IL DUOMO DI SALERNO

Il nome completo del Duomo di Salerno è in realtà “Basilica Cattedrale Primaziale Metropolitana di Santa Maria degli Angeli, San Matteo e San Gregorio Magno”, e nella sua lunghezza racchiude l’importanza di questa chiesa, in quanto “basilica” indica il titolo che il Papa concede ad edifici religiosi particolarmente importanti, mentre “cattedrale primaziale” indica una cattedrale il cui vescovo sia anche primate, cioè titolare di una sede metropolitana molto importante. San Matteo è inoltre il patrono di Salerno.

Costruita intorno al 1080 per volere di Roberto il Guiscardo, presenta un’architettura composita in quanto nella sua struttura sono state inserite delle novità mutuate dall’architettura carolingia, come ad esempio il transetto con tre absidi; la forma e la struttura della chiesa, a tre navate con cripta ad aula e il quadriportico, sono molto simili a quelle dell’abbazia di Montecassino.

Dalla facciata barocca ci si immette direttamente nel quadriportico, composto da una successione di colonne decorate da tondi policromi, sormontate da un loggiato con bifore e pentafore, su cui affaccia la porta in bronzo della chiesa, fusa a Costantinopoli ed originariamente ricoperta d’oro e d’argento. Lungo il portico sono stati collocati dei sarcofagi romani di notevole fattura, mentre sopra la porta, nella parete, sono incastonate le lapidi dei donatori della porta medesima. Svetta sul portico il campanile, alto circa 50 metri, di chiara derivazione arabo-normanna.

L’interno, a croce latina, è a tre navate con volta a botte, mentre il transetto è sormontate dalle originarie capriate lignee; la decorazione parietale è un insieme piuttosto armonico di vari stili, infatti all’impianto seicentesco si alternano affreschi di chiara matrice bizantina, affreschi di probabile scuola giottesca, reperti romani e bizantini e diversi amboni di pregevole fattura. Degna di menzione è la tomba del figlio di Roberto il Guiscardo, a forma di letto con baldacchino.

Ambiente altrettanto particolare e spettacolare è la cripta, restaurata in stile barocco, che conserva le reliquie di San Matteo, protettore della città, e che al centro presenta un altare sormontato da una statua bifronte del Santo, altare che permette la celebrazione della messa da ambo i lati. Al di sotto vi è la tomba del Santo, con un contenitore in cui raccogliere la cosiddetta “Manna di San Matteo”, un liquido trasparente che a volte le ossa del Santo hanno trasudato. Il particolare curioso della doppia faccia del Santo ha fatto sì che anche ai salernitani venisse affibbiata la stessa caratteristica.

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BADIA DI CAVA DEI TIRRENI

Complesso di grandi dimensioni che non si apprezza subito nella sua grandiosità, sorge in cima ad una collinetta che si trova a pochi km dal comune di Cava dei Tirreni, provincia di Salerno.

Fu fondata nel 1011 da S. Alferio Pappacarbone, un nobile longobardo che, ritiratosi su di una collina per condurvi vita ascetica, ebbe la visione della Santissima Trinità sotto forma di tre raggi luminosi che uscivano da una roccia; il prodigio e l’accorrere spontaneo di discepoli lo invogliarono a costruire un monastero con annessa una piccola chiesa.

Ampliata e trasformata in basilica a più navate al tempo di S. Pietro I abate (1079-1123), l’Abbazia si pose a capo di una vasta congregazione monastica, che formò un congregazione a parte all’interno dell’Ordine di San Benedetto, la cosiddetta “Congregazione della Santissima Trinità di Cava”. Nel 1394 il papa Bonificacio IX la elesse a vescovado, mettendola a capo di una diocesi. L’attuale basilica sorse invece nel 1761 per iniziativa dell’abate Don Giulio De Palma e su disegno dell’architetto Giovanni del Gaizo.

La facciata è settecentesca, con una facciata a salienti molto bella ed armonica, e che in un certo senso maschera le dimensioni davvero imponenti del complesso. L’interno, grazie alla pavimentazione in marmi policromi, è molto luminoso. Della basilica colpisce soprattutto l’ambone marmoreo in stile cosmatesco del secolo XII, probabilmente un dono del re di Sicilia Ruggiero II, il quale volle che la regina Sibilla, sua seconda moglie morta a Salerno nel 1150, fosse seppellita nella chiesa della badia.

Dell’allestimento originario restano due cappelle laterali, sui cui altari sono sistemate sculture di Tino da Camaino, fatte eseguire dall’abate e consigliere reale Filippo de Haya: su quello della prima cappella a sinistra, con un paliotto del secolo XI, vi è un rilievo raffigurante la Madonna col Bambino fra S. Benedetto e S. Alferio che presenta alla Madonna l’abate de Haya, mentre sull’altare della seconda cappella a destra vi sono i due gruppi delle Pie Donne e dei Soldati romani ai piedi della Croce.

Subito dopo la balaustra, sulle pareti vi sono quattro statue marmoree, tra le quali degne di nota sono quelle cinquecentesche di S. Felicita e di S. Matteo. Procedendo, a destra è la cella grotta di S. Alferio, con l'urna che ne custodisce le reliquie, a sinistra l’altare di S. Leone con la sua urna e, sulla parete, altre reliquie di santi. Gli affreschi della basilica sono opera del pittore calabrese Vincenzo Morani, che ne completò la decorazione nel 1857. Sotto i 12 altari della basilica sono deposte le reliquie dei 12 abati santi.

