LET’S GET DIGITAL: PALAZZO STROZZI SI APRE ALL’ARTE DIGITALE

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

Let’s Get Digital! NFT e nuove realtà dell’arte digitale

Palazzo Strozzi, Strozzina

18 maggio – 31 luglio 2022

 

Cosa sono gli NFT? Cosa ha a che vedere l’arte con la blockchain? Come siamo arrivati a parlare di Crypto Art? “metaverso” e realtà, dove stiamo andando? A queste e a molte altre domande tenta di rispondere la mostra Let’s Get Digital! NFT e nuove realtà dell’arte digitale che ha da poco inaugurato negli ambienti della Strozzina, lo spazio interrato di Palazzo Strozzi. Il progetto, che per la prima volta porta a Firenze la Crypto Art e la rivoluzione degli NFT, è stato promosso e organizzato dalla Fondazione Palazzo Strozzi e dalla Fondazione Hilary Merkus Recordati. A curare la collettiva, Arturo Galansino, direttore dell’istituzione fiorentina e Serena Tabacchi, direttrice del MoCDA – Museo d’arte digitale contemporanea.

 

La mostra si propone come un percorso per far conoscere al grande pubblico quelle che sono ormai considerate le nuove frontiere dell’arte, attraverso una selezione di installazioni ed esperienze multimediali, opera di sei tra i più importanti artisti che lavorano con arte digitale ed NFT. Si tratta di quello che potremmo definire un vero e proprio movimento artistico in piena evoluzione che dal 2018 unisce all’estetica artistica l’utilizzo delle nuove tecnologie. “L’obiettivo della mostra” ha infatti raccontato, durante la conferenza stampa, la co-curatrice Serena Tabacchi “è anche quello di educare a queste parole spesso complicate dandogli un senso tangibile [...] entrando senza pregiudizio nell’estetica e nel nuovo paradigma dell’arte digitale”.

 

Ci troviamo, infatti, sopraffatti da tutta una serie di parole “nuove” che l'istituzione fiorentina ha cercato di spiegare e rendere quanto più comprensibili anche al grande pubblico, evitando in questo modo di cascare nella trappola di una mostra troppo specialistica e di settore. Parole come NFT o blockchain possono forse essere già entrate nell’orecchio di chi frequenta il mondo dell’arte ma vale la pena fare chiarezza: gli NFT, acronimo di non-fungible token[1] sono dei certificati di proprietà utilizzabili, tra le altre cose, anche sulle opere d’arte: si tratta, dunque, di vere e proprie autentiche che vengono però scritte su blockchain. Con blockchain si intende un registro condiviso e non modificabile nel quale vengono memorizzati i dati che in questo modo diventano unici e non copiabili. Certificando un’opera attraverso NFT si cerca, dunque, di salvaguardarla dal rischio della riproduzione e distribuzione non autorizzata sul web. Inoltre, l'utilizzo della blockchain fa sì che un’informazione diventi decentralizzata, permettendo, in questo modo, a chiunque di accedervi da qualunque parte del mondo e anche di acquistarla[2]. Questo nuovo modo di certificare le opere ha inevitabilmente dato una grande spinta all’arte, dando vita a quella che viene appunto definita Crypto Art. “L’intenzione è quella di immergersi [...] nel mondo del digitale e delle community" ha raccontato la curatrice, “mondo che è alimentato dalle persone che creano i nuovi paradigmi del mercato dell’arte e dell’arte stessa. Mercato, estetica e condivisione comunicano e non sono più così divisi”. La mostra vuole quindi presentare uno spaccato dell’evoluzione di questa nuova forma d’arte che è stata in grado di ridurre al minimo la distinzione tra estetica, opera e mercato.

 

Il percorso inizia nel cortile del palazzo con un’opera site specific dell’artista turco Refik Anadol dal titolo Machine Hallucination - Renaissance Dreams (fig.1): un monumentale videowall di circa 9 metri di altezza nel quale si accavallano in modo perpetuo migliaia di pixel che danno vita a delle onde di colore. Una vera e propria macchina delle allucinazioni quella di Anadol che, come omaggio al Rinascimento, propone una selezione di 12.335 immagini di dipinti realizzati tra il ‘300 e il ‘700, le quali sono state rielaborate da un'intelligenza artificiale in modo da creare un insieme di forme ipnotiche e dinamiche in cui i singoli dipinti non sono più in nessun modo distinguibili. Nella serie delle Machine Hallucination, Anadol ed il suo team raccolgono migliaia di immagini digitali che vengono successivamente elaborate tramite modelli di classificazione di apprendimento automatico (machine learning). Questo universo di dati, che di fatto è in continua espansione, diventa un cosmo latente in cui il potenziale allucinante è il canale principale della creatività artistica.

 

Il percorso prosegue negli ambienti sotterranei del palazzo fiorentino, noti come Strozzina, e che da anni sono dedicati all’esposizione di arte contemporanea. Qua sono proposte cinque diverse installazioni; ad accogliere lo spettatore all’ingresso troviamo alcune opere di Beeple, il crypto artista forse più noto del momento[3], che tra il caustico e il pop propone una serie di immagini volte a commentare la modernità. L’opera fa parte di quella che potremmo definire una serie, intitolata Everydays, in cui ad ogni giorno dell’anno corrisponde un’immagine catalogata con numeri in progressione. Propone dunque volti noti della contemporaneità, immagini della cultura di massa, riferimenti all’attualità ma soprattutto alla sfera più pop; troviamo quindi il viso di Elon Musk in versione Gigachad che porta a spasso un doge, quello di Donald Trump nel corpo di un bambino oppure un uomo molto in carne col viso di Buzz Lightyear, l’astronauta del cartone animato Toy Story, con orecchie da coniglio, una carota e a cavallo della celebre scultura del palloncino a forma di cane di Jeff Koons (fig. 3), solo per fare alcune esempi.

 

L’artista Andrés Reisinger è presente in mostra con l’opera-video Arcadia (fig. 4-5) realizzata in collaborazione con la poetessa Arch Hades e il compositore RAC. Si tratta di un lavoro estremamente poetico che parla dell’angoscia del vivere contemporaneo e della solitudine dell’uomo moderno. Attraverso la riflessione sui testi di alcuni dei filosofi e degli scrittori che hanno più profondamente influenzato il pensiero contemporaneo, tra cui William Wordsworth, Friedrich Nietzsche, Jean-Paul Sartre, Reisinger propone una serie di immagini impossibili, bicchieri in biblico che non cadono, mele che attraversano le pareti, libri che volano, che, accompagnate dalle parole della Hades, ci parlano dell’alienazione e della solitudine dell’uomo del XXI secolo. Con un linguaggio delicato e fortemente estetico l’opera, frutto dell’unione tra musica, poesia e arti visive, riflette dunque sulla condizione dell’uomo in una società consumistica in cui tutto è replicabile e in cui siamo costretti, senza sosta, a rispondere a impulsi e immagini.

 

Daniel Arsham propone, invece, una vera e propria scultura digitale; l’artista è infatti riuscito a conciliare la tecnologia della blockchain col concetto di scultura e del senso di eternità che erroneamente vi attribuiamo. Il video Eroding and Reforming Bust of Rome (One Year) (fig. 6-7) parte, infatti, da un busto in marmo del Louvre, originariamente nella Collezione Borghese, che col passare del tempo si erode cambiando inevitabilmente aspetto. A fare da sfondo alla scultura vi è un paesaggio primaverile che, come la realtà in cui viviamo, lascerà presto il posto all’estate. In questo eterno ritorno delle stagioni, Il marmo, simbolo per eccellenza di ciò che perdura nel tempo, si distrugge in modo perpetuo tanto che nel giro di mille anni la scultura sarà completamente erosa. Dunque, anche l’arte digitale finisce inevitabilmente per essere assoggettata dal tempo e dal mutare delle stagioni.

 

Di tempo, anche se in maniera profondamente differente, parla anche l’opera di Krista Kim che propone, infatti, un progetto di “cripto-casa” in NFT pensata per esistere su Marte. In maniera scientifica e forse più adatta a uno studio di architettura, l’artista ci propone il progetto in 3D per una casa del futuro arredata con uno stile fortemente minimale e fruibile sia nella realtà tangibile sia nell'estensione virtuale di questa, ovvero il così detto metaverso.

 

A conclusione della mostra troviamo un’installazione site specific del collettivo italiano Anyma composta da cinque diverse opere: Eva 0, Simbiosi, Angel 1, Consciousness e The

first breath. Immersiva e sensoriale, questa installazione trascina lo spettatore in un mondo ibrido e atemporale in cui l’artificiale non ha ancora del tutto assorbito il naturale e in cui le macchine indossano il volto dell’uomo. L’unione tra gli elementi artificiali e quelli organici genera nuove forme di vita: un cuore in parte meccanico dal quale nasce un albero, una donna-robot che indossa il proprio capo (fig.10) o due polmoni, uno naturale e l’altro artificiale, che nella loro forma ibrida ci affascinano ma forse in parte ci repellono.

 

Si tratta dunque di una mostra che forse più che rispondere alle domande sulle nuove tecnologie e sul loro possibile utilizzo finisce per aprire un’infinità di nuovi interrogativi: è davvero questo il futuro dell’arte? Quanto le arti visive e la Crypto Art si stanno condizionando a vicenda? Se siamo davanti a una nuova forma di arte continueranno a esistere musei e gallerie? Ma la domanda centrale è: ci troviamo davvero davanti a un momento cruciale che cambierà il mondo artistico o è soltanto un fuoco di paglia?

Per quanto ormai tante delle personalità più rilevanti dell’arte si siano interessate in modo attivo ad NFT e Crypto Art e per quanto le opere dal valore milionario abbiano trovato il loro posto nelle più importanti case d’asta, si tratta di un fenomeno non ancora storicizzato che stiamo di fatto vivendo nel pieno della sua evoluzione. Non ci resta dunque che lasciare ai posteri l’ardua sentenza.

 

 

 

Le foto presenti sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

 

 

 

Note

[1] Sigla che viene tradotta in italiano come: “gettone non replicabile” proprio per via dell’unicità di questo codice legato all’immagine. La tecnologia degli NFT è nata nel 2014 e ha avuto una crescita esponenziale, tanto che nel terzo trimestre del 2021 il loro mercato valeva già 10,7 miliardi di dollari. Cfr. NFT, cosa sono i “non-fungible token” e come funzionano, 26 gennaio 2022, approfonditamente sul sito Sky Tg24-Tecnologia.

[2] Cfr. G. Adonopoulos, NFT: cosa sono, come funzionano e come investire, 19 maggio 2022 pubblicato sul sito https://www.money.it/ (consultato in data 27/05/2022)

[3] L’artista è da poco stato protagonista di un’incredibile vendita presso la casa d’asta Christie's; nel marzo del 2021 è stata infatti battuta, in occasione della prima asta digitale di Christie's, la sua opera Everydays: the first 5000 days a circa 69,3 milioni di dollari. L’opera, un collage di 5.000 immagini create e condivise dall’artista negli ultimi 13 anni, vuole rappresentare la progressione della tecnologia.

