VETRI DAL RINASCIMENTO ALL’OTTOCENTO

A cura di Valentina Fantoni

 

La donazione Cappagli Serretti per i Musei Civici d’Arte Antica di Bologna

 

In occasione della mostra Vetri dal Rinascimento all’Ottocento sarà possibile ammirare, per la prima volta, all’interno degli spazi espositivi del Museo Civico Medievale di Bologna, l’intera ed inedita collezione Cappagli Serretti, una preziosissima raccolta di 117 vetri, databili dal XVII al XIX secolo.

La mostra, promossa in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e curata da Mark Gregory D’Apuzzo (conservatore Museo Davia Bargellini, Bologna), Massimo Medica (direttore Museo Civico Medievale e Museo Davia Bargellini, Bologna) e Mauro Stocco (conservatore Museo del Vetro, Murano) ha permesso un fecondo dialogo non solo tra le istituzioni ma anche tra i loro staff.

Il nucleo collezionistico (oltre 150 pezzi tra singoli manufatti, coppie e servizi da tavolo) mostra in tutta la sua raffinatezza ed eleganza lo sviluppo e l’evoluzione delle tecniche e degli stili dell’arte vetraria non solo italiana, e quindi veneziana, ma anche europea, ovvero inglese, spagnola e boema.

La collezione Cappagli Serretti è stata acquisita dall’Istituzione Bologna Musei nel 2020, grazie alla donazione di Liana Serretti, che, in seguito alla scomparsa del marito Bruno Cappagli, decise di mantenere integra la raccolta donandola ai Musei Civici d’Arte Antica di Bologna, ed in particolare al Museo Civico Medievale. In questo modo il nucleo recentemente acquisito va ad incrementare e ad arricchire la già notevole collezione permanente di vetri all’interno dei Musei Civici d’Arte Antica di Bologna (Museo Civico Medievale, Museo Davia-Bargellini). La collezione Cappagli Serretti, oltre a distinguersi per il suo pregio e per il considerevole numero di oggetti di altissima qualità artistica, si contraddistingue per una varietà che consente di offrire una panoramica delle principali manifatture europee dal Seicento all’Ottocento. Percorrendo la mostra, infatti, è possibile apprezzare le varie ed interessanti evoluzioni delle forme e degli stili non solo dell’orizzonte italiano, ma anche dei contesti anglosassone e spagnolo del Settecento nonché della produzione boema dell’Ottocento. Inoltre, è possibile cogliere come le varie manifatture sparse sul territorio europeo non fossero le une isolate dalle altre, bensì come si trovassero, in realtà, in una stretta relazione dovuta alla condivisione di tecniche, forme e motivi decorativi, pur nel mantenimento di caratteri specifici relativi alle differenti condizioni storiche, politiche e sociali di ogni paese.

A spiccare, all’interno della collezione, è il nucleo relativo alle opere del Seicento veneziano: le opere, così possono essere chiamate per il loro valore e per la loro bellezza, realizzate in questo periodo dai vetrai veneziani sono conosciute per il loro stile fantasioso, a volte anche bizzarro, la cui funzione decorativa non sempre si adattava a quella d’uso.

 

Un altro fenomeno ben documentato dagli oggetti presenti nella collezione è quello della produzione veneziana ed europea del Settecento, a imitazione di quella boema. Il fenomeno, ancora poco studiato - grande merito della mostra è aver offerto delle buone basi per alcune asserzioni – si manifestò in seguito alla crisi dell’industria veneziana e all’affermazione di nuovi centri di produzione, che apportarono cambiamenti sia a livello di gusti che di forme. Per mantenersi al passo con le novità boeme, il resto d’Europa cercò di allinearsi, imitando così la nuova manifattura. La grande svolta che segnò questo fenomeno è da ricondurre alla scoperta di nuove tecniche, principalmente legate all’utilizzo di nuovi materiali nel processo di composizione delle paste vitree, che superarono appunto quella veneziana.

 

Un altro aspetto molto interessante e curioso della collezione è la compresenza di pezzi estremamente pregiati ed oggetti di uso più comune, a testimonianza del gusto ecclettico proprio dei coniugi Cappagli Serretti. È possibile, in mostra, osservare, accanto ad oggetti che un tempo risiedevano sulle tavole aristocratiche e borghesi, come le alzate, le bottiglie, i calici e le fiasche e i bicchieri dal vario uso (da vino, da liquore) e vetri di presentazione, d’apparato e reliquiari, altri vetri – questi ultimi utilizzati nelle spezierie come strumenti da laboratorio – ovvero storte, imbuti, versatoi, fialette per oli essenziali.

 

La scelta per l’allestimento di questa collezione, tanto unica quanto importante, ha avuto come linea guida principale il desiderio di mantenere intatto il gusto dei suoi collezionisti, per permettere una visione d’insieme allo spettatore. La mostra si pone dunque come occasione per avvicinarsi all’affascinante mondo del vetro, per scoprire e conoscerne le tecniche di lavorazione, i segreti, e la fragile bellezza di questa moltitudine di oggetti, che possono essere definiti come vere e proprie opere d’arte.

 

 

Informazioni utili per visitare la mostra

Periodo

13 novembre 2021 – 18 aprile 2022

Sede

Museo Civico Medievale
Via Manzoni 4 | 40121 Bologna
Tel. +39 051 2193916 / 2193930

[email protected]

www.museibologna.it/arteantica

 

Ingresso

Intero € 6 | ridotto € 3 | ridotto speciale giovani tra 18 e 25 anni € 2 | gratuito possessori Card Cultura

 

Orari di apertura

Martedì, giovedì h 10.00-14.00

Mercoledì, venerdì h 14.00-19.00

Sabato, domenica, festivi h 10.00-19.00

Chiuso lunedì non festivi, Natale

 

Calendario visite guidate

Sabato 13 novembre 2021 h 10.00 *

Venerdì 19 novembre 2021 h 17.00 *

Sabato 11 dicembre 2021 h 10.00

Sabato 18 dicembre 2021 h 10.00

Sabato 8 gennaio 2022 h 10.00 *

Sabato 15 gennaio 2022 h 10.00

Sabato 5 febbraio 2022 h 10.00

Sabato 19 febbraio 2022 h 10.00 *

Sabato 5 marzo 2022 h 10.00

Sabato 19 marzo 2022 h 10.00 *
Sabato 2 aprile 2022 h 10.00
Sabato 16 aprile 2022 h 10.00 *

*A cura di “Senza Titolo” S.r.l.
Prenotazione obbligatoria: tel. 051 2193930 (dal martedì al venerdì h 9.00-14.00).

Prenotazioni per gruppi organizzati: [email protected].

Lo svolgimento delle attività̀ è subordinato all’evolversi delle disposizioni governative in merito all’emergenza sanitaria in corso.

 

Calendario conferenze

Mercoledì 19 gennaio 2022 h 17.00
Mauro Stocco
L’arte del vetro a Murano tra Rinascimento e Barocco

 

Mercoledì 26 gennaio 2022 h 17.00
Paola Goretti
Docile all’infinito soffio: d’Annunzio e l’arte del vetro


GIOVANNI BOLDINI, LO SGUARDO NELL’ANIMA.

A cura di Valentina Fantoni

 

La riapertura di Palazzo Albergati a Bologna riprende con una mostra dedicata al pittore ferrarese Giovanni Boldini, dal titolo “Giovanni Boldini, lo sguardo nell’anima”, in occasione del novantesimo anniversario della sua morte (Parigi 1981).

Il sottotitolo della mostra, come spiega Tiziano Panconi, curatore della mostra e massimo conoscitore e studioso di Boldini, vuole riscattare e svecchiare la ritrattistica del pittore: nell’immaginario comune la sua produzione artistica è sempre stata accostata a immagini di belle donne, eleganti e ben vestite, ma nei suoi ritratti c’è molto di più di una semplice ed effimera bellezza. Boldini era un abile ritrattista, capace di ascoltare e scorgere anche le più intime emozioni e pensieri dei suoi “personaggi”. La maggior parte dei suoi soggetti erano donne dell’alta società, belle, eleganti e sotto gli occhi di tutti, ma lui fu capace di coglierne l’irrequietezza, la melanconia, a volte la tristezza, restituendone sempre un’immagine delicata, raffinata e profonda. Altri soggetti che compaiono ritratti nelle sue tele sono uomini graduati, personaggi del mondo della musica e del teatro, passanti in strada e avventori nei caffè.

La mostra, ideata e sviluppata su un registro narrativo cronologico e tematico, permettere al visitatore di osservare innanzitutto una ricca raccolta di opere, quasi una novantina, espressione dello sviluppo e dell’evoluzione della maniera del Boldini, ma soprattutto volta a esaltare l’abilità del pittore nel carpire e rendere in pittura l’unicità della bellezza femminile e nello svelare l’anima dei nobili e celebri protagonisti della sua epoca in modo intimo, profondo. Alcune delle celebri opere osservabili in mostra sono il ritratto di Mademoiselle De Nemidoff (1908), Ritratto dell'attrice Alice Regnault (1884), La contessa Beatrice Susanna Henriette van Van Bylandt (1903), La contessa De Rasty coricata (1880 ca.), La camicetta di voile (1906 ca.).