Accanto alla chiesa è da segnalare il chiostrino dei secoli XI-XIII, che anche se di proporzioni ridotte (non si poté crearne uno più grande nel ristretto spazio fra la grotta Arsiccia e il ruscello Selano) , è la parte più suggestiva e caratteristica della badia: sebbene abbia subìto diverse manomissioni, ricorda i chiostri fatti costruire nello stesso periodo a Salerno, e che sono caratterizzati da quadrifore con archi a ferro di cavallo, che testimoniano influenze musulmane.

Adiacente al chiostrino è la grande sala del Capitolo, del secolo XIII, in cui sono sistemati alcuni pregevoli sarcofagi romani, mentre suggestivi sono gli ambienti, di epoca diversa, esistenti nei sotterranei della badia e del chiostrino, il cosiddetto “cimitero longobardo”, adibiti a cimitero dei monaci che, per devozione, vollero esservi seppelliti.

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VILLA RUFOLO A RAVELLO

Villa Rufolo è uno degli edifici storici maggiormente rappresentativi di Ravello, località tra le più rinomate della Costiera Amalfitana. Famosa in tutto il mondo per i Concerti Wagneriani che la Villa annualmente ospita nei suoi giardini, è a ragione considerata uno dei punti di forza dell’intera Costiera.

Il suo nome deriva dalla potente famiglia dei Rùfolo che ne è stata la prima proprietaria, una delle famiglie più antiche di tutta Ravello, che annoverava tra i suoi membri anche due vescovi; un altro componente della famiglia, Landolfo Rufolo, è il protagonista di una novella del Decamerone di Boccaccio, ove si citano sia i Rufolo che Ravello.

La costruzione della Villa risale all’anno 1000, allorquando i Rufolo vollero costruire qualcosa che testimoniasse il loro potere: l’accesso è costituito da un arco ogivale costruito in tufo giallo e grigio posto nella torre d’ingresso, di colore giallino, dovuto alla presenza di ceramiche macinate; attraverso un viale si arriva al chiostro, in stile moresco con colonnine che sorreggono archi ogivali.
Uscendo dal chiostro si arriva alla Torre Maggiore, che ha conservato l’aspetto originario: dalla sua cima lo sguardo spazia agevolmente su un buon tratto del Golfo.

Dalla Torre si accede ai giardini, una meravigliosa composizione su due livelli di aiuole fiorite che, grazie ai discendenti degli antichi maestri giardinieri che la composero originariamente, si è conservata pressoché intatta. I giardini inferiori ispirarono il Parsifal di Wagner, ed ancora oggi in suo onore ospitano i cosiddetti Concerti Wagneriani, nonché il Ravello Festival, caratterizzato dal palco a strapiombo sul mare.

Costeggiando il Bagno Turco e la Balnea, si arriva alla Sala da Pranzo dalla volta a crociera e, attraverso un sottopassaggio, al Chiostro, ove si incontra la Cappella, spesso sede di mostre ed eventi artistici.

Il restauro della villa, che dopo i Rufolo aveva conosciuto numerosi proprietari, si deve al mecenate ed appassionato d’arte scozzese Francis Neville Reid, che ha riportato la Villa al suo antico splendore.

Nel 2015 la Villa ha avuto 341.484 visitatori, piazzandosi al 16° posto nella lista dei siti più visitati a livello nazionale.

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LA PIETA' DEL BATTISTELLO A BARANELLO

Introduzione

Il piccolo comune molisano di Baranello, in provincia di Campobasso, ospita la Parrocchiale di San Michele Arcangelo che domina su Largo Conte Zurlo. La chiesa più antica, databile intorno al XIII secolo d.C., viene distrutta nel 1805 da un forte terremoto, i cui effetti devastanti sull’edificio sacro impongono la stesura di un progetto di ricostruzione, affidato all’architetto Musenga, autore tra l’altro del progetto per la cattedrale del capoluogo della regione.

La nuova chiesa, consacrata tredici anni dopo il progetto, presenta una candida facciata di impianto neoclassico, tripartita da quattro colonne in ordine tuscanico, dal modulo gigante. Tre portali gemelli identificano la ripartizione interna della pianta in tre navate, distinte da colonne e paraste di ordine ionico. La pianta basilicale è inoltre priva di transetto.

Gli interni dell’edificio sacro custodiscono capolavori come le due tele seicentesche attribuite al pittore Francesco Inchingolo, la Strage degli Innocenti e l’Adorazione dei Magi, l’Ecce Homo, di un anonimo maestro di formazione napoletana, accanto ad una serie di dipinti attribuiti all’artista Trivisonno, di epoca recente. La navatella destra della chiesa conserva invece un piccolo gioiello, un olio su tela noto come la Pietà del Battistello.

La Pietà del Battistello

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La tradizione storica e artistica vuole che quest’ultima opera sia ricondotta all’artista caravaggista Giovanni Battista Caracciolo (1578 – 1635) più noto come il Battistello. La paternità dell’opera è suggerita dalle diverse corrispondenze formali, cromatiche e compositive che si riscontrano in altre opere dello stesso autore.

Nota anche come Deposizione la scena è tuttavia priva di croce, elemento imprescindibile per quel soggetto; dunque si tratta di un Compianto o di una Pietà: il corpo esanime del Cristo è steso su di un lenzuolo, con la testa reclinata e le braccia abbandonate. Lo circondano nel dolore la Vergine, San Giovanni e la Maddalena, inseriti nella scena come se emergessero dalle tenebre.

