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A cura di Andrea Bardi

Introduzione

Asfissiante cultura, piccolo ma sprezzante pamphlet scritto da Jean Dubuffet, padre dell’art brut francese, nel 1969, è animato, lungo tutto il suo svolgersi, da una forte vena polemica nei confronti degli intellettuali del Novecento: nient’altro che impostori, sostiene Dubuffet, nient’altro che un esercito di penne messe a guardia del Pantheon inavvicinabile della Tradizione. La martellante propaganda passatista aveva fatto presa sulle grandi masse, e il consenso nei confronti di un passato dai contorni troppo vaghi aveva raggiunto un livello di consenso tale per cui anche chi non aveva “mai letto un verso di Racine o visto un quadro di Raffaello” si mostrava tra i “difensori più accaniti di questi mitici valori” (Jean Dubuffet, Asfissiante cultura). Ancora Robert Cialdini, nel più recente Le armi della persuasione, scrive invece di come, durante la guerra di Corea, i soldati americani, fatti prigionieri dai cinesi, arrivassero ad alterare parzialmente la loro visione del mondo semplicemente mettendo per iscritto alcuni pensieri ed adeguandosi ad essi per principio di coerenza. Ed è proprio quel principio di autoconvincimento, che anestetizza il senso critico comune, a costituire, assieme al suo corollario la drammatica credenza “di essere frutti tardivi ed epigoni” (Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita) il bersaglio polemico dei lavori di Nicola Samorì (n. 1977), il cui ventennale percorso artistico è riproposto, su iniziativa del circuito museale Genus Bononiae, tra le sale di palazzo Fava.

Sfregi, la mostra antologica dedicata a Nicola Samorì

In seguito alle ultime disposizioni governative sui luoghi della cultura, la dimora del conte Filippo riapre le sue porte al pubblico presentando Sfregi, prima antologica dedicata al pittore, forlivese di nascita e bolognese di formazione. Patrocinata dal comune di Bologna e dall’Accademia di Belle Arti, Sfregi porta a palazzo Fava ottanta opere che si dispongono, sotto la sapiente regia di Alberto Zanchetta e Chiara Stefani, tra i due piani del palazzo dando vita a un “discorso per immagini” che, evitando intelligentemente qualsiasi successione cronologica, assume piuttosto la forma di una struttura rizomatica, irregolare, all’interno della quale lo spettatore è invitato a spogliarsi di ogni condizionamento preconcetto e a muoversi con maggiore libertà. La disposizione non lineare delle opere in mostra traduce, del resto, quella negazione della linearità del tempo, quell’assenza di finalismo che, partendo dalle pionieristiche riflessioni di Aby Warburg arriva sino a Georges Didi – Huberman, il cui pensiero sembra fornire l’humus culturale su cui va ad innestarsi l’intera pratica pittorica di Samorì. Il filosofo francese, ne L’immagine insepolta evoca, sempre in riferimento a Warburg, il “passamuri”, protagonista dell’omonimo romanzo di Marcel Aymé (Le passe-muraille, 1943) trovatosi di punto in bianco in grado di attraversare le pareti. Traslando il discorso dal piano spaziale a quello temporale, Warburg polemizzava con una certa visione della storia che tendeva ad erigere un “muro” ogni volta che si avventurava in operazioni di formalizzazione concettuale al continuo divenire del processo storico. Applicando al continuum degli eventi una serie di etichette (Antichità Classica, Medioevo, Rinascimento, Secolo dei Lumi ecc.) l’uomo cristallizza il flusso in formule che, pur necessarie, hanno il difetto di restituire un’immagine incompleta, parziale, fatta di medie statistiche di una realtà decisamente più complessa.

