TRAME.11: DIRE NO ALLE MAFIE ATTRAVERSO L’ARTE
A cura di Felicia Villella
Personalità di spicco, tra cui magistrati, giornalisti e scrittori come Rosario Aitala, Nicola Gratteri, Roberto Saviano, Stefano Massini, Salvo Palazzolo, Alfredo Morvillo, Pietro Grasso, Antonio Padellaro, ma anche arte, che da sempre si posiziona a Trame Festival come focus importante per coinvolgere nuovo pubblico e smuovere le coscienze.
Il Festival dei Libri sulle Mafie promosso da Fondazione Trame e dall’Associazione Antiracket Lamezia ALA, con la direzione artistica di Giovanni Tizian e quella organizzativa di Cristina Porcelli, con il patrocinio di Camera dei deputati, Rai per il Sociale e Regione Calabria, si terrà a Lamezia Terme fino a domenica 26 giugno.
In occasione della sua undicesima edizione, il festival si apre a più forme d’arte che spaziano dai reperti del Museo archeologico lametino, alle opere di arte contemporanea dell’Accademia di Belle arti di Catanzaro, dal fotoreportage di Letizia Battaglia, alle tavole su Peppino Impastato del fumettista Luca Ralli per concludere con il progetto di Trame #Leparolevangono della Fondazione Treccani.
Incorniciato nel complesso monumentale di San Domenico di Lamezia Terme Trame.11 – Il festival dei libri sulle mafie, si posiziona tra i festival di spicco che attraverso la letteratura è in grado di attivare processi di consapevolezza e impegno etico, in un territorio da sempre segnato da crimini mafiosi.
Quest’anno, oltre alla presentazione dei volumi scelti dalla Fondazione Trame in collaborazione con l’Associazione Antiracket Lamezia, il cui tema ruota intorno all’anno 1992 a trent’anni dalle stragi di mafia, il Festival ha dato ampio spazio all’arte e allo spettacolo.
Non solo libri su cui discutere, ma anche l’arte al centro della scena. La già passata collaborazione avvenuta lo scorso anno con il Museo archeologico Lametino e la direttrice Simona Bruni ha avviato l’intreccio di idee che ha portato alla collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro e alla realizzazione della mostra ARTTEXTURES. Contaminazioni d’arte, a cura di Simona Caramia, con le opere di Antonino Palaia e Caterina Arcuri. Si tratta di una installazione diffusa tra le sale museali e il chiostro, che offre un momento di riflessione anche in ambito artistico sul concetto di trasparenza: la dimostrazione dei processi produttivi di un’opera come la messa a nudo delle trame/texture col fine di amplificarne la visione.
Sarà possibile anche visitare le sale museali del Museo archeologico lametino, che per l’occasione si aprirà al pubblico con due aperture straordinarie, per mettere a disposizione dei fruitori la collezione archeologica ivi esposta: dai reperti preistorici provenienti da tutto il territorio calabrese, ai manufatti provenienti dalla vicina colonia di Terina, fino ai ritrovamenti medievali provenienti dai maggiori siti indagati come il castello normanno-svevo e l’abbazia benedettina di Sant’Eufemia Vetere.
Una sezione è stata dedicata anche al ricordo di Letizia Battaglia, attraverso il reading di Sabrina Pisu e il docufilm Letizia Battaglia. Shooting the Mafia: un ritratto estremamente intimo a cura di Kim Longinotto che intreccia la vita privata della fotoreporter con il suo lavoro.
Il chiostro, fulcro architettonico del convento tardomedievale di San Domenico ospita invece il progetto di Trame.11, in collaborazione con la Fondazione Treccani Cultura, #LEPAROLEVALGONO: una serie di parole tratte dal vocabolario Treccani online – istituzione, memoria, potere, silenzio, coraggio, utopia – posizionate su pannelli espositivi che accompagneranno i giorni del festival.
Nella stessa location, infine, uno spazio è stato dedicato all’esposizione delle tavole del fumettista Luca Ralli tratte dal libro Peppino Impastato. Western a Mafiopoli di Luca Scornaienchi, edito da Round Robin: una graphic novel che intreccia sogno e realtà della vita di Peppino e della sua coraggiosa lotta contro la mafia.
FELICIA VILLELLA
LA FLAGELLAZIONE DI CRISTO DI CARAVAGGIO
A cura di Ornella Amato
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, La flagellazione di Cristo, 1607, olio su tela, 286 x 213 cm
Collocazione iniziale:
Cappella De Franchis, basilica di San Domenico Maggiore;
Collocazione attuale:
Sala 78 del Museo Nazionale di Capodimonte.
Breve introduzione
La presenza del Caravaggio a Napoli trova il suo punto più alto nelle committenze che l’artista bergamasco riceve, tra le quali quella di Tommaso De Franchis.
Tommaso De Franchis era l’esponente di una famiglia di magistrati napoletani che, avendo acquisito il titolo nobiliare di marchesi, aspirava ad un veloce ascesa sociale e nobiliare. Probabilmente, proprio per “velocizzare” questa scalata sociale, scelsero di commissionare al pittore più controverso presente al momento in città la tela che avrebbe adornato in un primo momento una loro cappella privata, ma che successivamente vollero all’interno della loro cappella nella basilica di San Domenico Maggiore. L’opera dal 1972 è collocata alla sala 78 del Museo di Capodimonte.
Il dipinto
La Flagellazione di Cristo - più semplicemente nota come La flagellazione del Caravaggio - è una di quelle tele del maestro nelle quali la ricerca della luce e dei suoi effetti sono innalzati a livelli altissimi. La rappresentazione del tema sacro sembra quasi sfidare l’iconografia tradizionale del Cristo alla colonna; la scena è violenta e silenziosa al tempo stesso e il senso delle azioni dei soldati flagellanti è dettato dalla luce che, dal corpo seminudo Cristo, irrompe sulla scena.
La scena è quasi teatrale. La colonna che affiora dall’oscurità della scena diventa il punto focale[1] da cui il tutto si snoda: è là che è legalo il Cristo e dal suo corpo tutto si irradia.
Il Caravaggio ha rappresentato gli istanti immediatamente precedenti l’inizio delle frustate. Il corpo di Cristo non è stato ancora martoriato dai flagellanti, rappresentati con atteggiamenti e sguardi rabbiosi. In tre – dopo averlo legato, eseguendo gli ordini di Ponzio Pilato successivi al sommario processo a cui Gesù era stato sottoposto – stanno per iniziare il supplizio che sarà inflitto sul suo corpo.
Tutti i personaggi presenti sulla scena non indossano abiti alla moda romana, ma piuttosto in linea con l’abbigliamento contemporaneo al pittore: ancora una volta Caravaggio umanizza la scena sacra e la rende coeva al suo tempo, senza toglierle sacralità e solennità, che sono invece accentuate dalle tonalità usate.
Dal buio di una vera e propria “quinta teatrale” affiora la colonna marmorea alla quale sono legate le braccia di Gesù. Il suo corpo, al centro della scena, è illuminato da un raggio di luce proveniente da una fonte alta ed esterna che, colpendolo, si espande travolgendo – seppure marginalmente – tutti i personaggi presenti attorno a lui. Sulla sinistra, il primo dei flagellanti è inginocchiato con la schiena ricurva e il capo rivolto verso il Cristo: sta preparando il flagello legando tra loro i rami di legno di una frusta.
Alla sua sinistra, un suo compagno tiene stretto in mano il flagello pronto per essere usato, mentre con destra tira i capelli del giovane Gesù, per fargli sollevare il capo chinato. La sua espressione è rabbiosa e lo sguardo quasi violento; una rabbia travolgente che, di lì a breve, sfogherà nel supplizio inflitto a Gesù.
L’episodio tratta della flagellazione che i testi sacri raccontano essere avvenuta nelle ore mattutine del venerdì santo, prima che Pilato mostrasse il corpo distrutto e vessato del Cristo al popolo di Gerusalemme in quella che – prendendo spunto dalle stesse parole del prefetto della Giudea – è divenuta poi l’iconografia dell’Ecce Homo.
All’estrema destra della tela si trova il terzo ed ultimo flagellante. Il personaggio è impegnato a legare il Cristo alla colonna mentre col piede sinistro spinge, quasi a dare un calcio, il polpaccio sinistro di Gesù, che a sua volta sembra reggersi appena alla colonna, assumendo una posizione disequilibrata e non parallela, facendo forza sul ginocchio e sul piede destro, ben piantati a terra.
Nell’opera Caravaggio ha voluto non solo fotografare l’istante precedente all’inizio delle violenze, ma anche immortalare tutti i gesti e le espressioni che istintivamente ne conseguivano.
Il corpo di Gesù è lì al centro, che quasi attende il suo destino.
Il pittore conferisce umanità al corpo di Cristo, ma soprattutto al suo volo, che già indossa la corona di spine, rendendolo di una dolcezza che quasi contrasta con la durezza della scena, mantenendo comunque la sacralità dell’evento rappresentato.
La grandezza di Caravaggio nel rendere umani i personaggi sacri e nell’affrontare le tematiche dure e crude, come quelle legate alla Passione di Gesù, mirano – secondo F. Negri Arnoldi – “ad una naturalità diretta e disadorna, senza l’intermediazione di norme e modelli ideali. Da cui deriva una nuova e più vera umanità […] per l’evidenza espressiva dei loro atti e sentimenti dai quali scaturisce la versione drammatica delle composizioni”[2].
I giorni del Sacro Triduo di Pasqua
La drammaticità della rappresentazione del Caravaggio, accentuata dalla purezza del biancore del corpo nudo del Cristo che in maniera inerme si prepara al supplizio sta per ricevere, è soltanto uno dei momenti più duri dei tre giorni del triduo pasquale: le ore che seguono l’Ultima Cena, la preghiera del Cristo nell’orto del Getsemani, il tradimento e l’arresto, il processo sommario e la flagellazione. Il triduo pasquale trova infine il punto più drammatico nel momento della condanna e della morte di Gesù, che i testi sacri riportano essere avvenuta alle 3 del pomeriggio del venerdì.
Dal Vangelo di Mc, Cap 15, 33 – 37:
[33] Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. [34] Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». [35] Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». [36] Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere,
dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». [37] Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Note
[1] Stando a studi e radiografie cui è stata sottoposta la tela nel corso degli anni ’80, pare che la stesura della opera abbia subito molti ripensamenti da parte del pittore. La colonna è decentrata perché probabilmente la larghezza della tela stessa è stata aumentata di 17cm rispetto alle sue misure iniziali.
[2] Cit.: F. Negri Arnoldi – Storia dell’Arte – Vol. III 1997, Fabbri editori - Seicento e Settecento – La Rivoluzione naturalistica del Caravaggio – pagg. 232 -240
Bibliografia
Negri Arnoldi – Storia dell’Arte – Vol. III 1997, Fabbri editori - Seicento e Settecento – La Rivoluzione naturalistica del Caravaggio – pagg. 232 -240;
Pacelli – La Pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano – Italiane Ed. Scientifiche Cap. II pagg.39-42;
Lachi – La Grande storia dell’Arte – Vol. 7 - Gruppo Editoriale L’Espresso – prima parte – Cap. 2 Caravaggio e la Rivoluzione del Naturalismo – pagg.62 – 81
Sitografia
https://capodimonte.cultura.gov.it/la-flagellazione-di-caravaggio-rientra-al-museo-di-capodimonte/
https://artsandculture.google.com/story/8gLi2X8Vigy7JA
http://www.lachiesa.it/liturgia/allegati/pdf/BPALM.pdf
https://www.novena.it/sacra_bibbia/vangelo_matteo/vangelo_matteo27.htm
LAUREATA NEL 2006 PRESO L’UNIVERSITÀ DI NAPOLI “FEDERICO II” CON 100/110 IN STORIA * INDIRIZZO STORICO – ARTISTICO.
Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.
Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it
C’ERA UNA VOLTA IL CARNEVALE
A cura di Ornella Amato
Introduzione
C’era una volta la voglia di divertirsi, di mascherarsi, la voglia di realizzare il desiderio di non essere sé stessi, ma di essere qualcun altro, almeno una volta l’anno.
C’era una volta il Carnevale!
Oggi è considerata soprattutto una festa per bambini, ma in realtà è molto apprezzata anche dagli adulti: perché al Carnevale, nessuno resta indifferente!
Nelle case iniziano a comparire maschere adornate da colori cangianti, piumaggi e perline di ogni genere.
Si ha un’idea del valore che, anche nell’adulto, può avere il Carnevale se solo pensiamo al Carnevale di Venezia ed ai costumi e agli accessori utilizzati: abiti lussuosi ornati da pizzi e merletti, parrucche suntuose e maschere misteriose indossate da persone che, passeggiando lungo San Marco, si proiettano – e proiettano la città – in un glorioso passato, di cui i Gran Balli in maschera fanno rivivere i giorni che furono della Serenissima, in primis il Ballo del Doge, considerato tutt’oggi il più sontuoso ed esclusivo.
Ma il Carnevale non è solo quello di Venezia, è anche quello dei carri allegorici che sfilano lungo le strade di cittadine che ne hanno fatto il loro punto di forza turistico, come Viareggio o Putignano per citare i più famosi, che si riempiono di coriandoli colorati e stelle filanti lanciati sulla folla dai personaggi che coronano i colorati carri, realizzati in genere con cartapesta, i cui temi spesso strizzano l’occhio alla satira e si colorano del gossip del momento.
Le origini
Il periodo di Carnevale, che ha la sua maggiore rappresentazione nel giorno del Martedì grasso, si colloca al centro tra il Natale e la Pasqua e, di conseguenza, non ha una calendarizzazione ben precisa. È collocato il martedì immediatamente precedente al Mercoledì delle ceneri che apre la Quaresima, che prelude ai riti della Settimana santa e della Pasqua.
Il termine “Carnevale” deriva dal latino carnem levare ovvero “levare la carne” prima del periodo di digiuno e penitenza come prevedono i riti di Santa Romana Chiesa.
In Italia si inizia ad attestare intorno ai sec. XI e XIII: giovani scanzonati vanno in giro travestiti da donna mischiando il goliardico e l’osceno, il tutto misto ad una sottile ironia che rende comico il drammatico e il grottesco, lasciando da parte il comune senso del pudore e del buon gusto.
L’incontro con l’arte
Al di là delle figure che ritroviamo nella Commedia dell'Arte, quali Arlecchino, Pulcinella, il Dottor Balanzone e Colombina, che tutt'oggi sono e restano le maschere per eccellenza del Carnevale, anche l'arte ha dato il suo contributo attraverso diversi artisti.
Il primo è stato il pittore fiammingo Pieter Bruegel con la tela Combattimento tra Carnevale e Quaresima, datata al 1559, nella quale rappresenta proprio la lotta tra il Carnevale e la Quaresima all’interno di una piazza colma di gente, dove si incontrano e quasi si scontrano moltitudini di persone da un lato e dall'altro. Il Carnevale è rappresentato da grandi esagerazioni trasposte in un unico uomo grasso che mangia golosamente; la Quaresima invece è interpretata da una donna pallida seduta e attorniata da fedeli in preghiera.
Al 1888 risale invece l’opera di Paul Cézanne, Mardi Gras (ovvero Martedì grasso), l’ultimo giorno del Carnevale. Qui il pittore rappresenta le due maschere in antitesi tra di esse per eccellenza: Pierrot e Arlecchino. Quest’ultimo non è rappresentato secondo l’iconografia tradizionale, ma con un costume i cui riquadri riprendono solo il rosso il nero, colori che nelle iconografie tradizionali sono relegati a figure demoniache. Pierrot, invece, è rappresentato nella sua veste tradizionale, con i pantaloni larghi e camicione bianchi, sebbene manchi delle rifiniture in nero che ne caratterizzano l’abbigliamento. Manca anche la classica lacrima che scende lungo il suo viso e che ricorda quella malinconia che non solo lo caratterizza, ma che lo pone in disparte rispetto alle altre maschere della Commedia dell’Arte, per tradizione furbe, burlone, ma soprattutto scaltre.
Conclusioni
L’antropologia culturale si è occupata spesso del Carnevale, analizzando i comportamenti degli uomini e andando indietro nel tempo fino alle feste dionisiache dei Greci e alle saturnali dei Romani. Ha cercato nelle maschere della Commedia dell’Arte risposte che non ha trovato pur analizzando i comportamenti degli uomini che sono stati trasposti nelle maschere; ha analizzato e studiato momenti che hanno il loro apice nel Martedì grasso che chiude il Carnevale che “dalle ceneri era nato e alle Ceneri è tornato”[1] traghettando il popolo cattolico nei quaranta giorni della Quaresima.
Note
[1] Liberamente tratto da filastrocche.it
Sitografia
repubblica.it/chi_ha_inventato_il_carnevale del 03/03/2019
ansa.it/canale_viaggi I carnevale nell’arte da Picasso a Chagall
Laureata ne 2006 presso l'Università di Napoli "Federico II con 100/110 in Storia, indirizzo storico - artistico. Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.
Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadell’arte.it
ADORAZIONE DEI MAGI. TRE VARIAZIONI SUL TEMA
A cura di Giulia Pacini
Il 6 gennaio è tradizione celebrare l’Epifania del Signore. Biblicamente parlando i Re Magi, dopo aver seguito la stella cometa, giungono presso la grotta dove Maria ha dato alla luce il Figlio di Dio, adorandolo e celebrandolo come il Re dei Re e donando lui oro, incenso e mirra.
Di tutte le rappresentazioni artistiche create nel Rinascimento, non vi è ombra di dubbio che l’episodio dell'Adorazione dei Magi sia stato quello più largamente indagato.
Nel novero delle Adorazioni – tema scelto visto il periodo dell’anno e in particolar modo la giornata di oggi – le tre opere pittoriche che andremo ad approfondire coprono un arco temporale che va dal Primo Rinascimento fino ai suoi esiti più maturi.
L’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano (1423)
Di forte impatto visivo e connotata da una forte atmosfera tardogotica, questa pala, oggi agli Uffizi, è uno dei frutti più riusciti del primissimo Rinascimento fiorentino. Completata nel 1423, l’opera è firmata da Gentile da Fabriano (Fabriano, 1370 circa – Roma, settembre 1427) che svela la sua presenza nell’iscrizione “OPVS GENTILIS DE FABRIANO”
In questa versione dell’Adorazione possiamo osservare, partendo da sinistra, una Natività completa che accoglie un fastoso corteo di eleganti e ben vestite figure che identifichiamo come i Re Magi. Questi, con il loro seguito, adorano appunto il Bambino recandogli portandogli doni. La colonna di figuranti si dipana lungo l’altezza del dipinto, per rafforzare il senso prospettico che in quel periodo veniva fortemente ricercato sia in architettura che in pittura. La forte matrice gotica della pala è riscontrabile nell’utilizzo diffuso degli ori e degli argenti, che con la loro preziosità contribuiscono a ribadire la santità dei personaggi raffigurati.
In quest’opera vi è rappresentato anche il committente dell’opera, Palla di Onofrio Strozzi, individuabile, in prima fila, accanto al figlio Lorenzo.
Tutta la rappresentazione è poi racchiusa entro una ricca cornice dorata. All’interno delle cuspidi e al fianco di esse, varie scene della venuta di Cristo e figure di Santi.
In basso, la predella è composta da tre scene dell'infanzia di Gesù: la Natività, la Fuga in Egitto e la Presentazione al Tempio.
Adorazione dei Magi o Adorazione Medici di Sandro Botticelli (1475 circa)
L’opera di Sandro Botticelli (Firenze, 1 marzo 1445 – Firenze, 17 maggio 1510) anch’essa agli Uffizi, è collocabile nella fase centrale del Rinascimento, in un periodo dove le arti e la letteratura assumono un ruolo di primissimo piano nel vivere quotidiano. La rappresentazione, nello specifico, si presenta a noi come una costruzione scenografica all’interno della quale il il pubblico, dividendosi in due ali, apre lo spazio a delle linee di fuga che culminano nella figura di Cosimo de Medici, patriarca della potente famiglia fiorentina, inginocchiato al cospetto della Sacra Famiglia che fa da sfondo a tutta la scena. Ai lati, altri membri della nobile casata prendono parte alla scena, che diviene così anche una celebrazione del dominio mediceo sulla città e dell’influenza della casata all’interno del panorama politico europeo.
Nell’opera è Botticelli stesso a ritirarsi. La sua figura è quella del personaggio che, sul lato destro e in prima fila, è avvolto in una veste giallo ocra.
Adorazione dei Magi di Andrea Mantegna (1497 – 1500)
Rispetto alle due precedenti, la variazione sul tema dell’ Adorazione di Andrea Mantegna non ha una costruzione “corale” di sfondo e i personaggi, tutti ravvicinati tra loro, vengono inglobati in uno sfondo nero, che sottolinea il dovere del devoto di pregare e di non divagare tra le festosità del momento e i paesaggi in lontananza.
San Giuseppe, la Madonna ed il Bambino nella parte sinistra vengono controbilanciati dai tre Re Magi nella parte destra. Tutte e sei le figure sono ritratte in primo piano, e – cifra tipica del Mantegna – sono ben individuate nelle loro espressioni facciali. L’opera fa parte dell’ultimo periodo artistico di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 13 settembre 1506), ed è conservata presso il Getty Museum di Los Angeles.
Bibliografia
P. de Vecchi, E. Cerchiari: Arte nel tempo - Dal Gotico internazionale alla Maniera moderna voll. 1 e 2
P. Adorno, L’Arte italiana - Le sue radici medio orientali e greco romane. Il suo sviluppo nella cultura europea. Volume II Tomo I Il Rinascimento dalle origini alla sua piena affermazione
G. C. Argan, Il Rinascimento - Storia dell'Arte Italiana
J. H. Beck, La pittura italiana del Rinascimento
GIULIA PACINI
Nasco a Osimo nel 1984, in provincia di Ancona, conseguo la laurea in beni culturali il 18 novembre 2010 con una tesi in storia dell'arte moderna. Due anni dopo, il 6 ottobre 2012, fondo Storiarte e do il via a quello che oggi è un affermato gruppo di professionisti della cultura, il cui ambizioso compito è quello di raccontare la bellezza del nostro territorio e, più ampiamente, del mondo dell'arte.
LEONARDO DA VINCI E CARAVAGGIO: DUE ARTISTI A CONFRONTO SUL TEMA DELLA NATIVITÀ
A cura di Mery Scalisi
Si avvicina il Natale, si avvicina la nascita di Gesù, episodio cardine all’interno della tradizione iconografica cristiana. La Natività, infatti, è un argomento trattato dall’arte cristiana sin dai tempi antichi, presente già nella pittura del IV secolo.