L’artista, interpretando la lezione del luminismo caravaggesco, isola le figure su di uno sfondo scurissimo, l’oscurità le fa risaltare e i protagonisti vengono rivelati dagli squarci di luce: se però in Caravaggio la luce è una componente essenziale della materia stessa delle cose, in Battistello questa diventa uno strumento per vitalizzare le forme plastiche costruite con un disegno energico, preciso e accurato.
L’essenzialità della composizione, dal numero esiguo di personaggi, è però impreziosita dalla gamma cromatica, in cui il grigio-bianco delle maniche della Maddalena, il rosso smaltato del manto di San Giovanni, l’azzurrite della veste della Vergine, emergono dal vasto sfondo scuro.

In assenza di notizie certe sulla provenienza della Pietà del Battistello, le fonti letterarie fissano la datazione dell’opera intorno al primo ventennio del XVII secolo. Altri lavori ad essa contemporanei e dello stesso artista, presentano analogie nella composizione (pochi personaggi), nelle scelte formali (l’uso attento del chiaroscuro) e poetiche (realismo seicentesco), di chiaro gusto antiaccademico: si pensi all’olio su tela Cristo e la samaritana al pozzo, 1620 circa, conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano o alla Liberazione di San Pietro, 1615, conservato nel Museo Pio Monte della Misericordia a Napoli, per citarne solo alcuni.

Bibliografia

  • ROBERTO LONGHI, Disegno della pittura italiana. 2 – Da Leonardo al Canaletto, a cura di Carlo Volpe, Scansioni, Firenze, 1979
  • LUISA MORTARI, Molise. Appunti per una storia dell’arte, De Luca editore, Roma, 1984
  • FRANCESCA CAPPELLETTI, Caravaggio e i caravaggeschi, a cura di Laura Bartoni e Francesca Cappelletti, Il Sole 24 ore, Milano, 2007, pp. 275-276
  • ALESSANDRO CIMMINO, Un capolavoro sconosciuto, Il Ponte, 20, n.5 (2008), pp. 40-41
  • VIVIANA FARINA, Intorno a Ribera. Nuove riflessioni su Giovanni Ricca e Hendrick van Somer e alcune aggiunte ai giovani Ribera e Luca Giordano, Rivista di Storia Finanziaria, Università degli Studi Federico II di Napoli, luglio-dicembre 2011, n.27, pp. 155-194

 


IL DUOMO DI TERMOLI

Introduzione

È un magnifico tempio quello della Cattedrale. In mezzo alle case basse della vecchia Termoli si eleva come un gigante ad attestare la fede e la religione delle passate generazioni, e il genio che, nel secolo XII, nel nostro Paese, si librava a voli altissimi e si manifestava in forme architettoniche, così come Dante nel Trecento si esprimeva in nuove forme linguistiche.

Il Duomo di Termoli occupa una posizione predominante nel tessuto urbano del borgo antico: rivolta ad oriente, secondo le antiche consuetudini e con un significato teologico molto preciso, la maestosità della fabbrica domina e determina tutta la struttura urbanistica. La piazza antistante, gli assi viari che tagliano il brano edilizio del borgo, le vicine piazzette, sono in funzione del tempio, centro propulsore della vita religiosa e civile.

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Nel corso della quarta crociata in Terra Santa (1202 – 1204), le reliquie di San Timoteo (discepolo di Paolo) vengono trafugate a Costantinopoli e trasferite nella cittadina termolese: il conseguente prestigio religioso della città attira l’attenzione dei pellegrini diretti ai santuari del Gargano e ai porti di imbarco delle crociate. Si rende allora necessaria la realizzazione di un imponente edificio di culto che potesse conservare la reliquia, assieme a quella del patrono della città, San Basso, già presente nel XII secolo e, allo stesso tempo, accogliere i fedeli in sosta dal pellegrinaggio.

A quel tempo, l’influenza della cultura orientale è riccamente testimoniata in tutto il meridione: se la dominazione bizantina sulle coste pugliesi e quella mussulmana in Sicilia hanno fortemente segnato la storia di quei luoghi, dall’altra parte si assiste ad una graduale commistione delle culture straniere con il patrimonio di conoscenze artistiche locali. Non è estraneo alle esperienze artistiche delle altre regioni meridionali, il cantiere della Cattedrale, di stampo federiciano, contrassegnato, inoltre, da una graduale acclimatazione delle novità gotiche.

Un altro elemento che favorisce lo scambio culturale, anche con l’importazione di opere d’arte e maestranze dell’oriente, è costituito dalla presenza nel territorio di numerose colonie ravellesi, che di fatto costituiscono una vera e propria aristocrazia di grandi commercianti, promotori di iniziative dal carattere religioso ed artistico. Documenti affidabili testimoniano la presenza di una colonia ravellese nella città di Termoli, intorno al XII – XIII secolo; sono due nobili famiglie in particolare a finanziare la costruzione della nuova cattedrale, i Grimaldi e i De Afflitto, i cui nomi sono riportanti in iscrizioni incise sulla base delle statue, collocate sulla facciata della fabbrica sacra.

