immagini come simboli e lo fece avvicinare alla pittura.
Dopo la partecipazione nel 1977 a Documenta Kassel, nel 1980 è chiamato a lavorare per il Padiglione della Germania Ovest alla XXXIX Biennale di Venezia insieme a Georg Baselitz; qui realizza l’opera Verbrennen, verholzen, versenken, versanden. Mantenendo sempre uno stretto legame col mezzo pittorico, alla fine degli anni '90, inizia a lavorare a una serie di sculture a tecnica mista, tra cui molto note sono le sue pile di libri carbonizzati (fig. 4) e l’opera Die Schechina del 2010 realizzata usando abiti in gesso cuciti con frammenti di vetro all’interno di vetrine.
La complessità dei temi affrontati da Kiefer si riversa nell’imponenza del suo lavoro che rimane sempre in bilico tra pittura e scultura; la sua è, infatti, una pittura che potremmo definire palpabile, che rompe la bidimensionalità della tela per irrompere nello spazio. Nei suoi lavori non appaiono quasi mai figure umane, egli, infatti, predilige dipingere i luoghi, i paesaggi, gli ambienti dove le tragedie della storia si sono consumate.
Kiefer racconta nella raccolta di lezioni tenute al College de France nel 2010/2011, dal titolo L’arte sopravviverà alle sue rovine: “E’ un dato di fatto: il quadro prende come oggetto il mondo, si concretizza in questo modo. Quando a sua volta diventa un oggetto, lo espongo all’aria, al vento, alla pioggia. Mi affido alla natura, non perché porti a una redenzione ma perché mi aiuti a completarlo”. Per rendere reale l’opera, infatti, l’artista sceglie di lavorare con elementi quotidiani, tra cui ad esempio cemento, piombo, alberi o libri, lasciando in balia degli eventi atmosferici i suoi lavori facendo sì che questi li completino e li arricchiscano. Per l’artista il quadro ha bisogno di tempo, deve essere lasciato riposare, quasi dimenticato, prima di poterne decretare la compiutezza. Capita, infatti, che l’artista rinchiuda i suoi quadri in container per lunghi periodi, oppure che li sotterri per poi riportarli alla luce. Dunque, l’opera d’arte non è più frutto soltanto del volere razionale dell’artista ma si completa di una parte di casualità. Da questo processo emerge chiaramente che l’opera è frutto di una stratificazione di diversi momenti e diverse sensazioni, Kiefer porta infatti l’esempio del “carotaggio geologico”; per l’artista la sovrapposizione della stessa cosa ma in momenti diversi porta a una comprensione di essa più profonda. Da qui la stratificazione del suo lavoro.
Tra le opere più importanti dell’artista troviamo dal 2004 l’installazione site-specific I sette palazzi celesti (fig. 6) collocata all'Hangar Bicocca della Fondazione Pirelli. L'opera fa riferimento all’antico trattato ebraico Sefer Hechalot, risalente al V-VI secolo d.C., in cui si narra il simbolico cammino di iniziazione spirituale di colui che vuole avvicinarsi al cospetto di Dio. I Sette Palazzi Celesti rappresentano un punto d’arrivo nel lavoro dell’artista e sintetizzano i suoi temi principali proiettandoli in una nuova dimensione fuori dal tempo. Ritroviamo infatti riferimenti a: l’interpretazione dell’antica religione ebraica, la rappresentazione delle rovine dell’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale e la proiezione in un futuro possibile da cui l’artista ci invita a guardare il nostro presente. Dal settembre 2015 sono esposte cinque grandi tele a circondare l’installazione dando vita a un’unica grande opera che tenta di innalzare l’uomo al divino.
Attualmente è in corso una personale di Kiefer a Palazzo Ducale, a Venezia, che rimarrà visibile fino al 29 ottobre. La mostra nasce come omaggio alla città e vuole instaurare un dialogo con la celebre Sala dello Scrutinio interamente decorata con opere di Jacopo Tintoretto, Andrea Vicentino e Palma il Giovane. Si tratta di un luogo particolarmente caro ai veneziani, era infatti la sala in cui veniva eletto il doge. Kiefer per potersi confrontare con un ambiente così importante studia a fondo la storia e l’arte della città lagunare per comprenderla e riportarla nelle sue tele; si tratta di lavori di circa 10 m di altezza disposti a ricoprire la sala su tutti e quattro i lati. È una mostra sicuramente suggestiva, le opere catturano lo spettatore per la loro imponenza ma anche per la forza dei temi trattati e per la materialità della pittura. È la prima volta dopo secoli che Palazzo Ducale torna a confrontarsi in maniera diretta con l’età contemporanea e lo fa con uno dei pochi artisti che si è dimostrato in grado di saper tenere uno spazio del genere.
Kiefer è ad oggi tra gli artisti forse più noti del panorama contemporaneo, con all’attivo mostre al Moma di New York, alla Kunsthalle di Düsseldorf, alla Neue Nationalgalerie di Berlino, al Museo Nazionale d'Arte di Kyoto e al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid. In Italia non sono molte le istituzioni nelle quali è possibile vedere in maniera permanente il lavoro di Kiefer, tra queste si segnalano la Collezione Roberto Casamonti a Firenze e la Collezione Maramoti di Reggio Emilia. Attualmente Kiefer vive e lavora tra Barjac, vicino ad Avignone e Croissy-Beaubourg alle porte di Parigi.
Bibliografia
G. Bella, J. Sirén (a cura di), Anselm Kiefer. Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, mostra nella Sala dello Scrutinio, Palazzo Ducale (26 marzo - 29 ottobre, Venezia), Milano, Marsilio Editore, 2022
A. Kiefer, Anselm Kiefer, Torino, Rosenberg & Sellier, 2022
A. Kiefer, L’arte sopravviverà alle sue rovine, Milano, Feltrinelli, 2008,
Sitografia
Sito Collezione Casamonti https://collezionerobertocasamonti.com
Sito Collezione Maremoti https://www.collezionemaramotti.org
Sito Galleria Gagosian https://gagosian.com
Sito Pirelli Hangar Bicocca https://pirellihangarbicocca.org
Sito Tate https://www.tate.org.uk/
Nata a Firenze nell’agosto del 1996, ho conseguito la laurea magistrale in Storia dell’Arte presso l’Università di Firenze con una tesi sul tema della tutela e della protezione del patrimonio artistico durante le guerre. Da sempre fortemente appassionata di arte in tutte le sue forme, dal teatro alla letteratura passando per la fotografia, ho sviluppato una predilezione per il periodo contemporaneo. Mi piace girare alla scoperta di luoghi poco conosciuti e frequentare gallerie e spazi espositivi in cui poter conoscere gli artisti e confrontarmi in modo diretto con loro. L’arte per me è una continua ricerca e una continua scoperta che mi piacerebbe poter trasmettere a chi legge, avvicinandolo a qualcosa di nuovo.
All’interno del progetto StoriaArte Discovering Italia sono redattrice per la regione Toscana.
E-mail: [email protected]