IL CASTELLO DEL VALENTINO A TORINO

Antica e prestigiosa dimora ubicata sulla riva sinistra del Po, il Castello del Valentino, situato nell'omonimo Parco del Valentino, è un edificio storico di grande pregio.

Il Castello del Valentino: storia

Dopo aver trionfato nella Battaglia di San Quintino (10 agosto 1557) alla testa dell’esercito asburgico con la firma della Pace di Cateau-Cambrésis (1559), il duca Emanuele Filiberto di Savoia (il "Testa di ferro") riottenne dalla Francia i territori della Savoia e del Piemonte, che erano stati occupati militarmente dai francesi nel 1536. Nel 1563 il duca decise di trasferire la capitale del proprio ducato dalla storica sede di Chambéry a Torino, avviando un’opera di riorganizzazione territoriale che aveva il fine di celebrare e, al contempo, riaffermare il prestigio e il potere assoluto dell'antica casata. Questo programma venne poi portato a compimento dai suoi successori tra i secoli XVII e XVIII, i quali organizzarono nel centro nevralgico di Torino la  cosiddetta “Zona di Comando” con edifici preposti all'agire politico, e, attorno alla capitale crearono, secondo una singolare disposizione a raggiera, un sistema di residenze extraurbane dedicate al loisir detto "Corona di Delizie"; ristrutturando dimore già esistenti o facendosi edificare ex novo delle altre. Si parla in tutto di 22 edifici, 11 dei quali sono situati intra moenia. Tra le maisons de plaisance facenti parte della "Corona di Delizie" vi è sicuramente il Castello del Valentino.

La storia di questa dimora collocata sul lato sinistro del Po (più precisamente nella zona anticamente denominata "Vallantinum" a causa della propria conformazione geomorfologica resa irregolare da un corso d'acqua che oggi scorre interrato) iniziò nel 1564, quando il duca Testa di Ferro la acquistò, su suggerimento di Andrea Palladio, dal cardinale di origini lombarde René de Birague, colui che durante l'occupazione francese del Piemonte aveva svolto la mansione di Presidente del Parlamento di Torino. Doveva trattarsi di una villa non particolarmente grande con il prospetto principale rivolto verso il Po, strutturata a manica semplice ed articolata su quattro piani, ciascuno dei quali parallelo al fiume; delimitata a sud da una torre con scalinata interna, e a nord da un volume sporgente. Tra 1576 e 1578 si svolsero dei lavori di abbellimento che interessarono i soli interni. Non ci sono pervenuti dati sufficientemente certi sull'apparato decorativo realizzato in quegli anni, ma dai documenti relativi ai pagamenti sappiamo che a lavorare in quei cantieri vi era il pittore faentino Alessandro Ardenti detto "l'Ardente". Di quegli interventi si sono conservati soltanto alcuni frammenti di affreschi con grottesche ed un'iscrizione riportante la data del 1578, rinvenuti presso la Sala delle Colonne nel corso dei restauri novecenteschi.

Nel 1619, in occasione delle nozze tra il figlio trentunenne Vittorio Amedeo e la quattordicenne Maria Cristina di Borbone-Francia, Carlo Amedeo I donò alla nuora la dimora fluviale. Fu proprio Maria Cristina, figlia del sovrano francese Enrico IV, sorella di Luigi XIII e, alla morte del marito, prima Madama Reale, a decidere importanti lavori di ampliamento su progetto dell'architetto Carlo Cognengo conte di Castellamonte e del figlio di quest'ultimo, Amedeo, suo collaboratore e poi successore nella direzione del cantiere. La giovanissima duchessa era avvezza ai fasti della corte francese e volle ricrearli in quella che scelse come propria sede di rappresentanza, non soltanto nello stile architettonico ma anche nelle sontuose feste che in essa organizzava. Carlo di Castellamonte, sul modello transalpino del pavillion-système, raddoppiò la preesistente struttura cinquecentesca realizzando, tra 1620 e 1621, il corpo parallelo al fiume, delimitato ai lati da due torri con una caratteristica copertura a falde fortemente inclinate. A partire dal 1645, Amedeo di Castellamonte fece edificare due padiglioni più bassi rivolti verso la città, collegati alla manica principale tramite due gallerie porticate a forma di esedra semicircolare che andavano a formare un cortile d'onore detto "en forme de théâtre". Ai lati era prevista la presenza di giardini, uno nell'ala sinistra, l'attuale orto botanico dell'Università degli Studi di Torino, l'altro nell'ala destra, mai portato a compimento. Fungeva da prospetto principale la facciata che guardava al fiume Po, un tempo navigabile e suggestiva cornice di scenografici ricevimenti a bordo di bucintori veneziani. Questa tra le due facciate è quella che ha mantenuto praticamente intatto l'originale assetto castellamontiano, ispirato, seppur in maniera estremamente semplificata, a quello dello Château-Neuf a Saint-Germain-en-Laye, voluto da Enrico IV di Borbone-Francia ed oggi quasi totalmente scomparso.  Mentre procedevano i lavori di ampliamento e ridefinizione architettonica sotto la supervisione degli ingegneri ducali, la reggente dispose l'allestimento di due appartamenti perfettamente simmetrici (5 stanze ed un cabinet ciascuno), uno per sé e l'altro per il figlio Carlo Emanuele II, e li fece decorare, dal 1633 al 1646, in maniera particolarmente elaborata secondo un preciso progetto iconografico ideato dal grande retore di corte Emanuele Tesauro e dal conte Filippo di San Martino d'Agliè, raffinato uomo di lettere e favorito di Maria Cristina. L'appartamento meridionale che guarda verso Moncalieri, appartenuto alla duchessa madre, venne affrescato dal pittore Isidoro Bianchi da Campione d'Italia con temi floreali e scene mitologiche tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, ed impreziosito da sontuose cornici in stucco dorato dai due figli di Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi. Sul lato opposto, l'appartamento destinato al futuro duca venne ornato con pitture a fresco dei fratelli Giovanni Antonio e Giovanni Paolo Recchi, incorniciate dai candidi stucchi di Alessandro Casella e del suo éntourage familiare. Qui per gli affreschi vennero pensate tematiche tradizionalmente ritenute virili, come la caccia o la guerra. Fino alla morte della Madama Reale, avvenuta nel 1663, la delitia fluviale del Valentino, all'epoca immersa nel verde lussureggiante della campagna torinese, fu spazio scenografico per la vita di corte.

Fig. 6 -Charles Dauphin: "Ritratto equestre di Maria Cristina di Borbone-Francia in veste dI Minerva, 1663 circa, olio su tela. Racconigi, Castello di Racconigi. Copyright fotografico: iltorinese.it.