Materia e forma per Nicola Samorì

Allo stesso modo, anche la pratica artistica di Samorì mira a contestare tanto le premesse finalistiche di un discorso sul tempo quanto il dogma dell’intoccabilità. Dal tempo presente in cui si trova egli recupera un immaginario passato, quindi automaticamente legittimato agli occhi del grande pubblico (Ribera, Guercino, Guido Reni ecc.), ridiscutendo i termini di un rapporto di forze che lo vorrebbe, proprio in quanto “contemporaneo”, relegato nelle retrovie. La sua abilità di “passamuri” gli permette, dunque, di arrivare al cospetto della Tradizione e di sondarne impertinentemente la superficie, lo strato epidermico, la “pelle” per l’appunto e, liberatosi di questa sovrastruttura razionale, viene accolto da un substrato più profondo di materia ribollente, un magma informe di atomi anarchici in fibrillazione. Squarciando il velo formale della pittura, e arrivando dunque all’interno del suo cuore pulsante, Samorì si inscrive a pieno titolo nella continua lotta tra la spontaneità caotica della vita e la sua razionalizzazione intellettuale (diremmo, ancora con Nietzsche, tra principio apollineo e dionisiaco). Il nodo inscindibile tra materia e forma, tra eros e logos, vero e proprio manifesto dell’intera poetica samoriana, viene reso esplicito sin dalle prime battute della mostra. In quella che appare come una vera e propria dichiarazione d’intenti, l’artista contrappone, a un Apollo marmoreo che fa gli onori di casa Fava, una prima scultura in legno di noce (On the tentacle, 2016, fig. 1), il cui profilo affusolato e sbozzato introduce la riflessione sui contrappunti tra stadi diversi di “perfettibilità” della materia senza però cadere nel tranello di fondare gerarchie valoriali.

Fig. 1 – On the tentacle, 2016.

On the tentacle non si fa intimidire da Apollo, e rivendicando dignità materica e intellettuale anticipa il ciclo di Cammino cannibale (2018-19, figg. 2 – 3), rielaborazione in sei tappe del mito di Marsia (musico inviso ad Apollo per la sua hybris e per questo scuoiato) che Nicola Samorì dispone sui lati lunghi della Sala di Enea, ultimata dai tre Carracci nel corso di una seconda campagna decorativa (primi anni Novanta del Cinquecento) e completata dal folgorante squarcio di Anulante (2018, fig. 4), olio su rame ispirato a un San Sebastiano di Guido Reni.

 

Un saggio del profondo rispetto nutrito dall’artista per le preesistenze architettoniche ci viene mostrato, del resto, ancora prima: una battuta di caccia tra Enea e Didone [fig. 5], frescata nel fregio della sala precedente dagli allievi dei Carracci, fornisce all’artista un espediente unico per collocare, sulla parete opposta, il suo Canto della carogna (2020, fig. 6), rielaborazione a olio su rame di una Natura morta di caccia di Giuseppe Maria Crespi che si oppone ai due oli su rame di Selvaggio (2019, figg. 7-8).

Il ballo tardomanierista dei contrappunti continua nella Sala di Giasone e Medea, decorata dai tre Carracci nel 1584. Uno dei termini (finte statue monocrome che spezzano la continuità del fregio suddividendolo in riquadri) raffigurante un Cupido bendato (Fig. 9), posto alla destra della scena con i Tre momenti della giovinezza di Giasone, stabilisce una relazione di interdipendenza con Immortale (2018, Fig. 10), piccolo olio su tavola il cui pennello inglobato al suo interno altro non è che uno dei dardi idealmente scoccati da Amore.

Ancora nella sala, il delicato brano di voyeurismo di Ring (2015, fig. 11): un occhio inquadrato da uno strato circolare di materia pittorica aggettante ammicca alla trama dei lacunari ottagonali del soffitto.

Fig. 11 – Ring, 2015.

Il profondo senso dello spazio dell’artista gli consente, inoltre, di trasformare uno spazio gregario (un piccolo camerino di raccordo tra due sale) nell’habitat naturale, nel luogo d’elezione di Malafonte (2018, fig. 12), monumentale affresco che si incastra con stupefacente naturalezza tra le due pareti lunghe dell’ambiente.

Fig. 12 – Malafonte (Valle Umana), 2018.