 

 

 

Sitografia

https://reisinger.studio/ sito dello studio dell’artista Andrés Reisinger

https://www.beeple-crap.com/ sito dell’artista Beeple

https://www.danielarsham.com/ sito dell’artista Daniel Arsham

https://www.palazzostrozzi.org/ sito fondazione Palazzo Strozzi

https://www.kristakimstudio.com/ sito dello studio di Krista Kim

https://refikanadol.com/ sito dell’artista Refik Anadol

 

Sul canale Youtube di Palazzo Strozzi è possibile rivedere la conferenza stampa tenutasi in occasione dell’apertura della mostra martedì 17 maggio.


OUT OF TIME. RIPARTIRE DALLA NATURA

A cura di Mirco Guarnieri

 

 

Il Padiglione d’Arte Contemporanea ospita, dal 27 marzo al 29 maggio 2022, OUT OF TIME. RIPARTIRE DALLA NATURA, concepita in occasione della XIX edizione della Biennale Donna. La mostra, a cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban, è stata organizzata da UDI (Unione Donne in Italia) e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, in collaborazione con la Fondazione Ferrara Arte.
In mostra sono esposti i lavori di cinque artiste che, ognuna proponendo una chiave di lettura individuale, hanno posto l’attenzione sulle diverse modalità con cui l’essere umano ha manipolato la natura, nella sua ricerca di supremazia, e le conseguenti ripercussioni sull’ambiente e sul tessuto sociale.

L’artista che apre la rassegna è l’islandese Ragna Róbertsdóttir, che per i suoi lavori impiega materiali naturali – pietra pomice, lava, vetro, ossidiana e rocce vulcaniche – rielaborandoli secondo un taglio essenziale, minimalista. È proprio dall’utilizzo di tali materiali che l’artista tenta di recuperare un legame forte, intimo e viscerale con la terra, con il mondo naturale.

 

La mostra prosegue con la pratica di Anaïs Tondeur, il cui approccio artistico è di derivazione scientifica, nonché frutto di studi condotti con professionisti di geologia, oceanografia e antropologia. In mostra è esposto Pétrichor ou l’oudeur des terres de Meuilly-sur-Marne, del 2017, un’installazione che è la testimonianza figurativa della sua indagine scientifica su quelle che sono le tracce del petricore, ovvero l'odore della pioggia sul suolo asciutto.

 

Al piano superiore del Padiglione d'Arte Contemporanea, invece, troviamo le opere di Mónica De Mirande, portoghese di origini angolane. È l’eredità africana a costituire il punto dipartenza per la riflessione di De Mirande, desiderosa di esplorare l’evoluzione ambientale e antropologica di luoghi indissolubilmente segnati con la violenta stagione del colonialismo. Sono proprio le linee di convergenza tra stratificazione sociale e cambiamento dell’ecosistema ad interessare l’artista, la quale arriva a proporre le sue “geografie emozionali”, ovvero delle narrazioni urbane che seguono intimi processi identitari.

 

Quello della polacca Diana Lelonek è uno sguardo da un lato fortemente critico nei confronti dei processi di sovrapproduzione, dall’altro indirizzato alla ricerca di soluzioni alternative che possano garantire una convivenza serena, una coesistenza tra mondo antropico e scenari naturali dettata dall’empatia e dalla presa di coscienza dell’interdipendenza tra specie e dell’accettazione di uno scenario trasversale, che si ponga, rispetto alle condizioni attuali, in una posizione di chiara rottura.

 

 

A chiudere la mostra, infine, il lavoro di Christina Kubisch, una delle figure più incisive nel panorama della sound art tedesca. L’artista è riuscita a proiettare un "paesaggio acustico" attraverso il suono, indagando sull'inquinamento acustico silenzioso. Attraverso l'utilizzo di cuffie, Kubisch permette allo spettatore-ascoltatore di comprendere lo stato di saturazione elettromagnetica attorno a noi.

 

 

Informazioni mostra

27 Marzo - 29 Maggio 2022

Padiglione d'Arte Contemporanea

Corso Porta Mare 5, Ferrara

 

Orari di apertura

10.00 - 18.00, chiuso il lunedì

Aperto anche il 18 e 25 aprile, 1 maggio

 

Tariffe

Intero: 5 €

Ridotto e gruppi: 3 €

 

Informazioni
Tel 0532 244949
[email protected]
www.artemoderna.comune.fe.it

 

Prenotazioni singoli visitatori e gruppi
https://prenotazionemusei.comune.fe.it/

oppure

Ufficio Informazioni e Prenotazioni Ferrara Mostre e Musei
Tel 0532 244949
(con orario lunedì-venerdì 9 – 13; martedì e giovedì pomeriggio 15 – 17; chiuso sabato e festivi)

La prenotazione è consigliata ed è gratuita


DONATELLO. IL RINASCIMENTO TORNA A PALAZZO STROZZI

A cura di Arianna Canalicchio

 

Donatello. Il Rinascimento

19 marzo - 31 luglio 2022

Palazzo Strozzi e Museo del Bargello,

Firenze

 

E fu nientedimanco necessarissimo alla scultura il tanto operare di Donato in qualunque spezie di figure [...]; per che sì come ne’ tempi buoni degli antichi Greci e Romani, i molti la fecero venir perfetta, così egli solo con la moltitudine delle opere, la fece ritornare perfetta e maravigliosa nel secol nostro.[1]

 

 

Inaugurata di fresco, la mostra organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi in collaborazione col Museo del Bargello racconta con circa 130 opere la storia e la fortuna artistica di Donatello. Pensata come un discorso unico ma suddivisa nelle sedi di entrambe le istituzioni, la mostra si apre con gli esordi artistici dello scultore ancora ventenne e attraverso confronti, alcuni dei quali inediti, con molti dei protagonisti del Rinascimento fiorentino: cominciando da Filippo Brunelleschi, Beato Angelico, Andrea del Castagno, fino ad arrivare a Michelangelo, la rassegna fiorentina traccia con approccio scientifico la sua evoluzione. La grande retrospettiva rimarrà visibile fino alla fine di luglio.

 

La mostra è stata curata dal professor Francesco Caglioti, docente di storia dell’arte medievale alla Scuola Normale Superiore di Pisa, specializzato da anni nell’ambito della scultura Tre-Quattrocentesca italiana. La mostra poggia dunque su un apparato di studio molto solido che la rende estremante approfondita ma forse non di facile accesso a un pubblico non specializzato. Non che apprezzare Donatello e tutti i capolavori messi a confronto con esso sia in realtà difficile, ma capire le motivazioni scientifiche che stanno dietro ad alcune scelte espositive può non risultare cosa semplice. In questo senso la mostra può essere letta come una sorta di messa in atto del lungo lavoro di ricerca svolto da Caglioti, che lo ha portato negli anni alla pubblicazione di innumerevoli volumi sull’argomento. Per l’accuratezza scientifica con cui è presentata sembra invece un secondo atto della mostra, tenutasi sempre a Palazzo Strozzi nella primavera del 2019, Verrocchio il maestro di Leonardo, curata dallo stesso Caglioti in collaborazione con Andrea De Marchi, docente all’Università di Firenze.

 

Considerato fin dal suo tempo tra i maestri più importanti e influenti dell’arte italiana, Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi; Firenze, 1386 - 1466) era uno scultore molto amato dalla famiglia Medici e fu in un certo senso il precursore della stagione del Rinascimento, colui che con le sue idee e le sue soluzioni figurative ha cominciato ad approcciarsi in modo differente all’arte riconducendola a una dimensione umana fatta anche di emozioni reali, come dolcezza e dolore. Parte da quella che era la visione del suo tempo ancora molto legata all’arte medievale, per arrivare a uno stile imprevedibile, vivo e spesso molto lontano dal gusto dell’epoca. Questa profonda ricerca psicologica ed emozionale sui suoi soggetti fa sì che da allora fino ai giorni nostri si venga a creare una certa empatia tra lo spettatore e l’opera. Tutta la tenerezza e l’affetto materno di un rilievo come la Madonna Pazzi (fig. 3) o la stizza e il rifiuto dei personaggi del Banchetto di Erode (fig. 4) del fonte battesimale di Siena si percepiscono con una forza travolgente e creano un legame di verità nei sentimenti.

 

La mostra è organizzata in diverse sezioni, partendo dagli esordi – e dunque dal confronto con Brunelleschi – proseguendo poi in maniera cronologica tra i vari temi trattati dall’artista e tra le varie città nelle quali il maestro ha lavorato. In apertura, un bell’allestimento in cui sono messi a confronto il Crocifisso (fig. 1 e 6) ligneo della basilica di Santa Croce, realizzato da un Donatello ancora giovane, con quello di Brunelleschi (fig. 5), di alcuni anni più vecchio, conservato invece nella basilica di Santa Maria Novella. I due crocifissi, come ci racconta il Vasari in un celebre aneddoto nelle sue Vite, erano effettivamente nati da un confronto; Donatello dopo aver realizzato il suo, essendo particolarmente soddisfatto del lavoro, era corso da Brunelleschi alla ricerca di approvazione. L’architetto aveva però riso commentando che “gli pareva che egli avesse messo in croce un contadino”[2], Donatello sdegnato dal commento sfidò Brunelleschi a farne uno che fosse migliore del suo e che rendesse giustizia alla purezza e perfezione del corpo di Cristo.

Tra i due crocifissi, ad accogliere il visitatore nella prima sala di Palazzo Strozzi troviamo il marmo col David oggi nella collezione del Museo del Bargello, lavoro anch’esso giovanile e tra i primi ad essere attribuiti con certezza a Donatello. La mostra vanta dunque notevoli prestiti, sia da istituzioni fiorentine come il già citato Museo del Bargello, principale prestatore, o ancora la Galleria degli Uffizi e svariate basiliche fiorentine sia da istituzioni internazionali come il Metropolitan Museum of Art di New York, il Victoria and Albert Museum e la National Gallery di Londra, il Musée du Louvre di Parigi, gli Staatliche Museen di Berlino e il Kunsthistorisches Museum di Vienna.