 

L’esposizione di un numero così cospicuo di opere è stata possibile grazie alla disponibilità di collezioni pubbliche e private e di alcuni importanti prestatori, come il Museo Archives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia, il Museo Giovanni Boldini di Ferrara, Musei di Nervi - Galleria d'arte Moderna – GAM di Genova, Ca' la Ghironda – ModernArtMuseum.

Interessanti sono inoltre i confronti creati direttamente in sala con alcuni artisti contemporanei al Boldini, i quali permetteno al visitatore di immergersi completamente nel periodo artistico in cui vissero il pittore e i colleghi. È possibile quindi osservare opere di Vittorio Matteo Corcos, Federico Zandomeneghi, Gustave Leonard De Jonghe, Raimundo de Madrazo, Pompeo Massani, Gaetano Esposito, Salvatore Postiglione, José Villegas I Cordero, Alessandro Rontini, Ettore Tito, Cesare Saccaggi, Paul Cesar Helleu e Giuseppe Giani.

Il progetto espositivo strutturato in seno alla mostra offre la possibilità di compiere un triplice viaggio: quello nella vita dell’artista ferrarese, iniziata a Ferrara e terminata nella fervente e prosperosa città di Parigi, quello nella Belle Époque, periodo di sviluppo sociale e culturale che ebbe eco in tutta Europa, e quello, forse il più evidente di tutta l’esposizione, nell’universo femminile. A emergere infatti è proprio la sensibilità con cui vengono restituite queste immagini di una bellezza unica, attraverso pennellate veloci e frenetiche, definite vere e proprie sciabolate di colore.

Il percorso espositivo è stato quindi strutturato in sette sezioni tematiche, ciascuna delle quali porta un titolo significativo: Il viaggio da Ferrara a Firenze, verso Parigi; La Maison Goupil; La fine del rapporto con Berthe, Gabrielle e i caffè chantant; Il “soffio vitale”, dal ritratto al paesaggio; Il segno come struttura di uno stile; Il gusto fin de siècle; Le nouveau siècle.

Ciascuna sezione racconta quindi parte della vita del pittore e della sua produzione artistica: si parte con il suo autoritratto in giovane età, per procedere con gli sviluppi creativi e stilistici compiuti grazie ai suoi spostamenti e viaggi. Dalla città natale, infatti, si spostò circa ventenne a Firenze, dove entrò in contatto con i rappresentati del movimento dei Macchiaioli, dai quali apprese i giochi luministici, per poi viaggiare tra Parigi e Londra ed infine stabilirsi definitivamente a Parigi, dove divenne uno dei pittori più ricercati e noti del tempo.

 

Il suo rapporto con le donne fu caratterizzato da diverse relazioni con alcune donne bellissime ed interessanti, alcune delle quali amanti e poi compagne, muse e protagoniste dei suoi dipinti. Il suo savoir fair con le donne gli permise di entrare in sintonia con tutte le dame che passarono per il suo atelier: se dapprima entravano intimorite e intimidite nello studio per la sessione del ritratto, grazie al modo di conversare del pittore erano in grado di liberarsi dalle rigide regole di comportamento della società, concedendosi a volte un momento di sfogo, di divertimento, e nell’attimo fuggente di un loro sorriso, di un loro pianto o sguardo malinconico Boldini era capace di catturarlo e rappresentarlo dinamicamente sulla tela. Quelli di Boldini sono quindi ritratti di persone piene di vita, animate da un fuoco interiore, soprattutto per quanto riguarda la sfera femminile: il pittore ne riesce a rappresentare la condizione sociale, le vicissitudini e il loro essere coscienti di essere protagoniste del progresso del loro tempo, quello dell’emancipazione femminile.

 

Una volta usciti dalla mostra la sensazione è quella di essere stati catapultati fuori da un turbinio di emozioni, di colori, di musiche e suoni, grazie proprio alla sensibilità con cui il pittore riusciva a rappresentare l’anima delle persone con le sue pennellate veloci, vorticose e potenti, cariche di sentimento ed emozione, restituendo l’atmosfera di quella che era un’era movimentata e piena come quella la Bella Époque.

 

 

 

Info utili sulla mostra

Palazzo Albergati
Via Saragozza, 28
40123 Bologna

Sito

www.palazzoalbergati.com

Date al pubblico

29 ottobre 2021 – 13 marzo 2022

Orario apertura

Tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00 (la biglietteria chiude un’ora prima)

 

Aperture straordinarie

Lunedì 1 novembre 10.00 – 20.00

Mercoledì 8 dicembre 10.00 – 20.00

Venerdì 24 dicembre 10.00 – 17.00

Sabato 25 dicembre 16.00 – 20.00

Domenica 26 dicembre 10.00 – 20.00

Venerdì 31 dicembre 10.00 – 17.00

Sabato 1 gennaio 10.00 – 20.00

Giovedì 6 gennaio 10.00 – 20.00


ORO E COLORE NEL CUORE DELL’APPENNINO. ALLEGRETTO NUZI E IL ‘300 A FABRIANO

A cura di Arianna Marilungo

 

 

Il 14 ottobre scorso è stata inaugurata presso la Pinacoteca Civica Molajoli di Fabriano la mostra “Oro e colore nel cuore dell’Appennino. Allegretto Nuzi e il ‘300 a Fabriano” che terminerà il 30 gennaio 2022. L’esposizione, curata da Andrea de Marchi e Matteo Mazzalupi, si pone l’obiettivo di riportare nella città natale del maestro fabrianese circa trenta delle sue opere per far rivivere lo spirito artistico e culturale che animava Fabriano nella seconda metà del XIV secolo.

Dopo un periodo di formazione in Toscana, secondo documentazioni storiche, Allegretto Nuzi lavorò stabilmente a Fabriano dal 1347 al 1373, anno della sua morte. La sua pittura, caratterizzata da una decisa tendenza espressiva delle figure e dei volti di chiara matrice toscana, influenzò profondamente l’arte e la cultura umbro-marchigiana.

 

Il percorso espositivo

Dalla devozione personale alle grandi pale d’altare

L’esposizione si apre su una prima sala in cui si ripercorre la devozione intima e personale del pittore. Sono esposte qui tavole di piccolo formato che avvicinano il visitatore al mondo poetico dell’artista. Ne è un esempio la piccola e raffinata Madonna dell’Umiltà dei Musei Vaticani (fig. 1) in cui la maternità della Vergine è incorniciata da una ricercata tenerezza riscontrabile anche nelle altre tavole, come il Dittico qui ricomposto in cui il dolce abbraccio tra il bambin Gesù e la Madonna è affiancato da una Imago Pietatis (figg. 2-3) che rappresenta la composta sofferenza del Cristo intrisa di profonda umanità.

 

La seconda sala introduce il visitatore ai grandi polittici della maturità di Allegretto, realizzati tra il 1360 ed il 1370.  Per la prima volta questa esposizione propone la corretta ricostruzione del Trittico (fig. 4) del 1358, la sua pala più importante, probabilmente proveniente dall’altare maggiore della cattedrale di San Venanzio di Fabriano. Al centro del trittico campeggia una Madonna col Bambino in trono, fortemente danneggiata e conservata nella chiesa di Santa Maria Nova in Ostra Vetere, affiancata da S. Antonio Abate e San Giovanni Evangelista da un lato, e da San Giovanni Battista e San Venanzio dall’altro, tavole conservate nel Museo Diocesano di Fabriano.

 

Il percorso espositivo continua con l’elegante Polittico (fig. 5) che mostra al centro la Madonna col Bambino, a sinistra S. Maria Maddalena e S. Giovanni Evangelista, a destra S. Giovanni Battista e S. Venanzio. Le raffinate scelte coloristiche rendono la narrazione figurativa commovente, evidenziando chiari rimandi all’arte senese, in particolar modo riconducibile a quella di Ambrogio Lorenzetti.

 

La fase ultima del Maestro fabrianese è caratterizzata da un esasperato decorativismo, come dimostrano i Tre scomparti laterali di polittico rimontati a forma di trittico (fig. 6) qui esposto e dipinto per la Chiesa di Santa Maria Nova, retta dalla comunità agostiniana. Nel pannello centrale è rappresentato Sant’Agostino, affiancato da San Nicola da Tolentino a sinistra e da Santo Stefano a destra. In questa ultima fase pittorica, il maestro fabrianese giunge ad una più evidente astrazione delle figure a cui si aggiunge un’accentuata decorazione delle vesti trapunte d’oro ed il lusso ostentato delle incisioni a bulino[1].

 

Conclude il ciclo dei grandi polittici, il Trittico del 1365 raffigurante la Madonna col Bambino in trono e la famiglia di Onofrio Santi (?) tra San Michele Arcangelo e Sant’Orsola proveniente dalla cappella dei Santi Michele e Orsola nella chiesa di Santa Lucia Novella di Fabriano (fig. 7).