Punto di partenza della riflessione di Nicola Samorì è, in Malafonte, l’Adorazione del serpente di bronzo che Agnolo Bronzino frescò, nei primi anni Quaranta del Cinquecento, nella cappella di Eleonora da Toledo in palazzo Vecchio a Firenze. Se il riferimento storico può risultare, per gli insiders, abbastanza immediato, meno banale appare la soluzione messa in campo dall’artista, il quale dispiega – su grande formato – una sorta di macchia di Rorschach che, propagandosi dal centro del dipinto, arriva a intaccare i volti di una folla disperata privandola di identità. È l’atrabile, l’umor nero che nella tradizione ippocratica andava a legarsi indissolubilmente a una melanconia che, in Samorì, da individuale sconfina nella dimensione collettiva. A Rorschach pare ispirarsi anche Double page (of frogs and flowers), grande trittico a olio su lino del 2016 [Fig. 13] dinanzi al quale la Maddalena Penitente del Canova (1806-1813, fig. 14) pare inginocchiarsi implorando perdono.

Chi più di Canova, d’altronde, incarna l’eccessiva fossilizzazione apollinea di certa arte europea? Chi più di quello scultore che Roberto Longhi, indirizzandogli strali implacabili, definiva “nato morto”? E chi, del resto, meglio di Maddalena, può elemosinare l’assoluzione postuma del suo creatore? La Maddalena canoviana fornisce un utile appiglio per introdurre un altro tema, quello del rapporto di Samorì con la pietra. Non tanto nelle opere scultoree (menzioniamo, tra le altre, Sleeping drummer, Idolo anemico, Lucia) quanto, ancora una volta, nelle prove di pittura, l’artista sembra chiaramente volgere lo sguardo in direzione degli scarti di cava, verso tutti quei supporti malati, corrotti, che recano con sé tracce più o meno estese di impurità. Se i contemporanei di Baudelaire potevano coniare, a ragione, l’espressione “il morbo e il marmo” in riferimento al divario tra contenuto malato e forma classica (il sonetto) dei Fleurs du mal, in Samorì il “morbo” è dunque nel marmo, nella pietra stessa. Sia nei lavori su breccia di Vendôme (Secondo natura, Futuro dei fiori, 2020, figg. 15 – 16), che in quelli su marmo di carrara (Guglia, 2016, fig. 17) o ancora negli splendidi lavori su onice calcarea esposti al secondo piano, la sofferenza, già impressa nella pietra, consente all’artista di operare per addizione di senso e non più per sottrazione.

La piccola lacerazione contenuta in un blocco di alabastro viene così  abilmente sfruttata dall’artista per dar vita a un close-up sul costato ferito di Cristo (Ultimo sangue, 2019, fig. 18); allo stesso modo, la trama di nervature curvilinee di una lastra (Jacob, 2019, fig. 19) esprime con grande efficacia l’oscillazione del panneggio (ancora Warburg parlava di bewegtes beiwerk, “accessori in movimento”) dell’angelo in lotta con Giacobbe (una fonte credibile per la Teomachia samoriana è da individuare nell’omonimo dipinto di Paul Baudry del 1853); o ancora, una folla di dannati (?) assiste impotente alla propagazione di un’energia soffocante (Solstizio d’inferno, 2019, fig. 20) la cui forza travolgente mostra sé stessa nel pattern a cerchi concentrici dell’alabastro.

La parabola artistica di Nicola Samorì

A partire da lavori come questi, dunque, è possibile ricostruire l’intera traiettoria di Nicola Samorì da un più esteso campo visuale che ci consente in primo luogo di aggirare la trappola dell’ipotesi iconoclasta (assai lontani risultano, alla luce di tali considerazioni, sia l’intervento di Duchamp sulla Monna Lisa, sia il détournement situazionista nel ciclo delle defigurations di Asger Jorn). Se c’è un leitmotiv, un filo conduttore che lega tra loro tutte le opere di Samorì, esso va ricercato in un ripensamento complessivo del ruolo dell’immagine nella società odierna. In occasione di una recente intervista che ho avuto il privilegio di condurre, l’artista ha tenuto a ribadire la desolante passività con cui l’uomo medio si relaziona all’immagine, la totale indifferenza nei confronti della sua creatura. Preso etimologicamente, l’aggettivo “indifferente” viene utilizzato per indicare uguaglianza, o meglio, “non differenza” in relazione all’altro. Nel regime dell’ipervisibilità contemporanea, pare dirci Samorì, non è quindi solo l’uomo ad essere “indifferente” all’immagine, ma è l’immagine stessa ad essere indifferente a se stessa, presentandosi al mondo solo come parte accessoria di un unico flusso torrenziale di stimoli visivi. Rinnovare il dibattito sull’immagine significa, quindi, riflettere in primis sull’atto della visione, sul momento percettivo, sulla relazione con immagini “stanche” che non desiderano nulla, se non di essere realmente guardate. L’artista, mutilando una forma, la discrimina, ed estraendola dal flusso ne ribadisce l’identità dinanzi a un comune, e preoccupante, analfabetismo dell’occhio. È il “male necessario” che Nicola Samorì pare inseguire; dalla sua prospettiva, inoltre, la sua lotta all’indifferenza acquisisce connotazioni quasi “sciamaniche”: recuperando una processualità dal passo lento, l’artista intraprende un viaggio a due dove il legame che viene a instaurarsi tra artefice e creatura, nonostante esso sfoci talvolta in una liaison torbida che “paralizza l’offesa”, si risolve il più delle volte in un gesto sadico, risoluto, netto, chiara rivendicazione politica di libertà creatrice (e distruttrice) tramite cui egli verifica, riaffermandola con forza, la sua esistenza nel mondo.