 

Molto suggestiva è anche la seconda sala in cui sulla destra entrando troviamo la Trinità e Santi di Andrea Del Castagno (fig. 7) mentre al centro spiccano due lavori in bronzo dorato; il Reliquiario di San Rossore del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa e il San Ludovico di Tolosa (fig. 8). La prima è un’opera che risale al periodo 1422-1425 probabilmente realizzata per il convento di Ognissanti nel quale è attestata a partire dal 1427; il mezzo busto del santo oltre alla doratura, presenta alcuni inserti in argento e l’armatura e il mantello finemente cesellati. Il San Ludovico ha invece temporaneamente lasciato l’edicola all’interno del Museo di Santa Croce[3] nella quale è esposto dal 1908 e che riproduce il calco di quella originaria di Orsanmichele realizzata dallo stesso Donatello. Commissionatagli negli anni del Reliquiario, la statua non rimase nella chiesa per molto e già nel 1460 venne spostata nella Basilica di Santa Croce e collocata a partire dal 1510 in una nicchia in facciata proprio in corrispondenza del portone centrale dove rimase fino al rifacimento ottocentesco in marmo. L’opera con i suoi quasi tre metri di altezza e 500kg di peso[4], costò ben 3.500 fiorini ed è decorata con parti in argento, smalti e cristalli di rocca. L’utilizzo del bronzo all’epoca non era affatto diffuso poiché si trattava di un materiale pregiatissimo, di conseguenza chi si poteva permettere certe commissioni erano praticamente solo le corporazioni maggiori per delle opere pubbliche, eccezion fatta per la famiglia Medici che commissionò proprio a Donatello il David, la Giuditta e diversi altri lavori.

 

Tra i pezzi forse più noti troviamo la formella con il Banchetto di Erode (fig. 4) del fonte battesimale del Battistero di Siena, opera capitale per lo studio dello “stiacciato” donatelliano. Questa tecnica nota anche come “schiacciato” permette di avere un rilievo con variazioni minime rispetto al fondo per suggerire un’illusione di profondità prospettica attraverso numerosi ma sottilissimi strati di spessore. Un lavoro straordinario in cui con maestria estrema in appena 8 cm di profondità racconta l’episodio biblico della morte di San Giovanni Battista. Di alcuni anni più tardo è invece l’Amore-Attis (fig. 9) celebre bronzo datato tra il 1435 e il 1440. Si tratta di una delle opere di Donatello delle quali possediamo meno informazioni certe, a cominciare dall’attribuzione stessa sulla quale ormai è stato raggiunto un accordo quasi unanime, proseguendo poi con il soggetto e la datazione. A restringere la forbice temporale sulla realizzazione del lavoro è stato proprio Caglioti che ha avvicinato l’Amore-Attis ai Due Spiritelli portacero dalla Cantoria di Luca della Robbia per la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, esposti infatti alle spalle dell’amorino e provenienti dal Museo Jacquemart André di Parigi.

 

La mostra prosegue con importanti confronti con gli artisti del tempo e con opere che vanno a toccare tutte le diverse tecniche e i diversi materiali usati dal maestro. Protagonista indiscussa è però l’iconografia della Madonna con Bambino di cui troviamo alcuni esempi di qualità altissima. Tra questi è d’obbligo nominare la così detta Madonna Pazzi (fig. 3) del 1422 c.a., nella quale le due figure sono legate in maniera delicata ma quasi osmotica. In prestito dallo Staatliche Museen di Berlino, il rilievo marmoreo, bell’esempio dello “stiacciato” donatelliano, trasmette una profonda intimità e una tenerezza che difficilmente si erano viste all’epoca. Due opere di grande attualità sono sicuramente la Madonna col Bambino e la Madonna con quattro cherubini (fig. 10) entrambe conservate allo Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst di Berlino. Le due statue vennero evacuate e nascoste nei bunker segreti fuori dalla città allo scoppio della Seconda Guerra mondiale. Nel maggio del 1945 un terribile incendio bruciò completamente il rifugio in cui si trovavano danneggiandole gravemente. La Madonna col Bambino venne trasferita a metà degli anni ‘50 a Leningrado dove, dopo un lungo restauro furono riassemblati i pezzi riportandola a uno stato vicino a quello precedente al 1945. La Madonna rientrò a Berlino nel 1958 dopo la restituzione da parte dell’Unione Sovietica alla Repubblica Democratica Tedesca. Destino diverso toccò invece alla seconda Madonna, quella circondata dai quattro cherubini, distrutta anch’essa durante lo stesso incendio perse completamente la policromia. Una foto pubblicata da Wilhelm von Bode, celebre collezionista che la acquistò per il suo museo, risalente al 1923 è di fatto l’unica testimonianza che ci permette ancora oggi di sapere quali fossero i colori usati per la composizione. Se dunque non è stato possibile recuperare lo stato originale, è però emersa la grande maestria di Donatello nel modellare le figure in argilla.

 

Il percorso espositivo prosegue arrivando a opere della maturità, come la Danza di spiritelli (fig. 11-12) realizzata in collaborazione con Michelozzo per il pulpito del Duomo di Prato in marmo e mosaico di tessere ceramiche invetriate. In dialogo con la formella del pulpito troviamo anche il reliquiario del Sacro Cingolo, opera di Maso di Bartolomeo (fig. 13). Sebbene per nulla valorizzate dall’allestimento, sono in mostra anche le uniche due porte che Donatello abbia mai realizzato nella sua lunga carriera, quelle della Sacrestia Vecchia nella Basilica di San Lorenzo. Le porte, quella dei Martiri e quella degli Apostoli (fig. 14), con le loro cinque formelle a battente, sono state restaurate nel 2019 dall’Opificio delle Pietre Dure.

 

Troviamo poi il San Giovanni Battista detto di Casa Martelli, realizzato in marmo e il San Giovanni Battista di Siena (fig. 14), questa volta in bronzo. Sempre da Siena arriva la lastra tombale del Vescovo Pecci mentre da Padova il meraviglioso rilievo del Miracolo della mula (fig. 17) realizzato in bronzo parzialmente dorato per l’altare del Santo nella Basilica di Sant’Antonio. Il percorso termina con la grande testa di cavallo del Museo archeologico di Napoli che venne inviata nel 1471 da Lorenzo il Magnifico come dono al conte Diomede Carafa, personalità di spicco della corte aragonese a Napoli. Nonostante l’attribuzione a Donatello, il Vasari la descrive nella prima edizione delle Vite come un reperto archeologico, salvo poi ritrattare nella successiva edizione. Nonostante questo, a partire dalla fine del Cinquecento si perse notizia dell’attribuzione e l’opera cominciò ad essere considerata un pezzo antico. Un occhio non esperto potrebbe effettivamente scambiare con grande facilità l’enorme scultura per un reperto romano: è stato ancora una volta Caglioti, tuttavia, a ricostruirne la vicenda e a scoprire come essa in realtà facesse parte del monumento equestre che Donatello avrebbe dovuto iniziare per Alfonso V d’Aragona, re di Napoli.

 

Una mostra, dunque, sicuramente complessa, che può essere letta a vari livelli, partendo da quello più semplice della bellezza estetica, componente sicuramente fondamentale ma che non deve limitare lo spettatore in un percorso verso una conoscenza più profonda dell’opera. Tutte le principali esperienze artistiche e i materiali usati da Donatello nella sua carriera sono di fatto raccontati in questo percorso espositivo. Una menzione particolare la merita inoltre il bellissimo catalogo curato sempre da Caglioti; il volume si apre con una citazione dal Vasari: "Gli artefici debbono riconoscere la grandezza dell'arte più da costui che da qualunque sia nato modernamente" e si presenta come un’operazione editoriale dall’importanza capitale per lo studio dell’artista e la ricostruzione della sua evoluzione. La mostra punta ad essere una retrospettiva finalmente davvero completa, che nonostante si sia avvalsa di molti prestiti fiorentini spogliando chiese e musei, riesce a tracciare una linea completa nella vita artistica di uno dei maestri del Rinascimento.

 

 

 

Note

[1] G. Vasari, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Newton Compton Editori, Roma 1997, p. 91.

[2] G. Vasari, Le Vite, 1997, p. 94

[3] Rimane invece all’interno della Basilica di Santa Croce l’Annunciazione Cavalcanti, senza dubbio tra le opere più celebri di Donatello, che è vincolata alla sua collocazione.

[4] Lo spostamento dell’imponente statua con San Ludovico di Tolosa è stato documentato ed è visibile in un video pubblicato sulla pagina Instagram dell’Opera di Santa Croce.

 

 

 

Bibliografia

Caglioti, Donatello e i Medici. Storia del David e della Giuditta, Firenze, Olschki, 2000, 2 vol.

Caglioti, Donatello e la terracotta, in A nostra immagine. Scultura in terracotta del Rinascimento da Donatello a Riccio, catalogo della mostra al Museo Diocesano, (Padova 15 febbraio - 2 giungo 2020), Scripta Edizioni, Verona 2020, pp. 35-66.

Caglioti, Donatello. Il Rinascimento, catalogo della mostra a Palazzo Strozzi e Museo del Bargello (Firenze, marzo - 31 luglio 2022), Marsilio, Firenze 2022.

Caglioti, L’Amore-Attis di Donatello, caso esemplare di un’iconografia “d’autore”, in B. Paolozzi Strozzi (a cura di), Il ritorno d’Amore. L’Attis di Donatello restaurato, catalogo della mostra al Museo Nazionale del Bargello (Firenze, 1° ottobre 2005 - 8 gennaio 2006), S.P.E.S., Firenze 2005, pp. 31-74.

Vasari, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Newton Compton Editori, Roma 1997.

 

 

Sitografia

Sito di Palazzo Strozzi https://www.palazzostrozzi.org (consultato in data 11/03/2022)
Sito Staatliche Museen di Berlino https://www.smb.museum (consultato in data 16/03/2022)

Sito dell’Opera di Santa Croce https://www.santacroceopera.it/ (consultato in data 20/03/2022)


“RITRATTE – DIRETTRICI DI MUSEI ITALIANI”

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

“Ritratte – Direttrici di musei italiani”

Nelle Sale degli Arazzi di Palazzo Reale ha aperto al pubblico, dal 3 marzo al 3 aprile 2022, la mostra fotografica “Ritratte – Direttrici di musei italiani” promossa e prodotta da Palazzo Reale, Comune di Milano Cultura e Fondazione Bracco. L’esposizione, attraverso gli scatti del fotografo francese Gerald Bruneau, si pone in continuità con l’impegno della Fondazione che da tempo si confronta con la valorizzazione delle competenze femminili nei vari campi del sapere e l’abbattimento dei pregiudizi. Come sostiene Diana Bracco, Presidente di Fondazione Bracco, “alla guida di importanti istituzioni culturali del nostro Paese ci sono professioniste straordinarie che hanno raggiunto posizioni apicali grazie a competenze multidisciplinari, che uniscono una profonda conoscenza della storia dell’arte con capacità gestionali e creative”, pertanto è risultato doveroso valorizzarne le storie ai fini di incoraggiare le nuove generazioni di donne.

 

L’impegno per il femminile e la costruzione di una società paritetica però non è nuovo a Fondazione Bracco, infatti già nel 2016 aveva concepito il progetto “100 donne contro gli stereotipi” (100esperte.it), ideato dall’Osservatorio di Pavia e dall’Associazione Gi.U.Li.A. e sviluppato grazie alla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. Quest’ultimo progetto prevedeva la costituzione di una banca dati online ai fini di radunare profili eccellenti di esperte in vari settori del sapere, selezionate con criteri scientifici, allo scopo di aumentarne la visibilità sui media. Nel 2019 invece, sempre in collaborazione con Bruneau, aveva ideato la mostra fotografica “Una vita da scienziata” di cui i soggetti principali erano alcune delle più grandi scienziate italiane.