Seppur ormai soppiantato da altre residenze più alla moda, nel XVIII secolo il castello mantenne ancora intatto il suo status di maison de plaisance. Negli anni dell'Occupazione Napoleonica di Torino venne dichiarato "Casa Nazionale" e adibito a sede della Scuola di Veterinaria. Dopo la Restaurazione, tornato in mano alla Corona e persa definitivamente l'originaria funzione divenne, nel 1824, il quartier generale del Corpo Reale di Artiglieria fino alla cessione demaniale, avvenuta nel 1850. Con il progetto di espansione della città verso sud e la creazione del Parco pubblico del Valentino l'ormai ex residenza sabauda venne inurbata. In occasione della VI Esposizione Nazionale dei prodotti dell'industria, voluta da Camillo Benso conte di Cavour, fra 1857 e 1858 la struttura subì dei significativi interventi di restauro ed ampliamento su progetto di Domenico Ferri e Luigi Tonta, i quali stravolsero completamente la primitiva organizzazione compositiva, prevedendo non più l'affaccio verso il fiume, ma verso la città. Demoliti i portici terrazzati castellamontiani, vennero innalzate due gallerie laterali che, nella scansione delle aperture, riprendevano l'apparato decorativo della facciata seicentesca. Nel 1859, con la Legge Casati, veniva istituita la Regia Scuola di Applicazione degli Ingegneri con sede proprio presso il castello. Una nuova serie di importanti lavori, tra 1866 e 1899, comportarono l'abbattimento dell'emiciclo che costituiva il cortile "en forme de théâtre", e, in luogo di questo, l'edificazione di due basse maniche terrazzate unite da una cancellata. Vennero in seguito aggiunti l'Edificio degli esperimenti idraulici (manica sud) e le maniche a pettine ad ovest. Nel 1906 nacque dall'unione fra la Regia Scuola di Applicazione degli Ingegneri e il Regio Museo Industriale il Politecnico di Torino. Tutt'ora l'edificio ospita i dipartimenti di Architettura e Design di quest'ultima istituzione universitaria. Dal 1997, assieme a tutte le altre residenze della Real Casa di Savoia, è patrimonio dell'Umanità tutelato dall'Unesco.

Il Castello del Valentino. Gli interni - Il piano terra

Fig. 7 - Interno della Sala delle Colonne. Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Al pian terreno, il primo ambiente in cui si imbatte il visitatore è la Sala delle Colonne.  Si tratta dell'atrio di collegamento tra la facciata verso il fiume e il cortile d'onore rivolto verso Torino. Al centro, sei robuste colonne doriche in breccia del tipo "vecchia macchia svizzera", del tutto simili a quelle del portico esterno, sostengono volte a crociera. Nella parte alta delle pareti, entro nicchie ovali incorniciate da stucchi del Corbellino, sono collocati busti di imperatori romani, già appartenuti alle collezioni sabaude di scultura antica.

Fig. 8 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Nel corso di un restauro decennale curato dalla Fondazione Crt e dal Politecnico di Torino, è stata riscoperta una cappella dotata di sacrestia, aperta al pubblico nel febbraio del 2018. Localizzata presso il padiglione nord-ovest, era stata murata all'inizio del XX secolo e se ne erano perse completamente le tracce. Il piccolo spazio sacro, costruito negli anni '40 del Seicento da Amedeo di Castellamonte, si presenta riccamente ornato da pregevoli stucchi bianchi, riferibili non agli anni in cui il Castello del Valentino era dimora di Maria Cristina, ma quando lo era di sua nuora, la Madama Reale Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, come dimostrato dalla presenza dei monogrammi di quest'ultima iscritti fra gli elementi decorativi.

Fig. 9 - Volta della cappella castellamontiana. Copyright: Corriere.it.

Il Piano Nobile

Tramite lo scalone monumentale a doppia rampa si accede al primo piano, ove sono collocati gli ambienti aulici. Fulcro del piano nobile è il Salone d'Onore, che serve da nodo di congiunzione tra l'appartamento della reggente e quello del futuro duca.

Il Salone d'Onore

Fig. 10 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il Salone d'Onore o Gran Sala offre un punto di vista privilegiato sulla collina prospiciente il Castello del Valentino, sulla riva opposta del Po, ove Madama Cristina aveva fatto trasformare un modesto villino collocato al centro di una vigna in un vero e proprio palazzo a pianta centrale, all'esterno del quale si estendeva un giardino dotato di peschiere, viali alberati e pergolati, l'attuale Villa Abegg. La complessa decorazione pittorica del salone, più estesa e ardita rispetto a quella delle altre stanze, venne realizzata da Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi nella prima metà degli anni '40 del Seicento per poi essere ritoccata, circa trent'anni dopo, da Giovan Battista Cortella e dai fratelli Recchi, i quali intervennero probabilmente sulle quadrature. Negli affreschi a trompe-l'oeil delle colossali colonne salomoniche sorrette da telamoni di michelangiolesca memoria, sostengono a loro volta una sontuosa balconata aperta verso il cielo, popolata da sculture in bronzo dorato e ornata da balaustre simili a quelle dello scalone d'onore. Tra le quadrature, scene di battaglia corredate di targhe esplicative in versi celebrano le virtù e il valore militare dei duchi di Savoia, ponendo fortemente l'accento sui buoni rapporti intrattenuti in passato con la Francia, in chiaro omaggio alla duchessa. Sul registro inferiore della decorazione due iscrizioni disegnate da Ludovico Pogliaghi e realizzate da Gerolamo Poloni, aggiunte negli anni '20 del Novecento, commemorano tutti gli studenti del Regio Politecnico caduti nel corso della Grande Guerra. Al centro del soffitto, in origine completamente affrescato con una visione da sottinsù che risultava in parte perduta già nel XIX secolo, campeggia un lampadario a bracci in vetro di Murano, alto ben 5 metri, realizzato da Ettore Stampini nell'Ottocento.

L'appartamento della duchessa

La Stanza verde

Fig. 13 - Copyright fotografico: MuseoTorino.it.