 

Le figure della Vergine Maria nella produzione di Allegretto Nuzi: dalla Maestà di Avignone alle Madonne dell’Umiltà

La terza sala si apre con una delle opere di più grande importanza della produzione di Allegretto Nuzi: la Maestà di Avignone (fig. 8). Si tratta di una Madonna in trono con il Bambino di cui non si conosce la provenienza esatta. Contraddista dalla tipica ieraticità delle tavole di fine duecento, se ne differenzia dall’abbraccio tenero con cui il bambin Gesù sembra volersi aggrappare alla madre. Questo senso profondo di delicata amorevolezza è sottolineato dagli sguardi e dai gesti degli angeli che circondano il trono della Vergine. Di notevole fattura sono le decorazioni della veste della Madonna e degli angeli adoranti.

 

Un’intera parete di questa sala è stata dedicata al confronto delle opere di Allegretto Nuzi con un artista a lui coevo: Francescuccio di Cecco. Entrambi si cimentarono nella rappresentazione dell’iconografia cosiddetta della Madonna dell’Umiltà, contribuendo a diffonderne l’immagine in tutto il territorio marchigiano. Questo tema iconografico mariano, di derivazione bizantina, rappresenta la Madonna in atteggiamento umile, ovvero seduta al suolo con in braccio il Bambin Gesù per avvicinare il sacro alla realtà dei fedeli, discostandosi dalle elegantissime immagini della Madonna in trono. Per questo motivo era molto utilizzata nelle commissioni degli ordini mendicanti. Una variante, qui esposta in numerosi esemplari (figg. 9-10-11) e molto utilizzata da Allegretto Nuzi e Francescuccio di Cecco, è la Madonna che allatta al seno il bambin Gesù. Completano la sala altre opere della maturità del Nuzi: il polittico di Apiro (MC) (1365, fig. 12)[2], la Madonna in trono col Bambino che presenta l’iscrizione sulla base del trono della Vergine: [H]OC OPUS PINXIT ALEGRITTUS NUTII DE FABRIANO ANNO MCCCLXXII (1372, fig. 13) e la Crocifissione di Friburgo (fig. 14), in cui il dolore della Madonna è rappresentato magistralmente attraverso un esasperato gesto urlante.

 

I gruppi scultorei del Maestro dei Magi di Fabriano

Il percorso espositivo si conclude con la sala dedicata ai gruppi scultorei in legno policromo realizzati dal cosiddetto Maestro dei Magi di Fabriano. Si tratta di gruppi scultorei a soggetto sacro che richiamano la pittura di Allegretto Nuzi nella tenerezza dei gesti, nella cura dei dettagli e nelle ricche decorazioni delle stoffe.

 

 

 

Informazioni di visita

Orari: da martedì a domenica 10-13; 15-18

Info: (+39) 0732.250658

[email protected]

 

Sito

www.pinacotecafabriano.it/

www.gallerianazionalemarche.it/

 

Le fotografie dalla 1 alla 7 e dalla 10 alla 14 sono state realizzate dalla redattrice

 

Note

[1] Giampiero Donnini, con la collaborazione di Francesca Mannucci e Emanuela Lobba, Guida alla Pinacoteca Civica Bruno Molajoli, Città di Fabriano, 2017, p. 62

[2] Il Polittico è costituito da una pala centrale raffigurante la Madonna in trono con il Bambino, e da quattro pale laterali. Le due a sinistra rappresentano Santa Caterina d’Alessandria e San Francesco. Le due a destra, invece, San Martino che dona il mantello al povero e Santa Lucia. Nelle cuspidi: Crocifisso, Sant’Elisabetta d’Ungheria o Santa Rosa da Viterbo, Sant’Antonio da Padova, San Ludovico di Tolosa, Santa Chiara.

 

 

Bibliografia

Giampiero Donnini, con la collaborazione di Francesca Mannucci e Emanuela Lobba, Guida alla Pinacoteca Civica Bruno Molajoli, Città di Fabriano, 2017

Francesca Coltrinari e Patrizia Dragoni, Pinacoteca Comunale di Fermo. Dipinti, arazzi, sculture, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2012


CORPUS DOMINI. DAL CORPO GLORIOSO ALLE ROVINE DELL’ANIMA

A cura di Silvia Piffaretti

 

Corpus Domini, il corpo protagonista a Palazzo Reale

A Milano, dal 27 ottobre 2021 e fino al 30 gennaio 2022, è aperta al pubblico la mostra Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell'anima prodotta da Palazzo Reale e dal Comune di Milano-Cultura in collaborazione con Marsilio Arte e Tenderstories. La mostra, curata da Francesca Alfano Miglietti, presenta 111 opere dalla varia natura - installazioni, sculture, disegni, dipinti, videoinstallazioni e fotografie - di ben 34 artisti noti a livello internazionale. Il corpo, un modello ancestrale che ci precede, ci accompagna e ci sopravvive, nonché idea concretissima e specchio della nostra interiorità, è l’indiscusso protagonista dell’esposizione. Il percorso pertanto analizza la molteplicità delle forme attraverso cui il corpo è rappresentato, ponendo l’attenzione sul passaggio storico dal corpo protagonista della Body Art a quello dell’Iperrealismo, per poi giungere a realizzazioni in cui quest’ultimo è evocato attraverso le tracce del suo esserci stato.

 

L’omaggio a Lea Vergine

Imprescindibili per la genesi della mostra sono gli studi condotti da Lea Vergine a cui, in apertura al percorso espositivo, è stata dedicata una stanza in cui vi sono opere, libri, documenti e fotografie che testimoniano la sua pionieristica ricerca nel campo della Body Art. A detta di Francesca Giacomelli la critica, a più riprese contestata per l’esplicita e tagliente scrittura, si configura come “una personalità complessa e coraggiosa, una persona sagace e intrepida, una creatura ipnotica ed elegante dall’allure accecante” nonché “una pensatrice che ha pagato la difesa della propria libertà intellettuale”. Fu con tale spirito che curò mostre come l’Altra metà dellavanguardia (1980) o le monografiche su Carol Rama e Gina Pane, derivanti dagli studi sul tema del corpo affrontati nella pubblicazione Il corpo come linguaggio (1974).

 

Proprio a Gina Pane (1939-1990) è lasciato spazio su una parete che ospita la documentazione della performance Azione sentimentale (1973). Una successione fotografica che mostra l’artista, davanti ad un pubblico femminile e maschile, compiere una serie di azioni con un mazzo di rose, prima rosse e poi bianche, intervallate all’inserimento di alcune spine nell’avambraccio sinistro e all’incisione di piccoli tagli nelle pieghe della mano da cui fuoriesce il suo sangue, che va a creare l’immagine di una rosa rossa. Contemporaneamente all’azione due voci femminili leggevano una corrispondenza, in francese e in italiano, tra una donna che raccontava la morte della madre, e un’altra che le esprimeva cordoglio inviandole un mazzo di rose; così facendo l’artista metteva in scena la fragilità psicofisica dell’individuo umano.

 

Un muto dialogo tra Kosuth e Gormley

Varcando la soglia della sala successiva si incontra Joseph Kosuth (1945), un’artista che ha fondato la sua intera carriera sulla ricerca ricerca tra l’oggetto dell’arte e il suo linguaggio. Le quattro frasi al neon sulla parete, appartenenti alla serie Texts for Nothing (2010), una raccolta di storie del drammaturgo Samuel Beckett, rappresentano un’assenza del corpo e l’apparizione di un verbo, rispecchiano l’impossibilità della narrazione a favore della costruzione del pensiero individuale che porta l’individuo a interrogarsi sul significato delle cose e della vita. A dialogare con la vibrante materia del neon è la frammentaria, ma altrettanto evocativa, scultura dell’inglese Antony Gormley (1950), il quale sintetizza con abilità la dimensione emotiva della fragilità umana. Infatti l’opera PILE IV, eseguita in creta, è un insieme di quattordici elementi di argilla levigata che assumono le sembianze di un essere umano che, a terra, pare coprirsi le orecchie.

 

 

La risata di De Dominicis e il silenzio di Boltanski

Nel proseguire il percorso ci si raffronta con l’inusitata potenza di Gino De Dominicis (1947-1998),  presente con un’installazione sonora di una risata priva di corpo, diffusa e ripetuta in loop per circa due minuti. Quest’ultima introduce, quasi in un ardito contrasto, all’imponente drammaticità della prospiciente sala in cui è presente Christian Boltanski (1944-2021). L’artista, da sempre legato ai temi della memoria dei dolori della guerra, ha messo in scena l’assenza di un corpo unico a favore di un corpo collettivo, in questo caso costituito da un cumulo di abiti scuri che invade la sala, proprio come hanno fatto l’Olocausto e le sue conseguenze influenzando la nostra civiltà. In tale modo Boltanski porta ai nostri occhi una dimenticanza di uomini e donne, vittime di una dittatura, attraverso il lascito di un tetro vestito privo d’identità.

 

 

La poetica del video: Oscar Muñoz e Michal Rovner

Degni di nota sono anche i due progetti di Oscar Muñoz (1951), attraverso i quali svela la precarietà dell’individuo di fronte alla sua rappresentazione, ma anche la caducità della vita. L’installazione video Biografías prevede tre proiezioni che, installate a terra, mostrano l’artista mentre compone con polvere di carbone, sulla superficie di una bacinella colma d’acqua, un disegno serigrafico che scompare mentre un rumore di scarico echeggia in sottofondo. In Proyecto para un memorial invece, l’artista disegna su una lastra di marmo esposta al sole, con un pennello intinto nell’acqua, una serie di ritratti che evaporano e la cui identità è consumata.