 

Ritratte. La donna oltre il ruolo della Musa”

La scelta del titolo “Ritratte” per la mostra è dovuta a molteplici motivi. In primo luogo permette di ricollegarsi alla storia dell’arte, un tempo ad essere raffigurati erano soprattutto i membri di famiglie nobili, aristocratici e regnanti che, quando ancora non esisteva la fotografia, fissavano la propria immagine attraverso la pittura. Ad essere ritratte tuttavia erano unicamente le dame di buona nascita, la cui famiglia poteva permettersi il pagamento di un pittore. Il termine gioca inoltre sul fatto che le direttrici di tali istituzioni, che di norma abitano spazi di lavoro appartati, in questa sede sono state trasformate in quelle stesse opere d’arte di cui si occupano, divenendo così oggetto dell’attenzione collettiva che ne riconosce il ruolo apicale.

 

Il fotografo, in merito alla genesi del progetto, ha affermato che da tempo sognava di intraprendere un piccolo Grand Tour alla ricerca dei luoghi che custodiscono l’Arte nel nostro paese. Egli però, a differenza dei viaggiatori del passato che amavano farsi ritrarre innanzi ai capolavori dei pittori, ha voluto ritrarre chi di questo patrimonio si fa oggi custode. “La storia”, argomenta Bruneau, “è sempre stata piena di figure femminili, prevalentemente nel ruolo di muse o modelle di grandi artisti. Ma se le donne hanno sempre ispirato l’arte o ne sono diventate, grazie ai loro talenti, autrici prestigiose, io ho preferito andare alla scoperta di quelle donne che hanno scelto di custodirne i tesori, sempre più consapevoli del ruolo vitale dell’arte nella cultura del proprio paese, e si cimentano oggi in un compito estremamente difficile: la direzione e la cura dei Musei, i luoghi sacri alle Muse”.

L’intento del fotografo è quello di valorizzare la bellezza di tali figure, stimolando la riflessione e il pensiero critico. A partire da questo desiderio ha lavorato per circa due mesi, durante il difficile periodo della pandemia scandito da continui lockdown, poiché vivere senza l’arte non era uno scenario per lui attuabile. In questo suo Tour negli spazi museali, pressoché disabitati, ha avuto la possibilità di ammirare grandi capolavori in una cornice sospesa nel tempo. Il fotografo si è mosso tra le statue della Magna Grecia e dell’Antica Roma, fino alle realizzazioni contemporanee, attraversando disparate epoche ed i loro costumi, simboli, capolavori e architetture. Di fronte a cotanta bellezza, che gli ha provocato una forte sindrome di Stendhal, Bruneau ha faticato nell’effettuare una scelta dei luoghi in cui realizzare gli scatti.

 

Tra le protagoniste della mostra figurano i ritratti di Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese di Roma; Flaminia Gennari Santori, Direttrice delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini di Roma; Anna Maria Montaldo, già Direttrice Area Polo Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Milano e Alfonsina Russo, Direttrice del Parco Archeologico del Colosseo, per citarne alcune. Una delle fotografie più suggestive è quella di Emanuela Daffra, Direttrice Regionale Musei della Lombardia, immortalata di fronte all’iconico Cenacolo vinciano; a cui fa seguito quella di Virginia Villa, Direttrice Generale Fondazione Museo del Violino Antonio Stradivari di Cremona, ritratta nell’atto di abbracciare con amore un violino, simbolo cremonese.

 

In questo modo Gerald Bruneau ha dato vita ad un viaggio nella bellezza di tali “splendide vestali”, come da lui definite, dedite a tenere in vita il fuoco sacro dell’arte per mezzo della loro sensibilità e intraprendenza. Le direttrici, trasformate nelle sue muse e guide, gli hanno regalato una ventata di energia e di ottimismo in un periodo travagliato, a loro pertanto rivolge la sua gratitudine e ammirazione.

 

 

Informazioni di visita

MOSTRA FOTOGRAFICA “RITRATTE – DIRETTRICI DI MUSEI ITALIANI “

Palazzo Reale di Milano | Sale degli Arazzi |Milano, piazza del Duomo 12

3 marzo – 3 aprile 2022

www.palazzorealemilano.it

www.fondazionebracco.com

 

INGRESSO GRATUITO

 

ORARI
Martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 10.00 – 19.30 | Giovedì 10.00 – 22.30 | Lunedì chiuso Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura

 

Ufficio stampa mostra

Lucia Crespi | [email protected]

Ufficio Stampa Comune di Milano

Elena Conenna | [email protected]


LE 3 ECOLOGIE

A cura di Marco Bussoli

Dal 5 febbraio al 15 maggio al Museo di Arte Contemporanea di Termoli MACTE sarà possibile vedere la mostra Le 3 ecologie, prima mostra curata dalla direttrice del museo Caterina Riva.

“[…] soltanto un’articolazione etico-politica – che io chiamo ecosofia – fra i tre registri ecologici (quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e quello della soggettività umana) sarebbe capace di far adeguata luce su questi problemi”[1]

Con queste parole nel 1984 il filosofo francese Felix Guattari introduce il concetto di molteplicità dell’ecologia, di pluralità delle ecologie, aggiungendo ulteriore profondità ai temi di sviluppo indiscriminato che tanti studiosi, a partire dagli anni ’70, stavano portando avanti. Sono proprio le tre ecologie del filosofo il punto di partenza per la riflessione che la mostra del MACTE vuol far scaturire.

Il percorso espositivo ha inizio con l’opera Ipogea di Piero Gilardi, che la concepisce a partire da molteplici suggestioni, come il rumore di un fiume sotterraneo e la molteplicità di miti sulle caverne su cui si fonda la cultura europea; l’opera è pensata come un luogo di immersione per l’avventore, che illuminandola dall’interno fa nascere rumori e punti luminosi della caverna. Il percorso passa poi per i 19 pannelli in gesso di Micha Zweifel, Calendar, artista svizzero, che detta una sorta di ritmo evolutivo, un tempo in cui l’umanità si sviluppa e cresce. Il concetto di evoluzione è poi richiamato dall’opera Tuslava di Len Lye, un’animazione del 1929, in bianco e nero, che però procede in modo diverso: l’evoluzione è totale e da un organismo unicellulare si sviluppa un organismo più complesso, con le sue tradizioni e i suoi modi, slegandosi dalla figura umana.

Nella grande sala circolare del museo, oltre a queste opere è presente anche la doppia proiezione di Francesco Simenti, chiamata Corpi, del 2021, definendo così un luogo in cui i cambiamenti non abbiano in alcun modo un’accezione negativa, ma piuttosto costituiscano un’origine, un punto di partenza neutrale.

Spostandosi nelle sale il panorama è già cambiato, ci si trova catapultati nell’oggi, in un mondo di cambiamenti repentini: sullo sfondo della carta da parati disegnata da Francesco Simenti, Hawkweed (2016), i disegni a penna di Nicola Toffolini ci mostrano degli scorci, suggestivi e inquietanti, si tratta di Pòst #2 e di Palma e tetrapodi e Banano e tetrapodi, due disegni in cui i vegetali sono ormai protetti dall’aggressione del mare solo da dei frangiflutti.

I documentari Wutharr: Saltwater Dreams (2016), del Karrabing Film Collective, e Wild Relatives di Jumana Manna, del 2018, fanno spostare l’osservatore in tutto il mondo: il primo è infatti ambientato nei Territori del nord-ovest, in Australia, mettendo in relazione cambiamenti ambientali, sociali e mistici, mentre il secondo segue le semenze, dalla Siria alla Norvegia, tra problemi climatici e socio-economici.

Le opere della serie Boutade di Silvia Mariotti costruiscono luoghi naturali inediti, frutto di un lavoro di montaggio di elementi fotografici, per creare nuovi immaginari, fatti di vegetazione mutevole e affollata.

Nell’ultima sala, infine, si confrontano due artisti: Francis Offman usa materiali di riuso, estremamente variegati, per comporre delle opere che parlano di migrazioni e che presentano ad un’attenta riflessione una serie di significati inediti; Jonatah Manno invece con le sue sculture e le sue cianotipie porta in mostra il mare ed il suo paesaggio.

Come di consuetudine sono poi esposte opere di proprietà della Fondazione MACTE appartenenti al Premio Termoli, che ponendosi a metà del percorso di visita cercano di dialogare con le opere temporanee in mostra.

Abbiamo fatto alcune domande alla Direttrice del museo e curatrice della mostra, Caterina Riva, per meglio comprendere ed approfondire il significato della mostra, che si presenta denso ed aperto a molteplici interpretazioni.

Il tema dell'ecologia è, fortunatamente, sempre più presente nelle vite di tutti, in modi molto diversi tra loro e con intensità molto variabile. L'idea di portare in mostra questo tema dove e quando nasce o, più esattamente, come si è concretizzata?

CR: Da una necessità di pensare ad ogni aspetto della vita come un continuum e una mostra d’arte come qualcosa di più che una semplice evasione. In realtà l’idea di questa mostra aveva già fatto capolino nel programma che avevo presentato nel concorso che mi ha portato alla direzione del MACTE nel 2020. Nel frattempo la pandemia non solo ha posticipato la mostra a più riprese e ne ha reso l’organizzazione difficoltosa, ma l’ha fatta cambiare e crescere, come fosse essa stessa un organismo che si muta.

La struttura della mostra all'interno degli spazi del MACTE si integra alla perfezione, definendo due grandi spazi principali: quello della sala principale e quello delle salette, in cui sono esposte opere che ci dicono cose molto diverse. Le opere nell'emiciclo ci parlano di origine e di evoluzione, di ideali incontaminati che man a mano diventano più complessi, definendo una sorta di punto di partenza. In qualche modo dopo aver percorso tutta l'esposizione ed aver conosciuto diversi panorami in cui le ecologie possono operare, ci si auspica un ritorno ad un'origine o comunque ad un equilibrio?

CR: La ringrazio molto di questa lettura de Le 3 ecologie, non avevo pensato tanto in termini dialettici di evoluzione nella costruzione curatoriale della mostra, ma più, come faccio sempre, facendomi guidare dalle opere e cercando un dialogo tra di esse e gli spazi del museo.

Un punto di partenza della mostra è stato per me l’animazione di Len Lye del 1929 Tusalava, che ho ottenuto in prestito dalla Nuova Zelanda e che è presentata in Italia per la prima volta e che letteralmente ci porta agli antipodi. Nelle sale del MACTE si alternano opere che richiedono di essere guardate lentamente e con attenzione ed altre più immersive, che colpiscono subito la retina, ma che devono comunque essere scoperte e interrogate. Non so se si ritorna a un equilibrio a fine mostra, temo questo sia solo l’inizio di un cammino e non sarebbe del tutto corretto immaginare di trovare le risposte che cerchiamo in una mostra d’arte, quello che m’importa piuttosto è offrire al pubblico diversi punti di vista, delle sensibilità o strategie che i visitatori possono portare con sé fuori dal museo. Anche i laboratori didattici e il public program che offriremo in parallelo alla mostra, alimenteranno dei filoni di approfondimento e riflessione sulle ecologie al plurale.