Nelle svariate versioni della Natività vengono narrate le vicende della nascita di Gesù così come descritte nei Vangeli dell’Infanzia, quelli di Luca e di Matteo: gli episodi ricorrenti sono la nascita povera di Gesù, l’Adorazione dei pastori e la visita dei Magi.
In questo articolo mi soffermerò sul confronto tra due artisti lontani nel tempo, nello stile e nel carattere, ma entrambi impegnati, a loro tempo, nella realizzazione di due interpretazioni della Natività: Leonardo da Vinci, equilibrato, statico e strutturato, e Caravaggio, impetuoso e incontenibile.
Leonardo da Vinci
Leonardo, nato a Vinci (Firenze) il 15 aprile del 1452, era figlio illegittimo di Ser Piero. Formatosi nella bottega del Verrocchio, rappresenta ancora oggi un caso unico, nonostante fosse “homo sanza lettere”; in vita sua non intese mai occuparsi solo di pittura, scultura e architettura, ma si impegnò a riconoscere il valore dell’esperienza, intesa come sperimentazione e studio meticoloso e scientifico della realtà, in tutte le sue forme.
Di Leonardo, spirito critico e innovatore del Rinascimento italiano, tutti ormai conoscono il genio, ma pochi conoscono l’uomo che non smise mai, in fondo, di essere quel bambino di Vinci che si chiedeva perché e per cosa.
La sua storia, ancora oggi, rappresenta una vera e propria odissea (fig. 1).
Adorazione dei Magi, 2,46 x2,43 m, Galleria degli Uffizi, 1481-82, olio su tavola e tempera grassa
Preso sempre da nuovi interessi, Leonardo spesso ebbe difficoltà a portare a termine le sue opere. Nel 1481 i frati del Convento di San Donato a Scopeto (Firenze) gli commissionarono una pala d’altare col tema dell’Adorazione dei Magi, opera che non verrà mai terminata a causa della partenza dell’artista verso Milano.
La tavola dell’Adorazione dei Magi ritrae il momento della visita dei Magi di Gesù bambino; l’artista, inoltre, richiama l’assenza della figura paterna, ricordandoci la propria condizione familiare (fig. 2).
Fisionomia, prospettiva, architettura, botanica, zoologia, sono le materie sulle quali Leonardo focalizza il suo interesse, anche a costo di sminuire la correttezza teologica della scena. In questo giovane Leonardo è già possibile riconoscere la trasversalità delle sue conoscenze. Forse i lineamenti del personaggio all’estrema destra del quadro sono quelli di Leonardo stesso, come era di prassi fra gli artisti del tempo farlo (fig. 3).
Leonardo in questa opera contrappone la pace trasmessa dai protagonisti sacri al caos espresso dal resto della figurazione (fig. 4, 5).
A livello compositivo la tavola presenta una struttura del tutto nuova e particolarmente audace per l’epoca: le figure che prendono parte all’evento straordinario fanno da corona alla Vergine, allungandosi con un movimento orbitale verso l’esile figura immersa in un’atmosfera che è anche barriera invisibile per la massa di persone.
L’opera che ammiriamo si presenta ai nostri occhi pressoché allo stato di abbozzo, ma già così ci permette di percepire il lungo processo creativo, fatto di una lunga serie di studi preparatori, che ha visto impegnato l’artista. Prima di arrivare all’abbozzo dell’Adorazione, Leonardo si impegnò a studiare l’episodio precedente, vale a dire il momento della nascita, della Natività, incorporato da Leonardo nell’evento dell’Adorazione e collocato sulla destra, come in una scena cinematografica, grazie all’utilizzo della prospettiva, la “cinepresa” del suo tempo, al tempo.
La composizione è centrata secondo un sistema di diagonali che s’incrociano sul capo della Vergine, ma la scena prospettica ha il suo punto di fuga spostato a destra, fra i due alberi; ciò significa che la carrellata scenografica sta lasciando fuori campo quello che è a destra, la capanna nella quale sono rimasti solo l’asino e il bue, solo in parte visibili: è in questo modo che Leonardo allude a ciò che è accaduto due settimane prima, la nascita di Cristo (fig. 6).
Caravaggio
Michelangelo Merisi, nato a Milano il 29 settembre del 1571, da una famiglia del borgo di Caravaggio, il suo apprendistato nella bottega del Peterzano dove assimila la tradizione del realismo lombardo di Moretto, Romanino e Savoldo, che gli permisero di imporsi come uno degli artisti più innovativi del suo tempo.
La vita di Caravaggio fu particolarmente tormentata e proprio questo aspetto fece sì che nel corso dei secoli l’artista rientrasse tra i geni definiti “maledetti” (fig. 7).
Lo sviluppo stilistico di Caravaggio lo portò dalle tinte chiare delle prime opere giovanili fino ai forti contrasti di ombre e luci che, nelle opere più mature, accentuano spesso l’immediatezza della brutale realtà della rappresentazione.
Negli ultimi anni del Cinquecento l’artista abbandonò anche i temi della pittura giovanile, prevalentemente di carattere allegorico, per lasciare posto ai soggetti sacri: d’ora in poi le figure protagoniste verranno evidenziate da funesti fasci di luce che, in contrasto con nette zone d’ombra, renderanno profonda e cruda la realtà raccontata dal pittore.
Senza disegno preparatorio e con pennellate veloci, in questa nuova fase della pittura di Caravaggio prevalgono gli sfondi scuri, all’interno dei quali viene abolito quasi del tutto lo sfondo paesistico, in modo tale da porre così invece l’attenzione tutta sull’uomo.
Da questa breve premessa sulla figura di Caravaggio capiamo chiaramente quanto sia forte la componente realistica della sua arte: in ogni tela egli trasferisce la vita vissuta, dipinge dal vero utilizzando dei modelli umili, presi dalla strada, che posano separatamente per poi essere sovrapposti sulla tela. Trovata, questa, che gli causò non pochi rifiuti da parte dei committenti, i quali non potevano accettare di vedere, ad esempio, una Vergine simile ad una donna del popolo, scoperta e ritratta in un ambiente umile e negletto.
Natività con i santi Lorenzo e Francesco d'Assisi, 2,68x1,97 m, 1600, olio su tela
Durante la permanenza in Sicilia, nel suo penultimo anno di vita, l’Oratorio della Compagnia di San Lorenzo di Palermo commissionò a Caravaggio una Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi.
L’opera, realizzata nel segno del grande realismo, sua più nota cifra stilistica, mette in scena sei personaggi che nell’aspetto sembrano essere poveri ed emarginati: la Madonna, San Giuseppe, San Lorenzo, San Francesco d’Assisi, l’angelo planante e il sesto personaggio, probabilmente San Leone (fig.8).
L’opera, trafugata nel 1969 e della quale se ne sono perse del tutto le tracce, rivela ancora una volta il senso doloroso della vita per Caravaggio, con la presenza di personaggi interpretati da gente semplice e con un’intensità espressiva del tutto unica; protagonisti sono ancora una volta gli emarginati e i poveri che Caravaggio aveva conosciuto e con i quali aveva vissuto durante le sue continue fughe per l’Italia.
Se nell’Adorazione dei Magi Leonardo aveva scelto di abbandonare il momento della Nascita di Cristo per lasciare spazio al momento dell’Adorazione, Caravaggio invece ci racconta il momento vero e proprio della Natività. Grazie all’autentico realismo, presente fino all’ultimo nelle sue opere, l’artista rende l’episodio del tutto verosimile, oltre ad accentuare la componente drammatica grazie ai giochi di ombre e luci che caratterizzano questa sua fase creativa.
La Natività in questione, oltre a presentarsi come assolutamente vera e profonda, mette in scena una serie di personaggi colti in atteggiamenti del tutto spontanei: San Giuseppe, molto giovane rispetto all'iconografia tradizionale, ci volge le spalle e, avvolto in un manto verde, è intento a dialogare con un personaggio che si trova dietro la figura di San Francesco, l’ipotetico Fra Leone. La presenza di San Francesco è sicuramente un tributo all'Oratorio, che all'epoca era passato alla Venerabile Compagnia a lui devota costituitasi già nel 1569. La figura a sinistra è San Lorenzo. Al centro, la Madonna appare qui con le sembianze di una donna comune, nel suo aspetto estremamente malinconico e forse già consapevole della fine del figlio, posto sopra un piccolo giaciglio di paglia (fig.9, 10). È proprio il Bambino a conferire alla scena un forte senso di realismo: Caravaggio dipinge il figlio di Dio come un bambino qualsiasi, evitando di rappresentarlo in preghiera o in Giudizio, come accade in quadri più antichi; proprio sopra il bambino, intanto, vi è un angelo planante, simbolo della gloria divina (fig,11). La testa del bue è visibile, mentre l'asino si intravede appena.
Bibliografia
Il libro dell’arte. Come guardare l’arte, Bernard Myers, Grolier incorporated
Leonardo, la pittura. Carlo Pedretti, artedossier, Giunti editore
Leonardo, l’ultima cena, Rizzoli, a cura di Federico Zeri
Leonardo pop-up, Courtney Watson McCarthy, Edizioni White Star
Leonardo da Vinci. Dall'Adorazione dei Magi all'Annunciazione. Raffaele Monti, Sillabe
Caravaggio. Roberto Longhi, a cura di Giovanni Previtali, Editori riuniti
Caravaggio, Canestra di frutta. Introduzione di Philippe Daverio. I capolavori dell’arte, Corriere della sera
Caravaggio. La Natività di Palermo. Nascita e scomparsa di un capolavoro. Michele Cuppone, Saggi di storia dell’arte
Sono nata ad Adrano, in provincia di Catania, nel 1990.
Ho conseguito i miei studi presso l'Accademia di Belle Arti di Catania, conseguendo dapprima laurea di primo livello in Comunicazione e valorizzazione del patrimonio storico artistico e successivamente laurea di secondo livello in Progettazione artistica per l'impresa, diventando cultrice della materia storia dell'arte contemporanea presso la stessa Accademia.
Ho avuto la possibilità di intraprendere percorsi lavorativi di svariata natura, dalla didattica museale, attraverso percorsi laboratoriali, portati anche nella scuola dell'infanzia e primaria, al ruolo di operatore culturale per la curatela e organizzazione di eventi d'arte nella mia città e lavorando anche presso una galleria d'arte contemporanea ho avuto la possibilità di inserirmi in un contesto contemporaneo nazionale e internazionale conoscendo artisti le cui tecniche e i modi di lavorare camminano al passo col mercato dell'arte.
Per Storia dell'arte sono redattrice per il progetto Discovering Italia per la regione Sicilia.
ORIGINE E ICONOGRAFIA DELLA TOMBOLA NAPOLETANA
A cura di Ornella Amato
Chest’ è ‘a man …
… E chist è ‘o cul’ ro’ panar’! [1]
L'Origine del gioco del Lotto tra Genova e Napoli
Il Gioco del Lotto nasce a Genova nel 1539 e arriva a Napoli circa 150 anni dopo. Qui non solo trova terreno fertile, ma affianca e fa sua la “Smorfia”, ovvero il Libro dell’interpretazione dei Sogni, che associa ad ognuno dei 90 numeri che la compongono una figura o un fatto e che consente l’interpretazione dei sogni, tramutandoli in numeri da giocare per tentare di vincere al Lotto.