 

Altrettanto interessanti sono le due proiezioni video di Michal Rovner (1957), il quale indaga la condizione umana attraverso i temi politici, identitari e la geografia dei popoli. L’artista espone dei paesaggi monocromatici colorati che, visti dall’alto attraverso telecamere ad ampio raggio, ad un’osservazione più attenta, rivelano dei piccoli puntini neri che si muovono, i quali non sono altro che persone in movimento. In tali paesaggi l’essere umano viene privato della propria identità, sia politica che sociale, ma anche della sua stessa fisicità.

 

Migrazioni e continenti: Mauri e Shiota

D’impatto per la sua monumentalità è Il Muro Occidentale o del Pianto di Fabio Mauri (1926-2009), una serie di valigie in cuoio e legno di diversi formati che, accatastate, creano un elevato muro dal fronte piano e dal retro irregolare. A tale muro, incarnante la vita dei migranti, l’artista affida le loro speranze e preghiere per una vita migliore. Sulla scia di Mauri si pone anche Chiharu Shiota (1972) con Over the Continents (2011), dove protagonista è una raggiera formata da fili di cotone rosso che, dipartenti da una comune sorgente, si legano a diverse scarpe, consumate o intonse, che recano in sé la traccia di un corpo assente. In questo modo l’installazione personifica una serie di tematiche presenti nella società attuale, dall’immigrazione al femminicidio.

 

La mostra pertanto, attraverso una sistematica indagine sul rapporto tra arte e corpo, tesse le fila di un discorso già aperto a partire dalla fine del Novecento da pionieri, come la critica Lea Vergine, per orientarsi in direzione della contemporaneità, che ben si sposa con lo spirito di Milano. In tale modo l’esposizione, con un occhio di riguardo all’attualità, permette al visitatore di compiere una riflessione sul proprio corpo mentre, servendosi dello stesso, attraversa le sale di Palazzo Reale.

 

 

 

Informazioni di visita

Orario apertura:

Lunedì chiuso

Martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 10.00 -19.30

Giovedì 10.00 - 22.30 (La biglietteria chiude un'ora prima)

 

Biglietti:

Visita guidata su carta inclusa

Prevendita esclusa

 

Open € 16

Intero € 14

Ridotto € 12

Abb. Musei Lombardia € 10

Ridotto speciale € 6

Biglietto Famiglia: 1 o 2 adulti € 10 / ragazzi dai 6 ai 14 anni € 6

Ridotto Gruppi € 12,00: gruppi di massimo 15 persone guida e/o accompagnatore compresi. Gratuità: 1 accompagnatore per ogni gruppo

Ridotto Gruppi Touring Club o FAI € 6,00: gruppi organizzati direttamente dal Touring Club e dal FAI. Gratuità: 1 accompagnatore e 1 guida per gruppo

Ridotto scuole € 6,00: gruppi di massimo 15 persone guida e/o accompagnatori compresi. Gruppi di studenti di ogni ordine e grado. Gratuità: 2 accompagnatori per ogni gruppo scolastico

 

Prenotazioni

www.ticketone.it | Call Center 892.101

 

Sito

www.palazzorealemilano.it


IL GIOVANE BOCCIONI ALLA GALLERIA BOTTEGANTICA

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

Il giovane Boccioni

Presso la Galleria Bottegantica di Milano è in corso, dall’8 ottobre al 4 dicembre 2021, la mostraIl giovane Boccioni”; un’esposizione che si discosta dalle canoniche per focalizzarsi sull’inedita fase giovanile e formativa dell’artista, in cui lo studio del passato si lega all’irrefrenabile desiderio di conoscere il presente e sperimentare il futuro. L’esposizione curata da Virginia Baradel, insieme ad Ester Coen e Niccolò D’Agati, presenta una selezione di opere, datate tra il 1901 e il 1909, che dimostrano come Umberto Boccioni confidasse ampiamente nella necessità di una mente capace di “sintetizzare la sapienza moderna e creare la vera opera”. In tali anni l’artista mosse i primi passi tra Roma, Padova, Venezia e Milano, e intraprese perfino un viaggio a Parigi e in Russia.

 

Boccioni, diversamente da quanto si è soliti credere, non ebbe un’immediata vocazione per la pittura. Inizialmente, infatti, il più grande desiderio del giovane era quello di diventare giornalista, fino a quando presso il giornale “Fanfulla” scoprirono in lui uno spiccato talento per la caricatura. Così, accantonato il suo primo desiderio, iniziò ad apprendere i rudimenti dell’illustrazione e della pubblicità dal cartellonista Stolz. L’idea di intraprendere la strada della pittura si insediò definitivamente in lui tra il 1902 e il 1903, quando iniziò a frequentare lo studio di Balla, ma per mantenersi dovette eseguire tempere commerciali. La mostra mira pertanto a ripercorrere i passi dell’artista in quell’arco cronologico, attraverso un allestimento elegante e propedeutico alla comprensione del visitatore, mediante l’esposizione di disegni, tempere commerciali e alcune opere pittoriche.

 

I disegni e le tempere commerciali

L’esposizione affronta con grande perizia il lavoro su carta attraverso un primo corpus disegnativo d’impronta scolastica, risalente al periodo formativo presso Balla e le scuole di disegno pittorico e di nudo di Roma, da considerarsi come esercizio per educare la mano ad obbedire all’intelletto. A tale nucleo se ne accosta un altro in cui il tratto sicuro riporta precise visioni architettoniche, ritratti curiosi e figure umane. Per Boccioni il disegno costituiva “il tramite per dominare e organizzare lo spazio e per aumentare la fedeltà […] a ciò che l’occhio porge”[1], in questo modo l’artista indagava in profondità le coordinate della pittura: la contrapposizione tra scuri e chiari, tra ombre e luci, tra plasticità e linearismo.

 

 

Un altro ambito della produzione su cui la mostra si concentra è quello delle tempere commerciali che Boccioni realizzò, tra il 1904 e il 1906, per ragioni perlopiù economiche, ma che senza alcun dubbio sono da ritenersi palestra importante nel suo percorso di maturazione artistica e di scandaglio della modernità. Ne sono un esempio la piccola Ciociara (1904), influenzata dall’illustrazione belga, e la moderna Automobile 48 29 (1907). Altrettanto interessante è l’Allegoria delle arti, una serie di bozzetti per il manifesto della mostra di Brunate del 1909, in cui è possibile seguire l’intera sequenza dallo studio al prodotto finale.

 

Le opere pittoriche

Il percorso espositivo si chiude con il trasferimento dell’artista a Milano, nel settembre 1907, dove si recò con l’intenzione rapace di vincerla e conquistarla, nonostante si vide ancora costretto a dedicarsi alla cartellonistica e all’illustrazione. Alle pagine del suo diario, il 21 settembre 1907, affidava le sue speranze: “Sogno un avvenire laboriosissimo pieno di quadri, disegni, acqueforti, decorazioni… tutto tutto. E soprattutto cantando questa nostra epoca moderna così odiata da quasi tutti gli artisti”[2].

 

Con tale spirito giunse a sorprendenti esiti sul versante del ritratto, riuscendo a restituire sulla tela la singolarità di un volto, di un’espressione o di un carattere. In questa sezione trova ampio spazio la raffigurazione della madre Cecilia Forlani, di cui il disegno Mia Madre rappresenta uno dei vertici della produzione su carta. A quest’ultimo, eseguito a lapis fino alla più piccola particolarità, vi lavorò con amore e costanza fino a condurlo alla massima ricercatezza. Al termine dell’esecuzione, il 27 settembre 1907, l’artista scriveva: Ho finito il disegno di mammà e non ne sono compiutamente contento come vorrei. Non sono stato abbastanza scrupoloso come io desidero. Ho a rimproverarmi qualche svogliatezza e qualche trascuratezza. Il panneggio soprattutto del corpo. É un disegno come non ne ho mai fatti e non so perché mi accontenti più di tanti altri”[3]. All’indagine sulla madre, modello comportamentale oltreché pittorico, appartengono anche La madre malata (1908) e il trittico Veneriamo la madre in cui l’artista vorrebbe “versare il vero nella forma dell’idea senza cadere nel vuoto o nel superficiale”. A chiudere il percorso è La Madre della collezione Ricci Oddi, in cui la pennellata va a costruire la solida figura della donna.

 

La Galleria Bottegantica, pertanto, offre al pubblico un’imperdibile occasione per poter ammirare le capacità di superbo disegnatore e illustratore di Boccioni, le quali saranno fondamentali per la definizione della sua complessa personalità pittorica.

 

 

Note

[1] Il giovane Boccioni, Bottegantica Edizioni, p. 12.

[2] Ivi, p. 187.

[3] Ivi, p. 175.