Questa mostra si occupa di temi estremamente sensibili per il mondo contemporaneo, potrebbe anche essere la prima di una serie che si avvicinano sempre più ai temi stringenti per la società?

CR: Più che una serie di mostre preferisco immaginarmi un modo organico di pensare al museo MACTE come ad un’entità nel mondo dove si portano esperienze e ricerche che guardano alla nostra complessa contemporaneità. Gli artisti rivolgono a volte domande scomode, più che fornire risposte pacificanti, e portano con sé una molteplicità di esperienze; il compito di un museo di arte contemporanea è, secondo me, di portare alcune di queste domande davanti al pubblico (che intenderei però come non omogeneo per definizione).

Al momento al MACTE stiamo ospitando dei laboratori pratico-teorici con l’artista Nico Angiuli, con il quale abbiamo vinto un bando del Ministero della Cultura per un progetto di performance collettiva che verrà presentata a Termoli a giugno 2022, quest’ opera sociale che si sta costruendo insieme uscirà dalle mura del museo, rendendolo, spero, poroso.

Note

[1] F. Guattari, F. La Cecla, Le tre ecologie, Milano, Sonda, 2019, p. 14

Bibliografia

Guattari, F. La Cecla, Le tre ecologie, Milano, Sonda, 2019

Sitografia

https://www.fondazionemacte.com/it/programma/le-3-ecologie


TIZIANO E L’IMMAGINE DELLA DONNA NEL CINQUECENTO VENEZIANO

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

Tiziano e limmagine della donna nel Cinquecento veneziano

Palazzo Reale, dal 23 febbraio al 5 giugno 2022, accoglie nei suoi spazi la mostra “Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento veneziano” che vede protagonisti, oltre al grande maestro, i suoi contemporanei quali Giorgione, Lotto, Palma il Vecchio, Veronese e Tintoretto. La curatela della mostra, prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Skira editore, in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna e la Fondazione Bracco, è affidata a Sylvia Ferino, già direttrice della Pinacoteca del Kunsthistorisches. Secondo la curatrice Tiziano ha ricreato la donna: “che si trattasse di dipinti religiosi, di ritratti, di “belle donne” o di personaggi femminili della mitologia, l’artista riuscì a conferirle un aspetto così vitale e luminoso, un tale spessore e un erotismo sempre così meravigliosamente sofisticato da assicurare fama eterna alla donna e a se stesso”.

 

La rimarchevole qualità di Tiziano risiedeva nell’essere abile ad infondere un’intensità nella realtà che percepiva. Tale fu il pensiero espresso nel 1576 da Antonio Persio nel Trattato dell’ingegno dell’huomo, nel quale veniva descritto il processo creativo del pittore: “quando volea disegnare o colorire / alcuna figura, tenendo avanti una donna / o un huomo naturale, cotal oggetto / così movea la vista corporale di lui, / e il suo spirito così penetrava nell’oggetto / di chi ritraeva, che facendo vista di non sentire / altra cosa che quella, venia a parere / a’ circostanti d’esser andato in ispirito”. L’atto creativo di Tiziano, che lo condusse a produrre immagini più belle di quanto la natura fosse in grado di fare, presentava la medesima intensità di un atto d’amore. Pietro Aretino, in una lettera a Jacopo Sansovino del gennaio 1553, descrisse il comportamento di Tiziano verso le donne: “Quello che mi fo maraviglia di lui / è che qualunque ne vede, o dove egli / si ritrova, le vezzeggia, si avanta a basciarle, / et con mille altre giovenili pazzie / le intertiene, senza passar più oltre”.

 

Il percorso espositivo

La mostra, che è articolata in undici sezioni, presenta un allestimento di Pierluigi Cerri Studio, mentre l’illuminazione, a cura di Lisa Marchesi Studio, crea un’atmosfera coerente con gli ambienti veneziani del Cinquecento, in cui luce e penombra consentono alle celate caratteristiche delle opere di emergere mettendo in luce la bellezza e lo status delle donne. L’esposizione, che presenta la donna in un contesto profano, si apre con le due protagoniste dell’Antico e del Nuovo Testamento: Eva di Tintoretto e Maria di Tiziano. A tale sezione introduttiva ne segue una dedicata ai ritratti, per la quale è opportuno premettere come nella prima metà del XVI secolo le donne veneziane delle classi agiate apparissero raramente ritratte, poiché la Serenissima non approvava il culto della memoria. Infatti Tiziano ritrasse donne non veneziane come Isabella d’Este, raffigurante una bellezza ideale, dal momento che all’epoca era ormai sessantenne, e la figlia Eleonora Gonzaga, di cui l’Aretino attribuì a Tiziano il merito di aver saputo combinare le due qualità contrastanti della donna, ovvero bellezza e castità.

 

Proseguendo nel percorso espositivo si incontra la sala dedicata alle “Belle veneziane”, genere diffuso in laguna all’inizio del XVI secolo e a metà tra ritratto reale e ideale. Nella rappresentazione di tali donne che guardano l’osservatore, da un lato gli anelli gemelli indicavano il fidanzamento, dall’altro il seno scoperto suggeriva una certa sensualità, anche se recenti letture gli attribuiscono un significato nuovo, quello di “aprire il cuore”. Infatti Lodovico Dolce nel Dialogo dei colori (1565), riferendosi ad un dipinto di Raffaello, suggerì come lo scoprire il seno fosse un modo per indicare il cuore come sede della verità dei sentimenti e della fedeltà. Un esempio eloquente è la Laura (1506) di Giorgione: al momento in cui il maestro vi stava lavorando, i ritratti di donna a sé stanti si limitavano a rappresentazioni di status e verosimiglianza fisica. Al contrario, egli introdusse una giovane in uno spazio buio di fronte a una pianta di alloro, facendole indossare un soprabito con una pelliccia maschile leggermente scostata per esibire il seno. La ghirlanda di alloro, come asserisce Cesare Ripa nell’Iconologia, oltre a rappresentare la virtù, mostra “che l’amor d’essa non è corruttibile, anzi come l’alloro sempre verdeggia, et come corona, o ghirlanda che di figura sferica non ha giamai alcun termine”.

 

Nelle successive sezioni dominano invece raffigurazioni di coppie di amanti che si prestano attenzioni, ma anche sante ed eroine come Lucrezia, matrona dell’antica Roma, che si tolse la vita per difendere il proprio onore dopo la violenza subita da Sesto Tarquinio, oggetto di due tele di Veronese e Tiziano. Tra le altre vi sono anche Giuditta e Susanna che, osservata dai vecchioni, è la protagonista di una magnifica tela in cui Tintoretto dispiega la sua eleganza e attenzione ai dettagli.

 

Oltre alle sale dedicate alle donne è presente anche un ambiente destinato ai letterati, polemisti e scrittori d’arte; è infatti importante ricordare come all’epoca Venezia fosse la capitale dell’editoria, per la presenza della tipografia di Aldo Manuzio. A fare da contraltare agli uomini di cultura vi sono le donne erudite, come scrittrici, poetesse e cortigiane che nel Cinquecento entrarono nel mondo letterario. Quasi al termine del percorso si colloca la sezione degli “amori degli dei”, in cui centrale è la vicenda di Venere e Adone; la dea della bellezza, graffiatasi per errore con una freccia di Cupido, provò la passione per il giovane che perse la vita in una battuta al cinghiale. Altro tema rappresentato è la conquista di Giove, a cui segue la sezione delle allegorie e l’ultima denominata “Oltre il mito” che chiude la mostra con Ninfa e pastore di Tiziano. In questo modo Palazzo Reale, dopo la precedente mostra “Le signore dell’arte. Storie di donne tra '500 e ‘600”, continua a riflettere sulla rappresentazione della donna attraverso un’accurata e rigorosa selezione di imperdibili capolavori della storia dell’arte riuniti in una medesima sede espositiva.

 

 

Informazioni di visita

Orari:

Martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 10.00 - 19.30

Giovedì 10.00 - 22.30

Lunedì chiuso

 

Biglietti:

Intero 14 euro

Biglietto Open 16 euro

Ridotto 12 euro: visitatori dai 6 ai 26 anni, over 65, portatori di handicap, gruppo e convenzioni

Ridotto 10 euro: possessori Abbonamento Musei Lombardia, Soci Orticola, visitatori in occasione di Art Week giovedì 31 marzo dalle ore 18.30 alle 22.30

Ridotto speciale 6 euro: scuole, giornalisti con tesserino ODG con bollino dell’anno in corso non accreditati dall’ufficio stampa e altre categorie convenzionate

Biglietto famiglia: 1 o 2 adulti 10 euro / ragazzi dai 6 ai 14 anni 6 euro

Gratuito: minori di 6 anni, guide turistiche abilitate con tesserino di riconoscimento, tesserati ICOM, giornalisti accreditati dall’ufficio stampa e altre categorie convenzionate, possessori Vip Card MiArt nella sola giornata sabato 2 aprile

 

Diritti di prevendita

2 euro per singoli e gruppi adulti

1 euro per scuole

 

Infoline e prevendite

02 92 800 822

 

Prenotazioni gruppi, scuole e visite guidate

02 92 800 822

 

Informazioni online e social

www.palazzorealemilano.it

www.tizianomilano.it

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facebook.com/MostreSkira/

#tizianomilano

 

Uffici stampa

Skira

Lucia Crespi | 02 89415532


CESARE VIEL. CONDIVIDERE FRASI IN UN CAMPO ALLARGATO

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

“Condividere frasi in un campo allargato”

La Galleria Milano, a partire da martedì 1 febbraio e fino al 12 marzo 2022, ospita l’imperdibile personale di Cesare Viel dal titolo “Condividere frasi in un campo allargato”, realizzata in collaborazione con la Galleria Pinksummer di Genova. Per l’occasione l’artista, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, ha dato vita a un progetto dialogico, attraverso il quale ha invitato colleghi e amici a condividere con lui una frase per loro significativa che si potesse adattare allo specifico vissuto del momento presente. La miriade di frasi è stata trascritta, con l’elegante calligrafia dell’artista, su dei fogli di carta da pacchi che, alternati a brevi frasi composte dal lui stesso, costruiscono un paesaggio verbale all’interno dello spazio espositivo. L’intervento, sorto da una comunione tra soggettivo e plurale, si configura come un momento immersivo di riflessione sul tempo che stiamo vivendo e i suoi processi trasformativi. Tale paesaggio di frasi, da intendersi come un campo allargato, secondo la prospettiva di Rosalind Krauss, si sviluppa secondo una linea orizzontale, che ne riflette la coralità, in contrasto con la verticalità dell’impostazione autoriale.