A Napoli la tradizione della Smorfia e dell’interpretazione dei sogni è da sempre fortissima, tanto da aver ispirato alcune delle commedie di Eduardo De Filippo, come “Non ti pago”, dove l’esatta interpretazione di un sogno e la sua trascrizione in numeri porta ad una grossa vincita al lotto ed il diritto di rivendicare il sogno, con la relativa vincita in denaro, diventano materia di scontro su cui si muove la commedia. O anche “Natale in Casa Cupiello”, dove il fratello del protagonista è proprio impiegato presso uno dei Banchi del Lotto della città e rimarca il fatto che il “bancolotto” va bene, perché “la povera gente nei giorni di festa gioca …”, dove i giorni di festa a cui si fa riferimento sono le festività natalizie, periodo per eccellenza dedicato nelle case napoletane al gioco del lotto e della tombola.
Proprio alla “povera gente che gioca nei giorni di festa” sono legate le origini del gioco della Tombola, che nacque a Napoli da una costola del gioco del Lotto e che rischiò di provocare uno scontro tra Carlo III di Borbone e la Chiesa, rappresentata dal frate domenicano Gregorio Maria Rocco, religioso popolare nella capitale borbonica per i suoi sermoni di alto rigore.
Secondo la tradizione lo scontro risalirebbe al 1734, quando Carlo di Borbone volle ufficializzare e porre sotto il suo controllo il gioco del Lotto perché non fosse clandestino e per incrementare le entrate del regno. Padre Rocco considerava tale gioco assolutamente immorale perché contrario ai principi religiosi e cattolici e perché rischiava di spingere i credenti, presi dalla legalizzazione del gioco stesso, a dedicati più ad esso che alla preghiera, allontanandoli così dai testi Sacri.
L’unica soluzione attuabile era quella di arrivare ad un compromesso che accontentasse ambo le parti: il gioco del lotto venne così legalizzato, ma vietato durante il periodo natalizio. Tuttavia, ne conseguì lo sviluppo di una sorta di “lotto clandestino” nelle case, specie quelle dei rioni popolari, all’interno delle quali ci si riuniva per giocare.
Vita quotidiana, piccoli accadimenti apparentemente anche di poca importanza, eventi improvvisi: tutto veniva associato a uno o più numeri attraverso il libro della Smorfia. Ai numeri da 1 a 90 furono associati personaggi, luoghi, date, parti del corpo umano e mestieri che sono rimasti pressappoco inalterati fino ad oggi.
Una sorta di “maestro banditore” estraeva i numeri dal cestino indicandone la cifra, ma soprattutto cosa ad essi era associato, quasi a chiamarli per nome. Tutto questo consentiva anche ai molti analfabeti di poter partecipare al gioco poiché – anche non riconoscendo il numero estratto – potevano controllare sulla cartella il disegno ad esso corrispondente.
Sì, la cartella: un cartoncino su cui erano indicati 15 numeri divisi in tre file e accanto ad ogni numero il disegno con cui si interpretava il numero stesso.
I numeri da 1 a 90, la cartella per segnarli e il cestino da cui si estraggono erano e sono tutt’oggi i tre elementi fondamentali che compongono la Tombola Napoletana.
Il nome tombola deriva da “tombolo”, lo strumento di lavoro tondeggiante che vagamente ricorda un cestino e col quale si realizzano merletti, anche se il cestino da cui vengono estratti i numeri del gioco ha una singolare forma conica, con un’apertura alla sommità che consente la fuoriuscita del numero.
I 90 numeri e la loro interpretazione
Ognuno dei 90 numeri viene associato ad un’immagine, ad una definizione, a qualcosa che esiste nell’immaginario collettivo o che può essere riferito ad un sogno, ma anche a fatti e/o situazioni del quotidiano. Nel corso del tempo, diverse sono state le “aggiunte” e le “correzioni” a questi numeri. Basti pensare al numero 1 - l’Italia - associazione che è lecito pensare non possa risalire ai tempi del regno borbonico.
1 - L’Italia
2 - ‘a piccerella (la bambina)
3 - ‘a gatta (la gatta)
4 - ‘o puorco (il maiale)
5 - ‘a mano (la mano)
6 - chella ca guarda ‘nterra (l’organo femminile)
7 - ‘o vaso (il vaso)
8 - ‘a Maronna (la Madonna)
9 - ‘a figliata (gruppo di figli)
10 - ‘e fasule (i fagioli, ma dagli anni ’80 è stato sostituito da Maradona)
11 - ‘e suricille (i topolini)
12 - ‘e surdate (i soldati)
13 - Sant’Antonio (ricordandone la festività del 13 giugno, molto sentita a Napoli e provincia)
14 - ‘o mbriaco (l’ubriaco)
15 - ‘o guaglione (il ragazzo)
16 - ‘o culo (il sedere)
17 - ‘a disgrazia (la disgrazia o anche la “disgrazia di Pulcinella”)
18 - ‘o sanghe (il sangue)
19 - ‘a resata (la risata od anche “San Gennaro, patrono della città di Napoli che si festeggia il 19 settembre)
20 - ‘a festa (la festa)
21 - ‘a femmena annure (la donna nuda)
22 - ‘o pazzo (il folle)
23 - ‘o scemo (lo stupido)
24 - ‘e gguardie (poliziotti, carabinieri, guardie carcerarie)
25 - Natale
26 - Nanninella (Anna, ricordando la festività di Sant’Anna che si celebra il 26 luglio, nome molto comune tra le donne di Napoli e provincia)
27 - ‘o cantero (il vaso da Notte)
28 - ‘e zizze (il seno femminile)
29 - ‘o pate d’e criature (l’organo riproduttivo maschile)
30 - ‘e palle d’o tenente (le munizioni)
31 - ‘o padrone e casa (il proprietario di casa)
32 - ‘o capitone (l’anguilla femmina)
33 - l’anne ‘e Cristo (gli anni di Gesù Cristo)
34 - ‘a capa (la testa)
35 - l’aucelluzzo (l’uccellino)
36 - ‘e castagnelle (le nacchere spagnole)
37 - ‘o monaco (il monaco, il frate)
38 - ‘e mmazzate (le percosse, le botte)
39 - ‘a funa nganna (la corda al collo, l’impiccagione)
40 - ‘a paposcia (l’ernia inguinale)
41 - ‘o curtiello (il coltello)
42 - ‘o cafè (il caffè)
43 - ‘onna pereta for ‘o barcone (la donna pettegola)
44 - ‘e ccancelle (le carceri)
45 - ‘o vino buono (il vino gustoso)
46- ‘e denare (i soldi)
47 - ‘o muorto (la persona defunta)
48 - ‘o muorto che parla (il defunto che parla)
49 - ‘o piezz e carne (la donna prosperosa)
50 - ‘o ppane (il pane)
51 - ‘o ciardino (il giardino)
52 - ‘a mamma (la madre)
53 - ‘o viecchio (l’anziano)
54 - ‘o cappiello (il cappello)
55 - ‘a museca (la musica)
56 - ‘a caruta (la caduta)
57 - ‘o scartellato (il gobbo)
58 - ‘o paccotto (il pacchetto)
59 - ‘e pile (i peli)
60 - ‘o lamiento (il lamentarsi)
61 - ‘o cacciatore (il cacciatore)
62 - ‘o muorto acciso (il morto assassinato)
63 - ‘a sposa (la sposa)
64 - ‘a sciammeria (la giacca per cerimonie)
65 - ‘o chianto (il pianto)
66 - ‘e ddoje zetelle (le due donne nubili)
67 - ‘o totaro int’a chitarra (il totano nella chitarra)
68 - ‘a zuppa cotta (la zuppa cotta, la minestra che si mangia proprio nel periodo di Natale, generalmente il 26 dicembre)
69 - sott’e ‘ncoppa (il sottosopra)
70 - ‘o palazzo (il palazzo, la casa)
71 - l’omme ‘e merda (l’uomo meschino)
72 - ‘a maraviglia (la meraviglia)
73 - ‘o spitale (l’ospedale)
74 - ‘a rotta (la grotta)
75 - Pulcinella
76 - ‘a funtana (la fontana)
77 - ‘e riavulille (i diavoletti, il diavolo)
78 - ‘a bella figliola (la prostituta)
79 - ‘o mariuolo (il ladro)
80 - ‘a vocca (la bocca)
81 - ‘e sciure (i fiori)
82 - ‘a tavula ‘mbandita (il banchetto)
83 - ‘o maletiempo (il mal tempo)
84 - ‘a cchiesa (la Chiesa)
85 - ll’aneme ‘o priatorio (il purgatorio)
86 - ‘a puteca (il negozio)
87 - ‘e perucchie (i pidocchi)
88 - ‘e casecavalle (i caciocavalli)
89 - ‘a vecchia (la donna anziana)
90 - ‘a paura (la paura)
L’iconografia tradizionale della tombola napoletana
In questa sede vogliamo porre l’attenzione soprattutto su quei numeri che presentano un’iconografia tale da rimarcare abitudini e consuetudini del popolo napoletano e dal quale prendono spunto, diventandone rappresentativi, in particolar modo in riferimento al popolo dei vicoli, dei quartieri popolari dove le tradizioni – anche culinarie – trovano spazio tra i numeri - come dimostra il numero 68, che fa riferimento alla zuppa (la minestra, nello specifico la “minestra maritata”).
Oppure il numero 43, ‘onna pereta for ‘o barcone (la donna pettegola), od anche il 47 ed il 48, il morto e il morto che parla, poiché nel vissuto quotidiano dei napoletani, i defunti hanno sempre avuto un ruolo importante, così come le anime purganti, al numero 85, l’età di morte del Cristo (33, età e suo corrispettivo nella tombola popolare napoletana),la maschera napoletana, Pulcinella al numero 75, il capitone – al numero 32 – che non deve mancare sulla tavole napoletane la sera della Vigilia di Natale.
Ma anche date e ricorrenze come il Natale, rigorosamente al 25 ed anche i mestieri e i personaggi che riempivano le ore del giorno: dai bottegai ai proprietari di casa, passando per le prostitute, od anche le donne anziane sedute (ancora oggi!) fuori le porte dei bassi all’interno dei vicoli, la Chiesa, il monaco, al numero 37, che voleva contrastare il diffondersi del gioco del lotto e, suo malgrado, aveva quasi favorito il diffondersi della tombola ed i Santi cui il popolo partenopeo è da sempre devoto, i sentimenti come la meraviglia al numero 72 e, in fondo al paniere, al numero 90, la paura.
Sì la paura. La paura dell’incertezza del domani, del futuro, del “non sapere” cosa accadrà, la voglia di cercare risposte affidandosi ai sogni, alle interpretazioni, a un qualcosa di soprannaturale che indichi una via, che dia una risposta, ma anche e soprattutto la voglia di divertirsi, di giocare, affidando l’intero mondo del quotidiano popolare a 90 numeri, 90 numeri che, a detta dei napoletani, non sbagliano mai!
La foto in testa all'articolo è stata realizzata dall’autrice; per la fig. 2 e dalla fig. 4 alla 8 si ringrazia la famiglia Stellabotte per la concessione delle immagini della Tombola popolare napoletana.
Note
[1] “questa è la mano che estrae, questo è il fondo del paniere in cui ci sono i numeri da estrarre” frase di inizio gioco, detta a gran voce da chi estrae, mostrando la mano sinistra in alto, aperta e vuota ed il paniere nella mano destra che lo fa ruotare mescolando i numeri in esso contenuti.
Sitografia
Laureata nel 2006 presso l’università di Napoli “Federico II” con 100/110 in storia * indirizzo storico-artistico.
Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.
Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it
NATALE IN RUSSIA ATTRAVERSO 10 OPERE
A cura di Luisa Generali
Se immaginiamo un’atmosfera natalizia incantata avvolta da un freddo cristallino che regala sensazioni magiche, senz’altro ci verranno in mente certi scenari nord-orientali, tra cui le fiabesche ambientazioni della Russia con le sue inconfondibili chiese colorate ricoperte di neve: gelido inverno, racconti e tradizioni folkloristiche sono infatti gli ingredienti che danno luogo a un mix perfetto per celebrare il Natale dei popoli dell’Est Europa. Rappresentativa di questo clima natalizio è l’opera del pittore russo Boris Michajlovič Kustodiev (1878-1927) dal titolo Contrattazione natalizia (fig.1), dove un via vai di personaggi si muovono su un manto innevato mentre sullo sfondo scintillano le cupole a bulbo di una chiesa. Lo stile macchiettistico è una caratteristica di tale pittore allievo di Vasilij Grigor'evič Perov, tra i capo fondatori dei Peredvižniki (Itineranti o Ambulanti), gruppo di artisti indipendenti che si staccarono dal mondo accademico per adottare uno stile realista, i cui temi principi dovevano essere le radici nazionali, il riscatto sociale delle campagne ma anche la vivacità e il fascino delle tradizioni popolari. Nel dipinto la scena di festa per la frenesia del Natale assume una connotazione magica, qui i personaggi diventano piccoli e giocosi ometti colorati alle prese con i preparativi delle festività. Protagonista del dipinto, oltre alla luminosità che regala un clima incantevole, è senz’altro l’abete natalizio che qui vediamo nel momento dell’acquisto per poi essere addobbato nelle case, proprio come viene illustrato nell’opera di Aleksey Mikhailovich Korin (1865-1923) intitolata L’albero di Natale (fig.2).
L’artista, sempre della scuola realista dei Peredvižniki, ritrae un momento d’intimità dove in un’ambientazione domestica una giovane ragazza ha appena iniziato a decorare il suo abete, come si nota dai rami dell’albero ancora per metà spogli di addobbi. L’atmosfera calda e familiare che si respira per l’inizio delle ricorrenze è evocata grazie all’uso del solo colore e dalle pennellate veloci che bastano a trasmettere l’essenza di questo attimo; la purezza della scena inoltre è ravvivata dalla veste bianca della ragazza che rimanda al candore del Natale. Il rito della decorazione dell’abete, simbolo del periodo natalizio per credenti cristiani e non, venne accolto in Russia nel XIX secolo a seguito delle usanze occidentali. Tuttavia, con l’adozione del calendario giuliano il Natale ortodosso viene festeggiato il 7 gennaio cadendo quindi 13 giorni dopo il Natale cattolico: questa posticipazione, che si conclude il 19 gennaio con l’Epifania, fa sì che l’albero di Natale nei paesi dell’est prenda il nome di Albero di Capodanno.
È proprio a Capodanno che entrano in scena Ded Moraz, anche detto Nonno Gelo, e Snegurocka, due personaggi del folklore russo che la notte di Capodanno hanno il compito di portare doni ai bambini. Secondo i racconti popolari Nonno Gelo, che ricopre il ruolo del nostro Babbo Natale, simile anche nella fisicità con una lunga barba bianca e una pesante veste blu, sarebbe aiutato nella consegna dei regali dalla giovane nipote Snegurocka, nome che si può tradurre con Fanciulla di Neve o Nevina, spesso immaginata come una bellissima ragazza dai capelli biondi raccolti in una treccia, con indosso la tipica giacca femminile azzurra e l’immancabile “kokoshnik”, la tiara tradizionale russa. La storia moderna di Ded Moraz e Snegurocka è frutto di una serie di trasformazioni di miti nordici ben più complessi che sono stati soggetto di alcune opere teatrali e pittoriche.
Risale al 1873 l’opera del drammaturgo Aleksandr Ostrovskij che porta il nome della protagonista Snegurocka, una tragedia sentimentale tra le forze della natura che vede protagonista la giovane, figlia della Primavera, e Ded Moraz (in seguito individuato dalla tradizione popolare come suo nonno). Così Sneguročka, forzata a vivere in solitudine perché condannata dal Sole a non innamorarsi, nonché desiderosa di vivere una vita come le altre ragazze, viene accolta nel villaggio di Berendeev dove, dopo varie vicende, conosce il giovane Mizgir' e se ne innamora per poi svanire colpita da un raggio di Sole. La scenografia fu affidata a Viktor Michajlovič Vasnecov (1848-1926), pittore noto per la sua maestria nel rappresentare visivamente favole e miti pagani della tradizione russa, che ritrae Sneguročka come un’adolescente vestita di bianco smarrita in un paesaggio selvaggio e innevato (fig.3). La componente fantastica è qui messa da parte per concentrarsi piuttosto sulle vicende umane-romantiche della giovane protagonista in preda a incertezze e dubbi sulla sua esistenza, avvolta dall’incanto ma anche dalla maledizione di essere la personificazione dell’Inverno.
Rende omaggio a Snegurocka anche l’artista polacco Kazimierz Stabrowski (1869-1929) esaltando invece, attraverso lo stile simbolista, il lato magico della vicenda (fig.4). L’opera racconta infatti l’arrivo della primavera in un’atmosfera sognante, presagendo il dramma della morte della ragazza, assorta dalla luce tiepida del sole che le sarà fatale, mentre tutt’intorno i fiori e la vegetazione risorgono dalla neve. In forte contraddizione con la drammaticità del momento, la scena è mascherata dalla bellezza della composizione che allude alla tragedia attraverso i simboli della primavera, mentre, al contrario dell’opera sopracitata di Viktor Michajlovič Vasnecov, la fanciulla perde tutta la sua ingenuità per esprimersi in un fascino languido e inquieto.
Raccontano invece momenti di vita quotidiana delle campagne le scenette del pittore russo Konstantin Trutovsky (1826-1893), il quale dipinge la Notte di Natale attraverso le usanze del popolo ucraino (fig.5), tra giochi sulla neve e la tradizione dei canti natalizi, o “Koliada”, intonati dai ragazzi che passavano di casa in casa portando gli auguri ad amici e parenti in cambio di regali. Una tradizione simile diffusa in molti paesi dell’est e del nord Europa è anche quella dei Cantori della Stella (fig.6), rappresentati nell’opera di Von Mykola Pymonenko (1862-1912) in cui, oltre al canto e alla condivisione della gioia del Natale, gruppi di bambini giravano per il paese e nelle case con una stella di carta illuminata come una lanterna, simboleggiando la visita dei Magi alla venuta al mondo del Redentore. Dall’opera traspare la volontà di dar voce a un rito popolare che porta con sé l’essenza dello spirito del Natale insito nelle tradizioni popolari i cui portavoce sono degli umili bambini.
Dello stesso artista ucraino Von Mykola Pymonenko, altro componente della corrente artistica del realismo russo, è l’opera che ci introduce al tema dell’arte divinatoria in Russia nel periodo natalizio, credenze molto curiose che hanno origini pagane e che ancora oggi vengono praticate durante le festività come pratiche superstiziose. Queste strana credenza che unisce il Natale agli usi antichi coincideva con il solstizio d’inverno che, secondo gli antichi, era un buon momento per stabilire un contatto con le divinità e fare delle previsioni per il nuovo anno. Un rito divinatorio era, per esempio, la predizione del futuro tramite la lettura delle ombre sulla parete bruciando un foglio al lume di una candela (fig.7): come si vede nell’opera soggetti di questi momenti di superstizione erano soprattutto giovani ragazze curiose della loro futura vita matrimoniale, ritratte con gli abiti e gli accessori del folklore in momenti di convivialità in famiglia o con le amiche.
Un rito simile è quello rappresentato dal pittore Aleksej Gavrilovič Venecianov (1780-1847), più anziano e quindi ancora legato al mondo dell’accademia, che ritrae con uno stile nitidissimo due contadine alle prese con la lettura delle carte (fig.8). Oltre alla cartomanzia era usanza comune delle ragazze mettere sotto il proprio cuscino prima di andare a dormire le carte dei Re, una per ogni seme, aspettando in sogno chi tra questi prototipi di uomo sarebbe toccato in sorte alle giovani. Un altro metodo divinatorio era quello identificato con la storia di Svetlana del poeta Vasilij Zukovskij. Scritta agli inizi dell’Ottocento, la ballata racconta le vicende della giovane ragazza russa Svetlana che, incerta sulle sorti del suo fidanzato, compie il rituale divinatorio dello specchio: questo rito, solitamente praticato la notte della Vigilia di Natale ed eseguito in una stanza buia al solo lume di due candele e con due specchi a confronto, doveva rispondere a domande di tipo amoroso e mostrare nello specchio il volto del futuro sposo. Descrive il momento della divinazione il pittore Aleksandr Novoskoltsev (1853-1919) che, in un’ambientazione ombrosa, fa risplendere la meravigliosa Svetlana in abiti tradizionali esaltando il rosa della veste e la preziosità degli accessori, in modo da cogliere gli aspetti più misteriosi e arcani del rito (fig.9).
Se in questo dipinto la reale protagonista è Svetalana, ritratta dietro lo specchio di cui vediamo in ombra solo la complessa sagomatura, nell’opera di Karl Pavlovič Brjullov (1799-1852) l’immagine si sdoppia e il vero protagonista diviene il riflesso della fanciulla nella specchiera, mentre il punto di vista dello spettatore è posto dietro le sue spalle come a poter cogliere a pieno la bellezza a tutto tondo della figura e ammirarne i dettagli dell’acconciatura e della tiara (fig.10). La perfezione di quest’opera rivela la formazione accademica di Brjullov, pittore attivo nella metà dell’Ottocento, che frequentò e si ispirò molto all’Italia, sia nello stile guardando alla classicità, che nei soggetti storici-allegorici della tradizione italica. La sensazione di attesa e la concentrazione che la ragazza rivolge allo specchio, in questa atmosfera soffusa quanto intima, ci rivela dei retroscena del Natale in Russia non solo incantevoli ma realmente “magici”.
Bibliografia
Per approfondimenti: Mila Fois, Miti Slavi e Russi: Divinità, Eroi e Creature del Folklore, 2019.
Sitografia
Sulle tradizioni russe:
https://www.treccani.it/enciclopedia/viktor-michajlovic-vasnecov/
https://artsandculture.google.com/asset/the-snow-maiden-kazimierz-stabrowski/OQE3P6hg_LLUug
https://www.treccani.it/enciclopedia/kazimierz-stabrowski_%28Enciclopedia-Italiana%29/
https://www.treccani.it/enciclopedia/nikolaj-kornilevic-pimonenko/
Sono nata a Empoli (FI) nel 1991, e dopo aver vissuto per qualche anno a Vinci, sono residente da tempo a San Miniato (PI). Ho studiato storia e tutela dei beni culturali per poi proseguire conseguendo la laurea in storia dell´arte all´Università degli di Studi di Firenze con una tesi in arte moderna. La mia passione per le arti figurative e la cultura in senso lato mi porta ad essere spesso curiosa, andando alla ricerca di meraviglie e splendidi capolavori, anche negli angoli meno pensati.
Per storia dell´arte sono la referente della regione Toscana.