Tra tutte le sale del piano nobile, la Stanza verde è l'unica ad essere titolata, già negli inventari seicenteschi, per il colore della propria tapisserie anziché per il tema portante degli affreschi. Il verde sulla volta non svolge soltanto la mera funzione di "corame" per gli stucchi dorati, ma si carica di valenza simbolica ricorrendo, in diverse nuances, nelle vesti dei personaggi che popolano gli affreschi dei vari riquadri: dove è più cupo allude alla morte dell'eroe, deve è invece più brillante indica la speranza di rinascita. In esso si legge un riferimento alla dipartita di Vittorio Amedeo I, avvenuta nel 1637, quando ancora il legittimo erede Francesco Giacinto (morto nel 1638) aveva solo 5 anni. L'evento scatenò una lotta per la contesa della reggenza tra i due fratelli dell'estinto - il cardinale Maurizio e il principe Tommaso - e la vedova Maria Cristina. Agli scontri intestini si univano le mire espansionistiche verso il Piemonte del cardinale Richelieu. La guerra civile si concluse quando la duchessa, tutrice del futuro duca Carlo Emanuele II, venne dichiarata reggente, divenendo così la prima Madama Reale di Casa Savoia. Le pretese dei cognati erano tutt'altro che dissolte, e i dissapori terminarono una volta per tutte soltanto quando, contro le aspettative di tutti, Maria Cristina dichiarò maggiorenne il figlio a soli quattordici anni facendogli assumere, almeno dal punto di vista formale, il comando. Nell'affresco posto al centro della volta, la Madama Reale viene ritratta in atteggiamento mesto nelle vesti di Flora, con indosso abiti che riprendono i colori dinastici franco-sabaudi. Ai piedi della dea, alla quale delle ancelle stanno per offrire un toro in olocausto, si trovano vasi semivuoti con fiori appassiti. Il toro simboleggia Vittorio Amedeo, nato proprio sotto il segno zodiacale omonimo, che morendo viene accolto dalla divinità per rinascere a nuova vita. In alto a sinistra, infatti, è raffigurata l'apoteosi dell'animale. Il tema della morte e della rinascita viene affrontato, tramite un raffinato gioco di ambivalenze e rimandi, anche nelle scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio disposte sulle estremità della ricca cornice e nella fascia di raccordo tra il soffitto e le pareti.

La Stanza delle rose

Fig. 17 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il nome di questo ambiente deriva dal motivo ornamentale della rosa, ripetuto quasi ossessivamente negli stucchi e nelle pitture. La regina dei fiori era l'emblema araldico legato al titolo, puramente onorifico, di Re di Cipro e Gerusalemme con cui Vittorio Amedeo I venne fregiato, tramite l'imposizione del collare, nel dicembre del 1632. La volta a calotta, strutturata in più fasce decorative, poggia su un tamburo circolare scandito da putti reggifestoni su mensole. Agli angoli svolgono la funzione di pennacchi coppie di putti che, librandosi in volo, sorreggono gli stemmi della Madama Reale. Sulla fascia che raccorda la volta alle pareti si alternano, ancora una volta, gruppi di putti dipinti su fondo dorato, ora con mazzolini di rose, ora col collare della Rosa Sabauda di Cipro e Gerusalemme. Poiché l'affresco originale di Isidoro Bianchi che rappresentava "Venere e Marte" era estremamente degradato, nel corso dei lavori ottocenteschi si decise di posizionare al centro della calotta una tela raffigurante "La Fama che regge lo stemma della Madama Reale", opera di un allievo di Gaetano Ferri. Sempre durante quegli interventi, le originali porte del Casella vennero sostituite con delle altre, ornate da stucchi realizzati su disegno di Domenico Ferri dallo scultore Pietro Isella, cui vanno riferiti anche i busti di Emanuele Filiberto collocato sulla porta sud, quello di Margherita di Valois sulla porta nord e quello di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours sulla porta ovest. Proprio in questa stanza era documentata la presenza dei quattro tondi dell'Albani, oggi alla Galleria Sabauda.

La Stanza dei Pianeti o dello Zodiaco

Fig. 20 - Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Prima stanza dell'appartamento meridionale rivolta verso il fiume, la Sala dei Pianeti o dello Zodiaco, presenta anch'essa ornamenti dell'éntourage dei Bianchi. Nel riquadro centrale della volta è presente una personificazione dell'Eridano (antico nome del Po) incoronata alla presenza del Tempo dal Giorno e dalla Notte. Anche stavolta l'ispirazione è fornita dalle Metamorfosi ovidiane. Tutt'intorno, entro pregevoli cornici polilobate collocate perfettamente nei punti cardinali, si trovano affrescate le allegorie dell'Aurora, del Sole, dell'Iride e della Notte. Più in basso, all'interno di cornici cuoriformi, sono raffigurate simbolicamente le quattro stagioni. Il fregio di raccordo, riplasmato da Gaetano Ferri nell'Ottocento, mostra nei riquadri i ritratti a mezza figura delle coppie ducali legate alla storia del palazzo (Emanuele Filiberto e Margherita di Valois, Maria Cristina di Francia e Vittorio Amedeo I, Carlo Emanuele II e Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours), che vengono alternati a stucchi con i segni zodiacali. Sempre nel corso del secolo XIX vennero modificate le originali cromie degli stucchi, prima su campo azzurro con stelle d'oro e figure bianche.

La Stanza della Nascita dei Fiori o del "Vallantino"

Fig. 23 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Prima delle stanze ad essere decorata dai Bianchi, la Stanza della Nascita dei Fiori racchiude nella cornice in stucco del soffitto tutti gli elementi decorativi presenti nelle sale sopra descritte (girali di foglie d'acanto, teste di putto che sostengono festoni, meandri, rose sabaude di Cipro e Gerusalemme, gigli di Francia, mensole scandite da ghirlande, protomi leonine e putti reggimensola con terminazione giraliforme). L'unico affresco centrale celebra, tramite una complessa scena allegorica, l'inizio di un'età d'oro con il matrimonio tra Maria Cristina e Vittorio Amedeo. Al centro geometrico della composizione la duchessa, figurata nei panni di Flora, raccoglie e distribuisce a dei putti fiori variopinti di diverse specie, contenuti all'interno di vasi e canestri posizionati ai suoi piedi. Alle sue spalle si trova il centauro Chirone, il precettore di Achille, nel cui volto si riconoscono le fattezze di Carlo Emanuele I, padre di Vittorio Amedeo. Egli infatti aveva come proprio simbolo araldico il centauro, ed in vita fu protettore delle Lettere e delle Arti (probabilmente per questo viene indicato da Apollo, divinità che nella mitologia classica è preposta, oltre che al traino del carro del Sole e alla profezia, anche alla custodia di tutte le Arti). Chirone viene inoltre scelto come espressione dell'ineludibile necessità di formare il giovane principe ereditario, affinché possa un giorno governare con rettitudine. In secondo piano, a sinistra del dipinto, sono collocate le nove Muse, ciascuna con il proprio attributo iconografico. Sullo sfondo si staglia il Castello del Valentino così come era stato concepito nei progetti dei Castellamonte e, in particolare, si notano degli elementi mai realizzati: i giardini verso il fiume e le due ali laterali (quella di sinistra non venne mai edificata e quella di destra fu solo parzialmente completata durante i lavori di rimaneggiamento di Ferri e Tonta). Il fregio collocato nella sezione apicale della parete sembra mostrare l'atto successivo della scena descritta sul soffitto: i putti, infatti, dopo aver preso i fiori raccolti da Cristina e dalle sue ancelle, li stanno utilizzando per distillare essenze profumate.