Il Duomo di Termoli: l'esterno

Ed è proprio la facciata principale a mostrare questo connubio di esperienze artistiche di diversa provenienza: una polifonia, in cui mantengono la propria individualità, le mani di tre maestri: il magister bizantino che si attiene ai canoni estetici bizantini, pur perseguendo alcune novità gotiche; il magister francese che ha portato le novità del gotico dell’Ile de France ed è l’autore delle statue a tutto tondo sulle mensole e dei capitelli dei montanti del portale d’ingresso, nonché delle decorazioni delle bifore centrali e probabilmente del rosone originale, andato in seguito distrutto e, in ultimo, il magister romano dei cui lavori è rimasto ben poco, ovvero le tarsie marmoree.

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Un particolare che accomuna l’architettura religiosa termolese e quelle abruzzesi e pugliesi, è il tralcio cosiddetto “gerosolimitano”, costituito da foglie di palma bombate, fortemente a rilievo in cui è evidente il dettaglio naturalistico del vegetale. Assume la funzione di elemento guida della decorazione architettonica in molteplici variazioni, sui capitelli delle paraste, sulla fascia orizzontale che marca il davanzale delle finestre, sul portale principale e intorno alla mostra di alcune bifore esterne. Quando invece percorre le cornici dei davanzali delle bifore e i capitelli delle paraste, è orlato da un bordo di palmette o da una fascia di ovuli.

Altra testimonianza degli influssi orientali nel cantiere è il fulgore cromatico degli elementi di facciata: applicando una tecnica simile all’incastonatura delle pietre preziose, di cui gli orientali erano esperti, sono ottenuti i meravigliosi rosoncini incastonati tra le ghiere esterne delle bifore, i marmi policromi negli archi del portale e della bifora di destra, le tarsie colorate triangolari, in terracotta invetriata, che profilano le ghiere degli archi delle bifore e il piombo applicato nelle incisioni.

Da ricordare infine sono la perfetta simmetria e la corrispondenza tra le parti dell’apparato scultoreo della facciata, chiavi interpretative singolari nella cultura araba e bizantina. Si osservino le sei bifore laterali al portale, dalla corrispondenza perfetta sia nei motivi decorativi che iconografici: le due bifore più esterne ad esempio sono caratterizzate oltre che dalle due paraste angolari più ampie, dalla stessa cornice con il tralcio sopra citato e dalla presenza di sculture a tutto tondo, leoni stilofori sovrastati da grifi. Le due bifore centrali erano probabilmente a giorno, per l’illuminazione degli interni, mentre le due adiacenti al portale presentano le ghiere degli archi privi di decorazione che poggiano su preziosi capitelli sorretti da eleganti colonnine tortili e poligonali.

Il tema religioso illustrato in facciata è il ciclo del mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che si ritrova puntualmente in tanti altri edifici coevi e che dimostra come l’iconografia bizantina sia fortemente debitrice dei vangeli apocrifi. Del ciclo sono sopravvissute solo due scene, probabilmente di mano del magister bizantino, l’Annunciazione, nella prima bifora a sinistra e la Presentazione al Tempio di Gesù, nella lunetta del portale. Nella prima, la Vergine, seduta su un trono senza schienale, sostiene due fusi, uno per ogni mano e collegati dal dettaglio naturalistico del filo, mentre l’Arcangelo Gabriele, con le ali spiegate, ha in mano uno scettro fiorito quale simbolo di pace.

Nella seconda, lo schema iconografico ricalca quello diffuso a seguito di quanti si muovevano nella cerchia artistica di Bisanzio ed è impostato sulla simmetria: intorno al Cristo sono disposti da un lato Simeone ed Anna, dall’altro Maria e Giuseppe. Di questa purtroppo, molto deteriorata e di difficile lettura, restano solo frammenti di immagini che hanno perso l’originario rilievo.

Il terremoto del dicembre 1456 ha provocato il crollo dell’intero ordine superiore dell’edificio sacro e per la ricostruzione, in epoca aragonese, sono stati utilizzati conci di misura inferiore e di materiale differente dall’originale. La differenza stilistica e di materiale dei due ordini è tanto evidente che un articolo degli anni trenta riporta: “mentre la zona inferiore è costituita da grossi conci quadrati di bianca pietra calcarea senza malta, in quella superiore sono conci più piccoli di pietra bruna con grosso strato intermedio di malta”. Oggi la differenza è attenuata dagli effetti del tempo sui materiali di costruzione.

Il Duomo di Termoli: l'interno

L’interno conserva le tracce dell’edificio religioso preesistente, probabilmente risalente alla prima metà del IX secolo, di cui sono testimonianze evidenti il giro di tre absidi e brani di mosaico pavimentale, collocati ad un livello inferiore rispetto la chiesa attuale, comunemente chiamato cripta.

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Le rappresentazioni dei mosaici, ridotti ormai a due frammenti, riprendono tematiche molto note al Medioevo, diffuse attraverso i Bestiari, che non solo manifestano la concezione cristiana del mondo come foresta di simboli, ma si propongono come guide alla comprensione delle numerose immagini zoologiche presenti nei testi sacri. Il primo occupa l’abside sinistra dell’antica chiesa: un motivo geometrico a scacchiera, con andamento indipendente rispetto il profilo absidale, inquadra la parte figurata; nella parte mediana, sul fondo bianco, è presentato un gruppo di animali stretti in un vitalissimo intreccio.

La figura maggiore è un quadrupede, forse un cervo, con le gambe divaricate in atteggiamento di corsa, la testa rivolta, dalla cui bocca fuoriesce la coda sinuosa e anguiforme di un uccello mostruoso che si riflette ad arco, ingoiando a sua volta l’estremità della coda del cervo. Il secondo mosaico, più esteso, è nella navata mediana; raccoglie in libero accostamento più figure di animali: due quadrupedi simmetrici ai lati dell’albero della vita; una sirena bicaudata circondata da pesci, un leone che ingoia un minuscolo animale, un quadrupede alato.