 

Informazioni di visita

Milano, Galleria Bottegantica

Milano, Via Manzoni 45

 

Orari: da martedì al sabato 10-13; 15-19

Ingresso libero

 

Info: (+39) 02 62695489 – (+39) 02 35953308

[email protected]

[email protected]

www.bottegantica.com


SALMAN ALIGHIERO BOETTI ALLA TORNABUONI ARTE MILANO

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

Salman Ali: l’ombra di Alighiero Boetti

Presso la galleria Tornabuoni Arte di Milano è in corso, a partire dal 14 settembre e fino al 14 ottobre 2021, la mostra SALMAN ALIGHIERO BOETTI che prende vita a partire dall’autobiografia di Salman Ali edita da Forma. Quest’ultima presenta l’inedita storia di convivenza familiare dei ventitré anni passati insieme all’artista Alighiero Boetti. Il volume, costituito da fotografie fino ad ora in gran parte private, presenta alcuni contributi firmati da Bruno Corà, Giorgio Colombo e Clino Castelli. La galleria per l’occasione accoglie la collezione privata di Salman Ali, insieme ad una straordinaria selezione di fotografie che lo ritraggono nei momenti di vita privata e nei viaggi accanto all’artista. Egli infatti era solito occuparsi della famiglia, dei bambini, della casa; seguiva Boetti nei suoi viaggi e nel suo studio dove garantiva ordine perché “tutto andasse bene e che capo fosse tranquillo”, come ricorda lui stesso.

 

I due si conobbero nel 1971 a Kabul dove Boetti aveva aperto il famoso One hotel, albergo nel quale Salman trovò impiego. Il mito vuole che Boetti, dopo aver guadagnato un po’ di soldi con una prima mostra, entrando in un’agenzia di viaggi chiese: “Qual è il posto più lontano dove posso andare?”, gli risposero “Kabul”. Come accenna la figlia Agata Boetti però, è in parte vero e in parte no. Il padre, infatti, era rimasto affascinato da un vecchio antenato di famiglia che era andato verso Mosul. Pertanto, volendo recarsi anch’egli in tali regioni, chiese quale fosse la tratta meno costosa: Roma-Kabul.

 

Nel 1973 poi Boetti propose a Salman di seguirlo a Roma, a lui l’artista non guardava come un cameriere ma come una persona della famiglia. Infatti, come ricorda la figlia, fin dal suo arrivo fece sempre parte della famiglia; tant’è che anche in vacanza a Todi o a Vernazza andavano sempre in cinque. Agata Boetti sottolinea come i due si fossero scelti mutualmente in modo naturale, senza farsi troppe domande e parlandosi con gli occhi. Il loro legame indissolubile è espresso anche dalle parole di Bruno Corà, il quale afferma: “C’è stato un tempo, un lungo tempo, durante il quale Salman Ali era sempre dietro Alighiero Boetti e, come la sua ombra, non si allontanava mai da lui”, inoltre aggiunge, "Il destino poi aveva voluto che il nome di Alighiero includesse anche quello di Ali che magicamente così lo portava con sé anche quando Salman, rendendosi provvidenziale, aiutava Annemarie e si dedicava ai loro figli, Matteo e Agata[1].

 

La collezione privata di Salman Ali

Il visitatore, dopo aver ammirato le due colorate tele visibili dalle vetrine della galleria, è accolto in uno spazio nel quale, su due delle tre pareti, sono disposte le fotografie e i ricami della collezione di Salman Ali, in una disposizione che è un chiaro riferimento all’opera Il muro collocata al Museo del Novecento di Milano. Agata Boetti, alla domanda come fosse nato il muro, afferma che fu iniziato dal momento in cui era nata e che il padre lo chiamò così poiché era proprio il muro di casa. La figlia lo definisce una sorta di work in progress gelato alla morte dell’artista, su cui sono apposte cose estremamente diverse: da una tasca di una giacca trovata in un mercatino a Kabul, a dei francobolli, a un’opera di Sol LeWitt, a un disegno preparatorio dei suoi aerei, a una sua foto col fratello Matteo e perfino un disegno di quando era piccola. In tale modo il muro, di norma elemento divisorio e isolante, venne trasformato da Boetti in un elemento di molteplici inclusioni.

 

Le pareti, ricreando l’allestimento del muro, accolgono le fotografie private della collezione di Salman scattate da diversi fotografi, tra i quali: Giorgio Colombo, Randi Malkin Steinberger, Gianfranco Gorgoni e Antonia Mulas. In particolare Giorgio Colombo, che conobbe Salman nell’agosto del 1973, nella pubblicazione per Forma Edizioni, ricorda come Salman l’avesse fin da subito colpito per la sua disponibilità esuberante verso la macchina fotografica; nonostante la religione musulmana non ammettesse eccessiva confidenza con la riproduzione della propria immagine. Il fotografo, inoltre, confida: “Ogni volta che lo incontravo, le sue prime parole erano ‘Giorgio foto? Manda!!’”[2]. Anche Agata Boetti ne rimarca la confidenza con l’obiettivo, Salman adorava essere fotografato anche perché a Kabul non vide mai una macchina fotografica.

 

 

Suggestiva è anche la Mappa del 1990, qui esposta e parte dell’omonima serie che lo rese tanto noto. Boetti era solito far portare in Afghanistan i tessuti disegnati delle mappe che sarebbero poi stati ricamati dalle donne. I contorni dei paesi erano disegnati a penna, così come le lettere del bordo che presentavano parole in italiano e in farsi; mentre le bandiere erano colorate con i pennarelli in modo che le ricamatrici potessero seguire le indicazioni per i colori. Per le donne i paesi e le bandiere delle mappe erano solo dei disegni, quest’ultime non sapevano leggere l’alfabeto occidentale e non conoscevano i paesi. Inoltre Salman, nell’autobiografia, confessa di aver capito solo a Roma che poteva essere insolito che un artista non facesse le sue opere ma che le facesse fare ad altri, poiché per lui era una cosa usuale. Le Mappe furono le prime testimonianze che vide del lavoro di Boetti: “A 18 anni, sapevo almeno che la terra era tonda ma non avevo mai visto una mappa con i diversi paesi. Conoscevo i nomi dei paesi che hanno le frontiere con l’Afghanistan come il Pakistan, l’Uzbekistan, il Tajikistan o i paesi molto grandi e importanti come l’America e la Russia ma gli altri no. Poi non avevo mai visto tutti i paesi tutti insieme in una mappa”[3].

 

Delle Mappe la figlia Agata ne ammira la molteplicità di visioni senza limite e ricorda come quella fatta per la sua nascita fosse rimasta, fin da quando era nata, vicina al suo letto e di come su di essa lei, così come i suoi figli, abbia imparato la geografia e scelto le destinazioni delle vacanze. Ma ciò che più l’affascina è la possibilità, durante le esposizioni, di farsi ombra per cogliere le reazioni dei visitatori: “Quando vedo nelle mostre la gente che guarda le mappe, adoro camuffarmi e mettermi vicino per ascoltare ciò che la gente dice. E ci sono gli ottimisti che dicono ‘vedi ci sono pochi paesi in guerra’ o quelli che dicono il contrario. Quelli che dicono ‘non sapevo che l’America e il Giappone fossero così vicini’, oppure quelli che dicono ‘bisogna prestare attenzione all’ecologia dell’oceano, perché è tutto oceano’”.

 

La bellezza di tali mappe risiede quindi anche nel cambiamento che registrano, concetto che può essere associato anche al Libro dei fiumi presente in mostra. All’interno di tale libro vi sono mille pagine, le quali rappresentano i mille fiumi più lunghi del mondo che non sono mai stati catalogati. L’intenzione di Boetti era quella di mandare dei telegrammi a tutte le ambasciate del mondo, ma non lo avrebbe mai fatto, dunque lo aveva domandato alla moglie: tale progetto divenne poi un libro. Anch’esso però subì cambiamenti, proprio come le Mappe, perché il primo fiume che all’epoca era il Nilo ora non lo è più. Per tale motivo, secondo Agata Boetti, bisognerebbe idealmente “riattualizzarlo”.

 

Le opere di Boetti perciò, oltre ad essere evidente testimonianza di un’umanità in continuo mutamento, si prestano a finalità pedagogiche, invitano ad allargare i propri orizzonti culturali e contemporaneamente al gioco con l’arte. Infatti, come asserisce la figlia, l’opera del padre è una moltitudine di giochi diversa dalle analisi intellettuali della critica; lo stesso Boetti si definì un creatore di regole, di giochi e meccanismi, che una volta creati gli permettevano di giocare e far giocare gli altri.

 

Note

[1] Salman Alighiero Boetti, Forma Edizioni, 2021, p. 90.

[2] Ivi, p. 92.

[3] Ivi, pp. 12-13.

 

 

Informazioni di visita

Orari galleria:

lunedì 15.00-19.00 | martedì/sabato 10.00-13.00 e 15.00-19.00

 

Contatti:

E-mail: [email protected][email protected]

Tel.: + 39 026554841

 

Indirizzo:

Via Fatebenefratelli 34-36 – 20121, Milano


MIRÓ. IL COLORE DEI SOGNI

A cura di Mirco Guarnieri

 

Nella giornata di venerdì 10 settembre 2021, è stata presentata in anteprima la mostra “Miró. il colore dei sogni” presso la Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo in provincia di Parma organizzata in collaborazione con la Fundació MAPFRE di Madrid.