La Stanza dei gigli

Fig. 26 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

L'assetto attuale della Stanza dei gigli è quasi totalmente frutto dei restauri del 1858 e di quelli che seguirono i bombardamenti del Secondo Conflitto Mondiale. Degli affreschi seicenteschi realizzati dai maestri campionesi rimane solo il fregio che intercorre lungo tutta la parte alta delle pareti, nel quale si scorge una serie ininterrotta di puttini intenti a giocare con degli steli di giglio, simbolo araldico della committente, e con dei cartigli recanti motti in italiano e francese. Tramite i disegni tardo-settecenteschi di Leonardo Marini, architetto e decoratore dei Regi Palazzi, conosciamo l'originale conformazione degli stucchi della volta. Purtroppo non abbiamo avuto la stessa fortuna con l'affresco centrale, che gli inventari antichi descrivono in maniera estremamente sommaria. La tappezzeria dipinta su carta risale al 1924 ed è opera di Giovanni Vacchetta.

Fig. 27 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Gabinetto dei Fiori indorato

Fig. 28 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il Gabinetto dei Fiori indorato era in origine un boudoir dedicato alla toeletta della Madama Reale, come testimoniato dalla presenza di "otto specchi inseriti nella muraglia" incorniciati da nastri e girali d'acanto in stucco. Questi erano già documentati negli inventari del 1644 e sono stati ricollocati durante i restauri degli ultimi anni del Novecento. Lo studiolo, privo di affreschi, presenta stucchi dal raffinato disegno unitario, composto da elaborati intrecci vegetali, rose e gigli di Francia, che nullificano la separazione tra il soffitto e le pareti. Poiché il piccolo ambiente dava verso l'esterno e collegava il padiglione lato Po a quello lato Torino, sulla porzione inferiore delle pareti est ed ovest venne dipinta a trompe-l'oeil una porzione di pavimento in prospettiva, che riproduceva quello a riquadri in cotto presente in tutto il piano nobile, allo scopo di dilatare gli spazi e dare una sensazione di continuità.

Fig. 29 - Copyright fotografico: www.Camper.it.

L'appartamento del principe ereditario

La Stanza della Guerra

Fig. 30 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza della Guerra è il primo dei cinque ambienti che compongono l'appartamento destinato al futuro duca Carlo Emanuele II, nonché l'ultimo ad essere decorato dall'éntourage dei Bianchi, cui subentrarono i pittori e stuccatori Giovanni Paolo e Giovanni Antonio Recchi. Come in tutte le sale di questo appartamento, contraddistinto dalla presenza di stucchi bianchi, anche qui il tema selezionato per l'apparato ornamentale ha un preciso intento paideutico nei confronti del giovane principe. Gli affreschi celebrano infatti l'arte di fare guerra, all'epoca fondamentale per accrescere e\o proteggere i confini di uno Stato. Come exemplum di questa virtù viene proposto il defunto Vittorio Amedeo I, le cui gesta militari vengono esaltate non soltanto negli affreschi dei riquadri secondari del fregio e del soffitto, opera dei Recchi, ma anche nell'ottagono centrale; dove l'allegoria della Vittoria viene incoronata dalla Fama alla presenza della Guerra, mentre il Genio della Storia scrive su un clipeo le imprese compiute dal duca estinto. A coronamento della composizione si trova un cartiglio svolazzante sul quale è scritta la frase latina: "VICTORIS VICTORI VICTORIA", paronomasia che allude con ogni evidenza a Vittorio Amedeo, qui decantato in maniera elegiaca come 'vincitore'. All'apice delle due porte in stucco di Alessandro Casella, il restauro degli ultimi decenni del Novecento ha restituito i ritratti a mezzo busto dei genitori del principe, affrescati entro degli ovali.

Fig. 31 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza del Negozio

Fig. 32 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Nella Stanza del Negozio le pitture indirizzano all'arte della diplomazia, essenziale per il mantenimento degli equilibri fra Stati. In mezzo al soffitto, un'allegoria esalta la Pace quale portatrice di fertilità, abbondanza ed armonia, nonché come conditio sine qua non per la felicità dei cittadini, fine ultimo di ogni Stato. La presenza in alto del motto "CAELESTIS (A)EMULA MOTUS" e del simbolo araldico dell'uccello del Paradiso, appartenuti a Vittorio Amedeo I, si leggono come un'esortazione rivolta al futuro reggente ad emulare le virtù diplomatiche paterne. Scene di negoziazioni e stipulazioni di alleanze fra legati sabaudi ed illustri sovrani europei ed orientali sono incorniciate da un intricato motivo ornamentale fatto di telamoni, putti e angeli a coda fitomorfa. Nella scelta figurativa degli episodi si legge l'intento di magnificare un ducato che, pur non essendo particolarmente esteso, fu capace di imporsi nella scena politica europea contribuendo a definirne le sorti.

Fig. 33 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza della Magnificenza

Fig. 34 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

All'interno della Stanza della Magnificenza viene ribadita l'importanza per un regnante di far realizzare grandi opere pubbliche e private. Nel centrovolta la Potestà sovrana, seduta su un trono di nuvole con scettro e corona, viene magnificata dalle committenze di fabbriche regie. Le pitture dei riquadri, attribuite ai Recchi, si presentano come una vera e propria raccolta enciclopedica delle architetture ducali legate alla committenza di Carlo Emanuele I, Vittorio Amedeo I e Maria Cristina, tra le quali si riconoscono il Palazzo Ducale (già Palazzo Arcivescovile ed attuale Palazzo Reale), Santa Maria al Monte dei Cappuccini, Contrada di Po prima della costruzione dei portici, Porta Nuova e la Residenza di Mirafiori. La fascia di raccordo è risolta con una serie di paesaggi non ancora identificati in maniera certa ed unanime. Il tutto è incorniciato dagli ornamenti in stucco, caratterizzati da coppie di putti che sostengono cariatidi con terminazioni fitomorfe e da mascheroni da cui si dipartono festoni di primizie. Tra le più eleganti dell'appartamento, le porte sono sorrette da colonnine ritorte e coronate da un fastigio che presenta mensole e putti laterali reggispecchio.