IL NATALE DEI PASTORI: “L’ADORAZIONE DONATI” DI LEANDRO BASSANO
A cura di Alessia zeni
In questo nuovo contributo dedicato al Natale andremo a conoscere l’arte di Leandro Bassano (Bassano, 1557 – Venezia, 1622), figlio del più celebre Jacopo Bassano, e in particolare l’“Adorazione dei pastori”, tema trattato a più riprese dall’artista veneto e dalla bottega Bassanese. In questa sede andremo soprattutto a conoscere un capolavoro di Leandro Bassano l’“Adorazione dei pastori” della Collezione Luigi Donati datata tra il 1595 e il 1600, scoperta qualche anno fa e presentata al pubblico per la prima volta nella mostra “Il Natale degli umili nella pittura di Leandro Bassano”, nel 2007, al Museo Diocesano di Trento. Una mostra ideata e curata da Roberto Pancheri e Domenica Primerano e al quale questo contributo fa riferimento.
L’“Adorazione dei pastori” di Leandro Bassano presa qui in esame faceva parte di una delle più consistenti collezioni d’arte del Trentino: la collezione di Luigi Donati, imprenditore e pioniere della bachicoltura in Trentino che nella seconda metà del XIX secolo si dilettò a comprare e acquisire diversi quadri e opere d’arte antica. Nella sua collezione, conservata nel palazzo di famiglia a Mezzocorona, nella Piana Rotaliana del Trentino occidentale, vi era un’”Adorazione dei pastori” che all’epoca era conosciuta come la “Natività”. Quest’opera era stata esposta al pubblico per la prima volta alla mostra d’arte sacra del 1905, organizzata presso il Seminario minore di Trento, e poi acquisita nel 1983 da Giulio Angeli di Mezzocorona, nipote ed erede di Luigi Donati e attuale proprietario dell’opera.
Negli anni, la produzione artistica di Leandro Bassano è stata di difficile individuazione, soprattutto quella del periodo giovanile, in quanto legata alla produzione del padre, Jacopo, e alla bottega di famiglia, formata dagli altri tre figli di Jacopo, Francesco detto il Giovane, Giambattista e Gerolamo[1]. Più certa è la produzione matura di Leandro, sia per lo stile e la maturità pittorica raggiunta che per le diverse opere firmate dall’artista. È questo il caso della nostra ”Adorazione dei pastori” che per anni è stata sconosciuta alla critica artistica, nonostante l’opera fosse stata firmata dal pittore “LEANDER A / PON.E BASS.IS / EQVES. F.”. L’artista ha dipinto la firma al centro dell’opera, sullo scalino in pietra dove è adagiata la mangiatoia e con il titolo di “Eques” per ricordare il titolo di Cavaliere di San Marco che gli fu conferito nel 1595, dal doge Marino Grimani.
L’“Adorazione Donati” è un vero e proprio capolavoro del giovane artista bassanese, marchio della produzione artistica più matura, ma anche della bottega Bassanese. L’opera che misura 139x117 cm è la trasposizione in immagine del racconto evangelico di Luca, dove al capitolo 2, versetti 8-20 racconta l’annuncio ai pastori della nascita del Messia, il Signore. In questa tela Leandro dipinge il Natale dei pastori, i primi ai quali fu annunciata la nascita del Salvatore e i primi a recarsi dal Messia a Betlemme. I pastori sono i veri protagonisti della tela, raffigurati attorno alla mangiatoia con i loro animali, mentre Giuseppe e Maria sono collocati in secondo piano per lasciare la scena al popolo più umile della società di allora. Sono pastori di tutte le età, uomini, donne e ragazzi raffigurati con gestualità e lineamenti piuttosto marcati che esprimono stupore e riverenza alla vista del Bambinello. Il centro della raffigurazione è la cesta sulla quale è adagiato il Messia e dalla quale convergono tutte le direttrici dell’opera; una luce soprannaturale, irraggiata dal Bambinello, illumina la scena di una luce crepuscolare, segno distintivo della produzione artistica matura di Leandro Bassano, molto diversa dai forti chiaroscuri delle opere di padre e fratelli. La composizione dei vari personaggi è piuttosto serrata all’interno della scena e gran parte di loro converge con gli sguardi e con i gesti in direzione della culla: il pastore posto di spalle in primo piano, il pastore in secondo piano con il cappello in mano, l’anziana con le uova (sinistra), il pastore stempiato con la mucca (destra). Gli altri personaggi guardano in differenti direzioni, espediente voluto dall’artista per dare dinamicità alla scena: la coppia di pastori in alto a destra, uno dei quali indica e guarda gli angeli, mentre l’altro porta un fagotto sulla spalla, e la coppia di giovani pastori, seduti in primo piano. Il più giovane suona il flauto con le gambe serrate, forse per il freddo, ed ha con se una lanterna spenta, mentre il più grande con la spalla scoperta rovista nella cesta delle uova (Fig. 2). Tutti i pastori sono rappresentati con abiti grezzi e succinti e con una gestualità spontanea come gli angeli nel cielo che sembrano più dei pastori che delle creature divine. Molto più convenzionali i personaggi di Maria e Giuseppe sia nella mimica che nella fisionomia, sistemati in un’architettura appena accennata composta da una colonna in pietra e un tetto in legno, forse l’accenno di una capanna. In ultimo, ma non meno importante, è il campionario di animali domestici che accompagna i pastori: l’asino, due tortore, una gallina, una mucca, una capra, una pecora ed un cane.
Il tema dell’”Adorazione” qui trattato da Leandro Bassano è in linea con la produzione artistica pastorale della bottega paterna. Una bottega, quella dei Bassano, che aveva una spiccata abilità nel rappresentare gli ambienti pastorali con greggi, animali da cortile e rustici pastori e che prendeva ispirazione dal mondo rurale veneto. All’interno di questo ambiente bucolico trovava spazio l’episodio religioso, dando così origine alla pittura di genere, della quale i Bassano furono ispiratori e protagonisti. I quadri dipinti da Leandro emergono per la forte resa realistica dei dettagli, ma soprattutto per la grande umanità semplice e affaccendata che trasudano i vari personaggi e che testimoniano la grande passione narrativa del pittore veneto.
L’“Adorazione dei pastori Donati” non è oggi visibile al pubblico, poiché appartiene a collezione privata, ma al Castello del Buonconsiglio di Trento è conservata un’opera più tarda e molto simile all’“Adorazione Donati”, dipinta da Leandro per la chiesa di Santa Sofia a Venezia tra il 1600 e il 1610. E esiste anche un’ulteriore versione, anch’essa posteriore, conservata nelle collezioni della Rhode Island School of Design al Museo di Arte di Providence negli Stati Uniti d’America e datata 1592-1594.
Note
[1] La famiglia di pittori Dal Ponte aveva la bottega presso il celebre ponte di legno a Bassano del Grappa e l’appellativo “Bassano” venne usato a partire dalla seconda metà del Cinquecento in ambiente veneziano per indicare il capostipite della famiglia Francesco detto il Vecchio, il figlio Jacopo e i quattro figli pittori, Francesco detto il Giovane, Giambattista, Leandro e Gerolamo. La bottega dei Bassano nella cittadina veneta si estinse con la morte del figlio Giambattista che, ultimo erede della bottega bassanese, si spense nel 1613.
Bibliografia
Il Natale degli umili nella pittura di Leandro Bassano, a cura di Roberto Pancheri, Trento, Effe e Erre, 2007.
Alberton Vinco da Sesso Livia, Leandro Bassano ultimo erede di una dinastia di pittori, in Il Natale degli umili nella pittura di Leandro Bassano, a cura di Roberto Pancheri, Trento, Effe e Erre, 2007, pp. 11-18.
Pancheri Roberto, L’Adorazione dei pastori Donati: un piccolo capolavoro ritrovato di Leandro Bassano, in in Il Natale degli umili nella pittura di Leandro Bassano, a cura di Roberto Pancheri, Trento, Effe e Erre, 2007, pp. 33-46.
Sono Alessia Zeni, abito a Cavedago, un piccolo paese del Trentino Alto-Adige, situato nella bassa valle di Non. La mia passione per la storia dell’arte e le discipline artistiche è iniziata in giovane età conseguendo il diploma di “Maestro d’arte applicata” presso l’Istituto Statale d’Arte Alessandro Vittoria di Trento e successivamente la laurea specialistica in “Storia dell’arte e conservazione dei beni storico-artistici e architettonici” presso l’università degli studi di Udine.
In seguito al conseguimento del diploma di Guida ai Beni Culturali Ecclesiastici rilasciato dall’Associazione Anastasia della Diocesi di Trento, ad oggi mi occupo di visite guidate ad alcune chiese del Trentino. Mi dedico alla redazione di articoli storico-artistici per riviste regionali e collaboro con il FAI - Fondo Ambiente Italiano - Gruppo Val di Sole (delegazione di Trento) per l’organizzazione di visite guidate alle giornate FAI di primavera. Sono redattrice per il quotidiano on line “La voce del Trentino” e ho lavorato come hostess per i gruppi di turisti in visita alla regione Trentino Alto-Adige. Nel progetto Discovering Italia sono referente del Trentino Alto-Adige.
LA RAPPRESENTAZIONE DEL NATALE NELL’ARTE CONTEMPORANEA: P. GAUGUIN ED E. MUNCH
A cura di Beatrice Cordaro
« Ho sentito le campane il giorno di Natale
I loro vecchi canti familiari suonano
E selvaggio e dolce, le parole ripetono
Di pace sulla terra, di buona volontà per gli uomini.»
(Henry Wadsworth Longfellow)
L’arte contemporanea: cenni introduttivi
A partire dalla fine dell’800 l’arte subì un rivoluzionario mutamento nell’ambito iconografico, iconologico e tecnico. Vennero sovvertiti i linguaggi, i modi di comunicare, e certamente il sentimento artistico dei protagonisti delle correnti contemporanee si dimostrò sempre più teso verso la sperimentazione e la libertà di rappresentazione.
Nel contesto artistico internazionale fecero la loro comparsa nuove figure, nuovi concetti che si slegavano dai linguaggi tradizionali, tuttavia non si può dire che vi fu una rottura netta con il passato: a tal proposito, infatti, la rappresentazione della Natività continuò a coesistere nel codice rappresentativo dei protagonisti del Novecento.
Il Natale nell’arte contemporanea
Tra tradizione e innovazione, quindi, il Natale venne rappresentato in tutte le sue forme e con una molteplicità di figurazioni: Dalì, Munch, Haring, Gauguin, Chagall e Cattelan sono solo alcuni dei tanti artisti che, a modo loro e nelle linee stilistiche delle loro correnti d’appartenenza, ci hanno lasciato in eredità opere d’arte a tema natalizio di grande valore.
La rappresentazione del Natale nelle opere di Paul Gauguin
La notte di Natale (la benedizione dei buoi), 1894
Tra il 1894 e il 1896 Paul Gauguin si cimenta nella realizzazione di opere, in cui il soggetto è il Natale, che tuttavia si differenziano nettamente tra loro per una molteplicità di elementi: l’ambientazione, lo stile, le modalità di rappresentazione della Natività e i colori.
In La notte di Natale, opera del 1894 (Fig.1) Gauguin, forse influenzato dal suo soggiorno – negli anni ’80 – in Bretagna, decise di ambientare la sua rappresentazione proprio in un contesto che rimanda alla regione in cui aveva soggiornato nel decennio precedente.
A primeggiare nella composizione sono le sfumature di grigio e blu, che si regolano in un paesaggio innevato, assai semplice e popolato da persone umili.