All’interno della mostra sono esposte cinquanta opere realizzate tra gli anni Trenta e Settanta che mostrano come Miró si sia distaccato dalla pittura tradizionale per abbracciare l’idea di una pittura fatta di emozioni tendente all’astrazione. Particolarmente documentati sono gli ultimi decenni di attività di Miró. In quel periodo l’artista realizzò opere di grande formato, con temi ricorrenti e reinventati con frequenza attraverso l’uso costante di simboli come le stelle, gli uccelli, le rappresentazioni di teste o la donna che col passare del tempo viene sottratta delle sue caratteristiche riducendola ad una macchia di pittura.

 

 

 

 

Informazioni per la visita della mostra “Miró. Il colore dei sogni”

11 settembre - 12 dicembre 2021

Fondazione Magnani-Rocca, Mamiano di Traversetolo (PR)

Via Fondazione Magnani-Rocca, 4.

 

Orari

Dal martedì al venerdì 10-18 (la biglietteria chiude alle 17)

Sabato, domenica e festivi 10-19 (la biglietteria chiude alle 18)

Chiuso il lunedì eccetto 1° novembre

 

Biglietti

Intero: 12 € (valido anche per raccolte permanenti)

Ridotto: 10 € (per gruppi di almeno quindici persone), 5 € per le scuole

 

Informazioni e prenotazione gruppi

Tel. 0521 848327 / 0521 848148

[email protected]


SULLE TRACCE DI UN’OPERA RAFFAELLESCA: IL SUCCESSO DELLA MADONNA DEL VELO

A cura di Arianna Marilungo

 

 

Al Museo Pontificio della Santa Casa di Loreto è possibile visitare, fino al 17 ottobre 2021, una suggestiva mostra che integra esperienza visiva ed esperienza virtuale: La “Madonna di Loreto” di Raffaello. Storia avventurosa e successo di un’opera.

Questa mostra, curata dal dott. Fabrizio Biferali e dal dott. Vito Punzi, si inserisce nell’ambito delle celebrazioni raffaellesche del 2020 - in occasione dei 500 anni dalla morte del grande artista marchigiano - ma posticipata a causa dell’emergenza sanitaria.

Il fulcro dell’esposizione lauretana è un’opera di Raffaello conservata al Musée Condé di Chantilly, in Francia: La Madonna del velo o La Madonna di Loreto (fig. 1). Eseguita tra il 1511 ed il 1512, dopo aver terminato gli affreschi della Stanza della Segnatura nei Palazzi Vaticani e aver ritratto un anziano papa Giulio II, Raffaello realizza questo dipinto che Vasari descrive così:

 

«un quadro di Nostra Donna bellissimo, fatto medesimamente in questo tempo, dentrovi la Natività di Iesu Cristo, dove è la Vergine che con un velo cuopre il Figliolo, il quale è di tanta bellezza che nell’aria della testa e per tutte le membra dimostra essere vero filgiuolo di Dio: e non manco di quello è bella la testa et il volto di essa Madonna, conoscendosi in lei, oltra la somma bellezza, allegrezza e pietà; èvvi un Giuseppo che, appoggiando ambe le mani ad una mazza, pensoso in contemplare il Re e la Regina del cielo, sta con una ammirazione da vecchio santissimo»[1].

 

Fig. 1 - Raffaello Sanzio, Madonna del velo, circa 1511-1512, olio su tavola, 120x190 cm, Musée Condé, Chantilly. Credits: Di Raffaello Sanzio - Web Gallery of Art: Immagine Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1082824.

 

Giorgio Vasari ricorda che questo dipinto si trovava nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, insieme al ritratto di Giulio II (fig. 2), e che veniva esposto al pubblico durante le feste solenni.

Fig. 2 - Raffaello Sanzio, Ritratto di Papa Giulio II, circa 1511-1512, olio su tavola, 108x81 cm, The National Gallery, Londra. Credits: Di Raffaello Sanzio - National Gallery, London, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=100865.

Il doppio nome dell’opera, secondo l’ipotesi più accreditata, è dovuto alla donazione da parte di un devoto di una copia al santuario della Santa Casa di Loreto, collocata nella Sala del Tesoro dove rimase dal 1717 al 1797. Il soggiorno lauretano di quest’opera ebbe una tale risonanza al punto da far acquisire all’originale anche il nome di Madonna di Loreto. D’altronde è nota ai più la devozione verso questo santuario di papa Giulio II, che diede un nuovo slancio architettonico ed artistico alla basilica ponendola sotto la giurisdizione della Santa Sede.

Il motivo iconografico del quadro raffaellesco è la natività, con la Madonna ritratta nel momento di scoprire – o coprire – il Bambin Gesù. Il velo è un simbolo antico che allude alla Passione e morte di Gesù: infatti, secondo un’antica tradizione, quando fu crocifisso Gesù indossava lo stesso velo con cui la Madonna lo coprì alla nascita. Il merito del pittore urbinate è stato quello di rendere in maniera mirabile la profonda tenerezza e l’intimo rapporto affettivo tra la madre ed il figlio, che sembrano entrambi completamente assorti e complici, mentre in secondo piano San Giuseppe osserva con rigoroso rispetto la scena giocosa.

Intento dell’esposizione è lo studio delle vicende legate a questo dipinto e l’analisi storico-critica di analoghe iconografie contemporanee o successive ad esso, mirando a raccontare il mistero di un’opera che fu oggetto di centinaia di riproduzioni e repliche.

La mostra si presenta in una duplice veste – virtuale e visiva – ed è suddivisa in tre tappe, che permettono al visitatore di calarsi in diverse esperienze sensoriali.

La prima tappa è di tipo multimediale: un video immersivo introduce il visitatore alla comprensione dei due dipinti del pittore urbinate originariamente conservati nella chiesa di Santa Maria del Popolo di Roma - La Madonna del Velo (o Madonna di Loreto) e il Ritratto di Giulio II – ed allo svelamento di copie o repliche del primo dipinto, alcune presenti in mostra, altre solo narrate virtualmente. In questa presentazione virtuale non mancano alcuni esempi virtuosi, come quello del maestro veneziano profondamente influenzato da Raffaello, Sebastiano del Piombo, che si cimentò più volte nella rappresentazione di questo soggetto portandolo ad estreme conseguenze. Le sue due versioni della Madonna del Velo, un olio su tavola databile al 1525 ed un olio su lavagna del 1535 (fig. 3), restituiscono un’atmosfera meno gioiosa: il Bambin Gesù è profondamente addormentato, prefigurazione della sua futura passione e morte.

Fig. 3 - Sebastiano del Piombo, Madonna del Velo, circa 1535, olio su lavagna, 112x88 cm, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli. Credits: By Sailko - Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30693731.

Nel video è presente anche un’interessante disamina circa la committenza raffaellesca, necessaria per comprendere la genesi dell’opera.

Al termine di questa esperienza sensoriale, si presenta la seconda tappa in cui al visitatore vengono svelate le opere in presenza, ovvero copie dell’originale raffaellesco postume e contemporanee che attestano la grande fortuna del soggetto iconografico, allestite nel salone degli Svizzeri del Museo.

Analizzando innanzitutto il territorio marchigiano, una prima copia è quella eseguita da Raffaellino del Colle - Madonna del Velo con tre arcangeli – tra il 1531 ed il 1532 (fig. 4). Si tratta di un olio su tela conservato nel Museo Diocesano Leonardi di Urbania, originariamente destinata all’oratorio del Corpus Domini a Urbania. La scena è qui incorniciata in un’ambientazione architettonica di maggior rilievo: dietro alla Sacra Famiglia si apre un paesaggio naturalistico introdotto da una capanna di legno e da una grande colonna spezzata. I tre arcangeli circondano la Sacra Famiglia, dando l’impressione di volerla proteggere: San Michele, vestito di un’elegante armatura con elmetto, e San Gabriele, inginocchiato davanti al Bambin Gesù in silente adorazione, osservano il tenero gioco tra la Madonna e suo figlio, mentre San Raffaele volge lo sguardo verso lo spettatore indicando con la mano destra la scena principale. Il fulcro del dipinto è l’atto della Madonna di svelare o coprire il piccolo Gesù con il velo, mentre alle loro spalle un anziano San Giuseppe appoggiato al bastone li osserva pensoso. Un dipinto architettonicamente più complesso, ma che tenta di evocare la stessa divina tenerezza trattata nel capolavoro raffaellesco.

Fig. 4 - Raffaellino del Colle, La Madonna del Velo con tre Arcangeli, circa 1531-1532, olio su tela, Urbania, Museo Diocesano Leonardi. Credits: Arcidiocesi di Urbino, Urbania e Sant'Angelo in Vado, Ufficio Arte Sacra e Beni Culturali.

L’area tosco-romana è ricca di copie di questo soggetto: la mostra lauretana ne espone due di pittori anonimi che tentano di riproporre la stessa caratterizzazione stilistica e fisionomica dei personaggi raffaelleschi e che sono espressione di uno stimolo ricevuto da un’incisione (fig. 5) – esposta anch’essa in mostra – del mantovano Giorgio Ghisi.