Dai rilievi effettuati durante il restauro degli anni trenta si deduce come la pianta della costruzione abbia conservato nelle linee generali l’impostazione originaria: priva di transetto e divisa in tre navate, scandite da una doppia serie di pilastri cruciformi e terminanti con tre absidi semicircolari. Si nota un evidente contrasto tra le conformazioni delle due absidi minori; quella meridionale, accostata ad altre costruzioni, risulta fortemente manomessa, tanto da uscire fuori dal perimetro dell’edificio, mentre l’abside settentrionale sembra aver mantenuto la primitiva conformazione.

La parete meridionale, inglobata nel palazzo vescovile, adiacente l’edificio sacro, ha subito notevoli trasformazioni ed è considerata alla stregua di un semplice muro divisorio, da cui accedere alla cappella del S.S. Sacramento, incorporata nell'attuale palazzo, mentre, in prossimità della terza campata, su entrambi i lati, sono situate le scale di accesso alla cripta (o chiesa inferiore). Proseguendo, dopo la terza campata, a sinistra, s'innalza la torre campanaria a base quadrata, su di una volta a botte e con copertura a cella ottogonale cuspidata; a questa segue la sagrestia. Se la navata centrale, più larga, è coperta a capriate, le due navate laterali sono sormontate da volte a crociera, con chiave leggermente rialzata.

Bibliografia

  • LUIGI RAGNI, Il Duomo di Termoli, Stab. Tipografico Sorrentino, Napoli, 1907
  • a cura di MARIA STELLA CALÒ MARIANI, Due Cattedrali del Molise, Termoli e Larino, Cassa di Risparmio Molisana, 1979
  • MARCELLO PARADISO, La fede sullo scoglio. La Cattedrale di Termoli e i suoi santi, Termoli, 1993
  • NICOLA DI PIETRANTONIO, Segni d’Oriente. La Cattedrale di Termoli. Influssi, maestranze e crociati sulla via del pellegrinaggio, Ediduomo, Termoli, 2002
  • GABRIELE PALMA, La Cattedrale di Termoli: studi di estetica medievale, Tipografica Adriatica Edizioni, Termoli, 2004

Sitografia

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Palazzo donn'Anna

A strapiombo sulle acque del Mar Tirreno, questo superbo esemplare di barocco napoletano è uno dei palazzi di Napoli più affascinanti. Costruito nel 1642 su commissione della nobildonna Anna Carafa consorte del vicerè, è opera di Cosimo Fanzago, un architetto lombardo che, formatosi come scalpellino a Milano, dopo la morte del padre si trasferì dallo zio a Napoli. Avuto l’incarico di costruire questo palazzo non riuscì però a portarlo a termine, in quanto donna Anna Carafa morì prematuramente.

Si tratta, quindi, di un’opera incompiuta: si eleva al posto di una precedente villa dei principi di Stigliano, la Serena, e la sua particolarità è quella di avere due ingressi, uno sulla strada, che conduce direttamente al cortile interno costeggiando Posillipo, ed uno sul mare, nonché un teatro interno.

Il palazzo sorge su uno scoglio ed è costruito in tufo, mentre la facciata è solcata da finestroni e nicchie; a pianta rettangolare, presenta un andamento piuttosto discontinuo, forse a causa dei numerosi proprietari che ne hanno modificato, nel corso del tempo, l'aspetto. Nelle intenzioni dell'architetto doveva essere un edificio alquanto scenografico, con la possibilità di accedere ad un ampio cortile interno direttamente dal mare.

Ciò che, stranamente, rende più avvincente la storia di questo palazzo non è tanto la sua architettura, che riporta i tipici elementi caratterizzanti il barocco napoletano, ossia forme sinuose e virtuosismi, ma le innumerevoli leggende che sono fiorite su di esso nel corso del tempo. Già la sua denominazione, Palazzo Donn’Anna, è incerta, in quanto richiama alla mente sia la committente, donna Anna di Carafa, sia, per i napoletani, la regina Giovanna D’Angiò.

Si racconta che donna Anna Carafa, potentissima moglie del viceré, solesse dare feste e banchetti all’interno del palazzo, seguiti da spettacoli in costume: in uno di questi recitò la nipote di Anna Carafa, donna Mercedes, ed un altro nobile, Gaetano di Casapesenna, amante di donna Anna; fra donna Mercedes ed il Casapesenna era previsto dal copione un bacio, che fu dato e ricevuto con talmente tanto trasporto da provocare la folle gelosia della Carafa. Seguirono giorni di ingiurie fra le due donne, fino a che Mercedes sparì improvvisamente …. il giovane Gaetano la cercò disperato per mare e per terra prima di farsi uccidere in battaglia, e si narra che il fantasma di donna Mercedes ancora vaghi nel palazzo, e c’è chi giura di aver sentito pianti e lamenti nelle notti buie.

Matilde Serao, a questo proposito, nelle sue “Leggende napoletane”, scrive:

”Invano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto, a San Giacomo di Compostella, invano pianse, pregò, supplicò. Mai più rivide la sua bella amante. Egli morì giovane, in battaglia, quale a cavaliere sventurato si conviene. Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa Donn'Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'anima amareggiata di fiele, col cuore arido e solitario. Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche noi, come voi, spasimare d'amore, anche dopo la morte?”