La Stanza della Caccia

Fig. 37 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

L'affresco con Diana e le Ninfe dopo una battuta di caccia che domina la volta rivela il tema iconografico di questa nuova stanza: la caccia. La dichiarazione "BELLICA FACTA PARANT" che si legge iscritta al di sopra di un nastro, ricorda come l'ars venatoria in età moderna fosse fondamentale nella vita di corte in tempi di pace, poiché veniva ritenuta alla stregua di una forma di allenamento per gli eventi bellici. Veri protagonisti della volta sono però gli stucchi, che mostrano un corteo di animali selvatici scanditi da putti reggifestoni. Sulla fascia che corre lungo la parte alta delle pareti, dipinta dai fratelli Recchi, putti con selvaggina e cani (che richiamano i putti profumieri della Stanza della Nascita dei fiori, perfettamente simmetrica a questa) si alternano a scene di caccia al cerbiatto, all'orso, al cinghiale e al cervo.

La Stanza delle Feste e dei Fasti

Fig.41 - Giovanni Paolo Recchi: "La Magnificenza sovrana riceve la fama eterna dalle Arti e dalle Scienze", 1665, affresco. Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Dal momento che sono leggibili soltanto due affreschi, anche in questa stanza la raffinata decorazione in candido stucco di Alessandro Casella domina scevra da ogni vincolo architettonico. Sul soffitto campeggia il grande ovale di Giovanni Paolo Recchi, raffigurante l'esaltazione della Magnificenza sovrana a cui Arti e Scienze donano fama eterna. Della stessa mano è l'unico riquadro superstite del nastro di raccordo, dove si può vedere una scena con festeggiamenti pubblici in Piazza Castello, più precisamente nello spazio da parata fatto ricavare appositamente nell'area prospiciente Palazzo Madama.

Gabinetto d'Ercole

Fig. 42 - Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Corrispondente in maniera simmetrica al Gabinetto dei Fiori indorato, questo piccolo studiolo completamente rivestito di stucchi, deve il suo nome alle rappresentazioni di quattro delle dodici fatiche di Ercole, poste all'interno di una fitta rete di riquadrature geometriche presenti sulla volta. Lo spazio, punto di raccordo originario tra l'appartamento e la terrazza che si affacciava sulla corte d'onore e sull'area settentrionale del castello - poi adibita ad orto botanico nel Settecento - subì alcune modifiche alla struttura muraria che comportarono anche la chiusura di una porta.

Bibliografia:

Il Castello del Valentino, a cura di Costanza Roggero e Annalisa Dameri. Torino, Allemandi, 2007.

 

Sitografia:

https://castellodelvalentino.polito.it/

https://www.unesco.beniculturali.it/projects/residenze-sabaude/

http://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-filiberto-duca-di-savoia_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/cristina-di-francia-duchessa-di-savoia_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/isidoro-bianchi_res-1292b8c2-87e8-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-di-castellamonte_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/amedeo-di-castellamonte_(Dizionario-Biografico)/

https://torino.repubblica.it/cronaca/2018/02/07/news/castello_del_valentino_scoperta_una_stupenda_cappella_seicentesca_del_castellamonte-188288469/

http://www.torinotoday.it/eventi/cultura/cappella-castellamonte-valentino.html

http://www.museotorino.it/view/s/f987e76510294fa9852817e2e715da5a


LA BASILICA DI SAN GIOVANNI O DEL ROSARIO

LA BASILICA MINORE DI SAN GIOVANNI BATTISTA O DEL ROSARIO A LECCE

Sul sito di una precedente costruzione risalente al 1348 - anno di arrivo dei domenicani  a Lecce- nel 1691 iniziano i lavori della basilica di San Giovanni Battista o del Rosario, in una città in cui si stava vivendo il pieno sviluppo dei canoni dell’arte Barocca, di cui ne è fortemente investita partendo dal modello romano. Barocco come fenomeno artistico che si afferma in maniera totalitaria nel territorio salentino grazie all'assimilazione e alla reinterpretazione delle forme medievali, all'autonomia delle forme rispetto ad altre zone e soprattutto all'utilizzo della pietra calcarea leccese, duttile sotto le mani degli artisti, che rendeva possibile la decorazione di tutti gli elementi architettonici: colonne, fregi e capitelli con festoni, ghirlande, angeli e putti.

I lavori della Chiesa furono affidati ad un ormai anziano Giuseppe Zimbalo, che contribuì tra l’altro al finanziamento e che qui richiese ed ottenne sepoltura, quando nel 1710 muore. Alla sua morte i lavori passarono nelle sapienti mani di Giulio Cesare Penna il giovane e Leonardo Protopapa, fino al completamento nel 1728.

Il prospetto esterno si presenta esuberante e movimentato, diviso in tre ordini come da richiamo ad altre opere dello Zimbalo - una su tutte la Basilica di Santa Croce - da due lunghe balaustre che seguono l’andamento dell’intera struttura. Il registro inferiore si presenta diviso in cinque volumi scanditi da numerose paraste e da due voluminose colonne con scanalature a spirale a maglia stretta, con due corone di fiori e piccole pigne - più o meno ad un terzo dell’altezza - che ne spezzano l’andamento. Le colonne incorniciano il portale sormontato dal simbolo dei domenicani e dalla statua di San Domenico Guzman.

Ai lati del portale ci sono due nicchie con San Giovanni Battista e beato Francesco dell’Ordine dei Predicatori, caratterizzate dalle decorazioni a punte lanceolate, anche queste tipiche delle decorazioni di Zimbalo.

Le due possenti colonne poggiano su una base di forma rettangolare che ritroviamo nella forma dei due alti plinti che ai lati dell’intero prospetto chiudono la facciata ed ospitano due statue: al momento ne è presente solo una, ed è quella di San Tommaso d’Aquino. Caratterizzanti sono i capitelli corinzi in cui terminano: tra i classici motivi floreali trovano spazio anche cavalli alati e una sirena bicaudata.

Quest’ultima è uno degli elementi che il Barocco leccese ripete molte volte nelle sue decorazioni, ma è uno di quegli elementi di chiara provenienza medievale, in cui risiede una simbologia dicotomica tra pagano e cristiano, tra peccato e fertilità.

Una trabeazione alta e liscia, sormontata da una cornice fortemente aggettante, divide il registro inferiore da quello superiore, caratterizzato da una lunga balaustra che segue l’andamento della facciata, ed è decorata da grandi trionfi floreali e dieci statue di piccoli putti posti su dei piedistalli sferici, rappresentanti le visioni del profeta Ezechiele.