 

Un paesaggio di frasi

A partire dal progetto prende corpo un’installazione che finisce con l’abitare l’intero spazio espositivo della galleria, il quale è percorso dal visitatore grazie ad una passerella rialzata che lo guida attraverso le due sale espositive nel mare metaforico di parole. Entrambe le stanze sono tappezzate da fogli di carta da pacchi disposti a terra, riportanti le considerazioni altrui, per poi distinguersi nelle opere disposte alle pareti. Nel primo ambiente alle pareti campeggiano quattro fogli bianchi, formato 100x140, con altrettante frasi trascritte da Viel: “lo strato più duro del linguaggio”, “non andare via”, “condividere frasi in un campo allargato”, “pietre nella mente”.

 

 

Nel successivo, invece, si collocano dei disegni a grafite raffiguranti massi da scogliera utilizzati come moli o barriere anti-erosione sulla costa e in alcune spiagge del Ponente Ligure, quali Noli, Sanremo e Spotorno. Quest’ultimi si configurano come un chiaro richiamo autobiografico al luogo in cui l’artista vive e lavora, ovvero Genova: qui insegna all’Accademia Ligustica di Belle Arti e consegue, nell’anno 1991, la laurea in Lettere Moderne. Attraverso tale raffigurazione Cesare Viel mette in comunicazione il familiare paesaggio ligure, con quello dolomitico e affettivo dei suoi genitori. L’artista, infatti, dichiara: “guardare i disegni di questi massi, una volta finiti, produce in me una dolcezza intensa, imprevista, in contrasto con la durezza reale della pietra, ma solo apparentemente, perché in fondo, in questo caso, dolcezza e durezza si accoppiano e si mescolano in un nuovo ulteriore orizzonte”.

 

Un incontro tra pietre e parole

É dunque fondante il legame tra pietre e parole, manifestato ampiamente anche dalle stesse dichiarazioni rilasciate da Cesare Viel. Quest’ultimo afferma che “leggere la pietra e vedere nella pietra ciò che non è solo pietra è come provare la ‘tenuta’ di un pensiero o di una frase fino a toccare gli strati più duri”, infatti nel disegno dei muti e attraenti massi affiorano i segni di una lingua; è così possibile ravvisare nell’anatomia di un masso l’anatomia di una frase-linea che percorre un piano di composizione. Nel disegnarle, le pietre, “a un certo punto e a modo loro incominciano a parlare, servono tempo e pazienza, è un farsi attendere, poi tacciono di nuovo, e in quel nuovo silenzio si definiscono i contorni e i volumi: presenza, equilibrio”, per mezzo della prova di un trattamento a matita o di un colore, oppure spostando linee e curve, si procede come nella scrittura. Attraverso tale procedura “i massi, uno dopo l’altro, uno accanto all’altro, come le frasi, rispondono e fanno contatto, entrano in dialogo con lo spazio e tra loro” e nonostante occorra tempo “le frasi sedimentano il senso che propagano, si fermano e diventano opere”.

 

Le frasi, una volta sedimentate in opere, si orientano a definire una marea varia e multiforme. Alcune si concentrano sul silenzio: “non voglio sentire il silenzio dell’assenza, ma ascoltare quello della consapevolezza” (Frida Carazzato), così come “la conoscenza e la bellezza sprigionano dalla presenza di ciò che è nascosto e dalla potenza che sta dietro a ogni forma di silenzio” (Cesare Pietroiusti). Altre invece paiono rimandare ad un immaginario legato al mare: “navigo a vista” (Anna Cestelli Guidi), “oggi mi sento un’isola” (Teresa Macrì), “aria da bere, acqua da respirare” (Massimo Palazzi). Non mancano però alcuni enunciati, più o meno brevi, rinvianti al mondo dell’arte; ad esempio “arte esistenza mondo” (Giacinto di Pietrantonio), oppure “l’arte e la conoscenza alimentano una speranza che ha bisogno di coraggio per compiere scelte, per elaborare nuove narrazioni, per assumersi il diritto e la responsabilità della trasformazione del mondo” (Pietro Gaglianò).

 

Nell’esposizione, che si configura come “un’indagine, gentile, sul chiedere, il ricevere e il restituire trasformato quello che si è chiesto”, l’artista mostra come il processo e la trasformazione si definiscano ed esemplifichino con maggiore lucidità grazie allo spazio reale in cui si depositeranno le frasi a pavimento. In questo modo tutto galleggia nel campo allargato e il visitatore, attraverso l’osservazione e la lettura di tale marea di parole, si apre a plurime riflessioni e libere associazioni che sconfinano ben oltre la soglia dello spazio espositivo.

 

 

Informazioni di visita:

Galleria Milano

Via Manin 13, Via Turati 14 – 20121 Milano

02-29000352

[email protected]

 

Orari: da martedì a sabato dalle ore 10,00 alle 13,30 e dalle 15,00 alle 19,00

 

www.galleriamilano.com

Instagram @galleria.milano | FB galleriamilano |Twitter @GalleriaMilano


LA PITTURA SILENZIOSA DI LORENZO PUGLISI. LA NATIVITÀ AL MUSEO MARINO MARINI DI FIRENZE

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

Lorenzo Puglisi – Natività

A cura di Angelo Crespi

23 dicembre 2021 - 11 gennaio 2022

Museo Marino Marini, Firenze

 

“In un ciclo infinito di vita, nascita e morte, l’uomo in ogni epoca può solo interrogarsi sul mistero dell’esistenza, sul significato della propria vita: la forte contrapposizione di questi due momenti fondanti per l’essere umano, si ritrovano in questo luogo unico, dove il Tempietto del Santo Sepolcro […] ci riporta alla caducità inevitabile dell’esperienza dell’uomo”[1]

 

 

Queste le parole di Lorenzo Puglisi sulla sua Natività, un olio su tela che rimarrà visibile fino all’11 gennaio 2022 dietro all’altare della Cappella Rucellai all’interno del Museo Marino Marini. Situato nella chiesa sconsacrata di San Pancrazio, il museo fiorentino raccoglie dal 1988 un’importante collezione di opere di pittura ma soprattutto sculture realizzate del maestro nato a Pistoia all’inizio del secolo scorso. Il museo è anche sede di alcune mostre temporanee che da anni portano a Firenze un po’ di arte – finalmente - contemporanea.  

 

Nato a Biella nel 1971, Puglisi a distanza di poco più di un anno torna nel capoluogo toscano con un nuovo lavoro, in dialogo ancora una volta con un luogo di culto. L’artista si era infatti confrontato nel settembre 2020 con il crocifisso realizzato da un giovane Michelangelo intorno al 1493-94 e conservato nella Basilica di Santo Spirito[2]. In occasione delle celebrazioni per i vent’anni del rientro dell’opera nella chiesa agostiniana l’artista aveva esposto una sua personale interpretazione del tema della crocifissione in cui dal nero profondo della croce emergevano il volto, le mani e i piedi del Cristo (Fig. 4).  “Il mio tentativo di pittura si rivolge alla visione di qualcosa che è altro dal visibile empirico – ha raccontato Puglisi - ma col quale è inseparabilmente intrecciato, è mescolato ad esso; la ricerca dell’essenziale della rappresentazione, come ambizione e fine, è legato alla ricerca di essenzialità nella vita e ne è conseguenza e speranza di conoscere”[3].

 

Questa volta il confronto è invece con la Cappella Rucellai nella quale è situato il Tempietto del Sacro Sepolcro, capolavoro di Leon Battista Alberti (Fig. 3)[4]. L’opera di Puglisi, di ritorno dall’Art Museum Bourse di Riga, in Lettonia, è, come spesso succede nel suo lavoro, ispirata alla tradizione pittorica e in questo caso il riferimento è al Caravaggio. Si tratta della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi (Fig. 5) tela che, stando agli ultimi studi dovrebbe essere stata realizzata intorno al 1600 per il mercante Fabio Nuti e fin da subito portata a Palermo; l’opera rientra ad oggi nella lista stilata dall’FBI dei dieci capolavori artistici mondiali con il più alto valore stimato, rubati e mai ritrovati. La Natività venne infatti trafugata dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo nell’ottobre del 1969, probabilmente ad opera di qualche famiglia mafiosa ma, nonostante siano fiorite diverse teorie sulla sua attuale collocazione, alcune delle quali la vorrebbero seppellita insieme a droga e denaro, altre mangiata dai topi in una stalla, non si hanno più tracce del lavoro caravaggesco.

 

Puglisi recupera da Caravaggio la verticalità dell’opera; una linea sottile che, partendo dalla punta del dito dell’angelo, crea un flusso continuo che arriva a Gesù, lega i protagonisti in un dialogo discendente. Le tre figure affiorano dal buio con delicatezza e pur nella loro inconsistenza ci descrivono un momento estremamente intimo. L’artista si concentra su quelli che sono i punti vitali ovvero quei punti nei quale la vita scorre con maggior forza; sono infatti mani e volti ad emergere dal buio evocando l’immagine nel suo complesso. La sua ricerca lo porta così a racchiudere dentro un gesto l’essenzialità dell’intera immagine. “Dal nero trae alla luce una Natività - ha raccontato Angelo Crespi, curatore della mostra – […]  pochissimi tratti, in una sorta di rarefazione del gesto, gli sono sufficienti per adombrare la nascita”[5].

 

Le opere di Puglisi sono sempre così vicine all’ossimoro, uno scontro tra buio e luce, tra vita e morte, che nella loro assolutezza ci trasportano a qualcosa di altro, a qualcosa di ultraterreno ma che conserva una profonda umanità. Il bianco screziato di rosso e di nero dei suoi volti li rende espressivi pur senza definirli. La sua pittura traccia solo una guida ma è l’occhio di chi guarda a definirne i lineamenti (Fig. 9). Nella sua Natività percepiamo la Vergine mentre osserva carica di dolcezza materna il figlio e diventa il tramite tra la vita terrena di Gesù e quella divina alla quale salirà con l’angelo che col dito si rivolge a Dio padre. È l’immagine di un dialogo assoluto, eppure l’opera è calata in un silenzio surreale; si sono persi quel movimento e quell’agitazione che per secoli hanno caratterizzato la raffigurazione del momento della nascita del Bambino per ottenere un’immagine essenziale e silenziosa.

 

Il nero è l’inizio di tutto, colore dicotomico che oscilla tra il principio e la fine; il nero è il colore assoluto: l’espressione del massimo delle possibilità ma allo stesso tempo il nulla. La scelta artistica di Puglisi, pur nella sua semplicità, è una scelta rischiosa. Ha ancora senso parlare di pittura a tema religioso oggi? Ma i suoi sono davvero temi religiosi o sono piuttosto dei temi assoluti? Davanti alla forza di un viso che nella sua indefinitezza esprime tutto, allora, forse, ci troviamo davanti a qualcosa di più universale di una Natività, o almeno credo.  