Fig. 5 - Ignoto copista di Raffaello Sanzio, La Madonna del velo, circa 1550, olio su tavola, 127x96cm con cornice. Credits: Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Torino.

Nella stessa sala il visitatore viene calato in un contesto immersivo a forte impatto emotivo in cui vengono narrati i dettagli della Madonna del Velo e di alcune sue copie.

Terza ed ultima tappa è un’esperienza virtuale: su uno schermo ad altissima definizione, grazie alla tecnologia interattiva touchless, il visitatore può scoprire da vicino i dettagli del capolavoro raffaellesco.

 

Note

[1] Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori. Consultabile online: http://vasari.sns.it/cgi-bin/vasari/Vasari-all?code_f=print_page&work=le_vite&volume_n=4&page_n=175

 

Bibliografia

Fabrizio Biferali, Vito Punzi, La Madonna di Loreto di Raffaello. Storia avventurosa e successo di un’opera, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2021

 

Sitografia

https://www.santuarioloreto.va/it/museo.html

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-07/madonna-velo-raffaello-biferali-loreto-500.html

http://vasari.sns.it/vasari/consultazione/Vasari/indice.html


THE FLYING DUTCHMAN

A cura di Silvia Donati

 

L’olandese volante di Fabrizio Cotognini approda a Macerata

E’ stata inaugurata il 17 luglio e rimarrà fruibile fino al 30 ottobre 2021, nelle sale del piano nobile dei Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi a Macerata, la mostra "The Flying Dutchman" di Fabrizio Cotognini curata da Riccardo Tonti Bandini.
Il motore di tutto è la ricorrenza dei 100 anni dalla prima rappresentazione lirica dello Sferisterio, nella stessa Macerata che diversi anni fa vide muovere i primi passi dell’artista all’Accademia di Belle Arti, diplomandosi prima in pittura e poi in scultura. Cotognini abbondonerà “il porto sicuro” per scoprire e ri-scoprire se stesso e la propria espressione artistica viaggiando ed esponendo soprattutto all’estero: “Sono fuggito anni fa da Macerata per poi ritornare in una veste più consapevole” è quello che dichiarerà all’inaugurazione della mostra.

Il tema dell’Olandese volante (Der Fliegende Hollander) di Richard Wagner è il filo del percorso multisensoriale che l’artista ci propone, il suo è un linguaggio artistico che spazia dal disegno alla scultura tattile, dall’installazione all’immersione nell’animazione che sia essa sonora o creazione di un ambiente marino. La sensibilità di Fabrizio emerge anche nei confronti del mondo del teatro, mostrandoci una notevole dimestichezza nella realizzazione di un modello di scenografia estremamente coerente con la tematica generale ma allo stesso tempo di un’originalità spiazzante.

E’ costante la metafora del vascello condannato a navigare all’infinito senza mai trovare approdo, che ovviamente si allarga alla vita dell’individuo e tanto più alla figura dell’artista. Gli artisti che hanno attraversato la nostra storia, nel tempo, sono stati tutti dei naviganti in balia del destino, con la loro forza espressiva hanno mostrato, in svariate forme, il loro viaggio tormentato che si riscoprirà essere, nei secoli, il tragitto che compiamo all’interno di noi stessi.

In questo contesto Cotognini diventa perciò il Virgilio che accompagna la nostra anima da fruitori negli abissi dell’inconscio, del sogno, dell’inesplorato, per farci comprendere che ci sono differenti modi di comunicare ma un solo modo di sentire, attraverso l’opera, noi e gli altri che risuonano intorno. E’ il motivo per cui tutto il percorso espositivo può tranquillamente definirsi un’opera corale, in senso musicale, teatrale e soprattutto introspettivo.

La particolarità del lavoro esposto è il costante rimando all’antico rivisitato in chiave contemporanea, non è un caso che si adatti perfettamente alla già esistente collezione permanente di Palazzo Buonaccorsi. Nella sala del Crivelli, ad esempio, Cotognini dialoga con la Madonna di Macerata (1470 circa) attraverso l’installazione “Bird 1-2”, due sculture di uccellini che rimandano ai motivi decorativi dell’opera pittorica.

 

Le trasposizioni materiche sono varie e minuziosamente lavorate, come la foglia oro che troviamo nel “Trittico Van Der Decker” nella Sala Bacco, utilizzata all’interno di tre ritratti estremamente emblematici.

A concludere un già ricco linguaggio espositivo ci sono i taccuini dell’artista, affiancati ad alcuni disegni che lo vanno, nell’immaginario comune, immediatamente ad affiancare alla genialità progettuale Leonardesca, dove la parola, il pensiero, lo sguardo alla natura completano l’immagine e viceversa.

Se tutta questa storia che Fabrizio ci racconta, racchiude in sé la metafora dell’uomo intento a contrastare la propria natura cercando di superare i suoi limiti, ne abbiamo la testimonianza nelle parole del curatore Riccardo Tonti Bandini: “Ogni volta che l’arte del presente incontra i luoghi suggestivi del nostro patrimonio museale, si costruiscono delle relazioni, dei legami simultanei tra la cultura del nostro tempo e la civiltà del passato. L’opera d’arte è un atto di resistenza: è un atto di resistenza contro il tempo e contro la morte.
Il lavoro di Cotognini è una grande ouverture sinfonica che introduce il racconto dell’immensa opera dell'Olandese volante, ne traccia già delle caratteristiche, è lo scenario di una geografia semi-reale e semi-immaginaria allo stesso tempo”:

 

Fiore all’occhiello dell’esposizione, a mio parere,  è l’immersione multisensoriale che si attua in uno dei corridoi di collegamento delle sale in cui si è intervenuti sui vetri delle finestre schermandoli di una pellicola celeste ed attuando un sottofondo sonoro che rimanda a quel rumore del mare che a volte spaventa ma sa come avvolgerci.

In riferimento al percorso espositivo e alla difficoltà che concerne l’attività di curatela sono sorte alcune domande che abbiamo posto a Riccardo, figura indispensabile per l’attuazione di questo racconto per immagini.

Cosa significa realizzare un percorso "a tema" conciliando diverse tecniche artistiche come quelle di Fabrizio?

- “L’universo che abbraccia i continenti e le isole è da sempre l’immensa fonte di racconti, di immagini e di visioni che hanno contribuito a costruire la cultura occidentale. L’abisso degli oceani cela ancora i segreti più nascosti. I mari spiegati pongono gli equipaggi dei natanti nelle condizioni di isolamento umano nella percezione dell’ignoto”.

Come si possono far dialogare questo tipo di opere con la collezione permanente?

- “La navigazione lascia l’essere umano all’incertezza della sorte, ognuno è affidato al proprio destino, ogni imbarco potrebbe essere l’ultimo viaggio. Nel periodo tra il Basso Medioevo e l’Età moderna, i fiumi, i laghi e i mari europei erano solcati da navi cariche di folli e di malati senza più speranze. La Stultifera navis era una sorta di prigione galleggiante dove vi erano rinchiusi i “diversi”. Un’anima-navicella abbandonata sul mare infinito dei desideri nella speranza che il soffio di Dio la conduca in porto. Un manicomio natante o un meccanismo di esclusione, per come potremmo intenderlo noi oggi”.

 

Si sente spesso dire che l'arte contemporanea è di difficile comprensione, bene, tu cosa ti aspetti dal tuo pubblico?

  • “La mostra di Fabrizio Cotognini è da leggere come un corpus unicum formato da arcipelaghi. In ogni opera d’arte, il suo porsi come forma e come organicità è testimonianza di una legge interna che la costituisce, più o meno rigidamente, e che possiamo chiamare “unità dell’opera d’arte”. Ogni parte è in relazione con il tutto con duplice funzione: di costruirlo e di esserne costituita, in una specie di movimento verso il centro, verso la Galleria dell’Eneide, l’opera d’arte diventa qualcosa di più di dei suoi elementi.Da parte del pubblico mi aspetto che capisca quanto è profondo il mare.”

 

 

Le foto scattate sono state realizzate dalla redattrice dell'articolo


FEDE GALIZIA IN MOSTRA AL CASTELLO DEL BUONCONSIGLIO A TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

3 luglio – 24 ottobre 2021

 

Spesso e volentieri il mondo dell’arte femminile è stato poco studiato dalla critica, come è stato il caso della pittrice di origini trentine, Fede Galizia, attiva fra Cinque e Seicento: una pittrice conosciuta per alcune sue importanti opere, ma spesso trascurata dagli storici.  Per la prima volta, il Castello del Buonconsiglio di Trento il Castello del Buonconsiglio di Trento ha voluto ricordare la vita di questa singolare pittrice con una mostra monografica visibile dal 03 luglio al 24 ottobre 2021 nelle sale del castello. Una esibizione curata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa docenti di Storia dell’Arte all’Università  Statale di Milano, e Luciana Giacomelli, curatrice del Buonconsiglio, con l’allestimento di Alice De Bortoli, la scenografia di Luca Ronconi, e le luci di Pasquale Mari, uno dei più celebri direttori della fotografia del cinema italiano di oggi.