Al centro di questa balaustra si trova la statua della Vergine, in corrispondenza del finestrone, che funge, quindi, da elegante e profonda nicchia. Ai suoi lati altre due nicchie con statue di santi e i trionfi floreali sulle volute: queste nicchie collegano, visivamente, i due registri della facciata.

Nel terzo registro più in alto, una balaustra più bassa chiude la facciata separando questa sezione dal timpano mistilineo in cui altri trionfi floreali, più piccoli rispetto ai precedenti, scandiscono lo spazio insieme a candelieri e due statue ai lati, di cui adesso ne è presente una.

L’interno della Basilica, a croce greca, presenta un grande vano ottagonale coperto da capriate lignee: in origine infatti il progetto prevedeva una copertura con una cupola, mai realizzata data l’ampiezza prevista da Zimbalo e la sua morte arrivata prima dell’inizio dei lavori di questa struttura. Tutto il perimetro della fabbrica è segnato da numerose nicchie con statue di santi e dodici cappelle con altrettanti ricchi altari barocchi sei-settecenteschi: dall'ingresso troviamo posizionati gli altari di Santa Caterina da Siena e del Battesimo di Gesù, entrambi della prima metà del XVII secolo su disegno di Manieri.

Proseguendo verso sinistra si susseguono gli altari della Natività di Gesù, della Madonna del Rosario e della Natività di Maria. Il presbiterio accoglie l’altare maggiore in pietra leccese e diversi dipinti tra qui quello più importante con la tela raffigurante la Predicazione del Battista (forse di Oronzo Letizia, artista di Alessano) di patronato dei Montefusco.

Continuando, trovano posto gli altari dell’Assunta, del Crocifisso e di Santa Rosa da Lima, in cui trova spazio una tela del 1735 di Serafino Elmo.

Tutte le ricche colonne degli altari sono di tipo salomonico, modello che si afferma dapprima negli altari della chiesa di Sant’Irene: funge da quinta scenica per le rappresentazioni sacre. Sul fusto tortile si avvolgono tralci di vite e grappoli di uva, simboli del sangue di Cristo che si trasformano in vino tramite la celebrazione dell’Eucarestia. La decorazione a tutto tondo diventa sempre più elaborata e l’andamento ascensionale , curvilineo, sensuale, permette di rispondere ai bisogni di chiaroscuro del barocco, insieme ai bisogni di movimento, di esuberanza artistica e di significati. Le varietas di tutti questi bisogni si manifestano nel numero di spire e nei cambiamenti delle decorazioni man mano che si sale dalla base al capitello, che, prevalentemente corinzio, sembra essere avere la forma di una corona.

Un’ulteriore differenziazione sta anche nella disposizione numerica delle colonne in diversi ordini: singole, binate o trine, in cui la terza colonna è di rinforzo alle altre due e presenta un forte gioco di dimensioni tale da permettere un’integrità di visuale prospettica - esempio è l’altare del Crocifisso -.

Nelle cappelle dell’ottagono ci sono altri quattro altari dedicati a San Tommaso d’Aquino, San Vincenzo Ferrer, San Domenico e San Pietro martire.

Il pulpito cesellato, proprio vicino all'altare di San Domenico, anch'esso in pietra leccese, rappresenta la scena della visione dell’Apocalisse, l’unico delle chiese leccesi ad essere realizzato in pietra.

Lungo il perimetro dell’intera struttura trovano spazio gli stemmi scolpiti delle famiglie aristocratiche di Lecce che contribuirono alla realizzazione della chiesa, mentre sulla contro-facciata si conserva il cenotafio di Antonio De Ferrariis, chiamato anche “il Galateo”, con ritratti ed epigrafi marmoree del 1651 e 1788.

Adiacente alla Basilica di San Giovanni o del Rosario si trova il convento dei Domenicani, ricostruito dal priore Contegresco, che realizza le stanze superiori e il chiostro su due pilastri, il cui prospetto, attribuito ad Emanuele Manieri, è scandito da sei paraste di ordine gigante e delimitato alle estremità dai due portali raccordati mediate volute ai balconi sovrastanti. Attualmente è sede dell’Accademia delle Belle Arti.


IL SACRO MONTE DI PIETÀ A NAPOLI

…nel luogo dove nacque la lotta all’usura

 e la pietà prevalse…

“GRATUITAE PIETATIS AERARIUM IN ASILUM EGESTATIS PRAEFECTIS CURANTIBUS »

« Ai prefetti

che si adoperano

con disinteressata pietà

 dell’erario e dell’ospizio ai poveri »

Percorrendo in lungo ed in largo i decumani, ed in particolare il Decumano inferiore, in una passeggiata alla scoperta di tesori d’arte tra vicoli nascosti e palazzi appartenenti ai secoli più diversi, attraverso Via San Biagio dei Librai, al civico 114, ci si imbatte nel cortile del palazzo di Girolamo Carafa dei Duchi d’Andria, antica sede del Sacro Monte di Pietà, meglio conosciuto come “Banco dei Pegni”, sebbene oggi il palazzo sia prevalentemente utilizzato per uffici ed agenzia del Banco di Napoli.

L’accesso al palazzo è segnato da un imponente portale, da qui, attraverso un atrio porticato scandito da piloni, coperto da volte a vela, ci si immette in un cortile  con due scaloni monumentali che conducono ai piani superiori. Sul lato opposto al portone, al piano terra, c’è la Cappella del Sacro Monte di Pietà.

Il Sacro Monte di Pietà fu fondato nel 1539 su iniziativa dei frati dell’ordine francescano e dei nobili napoletani Leonardo de Palma e Aurelio Paparo dopo un decreto di Carlo V , per combattere l’usura dei banchi ebraici che si erano sviluppati tra il Duecento e il Trecento e col fine di contrastare lo strozzinaggio che danneggiava gravemente il popolo che, in più occasioni, si trovava costretto a ricorrere a prestiti per arginare il più possibile i propri problemi economici. L’erogazione finanziaria avveniva in cambio di un pegno: i clienti, a garanzia del prestito, dovevano presentare un pegno che valesse almeno un terzo in più della somma che si voleva fosse concessa in prestito. La durata del prestito, di solito, era di circa un anno; trascorso questo periodo, se la somma non era restituita, il pegno veniva venduto all’asta.

In realtà, i documenti dell'archivio storico del Banco di Napoli segnalano che le attività del Monte di Pietà andrebbe retrodatata al 1538 e che il rapporto con la cacciata della comunità ebraica da Napoli, avvenuta nel 1539, sarebbe solo apparente.

Il palazzo del Banco del Monte di Pietà si eleva su un basamento in piperno con fascia decorata ed è diviso in tre settori: quello centrale, più largo, dove, imponente,  si apre l'ingresso principale, e i due laterali, che, rispetto all’altro, si presentano più stretti.