 

 

 

 

Note

[1] Lorenzo Puglisi. Natività, comunicato stampa della mostra al Museo Marino Marini, online presso https://www.arte.it

[2] Si tratta di un lavoro giovanile di Michelangelo realizzato per ringraziare il priore della Basilica di Santo Spirito dell’ospitalità. Per secoli se ne erano perse le tracce nonostante la sua esistenza fosse testimoniata dal Vasari e venne ritrovato soltanto nel 1962. Fino al 2000 tuttavia il crocifisso ligneo rimase a Casa Buonarroti e solo dopo numerose richieste venne infine condotto nuovamente nella Basilica per cui era stato ideato.

[3] Citato in Firenze. Lorenzo Puglisi “davanti” a Michelangelo. Una mostra, due crocifissi, in “Artemagazine” https://artemagazine.it

[4] Il tempietto, noto anche come sacello, venne realizzato dall’Alberti a partire dal 1457 su commissione di Giovanni di Paolo Rucellai. Costruito con marmi bianchi e verdi riccamente intarsiati, venne concepito come una riproduzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Le pareti esterne sono decorate con trenta tarsie tutte diverse raffiguranti stemmi e motivi geometrici, intervallate da paraste corinzie. La bibliografia sulla Cappella Rucellai e sul lavoro di Leon Battista Alberti è molto vasta, a tal proposito interessante è A. Belluzzi C. Acidini G. Morolli (a cura di), La Cappella Rucellai in San Pancrazio, in L'uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze tra ragione e bellezza, catalogo della mostra di Firenze (11 marzo-23 luglio 2006), Mandragora, Firenze 2006.

[5] Lorenzo Puglisi. Natività, comunicato stampa della mostra al Museo Marino Marini online presso https://www.arte.it

 

 

 

Bibliografia

Beatrice (a cura di), Lorenzo Puglisi. Popolo e memoria, catalogo della mostra di Torino (23 ottobre – 21 novembre 2019), Giampaolo Prearo Editore, Milano 2019.

Gazzaneo, Il Grande Sacrificio, Manfredi editore, Cesena 2019.

Lorenzo Puglisi. Natività, comunicato stampa della mostra al Museo Marino Marini (23 dicembre 2021 – 11 gennaio 2022), Firenze.

 

Sitografia

http://www.lorenzopuglisi.com (Sito dell’artista)

https://www.arte.it (Sito della rivista “Arte.it The map of Art in Italy”)

https://artemagazine.it (sito della rivista Artemagazine)

https://museomarinomarini.it (Sito del Museo Marino Marini)


TORNABUONI ARTE, ANTOLOGIA SCELTA 2022

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

Tornabuoni Arte. Antologia scelta 2022

La galleria Tornabuoni Arte di Milano, dal 16 dicembre 2021 e fino al 26 novembre 2022, apre nuovamente i suoi spazi in occasione della mostra “Arte moderna e contemporanea. Antologia scelta 2022”, articolata tra la sede milanese e fiorentina. Le opere, che saranno esposte in momenti diversi nelle due sedi, mettono in luce il lungimirante gusto collezionistico di Roberto Casamonti. L’esposizione, accompagnata da un volume con un contributo di Sonia Zampini, copre un arco cronologico che parte da una battaglia risorgimentale di Giovanni Fattori, per giungere, attraverso i principali maestri del Novecento, a un video di Plessi del 2021. Infatti, come argomenta Sonia Zampini, “l’antologia è intesa come una retrospettiva ad ampio raggio di osservazione sulle molteplicità delle dichiarazioni artistiche, dei movimenti, degli intenti che hanno determinato i passi fondanti della storia dell’arte”.

 

Isgrò e Burri, cancellatura e combustione

Il visitatore, ancor prima di varcare la soglia della galleria, è accolto dalle opere di due grandi maestri: Mari di Sicilia del 2016 di Emilio Isgrò e Combustione plastica del 1957 di Alberto Burri. Il primo col gesto della cancellatura, la cui origine è datata al 1964, ha abbandonato la poesia come “arte generale della parola” per una che fosse “un’arte generale del segno”. La sua arte cancellatoria non è però da intendersi come distruzione della parola, bensì come una metodologia per salvaguardarla per tempi migliori, orientandola ad un accrescimento di significato che libera lo spettatore che ne fruisce da una pura contemplazione passiva per spingerlo verso nuovi significati. In tale modo la cancellatura diviene “una macchia che copre una parola, la separa dal mondo, la libera”.

 

Altrettanto liberatoria è l’espressività di Burri messa in atto attraverso il gesto e la materia. In tale combustione, che pare dialogare con i netti tagli di Fontana all’interno, l’artista crea dei grandi squarci che bucano il supporto, dimostrando un’abilità perfino nel calcolare le mancanze. In tali operazioni, come afferma Bruno Corà, il soffio, l’aria e il respiro si sono rivelati fondamentali quanto il fuoco stesso; così immaginare le fessurazioni come soffi provenienti dal respiro dell’artista le investe di una certa poeticità. Attraverso tale tipo di operazione si generano continui rimandi visivi tra la superficie dell’opera e l’ambientazione esterna, introducendo un’ideale estensione della stessa nello spazio.

 

I grandi maestri del Novecento

Proseguendo nel percorso all’interno risulta evidente la ricorrenza dell’elemento femminile, di cui Le due sorelle del 1942 di Massimo Campigli ne è un chiaro esempio. Protagoniste del quadro sono due donne, rese attraverso incastri di forme geometrizzate e d’influenza etrusca, avvolte in una dimensione quasi sognante, che rivolgono i loro sguardi all’osservatore. Sullo stesso tema si esprime anche Felice Casorati con Nudo nel paesaggio del 1951, quest’ultimo, protagonista del Realismo Magico, dipinge un nudo femminile di schiena avvolto su se stesso. Infine nel capolavoro Femme dans la nuit datato 1966 di Joan Mirò, la figura femminile, realizzata con un marcato segno nero per mezzo di linee agili e modellanti, è presentata mentre si rivolge alla grande stella stagliata nel cielo.

 

A completare la rassegna dei grandi maestri non può mancare Giorgio de Chirico, di cui è esposta una piazza metafisica con un nudo femminile scultoreo, accompagnato da due figure e un treno sbuffante sullo sfondo. Nella tela l’artista, con grande abilità, permea di un lirico silenzio l’architettura dello spazio urbano sfruttando la luce e la penombra dell’ora del crepuscolo. Ugualmente sospesa è l’atmosfera della Natura morta del 1963 di Giorgio Morandi, la cui opera è stata accuratamente scelta come copertina del volume dell’antologia. Forse in virtù del fatto che, come dichiarava Cesare Brandi, nessuno prima di Morandi “aveva parlato con tale intensità attraverso l’evocazione di oggetti inanimati, poiché, oltre i supremi valori figurativi […] vi è qualcosa, in queste nature morte, che oltrepassa […] il loro esser pittura, e sommessamente canta l’umano”.

 

La superfici, un confronto tra Fontana e Castellani

Suggestivo è anche l’allestimento della parete frontale rispetto all’ingresso. Su di essa si crea un efficace fil rouge che lega le tele esposte, sia per l’appartenenza al medesimo contesto del Secondo Dopoguerra, sia per le ricorrenze che si istituiscono tra i colori: in particolare la rossa tela di Agostino Bonalumi dialoga con i netti tagli su rosso di Lucio Fontana, ma anche con la medesima cromia di una parte della superficie di Giuseppe Capogrossi. Inoltre si potrebbe instaurare un ulteriore contrasto tra le forme che respingono dalle superfici di Castellani, Bonalumi e Turi Simeti che tentano di uscire dal quadro, e i tagli di Fontana che squarciano abilmente la tela per giungere all’animo dell’osservatore. Infatti Fontana e Castellani pur partendo da presupposti simili, sostituendo le illusioni concettuali date dall’uso della prospettiva con una reale tridimensionalità della superficie, raggiungono però esiti diametralmente opposti. Il primo porta verso l’interno in favore di un astrattismo informale, mentre il secondo verso l’esterno pronunciandosi per un informale geometrico.

 

L’indagine sul colore, Albers e Dorazio

Interessante è altresì l’indagine sul colore condotta da Josef Albers, di cui qui è esposto Study for Homage to the Square del 1973, il quale rimanda alla serie “Omaggio al quadrato” che gli ha consentito di creare innumerevoli tonalità di colori. Nel 1952 l’artista, che si interessava all’effetto estetico scaturente dall’interazione dei colori, asseriva: “Il pittore sceglie di collegare con il o nel colore. Alcuni pittori considerano il colore un accompagnamento a, e per questo lo subordinano a forma o altri contenuti pittorici”. Sempre sul colore è condotta l’indagine Piero Dorazio che, sul finire degli anni Cinquanta, ha elaborato un’idea di superficie come campo nel quale riverbera la forza autonoma del colore, derivata dallo spazio e dalla forma della luce. In Cycladic XII degli anni Ottanta si notano, come scriveva Ungaretti, “quei suoi tessuti o meglio membrane, di natura uniforme, quasi monocroma e pure intrecciata di fili diversi di colore, di raggi di colore” che “s’aprono, dentro i fitti favi gli alveoli custodi di pupille pregne di luce, armati di pungiglioni di luce”.

 

Attraverso la presentazione dell’antologia annuale 2022, la galleria dimostra nuovamente la sua capacità, consolidata nel corso degli anni, di creare un importante circuito espositivo e culturale in Italia e all’estero, coinvolgendo istituzioni pubbliche e private, con una programmazione internazionale agevolata dal solido rapporto con critici d’arte, curatori e collezionisti. La Tornabuoni Arte conferma quindi la sua vocazione, non solamente di galleria privata, bensì di fertile spazio della cultura aperto a un ampio pubblico.

 

 

Informazione di visita:

Tornabuoni Arte

MILANO, Via Fatebenefratelli 36

16 dicembre 2021 – 26 novembre 2022

[email protected] / www.tornabuoniarte.com / + 39 02 65 54 841

 

FIRENZE, Lungarno Benvenuto Cellini 3

3 dicembre 2021 – 26 novembre 2022

[email protected] / www.tornabuoniart.com / +39 055 68 12 697


JEFF KOONS: LO SCINTILLANTE “ARTISTA DEI PALLONCINI GONFIABILI” IN MOSTRA A PALAZZO STROZZI

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

Jeff Koons – SHINE

2 ottobre 2021 – 30 gennaio 2022

Palazzo Strozzi, Firenze

 

“Be’ i gonfiabili sono antropomorfi. Sono un simbolo del nostro respiro: noi inspiriamo ed espiriamo, e quel respiro se ne va, da qui il senso che il nostro stesso essere sia fuggevole. Laddove, se quel respiro esiste in un gonfiabile, diventa un oggetto ed è più permanente. Viene trattenuto e mantenuto, quindi c’è la sensazione di qualcosa di sospeso o conservato. Non che la sospensione eviti la morte, ma la morte comporta un torpore sotteso”[1]

 

 

Spettacolare e provocatorio, Jeff Koons è sicuramente tra le figure più controverse dell’arte contemporanea. Diventato ormai fenomeno mediatico, dopo la vendita di Rabbit per 91 milioni ha raggiunto una popolarità che da tempo non si vedeva. Non è quindi un caso che la grande mostra a Palazzo Strozzi abbia riscosso un tale successo di pubblico. Il mondo scintillante dell’americano Koons è presentato in tutta la sua spettacolarità dall’istituzione fiorentina, ma davvero è solo brillantezza e riflessi? Non c’è forse altro?