Altro discorso si deve fare invece per le due Giovanna D’Angiò, entrambe focose amanti ed entrambe inquiline di Palazzo Donn’Anna, che si narra uccidessero i loro giovani amori alla fine di un’unica ed indimenticabile notte d’amore. I cuori spezzati di mogli e fidanzate non si contavano, così come le sparizioni di tanti aitanti uomini, e si narra che ancora oggi sia possibile udire i lamenti dei tanti giovani amanti fatti uccidere in mille modi.

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Duomo di Amalfi

La cattedrale di Sant’Andrea, o Duomo, è sicuramente uno dei monumenti più caratteristici della costiera amalfitana e di Amalfi stessa: la facciata su più livelli, l’imponente scalinata e il bianco – nero che contrasta armoniosamente con i colori della facciata la rendono, infatti, immediatamente riconoscibile. La chiesa fu fondata nel IX secolo, quando Amalfi era una delle repubbliche marinare, e rimaneggiata nel 1200 con lo stile arabo-normanno allora tanto di moda. Ebbe altri due restauri, uno nella seconda metà del 1500 ed un altro nell’800 a seguito di un crollo. A fianco il campanile, rivestito di maioliche.

Caratteristico è il portico, con l’intreccio di arcate a trifora tipicamente arabo e la facciata a salienti, che conduce l’occhio direttamente al timpano, ove campeggia un mosaico raffigurante Cristo in trono in mezzo agli Evangelisti; oltrepassato il portico, si incontra la porta in bronzo proveniente da Costantinopoli, dono di un ricco amalfitano,il ricco mercante Pantaleone di Mauro.

L’interno è barocco, a tre navate riccamente decorate e sormontate da un soffitto a cassettoni ligneo e dorato con quattro affreschi. Spettacolare la vista prospettica sul settecentescoaltare maggiore e l’abside, in cui è collocata la tela raffigurante il Martirio di Sant’Andrea, patrono dei pescatori, cui la chiesa è consacrata. Sotto l’altare maggiore, infatti, vi sono le reliquie del santo, trasportate nel 1208 dal cardinale Pietro Capuano, reduce dalla Terra Santa. La leggenda racconta che le ossa di S. Andrea, racchiuse tra lastre istoriate, emanino una sostanza straordinaria, la Manna, raccolta da un’ampollina posta sulla tomba del santo.

Nella navata sinistra vi è la Croce di Madreperla, portata dalla Terra Santa da Monsignor Ercolano Marini, originario delle Marche, che fu benefattore amatissimo dalla gente amalfitana, che lo ricorda per le sue doti di umiltà e amore verso il prossimo, nonché come fine teologo. Le sue spoglie riposano ancora all’interno della cattedrale, ed in suo onore è stato eretto un orfanotrofio. Di fianco alla navata il Battistero, in porfido rosso egiziano, proveniente da Paestum.

Il Duomo è un insieme di elementi antichi e meno antichi: tra i più antichi spicca sicuramente la Basilica del SS. Crocefisso, edificata nell’anno 883, con matroneo e colonne originali, in cui sono stati collocati dei sarcofagi di età romana, mentre il resto delle decorazioni è stata spostata nel Museo Diocesano allocato di fianco al Duomo stesso.

L’elemento più spettacolare è sicuramente, però, il Chiostro del Paradiso, contiguo alla Basilica del SS. Crocefisso, un vero e proprio tuffo nell’Oriente: è un chiostro circondato da colonnette intrecciate e doppie a sesto acuto, fatto edificare tra il 1266 e il 1268 dall’arcivescovo Filippo Augustariccio come cimitero per i ricchi patrizi; ai lati si aprono sei cappelle affrescate del Trecento. L’intero portico è stato restaurato ed aperto al pubblico nel 1908.

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Battistero Paleocristiano di San Giovanni in fonte

L’unico al mondo ad essere ubicato su una sorgente, le cui acque erano utilizzate per il battesimo, il Battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte è un pregevole monumento situato sul confine tra Padula e Sala Consilina, due comuni del Vallo di Diano in provincia di Salerno.

Sorge nell’antico Marcellianum, ossia il latifondo agricolo della sovrastante città di Cosilinum, ora Padula, e prima che fosse adibito ad uso cristiano, esso era un tempio marino dedicato alla ninfa Leucothèa, notizia che ci viene riferita dallo storico Cassiodoro.
Successivamente venne trasformato in battistero cristiano, in quanto il primo Cristianesimo amava riutilizzare gli edifici preesistenti adeguandoli al suo culto.

La prima menzione dell’edificio, come “Commenda di S. Giovanni in Fonte”, comparve per la prima volta nel periodo normanno, quando fu concesso da Ruggero II ai Cavalieri Templari, protettori dei luoghi sacri della Terra Santa.Nuovamente da Cassiodoro ci viene riferito poi che, in occasione della fiera di San Cipriano, in quell’area avvenivano spesso dei furti, cosa giudicata non consona alla sacralità dei luoghi.

Qui si veniva convertiti alla religione cristiana mediante il rito orientale dell’immersione completa: la leggenda racconta che il candidato scendesse ritualmente sette scalini presenti nella vasca battesimale, simboleggianti i sette peccati capitali, e che l’acqua si gonfiasse raggiungendo il livello della gola; a quel puntosi veniva ritenuti purificati e pronti ad essere accettati come novelli cristiani, e l’acqua tornava al suo livello normale.