In primo piano una coppia di buoi, che danno il titolo all’opera (conosciuta anche come benedizione dei buoi) è seguita da due figure, probabilmente dei contadini, mentre alle loro spalle si estende il borgo di Pont-Aven nel quale lo stesso artista aveva trascorso pochi mesi nel 1886. Alla nascita di Cristo Gauguin riserva la parte destra della tela dove, all’interno di un’edicola, trovano posto le statue di Maria, di Gesù e di Giuseppe alle quali gli stessi contadini sembrano rivolgersi.
La semplicità dello schema compositivo generale dell’opera permette di comprendere come il desiderio di Gauguin fosse proprio quello di rappresentare il Natale nella sua forma ed essenza più pura, semplice e genuina, concentrando quindi l’attenzione proprio sul messaggio primario, la venuta di Cristo in terra.
La nascita di Cristo, figlio di Dio, 1896
La nascita di Cristo, figlio di Dio, del 1896 (Fig. 2) è un’opera totalmente differente. In questa tela, infatti, Paul Gauguin rappresenta il momento immediatamente successivo al parto. La sua Maria, dalle fattezze tipicamente polinesiane, viene raffigurata giacente su un letto, e contrariamente alle tradizionali rappresentazioni dell’episodio, caratterizzate da una forte aura di sacralità e di regalità, qui la Vergine appare fortemente umanizzata dal pittore.
Il messaggio che Gauguin ha voluto comunicare, anche attraverso l’interessante fusione della cultura occidentale cristiana con quella delle popolazioni delle isole del Pacifico, è che Cristo è in mezzo agli uomini. Così facendo, l’artista ha abbattuto ogni distanza imposta lungo i secoli dalla Chiesa cattolica, offrendo al pubblico ideali di umanità, di amore per il prossimo e di fede.
Edvard Munch
Natale nel bordello, 1904/1905
Di stampo più apertamente profano e connotata da una vena di malinconia è invece l’interpretazione dell’iconografia natalizia proposta da Munch che, come quella di Dalì, punta a rappresentare il Natale mediante gli elementi tipici del periodo. Ma se da un lato l’opera dell’artista spagnolo sembra configurarsi quasi come un felice biglietto di auguri, la rappresentazione di Munch vuole far emergere, al contrario, quel sentimento malinconico e doloroso che si prova quando si vive una condizione poco agiata.
Natale nel Bordello (Fig.3) è l’opera che Edvard Munch realizza tra il 1904 e il 1905, nella quale, come uno schiaffo in pieno volto, ci mostra uno scorcio di quotidianità festiva vissuta dalle prostitute di un bordello, evidentemente uno di quelli che lo stesso pittore era solito frequentare, rappresentate, tra l’altro, dopo aver concluso di decorare il grande albero che primeggia sullo sfondo della tela.
Bibliografia
Dorfles G., Storia dell’arte. Novecento e oltre, Atlas, 2005
Sitografia
Sono nata a Palermo nel 1996, e sin dalla nascita mi sono ritrovata immersa pienamente in ambiente artistico. Sin da bambina, infatti, ho bazzicato per gallerie d’arte, in particolare in quella che era di mio padre. Ho iniziato allora, sin dal principio della mia vita, a presenziare in discussioni tra artisti e galleristi, professori e giornalisti. Seppur da bambina ascoltassi svogliata quei discorsi che per me erano troppo complicati, sentivo già che quella sarebbe stata in qualche modo la strada della mia vita. Ho conseguito il diploma presso il Liceo Classico Umberto I di Palermo, successivamente ho conseguito la laurea Triennale in Lettere, Musica e Spettacolo, e attualmente sto concludendo i miei studi presso il corso magistrale di Storia dell’arte all’Università di Palermo.
A partire dal 2017 ho iniziato ad occuparmi di curatela ed editoria. Ho curato e presentato La Biennale di Morgana - I miraggi dell’arte, esposizione d’arte contemporanea svoltasi a Sant’Agata di Militello (ME). Tra il 2018 e il 2019 mi sono occupata di composizione di cataloghi d’arte e ho scritto interventi per alcune riviste. Nell’estate del 2020, in un momento di pausa dalla pandemia e di riapertura in sicurezza dei musei, ho curato e presentato La Biennale di Thea, esposizione contemporanea tenutasi ad Acquedolci (ME).
In questi anni ho scritto numerose critiche ad artisti nazionali ed internazionali, stringendo con loro interessanti rapporti di collaborazione e scambio culturale che sono stati, e sono tutt’ora, fondamentali per la mia crescita professionale. Ancora, ho continuato ad occuparmi di composizione di cataloghi d’arte, tra questi, ad esempio, un catalogo di collezione privata dedicato ad Alfonso Amorelli (1989-1969, Sicilia) nel quale è stata effettuata una catalogazione in base a tecniche e periodi di vita dell’artista.
Amo ogni forma d’arte: la scrittura, la lettura il teatro, la fotografia, la pittura, la scultura e la musica. Di queste mi circondo durante ogni giorno della mia vita e mi sono di grande aiuto per aprire le mie vedute e affinare il mio sguardo critico.
Ho deciso di aderire a progettostoriadellarte poiché voglio raccontare le storie della mia terra, la Sicilia, focalizzandomi maggiormente sui beni artistici della mia città natale e sui luoghi che, grazie alla loro bellezza, mi hanno spronata a formarmi proprio in campo storico artistico.
L'ADORAZIONE DEI PASTORI: LA RIVOLUZIONE DELLA LUCE NELL'ARTE DI RUBENS
a cura di Arianna Marilungo
Pieter Paul Rubens: la vita
Pieter Paul Rubens nacque il 28 giugno 1577 a Siegen, in Westfalia, da una famiglia originaria di Anversa costretta a lasciare la città a causa del coinvolgimento del padre, protestante, nei contrasti religiosi nei Paesi Bassi spagnoli.
Nel 1587, a seguito della morte prematura del padre, Rubens e la sua famiglia fecero ritorno ad Anversa dove il giovane venne avviato ad una formazione classica pur mostrando la sua predilezione per gli studi artistici.
Nelle Fiandre di fine Cinquecento era molto difficile esercitare mestieri artistici poiché l'accesso ad una professione per apprendistato era regolato minuziosamente dal sistema delle gilde o delle corporazioni, favorendo i figli dei maestri e la tradizione di bottega. Ciononostante, e a discapito degli studi classici già avviati che avrebbero potuto inserirlo a pieno titolo nell'ambiente intellettuale controriformista di Anversa, Rubens convinse la madre a mandarlo a bottega. I suoi primi maestri furono Veraecht e poi Adam von Noort, uno dei più affermati maestri di Anversa; successivamente Rubens seguì Otto von Veen, che gli insegnò il gusto dello stile e gli trasmise il desiderio di viaggiare. Grazie ai racconti di viaggio di Otto von Veen, il giovane Rubens prese la decisione di andare in Italia, forte della convinzione che un vero artista avrebbe dovuto studiare dal vivo i grandi pittori del Rinascimento italiano.
Partì da Anversa il 09 maggio 1600 munito della raccomandazione “consules et Senatus Vicitatis Antverpiae”. Nel luglio dello stesso anno il giovane Rubens fu ingaggiato al servizio del duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, ma senza assegnargli specifici compiti. Grazie a questo ingaggio, che gli procurò anche una rendita, Rubens fu libero di viaggiare per la penisola e studiare i grandi maestri del colore, soprattutto i veneziani (Tiziano, Veronese e Tintoretto in particolare).
Nelle sue opere di questi anni non mancarono evidenze ed affinità con altri grandi artisti italiani: Raffaello, Michelangelo, Federico Barocci, i pittori della scuola di Parma, Annibale Carracci e Caravaggio. Si dimostrò un giovane pittore colto ed intelligente animato da un profondo desiderio di studiare l'arte italiana per interpretarla attraverso il suo linguaggio espressivo. In questi primi anni del soggiorno italiano Rubens si cimentò, tra le altre commissioni, in tre cicli di pittura che testimoniano oggi l'evoluzione del genio fiammingo: quello destinato alla chiesta di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, le decorazioni disperse della chiesa della Trinità a Mantova (fig. 1) e le pitture su ardesia di Santa Maria in Vallicella a Roma (fig. 2).
Nel 1608 il soggiorno italiano di Rubens giunse al termine: il pittore dovette tornare ad Anversa per assistere la madre malata, che morì prima del suo rientro. Una volta ad Anversa, Rubens entrò a servizio dei reggenti delle Fiandre e nel 1609 sposò Isabella Brant.
Nonostante ad Anversa non fosse molto conosciuto, presto ottenne importanti commissioni soprattutto dalle congregazioni religiose della Controriforma (Gesuiti e Oratoriani al primo posto).
Seguirono anni di grande attività artistica in cui la sua arte si perfezionò e giunse a piena maturazione.
Nel 1626 morì la moglie Isabella e, due anni più tardi, iniziò la sua attività diplomatica per conto dell'arciduchessa Isabella Clara Eugenia d'Asburgo, recandosi segretamente a Madrid. Nel 1629 si recò in missione diplomatica a Londra per la pace tra Inghilterra e Spagna. Un anno dopo sposò in seconde nozze Helena Fourment ed ottenne vari riconoscimenti per la sua attività diplomatica: venne nominato cavaliere e ricevette la laurea ad honorem dall'università di Cambridge. Da quell’anno in poi si dedicò interamente alla pittura. Nel 1640 venne nominato membro onorario dell'Accademia di San Luca. Il 30 maggio morì nella sua casa di Anversa e tutte le sue opere furono messe all'asta [1].
La commissione per la Chiesa di San Filippo Neri a Fermo
Gli anni del soggiorno italiano di Rubens furono caratterizzati da una grande produzione artistica e da importanti commissioni, tra le quali quella di una pala d'altare per la chiesa di San Filippo Neri a Fermo, nelle Marche.
La chiesa di San Filippo, oggi di proprietà del comune di Fermo, nacque sul sedime di un'antica chiesa trecentesca intitolata al Santo Spirito e testimonia la precoce presenza di una comunità di frati appartenenti alla congregazione dei Filippini e degli Oratoriani in città. La fondazione di questa comunità nella città di Fermo avvenne per iniziativa di padre Flaminio Ricci, patrizio fermano ed uno dei discepoli più amati di San Filippo Neri, entrato nella Congregazione di Roma nel 1578.
Il 16 aprile 1582 il vescovo Pinelli ne approvò le costituzioni, ufficializzando l'erezione dell'autonoma congregazione Oratoriana a Fermo. Inizialmente, i frati si stabilirono in due sedi provvisorie, ma dieci anni più tardi con una bolla papale venne concessa loro la chiesa di Santo Spirito – attuale chiesa di San Filippo Neri - e la comunità ne prese possesso l'11 gennaio 1593.
La costruzione della nuova chiesa, a cui contribuì anche il comune di Fermo, iniziò il 9 maggio del 1594, ma i lavori proseguirono con molta difficoltà. La facciata non fu mai completata, anche se presenta ancora oggi un elegante portale in pietra d'Istria posto prima del 1595 (figg. 3 e 4).
Dopo 13 anni dalla posa della prima pietra, l’edificio religioso venne consacrato il 2 giugno del 1607.