 

Koons ha rilanciato nell’arte quella cultura pop che probabilmente un po’ mancava, ha cominciato ad attingere ad immagini familiari, e conosciute da tutti, che spesso ci riportano all’infanzia, proponendole in modi scenografici. In questo senso, le sue sono opere sono immediate e facilmente apprezzabili ma, senza che questa condizione essenziale venga mai meno, talvolta sono caricate anche di riferimenti artistici e filosofici e da uno studio maniacale nella scelta dei materiali.

La mostra però, almeno in alcune parti, lascia poco spazio a un approfondimento reale sulla sua figura, preferendo attrarre lo spettatore con la “trappola” della spettacolarità di molti dei suoi lavori. Nato nel 1955 in Pennsylvania, Koons comincia a frequentare i primi corsi di disegno all’età di soli cinque anni. È già a partire dai vent’anni che dallo spazio bidimensionale della tela passa a una dimensione a tutto tondo introducendo oggetti e specchi che mirano a coinvolgere lo spettatore. Ne sono un esempio Sponge Shelf e Inflatable flowers (four tall purple with plastic figures) (fig. 2) entrambi del 1978 ed esposti in mostra, così colorati e ingenuamente graziosi.

 

Il lavoro di Koons è inevitabilmente legato al periodo in cui vive, tanto da diventarne rappresentativo sia per i lavori degli anni ’70 e ’80 sia per le opere più recenti. Quelli in cui comincia a lavorare sono anni in cui l’economia americana è “ruggente”, il consumismo si fa sempre più dilagante e la ricchezza è diffusa. Sono gli anni in cui torna di moda l’American Dream, in cui le persone vogliono vivere bene e comodamente; gli anni del consumismo, quelli in cui il tostapane o l’aspirapolvere diventano oggetti del desiderio. Nasce infatti la serie dei Pre-New, elettrodomestici, come in Nelson Automatic Cooker / Deep Fryer (fig. 3) che l’artista decide di fissare alla parete con dietro tubi al neon fluorescenti. Si tratta di oggetti sospesi, sia in senso fisico, in quanto non appoggiati a un piano, ma soprattutto in senso metafisico; la superficie immacolata rimarrà infatti per sempre inutilizzata, facendo perdere all’oggetto la sua funzione intrinseca, nonostante sia esposto al meglio delle sue potenzialità come in una vetrina commerciale.

 

Questo senso di sospensione torna chiaramente anche nella serie Equilibrium, rappresentata in mostra da One Ball Total Equilibrium Tank (Serie Spalding Dr. JK 241) (fig. 4) del 1985. Koons inizia infatti a lavorare a una serie molto significativa, forse tra la più profonde della sua produzione, in cui inserisce all’interno di teche una sostanza composta da acqua distillata e cloruro di sodio. Grazie a questa precisa combinazione dei veri e propri palloni da basket riescono a rimanere sospesi. Un po’ come farà una decina di anni dopo Damien Hirst col suo celebre “squalo” in formaldeide (The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living del 1991), Koons riesce a sospendere in un attimo di perfetto equilibrio, in bilico tra la vita e la morte, un oggetto che, ancora una volta, recupera dalla cultura popolare. Per quanto forse davanti a un’opera del genere arrivi allo spettatore prima il riferimento strettamente pop, penso che con un’osservazione più attenta sia inevitabile percepirne anche quella nota malinconica; quella sospensione che allude appunto allo stato di passaggio tra la vita e la morte.

 

Nelle opere di Koons si percepisce un certo gusto del kitsch, termine che però l’artista ha più volte dichiarato di non amare, preferendo sostituirlo invece con banality, che indubbiamente esprime bene il senso profondo di molto del suo lavoro. Scrive infatti l’artista: “La parola “kitsch” esprime automaticamente un giudizio su qualcosa. Ho sempre visto “banalità” come più libero”[2].

Quello che Koons vuole fare è rimuovere il senso di colpa che velatamente la classe borghese, almeno secondo lui, prova per i propri gusti “banali” e normalizzare l’apprezzamento anche per cose divertenti, dorate, brillanti ma soprattutto che fanno parte della loro quotidianità. Allo stesso modo vuole rimuovere il senso di colpa e di vergogna legato al tema della sessualità; realizza infatti una serie di opere dal titolo Made in Heaven insieme all’allora moglie Ilona Staller, nota come Cicciolina e celebre attrice di film da adulti. È una serie che pur facendo continuamente citazioni colte a partire dalla celebre Cacciata dal Paradiso di Masaccio affrescata nella fiorentina Cappella Brancacci, vuole normalizzare la sfera sessuale e spingere a un’accettazione completa di sé in tutti gli aspetti. È un peccato, dunque, che la mostra si soffermi poco, o sarebbe più corretto dire nulla, su questi aspetti del suo lavoro.

 

Nelle grandi sculture in acciaio della serie Celebration, iniziata dopo la separazione da Ilona con il conseguente allontanamento del figlio e dopo la morte del padre, la superficie riflette lo spettatore rendendolo parte dell’opera stessa. “Il lavoro dell’artista consiste in un gesto con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o un’immagine; tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l’arte” [3]

Gli oggetti appaiono leggerissimi ma allo stesso tempo profondamente attraenti: è il caso di Balloon Dog (Red) (fig. 6), davanti al quale è praticamente impossibile rimanere indifferenti: a cominciare da un ingenuo ma genuino “chissà come avrà fatto”, e passando da commenti più tecnici, si arriva inevitabilmente al sempreverde “potevo farlo anche io”, a testimoniare come sia molto difficile che un’opera del genere passi inosservata. Per quanto Koons deleghi la realizzazione di questa, come per Balloon Monkey (Blue) (fig. 1) – esposta magistralmente nel cortile di Palazzo Strozzi – a professionisti specializzati, egli segue tutto il lavoro in maniera maniacale, dalle fasi iniziali di carattere progettuale fino alla sistemazione degli ultimi particolari. Se in questi lavori lo spettatore ancora è cosciente di non trovarsi davanti a dei veri palloncini, e per quanto convinto non viene illuso, davanti a Hulk (Tubas) (fig. 7) o a Dolphin (fig. 8) è praticamente impossibile non cascare nel tranello. Il delfino gonfiabile di plastica usato dai bambini al mare è riprodotto nei minimi dettagli, dalle cuciture fino alle scritte in cinese sulla pancia. Solanto dopo aver letto nel cartellino, e comunque continuando a fare uno sforzo di fantasia, ci dobbiamo arrendere al fatto che quello che vediamo è effettivamente acciaio inossidabile. Si tratta di lavori estremamente costosi, ai quali Koons lavora con un’attenzione quasi maniacale; l’artista acquista infatti molte copie dell’oggetto in plastica, per poi selezionare quella che secondo lui è la più perfetta, alla quale affida il compito di fare da calco mandandola alla fonderia, assicurandosi in seguito che la resa pittorica sia esattamente identica a quella originale.

 

Concludiamo il percorso all’interno della mostra con quella che potremmo definire la pinacoteca personale o meglio ideale di Koons; egli realizza, infatti, una serie di riproduzioni di opere famose della tradizione pittorica e scultorea europea alle quali abbina delle sfere blu, le così dette gazing ball, ovvero palle di vetro realizzate a mano da artigiani specializzati della Pennsylvania, suo stato natale. Queste gazing balls vengono prodotte in gran numero (mediamente ne vengono presentate all’artista circa trecentocinquanta, prima che quest’ultimo ne trovi una di suo gradimento). Le sfere di vetro non sono perfette ma permettono allo spettatore di riflettersi e sono montate su copie in gesso di sculture celebri, come la Diana al bagno di Christophe-Gabriel Allegrain, esempio del rococò francese (fig. 9). Per la pittura Koons si ispira invece ad artisti italiani come Tiziano, Tintoretto e non solo, ma in questi casi non si tratta di vere e proprie copie; questi lavori hanno infatti dimensioni molto diverse dagli originali e sono dipinte da una schiera di pittori specializzati che non realizzano mai un lavoro perfettamente mimetico lasciando alcune differenze, sebbene quasi impercettibili, nella tonalità del colore. “La gazing ball condensa le informazioni e funge da interfaccia tra l’ambiente circostante e il rigoglio interiore” ha raccontato Koons, “ti fornisce la prospettiva dell’essere contemporaneamente dentro e fuori di te in relazione con il mondo esterno. Il riflesso ci afferma, ci incoraggia a muovere oltre i nostri confini e la nostra comfort zone portando l’esterno dentro e l’interno fuori”.[4]

 

Le opere di Koons spesso sono portatrici di profonde contraddizioni interne: rappresentano degli oggetti fuggevoli che però possono durare per sempre, danno l’impressione di fragilità pur essendo estremamente solide. La scelta dell’acciaio inossidabile non è affatto casuale: si tratta di un materiale che appartiene alla vita quotidiana, di un materiale che non ha niente di pregiato o grazioso, proprio come le immagini che rappresenta. Alla domanda di Joachim Pissarro, storico dell’arte e curatore, sulla scelta dell’acciaio, Koons risponde che “rappresenta il proletariato: è un materiale di tutti. La motivazione dell’arte è volerla condividere con gli altri. A mio parere, l’acciaio inossidabile rappresenta la durevolezza e non cerca di essere ciò che non è. Accetta ciò che è e rende al massimo livello”[5].

 

 

Note

[1] Intervista con Joachim Pissarro, in Jeff Koons. Shine, catalogo della mostra a Palazzo Vecchio, Marsilio, Firenze 2021, p. 38.

[2] Jeff Koons. Conversations with Norman Rosenthal, Londra 2014 p. 140, citato in Jeff Koons, 2021, p. 23.

[3] Jeff Koons, 2021, p. 37.

[4] Jeff Koons, 2021, intervista p. 49.

[5] Ibidem.

 

 

Bibliografia

Jeff Koons. Shine, catalogo della mostra a Palazzo Vecchio, Marsilio, Firenze 2021.

Molinaro, G. Romano (a cura di), Jeff Koons. Retrospettivamente, Postmedia Book, Milano 2007.

Risaliti (a cura di), Jeff Koons in Florence, catalogo della mostra a Firenze del 2015, Forma edizioni, Firenze 2016.

 

Sitografia

https://www.palazzostrozzi.org/ (Sito della Fondazione Palazzo Strozzi)

http://www.jeffkoons.com/ (Sito dell’archivio di Jeff Koons)