Il battistero fu annesso al demanio comunale per poi sparire, e successivamente ricomparire, soltanto alla fine dell’Ottocento; i restauri condotti dalla Soprintendenza tra il 1985 e il 1987 hanno evidenziato una composizione dell’edificio articolata intorno alla vasca centrale contornata da archi a tutto sesto, che probabilmente reggevano una cupola. Prospiciente alla vasca, un piccolo ambiente con un altare lapideo. Nei pennacchi delle volte vi sono dei frammenti di affreschi, di probabile matrice bizantina, raffiguranti una teoria di santi, mentre sono state ritrovate altre quattro teste, probabilmente raffiguranti i quattro Evangelisti.

Sitografia

GALLERIA FOTOGRAFICA

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LA CERTOSA DI SERRA SAN BRUNO

A cura di Felicia Villella

Introduzione: la Certosa di Serra San Bruno in provincia di Vibo Valentia

Il comune montano di Serra San Bruno, situato nel territorio delle Serre in provincia di Vibo Valentia in Calabria, deve la sua fama alla presenza in passato del monaco Bruno di Colonia, fondatore dell'Ordine dei Certosini e della ivi presente Certosa di Santo Stefano del Bosco nel territorio serrese, grazie alla donazione offerta dal Conte Ruggero d’Altavilla detto il Normanno.

Serra, una cittadina agglomerata tra il XII e il XV secolo, assume la caratteristica conformazione labirintica dei centri medievali, il cui impianto urbano nello specifico è caratterizzato da una parte molto più antica, il quartiere detto di Terravecchia e un nucleo formatosi in tempi relativamente più recenti, alla fine del Settecento, detto rione Spinetto.

Attraverso l’antico percorso che si sviluppa tangenzialmente rispetto al nucleo medievale di Terravecchia è possibile raggiungere, anche a piedi, la Certosa di Serra San Bruno, fondata nel 1091, circondata da spesse e alte mura e totalmente immersa nella natura.

È possibile ammirare i resti dalla facciata anche da vicini tumoli di terreno che circondano la struttura, proprio perché vige la clausura dell’ordine che qui trascorre le proprie giornate in preghiera, dedicandosi alla cura dell’orto, della produzione di birre e liquori e di icone bizantine, acquistabili nel vicino emporio.

L’edificio, di cui attualmente non resta che un affascinante rudere, era destinato ai monaci conversi, rivolti al contatto diretto con la gente, mentre i monaci dediti alla preghiera ed al silenzio erano stanziati nella più lontana Santa Maria del Bosco, dove trovò in seguito sepoltura anche San Bruno.

Una serie di eventi portò il monastero nelle mani dell’ordine dei Cistercensi e solo nei primi anni del Secolo Cinquecento riuscì a far ritorno sotto l’ordine certosino.

La chiesa antica fu distrutta quasi interamente dal sisma del 1783 che colpì tutta la Calabria, durante il quale crollarono interamente l’ordine superiore della facciata, dunque il tetto e la copertura, la cupola e gran parte delle mura perimetrali, lasciando in piedi solo gli i grandi archi della crociera e le arcate laterali della navata centrale; a completare la disastrosa opera di madre natura, seguirono azioni di spoglio da parte degli abitanti del luogo, finalizzati alla realizzazione di ulteriori edifici nel paese, religiosi e non, ma anche di abitazioni private.

Da un punto di vista architettonico la monumentale facciata, realizzata in granito locale, rivela ancora oggi la maestosità dell’impianto a tre navate dell’imponente edificio. Essa è, di fatti, ripartita verticalmente in tre fascioni, poggianti su un alto basamento continuo contenente le lesene doriche.

Ad incorniciare il portale centrale sono due nicchie coronate da un timpano, che riprende quello dell’ingresso in scala ridotta, che hanno contenuto, in passato, le statue dei Santi Bruno e Stefano oltra ad una di minori dimensioni che sormonta l’ingresso stesso.

Varcato il passaggio di apertura si incontrano le sole due arcate laterali rimaste di due pareti che dividevano l’edificio nelle suddette tre navate, la centrale di maggiore dimensione rispetto alle due laterali; queste strutture mantengono parzialmente il loro rivestimento in granito, mentre in altri punti si rivela la costituzione muraria interna, composta da pietrisco e laterizi pieni. Di fronte ad una tale struttura architettonica, appare chiaro ed evidente l’impianto manierista di impronta tipicamente michelangiolesca che aleggia sull’intera facciata.

L’esterno, ad oggi, si ritrova circondato da ventitré arcate intervallate da pilastri lineari, che delineano i tre lati dei resti del monumentale chiostro al cui interno è collocata una seicentesca fontana granitica composta da un’ampia vasca basale dal cui centro si sviluppa un lungo fusto che sorregge due vasche di dimensioni inferiori, l’ultima poggiata su una serie di figure antropomorfe e coronata da un bocciolo stilizzato.

I resti della chiesa rinascimentale sono collocati all’interno della Certosa e non sono direttamente visitabili a causa della condizione di clausura dell’intera struttura, è possibile però visitare il museo adiacente, in cui sono custoditi alcuni ritrovamenti provenienti dall’antica chiesa e dove è possibile ammirare un modellino che restituisce in scala la condizione del monumento.