 

Fede Galizia e il padre Nunzio

Figlia del pittore Giacomo Antonio Galizia, meglio conosciuto come Nunzio Galizia, di origini cremonesi, Fede nacque nella seconda metà del Cinquecento a Trento, o più probabilmente a Milano, dove si trasferì il padre intorno agli anni Settanta del Cinquecento. La data e il luogo di nascita oscillano tra il 1574 e il 1578 e tra Trento e Milano, ma è certa la sua formazione presso la bottega del padre dove apprese l’arte incisoria e miniaturistica. Il padre Nunzio riuscì ad affermarsi nel mondo dell’arte milanese attraverso l’attività di miniaturista, di incisore e di cartografo, ma fu abile anche nella produzione artigianale di abiti e costumi pregiati, mettendo in pratica il suo estro decorativo.  Documentata a Milano almeno dal 1587, Fede Galizia visse prevalentemente nella città lombarda e morì, s’ignora dove, dopo il 21 giugno 1630. Fede ottenne un successo straordinario tra i committenti dell’epoca, tanto che le sue opere raggiunsero la corte imperiale di Rodolfo II d’Asburgo, dove l’arte della giovane artista era particolarmente apprezzata.

Seguendo la tecnica del padre, sin dagli anni Novanta del Cinquecento, Fede sviluppò l’arte della ritrattistica, distinta per la forte caratterizzazione fisiognomica. Non solo, dal padre costumista apprese la resa minuziosa di stoffe e gioielli, come è il caso della “Giuditta”, da lei dipinta nel 1596.

Fig. 1 - Fede Galizia, Giuditta con la testa di Oloferne e la serva Abra (Sarasota, Ringling Museum of Art).

Gli studi novecenteschi, soprattutto italiani ma anche nord europei, hanno dato particolare risalto all’attività di Fede come autrice di nature morte con fiori, frutta e animali vivi o morti. Tali dipinti erano realizzati nella bottega del padre con il quale collaborava nella creazione di modelli per costumi.

Fig. 2 - Fede Galizia, Alzata con prugne, pere e una rosa (Bassano del Grappa, collezione privata).

Nel primo decennio del Seicento l'attività di Fede Galizia continuò a riscuotere ampio successo, come è testimoniato dalle rime dedicatele rispettivamente nel 1605 e nel 1609 dai poeti Muzio Manfredi e Cesare Rinaldi. Negli anni, l’artista si distinse nella ritrattistica e nelle nature morte, ma non bisogna dimenticare un altro genere nella quale Fede si cimentò, ovvero quello della pittura sacra, dove l’elemento naturalistico di tradizione lombarda rimarrà un dato costante.

A tutt’oggi, due sono le monografie a lei dedicate e non esiste un repertorio completo delle numerose testimonianze letterarie che hanno celebrato, in versi e in prosa, le doti di Fede Galizia. La mostra che sarà in programma a Trento cercherà di colmare questa lacuna con un completo regesto documentario, che sarà approntato da Giovanni Renzi per l’occasione.

 

L’artista Fede Galizia raccontata in nove sezioni

La mostra in programma dal prossimo 3 luglio nella sale del Castello del Buonconsiglio aspira a sottolineare il valore di quest’artista che tanto successo ebbe all’epoca. Attraverso la presentazione delle sue opere e il confronto con altri quadri dell’epoca, la mostra farà un viaggio nell’arte del XVI e del XVII secolo.

In mostra vi saranno un’ottantina di opere tra dipinti, disegni, incisioni, medaglie e libri antichi.

Oltre a opere di Fede Galizia, Plautilla Nelli, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Barbara Longhi, ci saranno lavori di Giuseppe Arcimboldo, Bartholomeus Spranger, Giovanni Ambrogio Figino, Jan Brueghel e Daniele Crespi, provenienti dai più importanti musei italiani, oltre ad alcuni prestiti internazionali e ad alcune raccolte private.

Fig. 3 - Giuseppe Arcimboldo, Costume per mascherata (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi).

La mostra sarà articolata in nove sezioni:

  1. Quando anche le donne si misero a dipingere

Nella prima sezione si cercherà di fare luce sul mondo delle pittrici nel periodo storico di Fede Galizia, affrontando l’affermarsi delle donne pittrici nell’epoca della Controriforma. Si potranno ammirare le opere delle sorelle Anguissola, Lavinia Fontana, Barbara Longhi e suor Plautilla Nelli.

  1. Trento

La seconda sezione porterà l’attenzione sul Principato vescovile di Trento e sul Concilio tridentino (1545-1563) per attestare i legami di Fede e Nunzio Galizia con la città d’origine. In questa sezione potremmo ammirare un’opera di Fede a testimonianza del suo legame con Trento, ovvero una sua raffigurazione di Simonino da Trento.

  1. Milano

Nella terza sezione verrà messa in risalto la figura del padre nella città di Milano, dove riuscì ad affermarsi nell’artigianato tessile di lusso. Il padre verrà ricordato attraverso una veduta di Milano da lui realizzata nel 1578, al termine della peste, che è anche la prima veduta tridimensionale della città lombarda.

Fig. 4 – Nunzio Galizia, Veduta prospettica di Milano, 1576 (Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe “Achille Bertarelli”).
  1. Miniature e ritrattini

Nunzio Galizia è qui ricordato per sua opera di miniatore, attività che svolse in particolare a Milano, ma anche a Torino, per la corte sabauda. Nella stessa sezione saranno esposti due ritratti realizzati da Fede.

Fig. 5 - Nunzio Galizia e Fede Galizia, Cornice con i ritratti di Jacopo Menochio e Margherita Candiani (Collezione privata).
  1. Giuditte

Al centro della mostra è la “Giuditta” del museo di Sarasota, firmata e datata 1596: un soggetto che Fede Galizia affrontò più volte, in alcuni casi riproponendo la medesima immagine (Fig. 1). In queste Giuditte emerge il gusto di Fede per la rappresentazione dei costumi e dei gioielli, che va intesa anche alla luce delle competenze in fatto di abbigliamento apprese da suo padre Nunzio.

  1. A scuola dal Correggio e dal Parmigianino

In questa sezione verrà ricordata la formazione pittorica di Fede, ovvero la pittura dell’emiliano Correggio, di cui studia e copia le opere, a partire da quelle presenti nel contesto milanese. In particolare “l’Orazione nell’Orto”, la “Zingarella” e la “Madonna della cesta”. Anche il Parmigianino è al centro dei suoi interessi, come attesta la “Santa Caterina” che giunge dalla raccolta dei principi Borromeo.

  1. Una ritrattista famosa

La settima sezione ricorderà l’importante attività di ritrattista della giovane Fede che la farà apprezzare in tutta Europa. Il ritratto del gesuita Paolo Morigia della Pinacoteca Ambrosiana che è stato esposto nel Duomo di Milano poco dopo la sua esecuzione, all’aprirsi dell’ultimo decennio del Cinquecento. In questa sezione saranno anche esposti i ritratti di Ludovico Settala, il medico della peste manzoniana, del pittore Federico Zuccari e di Ippolita Trivulzio, principessa di Monaco.

Fig. 6 - Fede Galizia, Ritratto di Paolo Morigia (Milano, Veneranda Pinacoteca Ambrosiana).
  1. Sugli altari

In questa sezione sarà ricordata la pittura sacra di Fede Galizia, in particolare il “Noli me tangere” della Pinacoteca di Brera che diffuse la fama di Fede Galizia nella Milano a cavallo tra Cinque e Seicento, e un “San Carlo Borromeo in adorazione della croce” dipinto per la chiesa di San Carlo alle Mortelle a Napoli. Opere che rimandano alla formazione di Fede per la minuzia nella resa dei dettagli, fiori e stoffe, e la contemporanea produzione di nature morte avviata dall’artista in quegli anni.

  1. Come catturare la vita silente

In quest’ultima sezione si approfondiranno le nature morte di Fede Galizia; un genere da poco riconosciuto nell’attività pittorica di Fede, ma oggi individuato come uno dei temi più apprezzati dall’artista.

Fig. 9 - Fede Galizia, Coppa di vetro con pesche, mele cotogne, fiori di gelsomino e una cavalletta (Collezione privata).

 

 

Bibliografia

Fogolari Gino, Artisti trentini a Milano. Nunzio e Fede Galizia: 1573-1630, Trento, Zippel, 1898

Bottari Stefano, Fede Galizia. Pittrice (1578 – 1630), Trento, CAT, 1965

Caroli Flavio, Fede Galizia, Torino, Allemandi, 1989

Berra Giacomo, La natura morta nella bottega di Fede Galizia, in “Osservatorio delle arti, 1990, V, pp. 55-62

Berra Giacomo, Appunti per Fede Galizia, in “Arte cristiana”, 1992, LXXX, pp. 37-44

Comunicato stampa della mostra “FEDE GALIZIA mirabile pittoressa” al Castello del Buonconsiglio 03 luglio – 24 ottobre 2021

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/fede-galizia/

https://www.treccani.it/enciclopedia/fede-galizia_%28Dizionario-Biografico%29/