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A cura di Gianmarco Gronchi

 

Introduzione: un guardare nello specchio fino al momento in cui.

«L’eco delle immagini dell’arte antica è sovente il motore del primo passo verso ciò che però dobbiamo cercare oltre quel dato. Se prevalga la memoria della cosa o il desiderio di superarla, questo non saprei valutarlo. Però, è impossibile negare che ci sia una specie di filtro di trasparenza, che ci consente di guardare al di là. Aprire una finestra sul vuoto non provoca molte emozioni o desideri. Ma se il vano della finestra è impaginato su qualcosa che interferisce col vuoto, la visione si fa più attraente, mi consente di vedere oltre la traccia già esistente»1. Con queste parole Giulio Paolini, uno dei maggiori esponenti internazionali della corrente ribattezzata Arte Concettuale, descrive il suo rapporto con i maestri del passato. Nel 1967, su «Artforum», Joseph Kosuth, altro famoso artista concettuale, scriveva che «quando un artista utilizza una forma concettuale, vuol dire che tutte le programmazioni e decisioni sono stabilite in anticipo e l’esecuzione è solo una faccenda meccanica»2.

La definizione di concettuale che Kosuth offre fornisce una chiave di lettura sintetica e funzionale anche per tutto il lavoro di Paolini. Accomunato al filone dell’Arte Povera, sebbene con posizioni molto personali, Paolini è uno degli artisti che più di altri si è interrogato sul rapporto tra arte antica, arte classica e arte contemporanea. L’esordio nel 1960 è subito contrassegnato da una forte componente di riflessione analitica sullo statuto dell’arte e i suoi strumenti, ma è l’anno della sopracitata definizione di Kosuth, il 1967, quando l’artista italiano inizia a lavorare sui dipinti del passato:

«[lavorare su una forma citazionista dei maestri del passato è] una fase che comincia nel 1967, prosegue e per certi versi non mi ha più abbandonato. È stata una svolta abbastanza decisiva nel mio lavoro, in qualche modo predestinata perché fin dall’inizio ho sempre parlato d’arte come storia, come dimensione, affrontando i materiali, l’essenzialità della stessa. Dalla panoramica sugli strumenti sono approdato alle immagini dell’arte, alle visioni che, come in uno specchio, si riflettevano nei miei quadri»3.

Giulio Paolini e il confronto con i grandi della pittura

Il 1967 è infatti l’anno di Giovane che guarda Lorenzo Lotto. È uno dei primi confronti diretti tra Paolini e la pittura a olio del XVI secolo. Il Ritratto di giovane, opera di Lotto datata 1506 e conservata oggi agli Uffizi, viene stampata sulla tela, in bianco e nero e a dimensioni naturali. In questo caso il rapporto stabilito con l’artista cinquecentesco non è formale né tecnico, quanto mentale.

Cala la parete di distanza spazio-temporale e lo spettatore diventa, per il tempo della visione, Lorenzo Lotto. Attraverso uno sfasamento cronologico, chi guarda è introdotto in una dimensione di realtà che supera l’apparenza fisica del dipinto. Come scrive lo stesso autore, «a un certo punto non saprete più distinguere se siete voi a guardare l’opera o se, invece, è l’opera a spiare il vostro sguardo» 4.

Ruolo centrale è occupato dal titolo, che Paolini considera alla stregua, e forse più importante, dell’opera stessa, per la sua capacità di sintetizzare l’idea, il concetto sotteso all’opera, fulcro artistico dell’operazione. In questo modo l’autore si interroga su quale sia il processo generativo e conoscitivo dell’immagine, con una conseguente messa in discussione dello statuto dell’hic et nunc dell’opera d’arte e anche del concetto di autorialità. Chi guarda non è qui e non è ora, ma è nel 1506 davanti alla tela appena conclusa da Lotto. Allo stesso modo, Paolini diventa anch’egli Lotto, e l’opera è, quindi, anche una riflessione sul conoscere e sul conoscersi. In questo processo, il medium fotografico rappresenta un aspetto fondamentale. La fotografia infatti serve, come spiega l’artista, per «appropriarsi, attraverso il tempo, di una situazione che non si è vissuta nel reale, ma che si recupera attraverso il linguaggio» 5.

l risultato è «un’immagine nuova che non riesce a liberarsi della propria memoria» 6.

Giulio Paolini: immagine e tempo

Immagine che diventa memoria, quindi, e memoria che diventa tempo, tempo sovvertito e riscritto. Tempo che si mortifica nel non-tempo, annullando le distanze e offrendo l’illusione di un eterno presente. Tutto è fuori dal tempo. «Niente tempo. Il tempo dell’orologio, o dell’uomo, è trascurabile. In arte non c’è né antico né moderno, né passato né futuro. Un’opera d’arte è sempre del presente. Il presente è il futuro del passato, non il passato del futuro» 7.

È proprio con le inedite capacità del medium fotografico che Paolini, soprattutto nel biennio 1967-68, crea e riflette sul ruolo dell’artista e sul fare arte. Esemplificativo a questo proposito è L’ultimo quadro di Velazquez, tela con stampa fotografica del 1968, la cui didascalia riporta «l’invisibilità che esso supera non è quella di ciò che è occultato: non aggira un ostacolo, non svia una prospettiva, si rivolge a quanto è reso visibile sia dalla struttura del quadro sia dalla sua esistenza come dipinto». In quest’opera, Paolini si confronta con Las Meninas, opera velazqueña del 1656. L’artista genovese raffigura a stampa sulla sua tela il celeberrimo dettaglio con il ritratto allo specchio del re spagnolo Filippo IV e consorte. L’immagine però è speculare rispetto alla tela di Velazquez, di modo che il re risulti sulla sinistra. Il rovesciamento dell’originale, portato in grandezza al vero, fa sì che l’opera sia «un fac-simile dell’opera che lo spagnolo aveva davanti a se stesso» 8.