La chiesa presenta una pianta a croce latina (26x19 mt) con navata voltata a botte e un transetto inscritto appena pronunciato, anch'esso voltato a botte. L'abside è piatta a causa del sedime scosceso su cui poggia la chiesa. La navata è fiancheggiata da sei cappelle, tre per lato, divise da archi a tutto sesto, voltate a crociera e decorate a stucco. Il vano absidale è affiancato da due cappelle di sacrestia che comunicano con quelle di transetto, terminate solo nel 1882 dall'architetto Giuseppe Rossi e dedicate rispettivamente alla Natività, cappella a cornu epistolae [2], e all'Assunzione della Beata Vergine Maria, cappella a cornu evangelii [3].
La chiesa presentava anche un ciclo di affreschi ad opera di padre Cesare Biscia, pittore e confratello della comunità Oratoriana fermana. Lungo la navata gli affreschi raffigurano scene della vita di San Filippo Neri. Anche l'altare maggiore era stato completamente affrescato dallo stesso Biscia: nella volta era rappresentata la Ss. Trinità, mentre di fronte l'altare vi era l'Ascensione di Gesù alla presenza della Vergine. Di questi due affreschi non rimane nulla e solo quelli dipinti sui muri laterali sono in parte sopravvissuti, seppur in pessimo stato conservativo: a sinistra vi è l'Ultima Cena, a destra Il Battesimo di Gesù nelle acque del Giordano.
Dopo essere stata aperta al culto, la chiesa fu arricchita di numerosi dipinti, tra cui una tela di mano di Pieter Paul Rubens intitolata L'Adorazione dei pastori (fig. 5) e collocata nella cappella della Natività.
Si tratta di una pala d'altare, oggi conservata nella Pinacoteca Civica della città, attribuita al Rubens da Roberto Longhi nel 1927, anche se nei secoli passati altri studiosi l'avevano attribuita al pittore fiammingo: nel 1729 dal filippino padre Francesco Maria Raccamadori e poi ripresa a fine secolo da Michele Catalani e nel XIX secolo da Alessandro Maggiori. L'intuizione del Longhi e degli studiosi citati venne poi confermata da lettere conservate nell'archivio storico arcivescovile di Fermo: si tratta di un carteggio epistolare tra padre Flaminio Ricci, all'epoca rettore della chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma, ed i suoi confratelli fermani in cui si comunica la commissione al Rubens della pala d'altare per la cappella della Natività.
Secondo il carteggio il contratto fu firmato il 09 marzo 1608, quando il pittore stava ultimando la decorazione per la chiesa di Santa Maria in Vallicella, e prevedeva l'esecuzione di un quadro con una Natività al prezzo di 200 scudi. Stando a quanto scrive padre Ricci, Rubens si impegnava a dipingere “almeno cinque figure grandi, cioè la Madonna, San Giuseppe, due pastori et di più Christo bambino nel presepio” [4] oltre ad una gloria di angeli e di consegnarla entro il 1° aprile.
L'opera arrivò a Fermo non prima di giugno 1608 ma, a causa di un ritardo nella consegna delle istruzioni per la messa in opera del dipinto, si verificarono degli inconvenienti sull'adesione della pellicola all'imballo e si dovette aspettare un po' prima che la tela fosse posizionata al posto per cui era nata [5].
Per una comprensione completa della pala rubensiana è importante procedere ad una lettura d'insieme dell'intero programma decorativo delle cappelle, che presenta un profondo significato teologico con il fine di celebrare i misteri della vita della Madonna. Non è un caso, infatti, se nella cappella prospicente quella della Natività vi era una pala d'altare raffigurante l'Assunzione della Madonna in cielo, già attribuita a Giovanni Peruzzini, ma recentemente assegnata al suo allievo Pier Simone Fanelli.
La devozione che muove il programma decorativo delle cappelle è quello del Santo Rosario domenicano. Gli aspetti religiosi dei misteri del Santo Rosario sono riscontrabili anche nella tela del Rubens: qui ritroviamo l'onnipotenza del bambin Gesù, sottolineata dalla luce soprannaturale emanata dal neonato, e la sua nascita in povertà ed umiltà. Per i filippini, come anche per tutte le congregazioni religiose, era importante interpretare l'Antico Testamento in relazione al Nuovo, per questo la cappella della Natività fu decorata con personaggi biblici che prefiguravano la venuta del Messia: affiancavano la tela del Rubens una statua di Mosè ed un'altra del re David. La tradizione esegetica prefigura questi due profeti come “figure” di Cristo: le vicende di Mosè sono state presentate come l'esatta prefigurazione della vita di Gesù, che è legato al re David dalla stessa stirpe di provenienza. Le statue ed i bassorilievi con storie del Mosè e del re David sottolineano ulteriormente il legame tra queste figure e la venuta del Messia rappresentata nella tela del Rubens: gli episodi mosaici sono figura del Cristo come elargitore di beni al suo popolo, mentre quelli davidici lo presentano come difensore del suo popolo [6].
«Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo.[7]»
La tela del Rubens si presenta come una scena il cui centro è la luce innaturale proveniente dal bambin Gesù appena nato: egli stesso, infatti, è la vera fonte luminosa di tutto il dipinto, rafforzata anche dai colori scuri del paesaggio sullo sfondo caratterizzato da un cielo in tempesta e da un piccolo fuoco che si intravede in lontananza. Questa fonte di luce innaturale obbliga il lettore a fissare lo sguardo sul Bambino, quasi rimarcando il mistero straordinario che è appena avvenuto. Senza dubbio, l'esempio da cui Rubens trae ispirazione è La Notte dipinta dal Correggio tra il 1528 ed il 1530 (fig. 6). Da questa tela il Rubens riprende la luce, alcune pose dei personaggi e la struttura compositiva. Farà suo questo modello per poi interpretarlo secondo il proprio linguaggio espressivo, in cui non sono pochi i rimandi caravaggeschi, e con il preciso intento di dare maggiore immediatezza al messaggio comunicato dal dipinto.
La lettura dell'opera si dipana dal Bambin Gesù alla Vergine Maria, una giovane fanciulla dai tratti delicati che con materno affetto sistema il lenzuolino del neonato. Il volto della Madonna è diafano, etereo e dalla sua espressione traspare tutta la meraviglia per il prodigio appena avvenuto. Dietro di lei, in penombra, Rubens ha dipinto un anziano San Giuseppe dal volto serio e grave e non più distante dall'evento in atto come nel quadro di Dresda. L'attenzione del santo è catturata da qualcosa che si muove nel cielo. In alto, infatti, sono entrati nella scena con un forte dinamismo di matrice caravaggesca tre angeli in gloria che recano in mano un cartiglio con la scritta “Gloria in excelsis Deo”. Gli angeli sono un'altra differenza rispetto al modello correggesco, in cui sembrano svincolati dall'episodio narrato ed al limite della scena. Dagli angeli lo sguardo del lettore torna a spostarsi nella parte bassa della scena, dove ci sono quattro personaggi. Si tratta di tre pastori e una donna, le cui pose naturalistiche sono un ulteriore richiamo all'arte caravaggesca. Il pastore vestito di rosso indica con il dito Gesù e con il volto guarda con espressione seria e decisa il compagno alla sua destra. Quest'ultimo sembra accecato dalla luce emanata dal Bambino e si copre il volto con la mano sinistra, mentre con la destra si appoggia su un bastone terminante con una roncola.
Al centro del dipinto è raffigurata una signora anziana colta con le mani alzate, antico gesto dell'orante, e lo sguardo rivolto verso la Vergine. Accanto a lei c'è una giovane pastorella intenta a tirar fuori dal cestino i doni. Tutte le espressioni dei personaggi esprimono meraviglia, stupore, incanto. A differenza de La Notte del Correggio in cui al centro della scena c'è una splendente colonna di matrice manierista, Rubens ha voluto circoscrivere la scena della Natività in un'essenziale tettoia sorretta da pali quasi impercettibili a prima vista. Un'ultima ma non meno importante differenza tra le due rappresentazioni è che nella tela di Fermo il giaciglio del Bambin Gesù è stato dipinto in primo piano per rendere ancora più immediata la lettura e l'interpretazione della scena.
L'Adorazione dei Pastori è stata subito apprezzata sia dai fedeli che dai padri Oratoriani di Fermo perché introduceva facilmente l'animo alla contemplazione del mistero della nascita di Gesù.
Il trasferimento dell'opera è stato causato dallo stato di conservazione della Chiesa, interessata da infiltrazioni d'acqua proprio nella cappella Costantini sin dagli anni trenta del XX secolo.
Nel 1953 ne venne richiesto ufficialmente il trasferimento alla Pinacoteca di Fermo, dove tutt'oggi è conservata ed esposta [8].
Note
[1]Didier Bodart, Rubens, Art Dossier, inserto al n. 44, Giunti editore, Milano, 1990, pp. 5-17
[2]Lato destro dal punto di vista del fedele che è rivolto verso l'altare maggiore. Di patronato di Mons. Sulpizio Costantini, vescovo di Nocera de' Pagani e primo preposito della congregazione dei filippini di Fermo.
[3]Lato sinistro dal punto di vista del fedele che è rivolto verso l'altare maggiore. Giuspatronato Rosati-Matteucci.
[4] M. Jaffè, Peter Paul Rubens and the Oration Fathers, in “Proporzioni”, 4, 1963, p. 223.
[5] F. Coltrinari, Pieter Paul Rubens, in F. Coltrinari, P. Dragoni (a cura di), Pinacoteca comunale di Fermo. Dipinti, arazzi, sculture, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2012, p. 122
[6] G. Capriotti, Problemi di iconografia, strategie narrative e temporalità in Andrea da Bologna, Jacobello del Fiore e Pier Paolo Rubens, in F. Coltrinari, P. Dragoni, cit., Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2012, pp. 70-74
[7] Vangelo secondo Luca 2, 7
[8] F. Coltrinari, Pieter Paul Rubens, in F. Coltrinari, P. Dragoni (a cura di), cit., Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2012, p. 122
Bibliografia
Didier Bodart, Rubens, Art Dossier, inserto al n. 44, Giunti editore, Milano, 1990
Francesca Coltrinari, Patrizia Dragoni (a cura di), Pinacoteca comunale di Fermo. Dipinti, arazzi, sculture, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2012
Michael Jaffè, Peter Paul Rubens and the Oration Fathers, in “Proporzioni”, 4, 1963
La Sacra Bibbia, CEI-UECI, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1987
Sitografia
Nasce nel 1989 a Fermo e cresce in un piccolo paese di provincia, Campofilone. Nel 2008 consegue il diploma come perito per il turismo e prosegue gli studi nel corso di laurea triennale in Beni Culturali presso l'Università degli studi di Bologna, sede di Ravenna. Si laurea nel 2012 con una tesi in Museografia e museotecnica dal titolo “L'applicazione degli standard conservativi nei musei del fermano e del piceno”. Nel 2015, presso la stessa università, consegue la laurea magistrale in Storia e conservazione delle opere d'arte con la tesi “La funzione comunicativa nei musei italiani: l'esempio del Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo” in Museologia e storia del collezionismo.
Nello stesso anno inizia una collaborazione con Tu.ris.Marche, cooperativa di promozione turistica operante nella provincia di Fermo.
Nel 2016 svolge il servizio civile presso il Comune di Fermo, settore biblioteca e musei. Nel 2017, a seguito del sisma nel centro Italia, partecipa ad un secondo progetto di Servizio Civile intitolato “non3mo” presso la Biblioteca Civica di Fermo “Romolo Spezioli”.
Dal 2018 lavora come operatrice museale nei Musei Civici della città di Fermo.
All'interno di Storia dell'Arte è redattrice per la regione Marche.