 

 

 

Sfregi. Nicola Samorì

Bologna, Palazzo Fava

8 aprile – 25 luglio 2020

Via Manzoni, 2, Bologna

 

Informazioni utili

Orari

Martedì, Mercoledì, Venerdì, Sabato, Domenica: 10.00-19.00 (ultimo ingresso ore 18.00)

Giovedì: 12.00-21.00 (ultimo ingresso ore 20.00)

Visite Speciali per gli adulti

8 Maggio: visita guidata con la curatrice Chiara Stefani

9 Maggio: visita guidata con l’artista Nicola Samorì

Prenotazione obbligatoria (min. 10 – max. 20 partecipanti)

Prezzo intero: 12€

Prezzo possessori Card Cultura: 10 €

Tariffario

Open: € 14

Intero: € 12

Ridotto: € 10

– 75 anni compiuti (con documento);

– Appartenenti alle forze dell’ordine (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza);

– Giornalisti con regolare tessera dell’Ordine Nazionale (professionisti, praticanti, pubblicisti);

– Portatori di handicap;

Ridotto (Speciale): € 9

– Gruppi – prenotazione obbligatoria min 10 max 20 pax;

– Ragazzi da 12 a 18 anni;

Ridotto (Smart): € 8

– Gruppi con guida Genus Bononiae;

– Biglietto altra sede Genus Bononiae;

– Card Cultura;

– Bologna Welcome Card;

– Studenti Universitari fino a 26 anni muniti di tesserino;

– Bambini da 6 a 11 anni.

Ridotto Scuole: € 5

– Prenotazione obbligatoria min 10 max 20 pax

Omaggio

– Bambini fino a 5 anni;
accompagnatori di gruppi (1 ogni gruppo);

– Insegnanti in visita con alunni/studenti (2 ogni gruppo);

– Un accompagnatore per disabile;

– Possessori Membership Card Genus Bononiae;

– Possessori di coupon di invito;

– Guide con tesserino;

– Giornalisti con regolare tessera dell’Ordine Nazionale (professionisti, praticanti, pubblicisti) in servizio previa richiesta di accredito da parte della Redazione all’indirizzo [email protected]

Servizi educativi per gli adulti

Prenotazioni

call center: 051 19936343 (da lunedì a venerdi, ore 11:00 -16:00)

indirizzo e-mail: ​[email protected].

Visite Speciali per gli adulti

8 Maggio (ore 17.00, durata 1 ora): visita guidata con la curatrice Chiara Stefani

9 Maggio (ore 17:00, durata 1 ora): visita guidata con l’artista Nicola Samorì

Prenotazione obbligatoria (min. 10 – max. 20 partecipanti)

Prezzo intero: 12€

Prezzo possessori Card Cultura: 10 €

Visite guidate per utenza libera o gruppi su prenotazione

Domenica 23 Maggio (ore 17:00, durata 1 ora)

Giovedì 27 Maggio (ore 18:30, durata 1 ora)

Prenotazione obbligatoria (min.10 – max. 20 partecipanti)

Prezzo: 8 € ingresso ridotto + 8 € attività

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