Il portale, con elementi a bugne, è di ordine dorico.

L'atrio, a sei campate sostenute da pilastri rivestiti di piperno, consente l'ingresso al cortile.

Il cortile è caratterizzato dalla  controfacciata del palazzo che si presenta come un arco di trionfo a tre fornici e dalla facciata della Cappella.

La prima pietra della cappella venne posata il 20 settembre 1598.

La facciata s'ispira alla facciata della chiesa di Sant'Andrea sulla Flaminia a Roma di Jacopo Barozzi da Vignola; ai lati del portale d'ingresso, tra due coppie di lesene ioniche si aprono due nicchie con le statue di Pietro Bernini che rappresentano la Carità e la Sicurezza datate tra il 1600 e il 1601 . Nel timpano la Pietà di Michelangelo Naccherino con due angeli di Tommaso Montani

La cappella, completamente affrescata e decorata con stucchi dorati, è uno splendido esempio di eleganza manieristica: presenta interni decorato a stucco dorato. La volta fu affrescata dal pittore  Belisario Corenzio e qui sono collocate: a destra una tela di Ippolito Borghese, a sinistra una tela iniziata da Girolamo Imparato e compiuta da Fabrizio Santafede, nonché al centro, dietro all'altare maggiore, la Deposizione del Santafede.

L’interno della cappella, si presenta a navata unica e negli ambienti laterali, presenta una Sagrestia e la Sala Cantoniere.

La Cappella presenta anche un’interessante antisagrestia, dove si trova il sepolcro del Cardinale Acquaviva, opera di Cosimo Fanzago, datato 1617, ma il suo gioiello resta certamente la Sagrestia, decorata nella prima metà del XVIII secolo con allegorie su decorazioni in oro e l’ affresco di Giuseppe Bonito sulla volta.

Sulla destra si accede alla Sala Cantoniere, un altro esempio di arte settecentesca, con pavimento maiolicato e affreschi; qui sono da notare i ritratti di Carlo III di Borbone e di Maria Amalia. Inoltre nella sala è conservata anche una Pietà lignea di ignoto maestro napoletano del tardo Seicento.

Il palazzo e la stessa cappella appartengono al Gruppo Bancario Intesa – Banco di Napoli, partecipa pertanto alla Collezione d’Arte dello Storico Istituto Bancario partenopeo.

 

Sitografia:

inaples.it

Repubblica.it

Wikipedia.it

Napolike.it

Napoli-turistica.com

Bibliografia

VV. Dizionario biografico degli italiani

Anna Coliva, a cura di - La collezione d’arte del San Paolo – Banco di Napoli -  San Paolo Editore 2004

Copyright photo:

Wikipedia.it


LA STRADA NUOVA A GENOVA

A cura di Irene Scovero

Soluzioni paesaggistiche in uno spazio rinascimentale

Via Garibaldi, inizialmente Strada Maggiore poi fino all’Ottocento Strada Nuova a Genova, è una delle principali arterie della città antica. Il tracciato attraversa con andamento rettilineo e in piano, ortogonalmente alle direttrici medievali che scendono  verso il mare, un’area orizzontale interposta tra la collina di Castelletto a monte e il fitto tessuto medioevale. Nel XVI secolo, negli anni del nuovo sviluppo che accompagna la città, entrata nell’orbita del potere imperiale all’avvio di quello che è stato definito “il secolo dei genovesi”, l’aristocrazia necessita di modelli abitativi che ne sottolineino collocazione internazionale e protagonismo sociale.

Vi era la necessità di rinnovamento, fasto e lusso. Furono proprio queste priorità a dar vita nel 1550 all’edificazione di una via residenziale, creando uno spazio che raccogliesse le dimore dei membri dell’oligarchia genovese, in quel momento famiglie di grande potenza economica internazionale. Il contributo più incisivo nella realizzazione delle dimore fu dato Gian Galeazzo Alessi venuto a Genova nel 1548. I palazzi di villa che aveva realizzato per alcune famiglie, avevano lasciato nell’architettura genovese un modello tipologico di grande evidenza monumentale che venne ripreso da Bernardino Cantone, l’architetto camerale, che si occupò della realizzazione della Strada Nuova. Per quanto riguarda il contributo pittorico-figurativo, il soggiorno di Perin del Vaga, nel terzo decennio del secolo, aveva maturato nella cultura locale  una concezione moderna di spazialità decorativa che si era rivolto inizialmente nella committenza esclusiva e periferica dell’ammiraglio Andrea Doria, ma che venne ripresa dagli artisti locali in questa occasione di rinnovo urbano. La decorazione delle abitazioni lussuose della via interviene nell’esaltazione degli spazi celebrativi dove si inseriscono temi mitologici e storici. I pittori nati nel secondo decennio e attivi in questi anni si erano aggiornati a Roma e i cantieri aperti nel nuovo quartiere furono un’occasione irripetibile per la promozione di questo capitale di cultura decorativa.

I palazzi di Strada Nuova sono una combinazione di soluzioni particolari, dove si ritrovano idee architettoniche che richiamano al VI libro dell’Architettura civile di Sebastiano Serlio, in particolare per quanto concerne la tipologia di cortile e giardino. Nei primi del Novecento, in contemporanea a forti eventi speculativi in aree cittadine già luoghi di villa, si avverte una certa sensibilità pubblica verso il tema del giardino. Intorno al 1927 il Comune acquisì antiche ville che divennero di proprietà pubblica e questo comportò anche lavori di sistemazioni anche nei giardini.

Vengono elencati i milioni di metri quadrati dei nuovi giardini pubblici del Comune di Genova e nel 1928 è in corso la realizzazione del più grande parco pubblico, il Peralto. Questo spirito innovativo per la valorizzazione delle  aree verdi urbane non trova analogo riscontro nel caso di Strada Nuova, nel momento che negli anni ’20 il Comune sacrificò il giardino di Palazzo Spinola e quello adiacente di Palazzo Lercari, per la realizzazione di due gallerie cittadine e Piazza Portello.

Evidentemente, se da un lato si assiste a una volontà da parte dell’amministrazione civica, dell’acquisizione di nuove aree verdi per la fruizione del pubblico cittadino, questo non corrisponde ad una effettiva presa di coscienza dell’importanza dei giardini storici.

Con la caduta della Repubblica di Genova, e con le successive trasformazioni della città realizzate con ritmi incalzanti, in particolare dalla seconda metà dell’Ottocento l’organizzazione dello spazio verde subisce una crisi travolgendo gli aspetti conservativi del rapporto città-territorio così come si era organizzato in epoca preindustriale nel governo della classe  aristocratica genovese.