Inoltre la città di Serra San Bruno può essere considerato nel suo insieme un museo a cielo aperto, proprio perché la maggior parte dei monumenti ecclesiastici e i più antichi edifici civili sono stati realizzati usando parte del materiale di spoglio proveniente dalla certosa, tra cui altari angeli e statue poste a decorazione dell’imponente struttura rinascimentale.

Si tratta sicuramente di un luogo magico ricco di storia in cui è possibile ritrovarsi percorrendo un itinerario dapprima cittadino attraverso la visita alle principali chiese del paese che culmina nella visita presso la Certosa e il suo museo, per poi spostarsi nella vicino Santa Maria del Bosco completamente immersa nella natura.

Bibliografia e sitografia

  • Cagliostro R. M., Atlante del barocco in Italia.Calabria, De Luca Editori d'arte, Roma, Vol. 1, 2002, pp. 1-742, ISBN: 88-8016-453-8.
  • Cagliostro R. M., Arte e architettura a Serra San Bruno, "Daidalos", Rivista Trimestrale, n. 1, 2001, pp. 55-59, ISSN: 1594-0578.
  • Zinzi E., I Cistercensi in Calabria. Presenze e memorie, Istituto Regionale per le Antichità Calabresi Classiche e Bizantine , Rossano, pag. 157, Rubbettino Editore, Soneria Mannelli 1999.
  • Baldacci O., La Serra, in Memorie di geografia antropica, vol IX, I, Roma, 1954.
  • Calabretta Don L., Serra San Bruno, vol. I e II, Sud Grafica, Davoli M.na (CZ), 2000.
  • Caminada dom B.M., La Certosa di Serra San Bruno - Scritti storici, Monteleone, Vibo Valentia, 2002.
  • Ceravolo T., Luciani S., Pisani D., Serra San Bruno e la Certosa. Guida storica artistica naturalistica, Qualecultura, Vibo Valentia, 1997.
  • De Leo P., Per la storia della Certosa calabrese di S. Stefano del bosco, in Certose e certosini in Europa, atti del Convegno alla Certosa di S. Lorenzo (Padula, 22-24 settembre 1988), vol I, pp.239-245, Sergio Civita Editore, Napoli, 1990.
  • Gritella G., La Certosa di S. Stefano del bosco a Serra San Bruno. Documenti per la storia di un eremo di origine normanna, Edizioni L'Artistica, Savigliano, 1991.
  • Principe I., La Certosa di Santo Stefano del bosco a Serra San Bruno. Fonti e documenti per la storia di un territorio calabrese, Frama Sud, Chiaravalle C., 1980.
  • http://www.comune.serrasanbruno.vv.it
  • http://www.certosini.info
  • http://www.museocertosa.org

Trittico di Beffi

Il Trittico prende il nome dal paesino abruzzese di Beffi, situato nei pressi di Tione, in provincia dell'Aquila. Conservato nella chiesa di Santa Maria del Ponte fino al 1915 fu poi ritirato per motivi di sicurezza e sottoposto a restauro. Dopo il restauro fu trasferito nel Museo Nazionale dell'Aquila.

Era esposto nel Museo Nazionale d’Abruzzo quando L’Aquila fu colpita dal terribile terremoto del 6 aprile 2009, che ha distrutto il centro storico del capoluogo abruzzese. "Sopravvissuto" al terremoto non riportò danni.

Fu scelto come ambasciatore dell'arte italiana negli Stati Uniti, simbolo della rinascita e dello straordinario patrimonio culturale nazionale: grazie al tour americano fu ammirato da oltre un milione di visitatori.

Dall’8 febbraio 2011 è di nuovo esposto a L’Aquila nel salone della Banca D’Italia. E’ un segnale di ripresa e di rivincita nei confronti dei problemi causati dal terremoto.

L'alta qualità della realizzazione suggerisce che l'opera sia stata realizzata da un maestro di chiara fama, molto esperto nella tecnica pittorica e nella preparazione dei pigmenti cromatici. L'autore viene identificato come il "maestro di Beffi" e operò in Abruzzo tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo.

Nel tempo sono stati suggeriti diversi nomi, soprattutto di artisti di scuola senese; più di recente è stato avanzato il nome di Leonardo Savini da Teramo, un abile maestro molto documentato a Sulmona (nativo di Teramo divenne in seguito cittadino sulmonse).

Il Trittico, opera a tempera su tavola, propone il racconto di alcuni episodi salienti della vita della Madonna; nella tavola centrale cuspidata è rappresentata la Madonna col Bambino in trono e due angeli; sullo sportello di sinistra sono raffigurate la Natività e l’Adorazione dei pastori con un donatore, su quello di destra la Dormitio e l’Incoronazione della Vergine. Si tratta di un’opera d’arte di grande raffinatezza, fascino ed eleganza.

È un capolavoro corrispondente a un gusto molto preciso, quello tipico del gotico internazionale. Altissima è la qualità della manifattura, che si manifesta nei pigmenti brillanti d’origine naturale, rimasti inalterati dopo sei secoli, nell’oro zecchino, utilizzato come fondo e per sottolineare precisi dettagli (come ulteriore colore e fonte di luce) e nella sofisticata punzonatura delle aureole, impresse con straordinaria professionalità.

Bibliografia
L. Arbace, Viaggio intorno al Trittico di Beffi: Arte come libertà, il fascino del tardo gotico italiano.
C. Pasqualetti, «Ego Nardus magistri Sabini de Teramo»: sull’identità
del ‘Maestro di Beffi’ e sulla formazione sulmonese di Nicola da Guardiagrele.

GALLERIA FOTOGRAFICA

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