Torna ancora la tangenza tra autore e autore, tra Paolini e Velazquez, in questo caso. Ma anche tra pubblico e pittore.

Significativo, in quest’opera, che il dettaglio scelto da Paolini sia la coppia in posa. Vediamo cioè l’arte nel suo farsi, il compimento della pittura che sta nascendo, adesso, davvero, qui e ora. Altra opera che si muove sugli stessi binari sottili di camuffamento, di messa in discussione della percezione, è Lo studio, sempre del 1968.

Qui il close-up di Paolini si focalizza sull’opera che il pittore ha sul cavalletto nella famosa tela di Vermeer L’allegoria della pittura, datata circa 1666. Ancora, il soggetto dell’arte è l’arte stessa, che diventa tema tautologico che gioca ad autodefinirsi, da un’epoca all’altra, da una tela a un’altra. Non a caso, il dettaglio viene prelevato proprio da un’opera in cui si vuole vedere, a sua volta, una rappresentazione allegorica della pittura. Un’allegoria dell’allegoria, quasi, in cui Paolini si cala nei panni dell’olandese del Seicento. Spiega Celant che «l’istanza è quella di offrire un’immagine categoriale dell’autore, senza aggiungere la nuova identità, Paolini stesso, che assimilando il ruolo degli autori già esistiti, vi si identifica come categoria» 9.

Infine, a chiusura di questa speculazione atemporale e labirintica sul fare e sul vedere artistico, si guardi Nel mezzo del dipinto Flora sparge i fiori, mentre Narciso si specchia in un’anfora d’acqua tenuta dalla ninfa Eco, ancora del 1968. L’opera che Paolini analizza è un olio di Nicolas Poussain, Il regno di Flora, datato 1631 circa e conservato a Dresda. La tela dell’artista italiano è ora un ricettacolo di triplici rimandi tra l’opera in sé, l’opera di Poussain riprodotta e di nuovo lo stesso dettaglio di Poussain, riproposto ancora, più piccolo, dentro la riproduzione precedente. In questo modo Flora si trova due volte al centro del quadro.

Come spiega Giovan Battista Salerno, però, «una volta è la figura allegorica che abita lo spazio prospettico della rappresentazione, lo spazio convenzionale al quale Poussin l’ha consegnata e cioè si trova al centro di una scena profonda fino all’orizzonte, fino alle nuvole e al cielo che le fanno da sfondo; e un’altra volta si trova proprio al centro dello spazio materiale del dipinto, un centro calcolato in rapporto alle dimensioni della tela, e si veste della sua qualità di frase pittorica costituita di segni organizzati su una superficie bidimensionale».10 Flora, quindi, non è solo un’immagine, non in maniera assoluta almeno, perché è anche la porzione di spazio calcolata matematicamente in cui Paolini l’ha situata. È questo, quindi, il paradosso della rappresentazione e della sua stessa contraddittorietà, che per Paolini è insito nella pittura.

Se è vero che per Paolini «è inutile e vano inventare qualcosa di proprio […] se possiamo scoprirlo nel passato»,11 allora si deve accettare che l’invenzione assoluta – e anche l’unica possibile – è quando la creazione si riduce a identificazione. In questo senso, quindi, l’operazione messa in atto da Paolini è rendere visibile l’atto stesso della visione, in una dimensione in cui lo spazio non ha misure e il tempo non scorre, poiché infiniti e eterni. Allora, l’arte diventa una meta-riflessione su se medesima, un guardare nello specchio le sue fondamenta ontologiche, perfette perché già date e immutabili, fino al momento in cui[.]

 

Note

1 Paolini in V. TRIONE (a cura di), Post-classici. La ripresa dell’antico nell’arte contemporanea, Electa, Milano 2013, p. 176.

2 AA. VV., Arte contemporanea, Electa, La biblioteca di Repubblica-L’Espresso, Milano 2018, vol. III, p. 28.

3 Paolini in P. VAGHEGGI, Contemporanei, Skira, Milano 2006, p. 174.

4 AA. VV., Arte contemporanea cit., p. 33, didascalia.

5 Giulio Paolini 1960-1972, a cura di G. Celant, Fondazione Prada, Milano 2003, p. 188.

6 Paolini in P. VAGHEGGI, Contemporanei cit., p.174.

7 Paolini in Giulio Paolini 1960-1972 cit., p. 50.

8 Cfr. Giulio Paolini 1960-1972 cit., p. 244.

10 G.B. SALERNO, L’invenzione di Paolini, in «Art Dimension», Roma, luglio – settembre 1975, n. 3, pp. 20-22, in particolare p. 20.

11 Paolini in ibidem.

 

GIANMARCO GRONCHI

Lombardo d’adozione ma toscano di nascita, sono uno studente del corso di laurea magistrale in Storia e critica d’arte all’Università Statale di Milano. Ho conseguito la laurea triennale in Lettere moderne all’Università degli Studi di Pavia. Durante la mia permanenza pavese sono stato alunno dell’Almo Collegio Borromeo. I miei interessi spaziano dall’arte moderna a quella contemporanea, compreso lo studio della Moda da un punto di vista storico-artistico. Alcuni miei scritti sono apparsi online su “Inchiosto”, “Birdman Magazine. Cinema, serie, teatro” e “La ricerca Loescher”. Amo leggere, scrivere e perdermi in musei e negozi di vintage.

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