I nuovi percorsi stradali spezzano l’assetto originario dei giardini.

Ne sono esempio anche i palazzi di Strada Nuova sopra citati, come un territorio di villa, il giardino di Villa Scassi a Sampierdarena o quello del Palazzo del Principe. Nel primo caso l’esecuzione di Via Cantone realizzata alla fine degli anni 20 provocò una cesura tra palazzo e giardino compromettendo la soluzione scenografica originaria.

Gli stessi problemi si ritrovano per il giardino di Palazzo del Principe. La costruzione della linea ferroviaria Genova-Torino, intorno al 1850, causò lo sbancamento di una parte del giardino nord che fu poi irrimediabilmente distrutto dalla costruzione di Via Pagano Doria nel 1899.

Per quanto riguarda Strada Nuova, ancora negli anni Settanta si assisterà alla sistemazione dell’area verde a monte di Palazzo Tursi e in anni vicinissimi, alla radicale trasformazione in veste ottocentesca dell’area adiacente a Palazzo Bianco. Solo tra il 2001 e il 2004 vengono condotti i restauri dei giardini superstiti a nord di Strada Nuova.

Strada Nuova, ora Via Garibaldi vista dall'alto.
Rilievo dei palazzi di Strada Nuova.

La Strada Nuova a Genova: Peter Paul Rubens e i Palazzi 

La fortuna internazionale della Strada Nuova si deve soprattutto agli scritti di Pier Paolo Rubens; l’artista il 29 maggio del 1622 pubblicò ad Anversa il volume intitolato Palazzi moderni di Genova.

L’incisore delle 72 tavole, appare fedele ai disegni anche se la stampa capovolge l’orientamento dei rilievi. In epoca più tarda con uguale data incisa sul frontespizio, comparve una seconda edizione ampliata, che il Cicognara ritenne posteriore alla morte del Rubens avvenuta nel 1640.

La venuta dell’artista a Genova, nel 1604 gli permise di conoscere alcuni aristocratici genovesi, che divennero attivi committenti della sua arte,  e di ammirare le loro residenze. Queste, secondo il Rubens, coniugano bellezza e comodità nel rispetto delle regole dell’antico, grazie anche all’eccezionalità degli ambienti racchiusi una struttura cubica. Spazi di destinazione privata legati alla vicenda di famiglie private e non a una corte. Naturalmente Rubens rimase colpito da Strada Nuova, dalla sua importanza urbanistica e di significato nella società genovese, perché primo esempio di quartiere residenziale riservato ad una classe dominante cittadina. L’architetto tedesco, Joseph Furttenbach, tra il 1610 e il 1620, durante il suo soggiorno italiano, rimane affascinato dell’architettura genovese, e in particolare dai giardini e dalle grotte artificiali lasciando testimonianze fondamentali per lo studio di questi manufatti. Una fedele illustrazione nel secolo successivo è offerta dalla Raccolta di diverse vedute della città di Genova, pubblicata nel 1779 dall’Abate Antonio Giolfi, dove nella veduta di  Via Nuova, ogni palazzo, nonostante lo scorcio è fedelmente illustrato.

I giardini privati dei palazzi nobiliari

Accennati, posti a margine rispetto alla prestigiosa architettura, i giardini e il verde che facevano da fondo naturalistico alla dimora sono stati, negli scritti, alquanto trascurati. Il carattere effimero del giardino, insieme ad un’inadeguata tutela ne ha accelerato la scomparsa rispetto al palazzo.

È possibile però, recuperare frammenti di ciò che doveva essere cercando di  recuperare il punto di vista del committente sul paesaggio e sullo spazio privato del suo giardino. Il palazzo e il rispettivo spazio verde sono elementi inscindibili, andavano e vanno visti come un unicum da salvaguardare e tutelare. Purtroppo, le vicende urbanistiche dei primi decenni del XX secolo hanno stravolto e indebolito la lettura del paesaggio circostante la dimora storica, basti pensare al caso dei Palazzi a monte di Via Garibaldi adiacenti a Piazza Fontane Marose.

Queste dimore sono state privati dei loro giardini, andati distrutti per la costruzione del nuovo assetto viario e delle due Gallerie cittadine ai primi del Novecento.

Nel XV secolo l’idea del giardino rinascimentale assume un significato decorativo e ornamentale. Vi è un ritorno alle forme di gusto antiquariale e si nota una spiccata passione per l’ars topiaria, con la quale gli alberi vengono modellati in maniera da raffigurare una infinità di forme: antropomorfe, geometriche o fantastiche. Nel De Re Aedificatoria di Leon Battistia Alberti, viene definita la competenza pratica e intellettuale del giardino nel contesto urbano e suburbano.

I comportamenti  codificati del giardino appartengono alla sfera del piacere, del gioco e della cultura. Questi atteggiamenti possono trovare posto nella città in rapporto di correlazione con il momento dell’attività politica e mercantile.

La disposizione geometrica delle piante, all'interno del giardino entro uno spazio ben organizzato, si ritrova nelle idee di simmetria prevalenti a Firenze. Tuttavia, l’ordine geometrico, l’uso dell’acqua e l’imitazione simbolica del Giardino dell’Eden sono presenti già nei giardini francesi del XII e XIII secolo con richiamo alla cultura del Medio Oriente. Nel Rinascimento la riscoperta dell’architettura romana riportò in auge l’uso delle grotte. Il Cinquecento inventa e realizza grotte artificiali, che divennero il motivo centrale dei giardini. Nel mondo classico, la grotta è luogo dove si palesano gli elementi costitutivi del creato ed è anche una forma laica di riflessione religiosa, vista più come simbolo di morte che di vita, perché associata al carcere e le alle costrizioni che il corpo impone all’anima. L’idea della grotta rinascimentale passa attraverso le teorie neoplatoniche e più precisamente attraverso l’opera di Porfirio di Tiro, allievo di Plotino, che nel III secolo d.C. compose De Antro Nympharum. La riscoperta degli scritti del filosofo si ebbe grazie al lavoro dei platonici fiorentini, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Porfirio interpreta i pochi passi del canto 13 dell’Odissea, attraverso un tema fondamentale del pensiero platonico: il dramma della discesa dell’anima nel mondo e il suo ritorno.­

Le grotte artificiali, sono la testimonianza di una certa sensibilità, gusto e cultura di un’epoca. Tra il XV e XVI secolo, nel nuovo clima umanista, l’antro diviene il luogo sacro consacrato agli dei marini, simbolo culturale della totalità della natura dove al suo interno sono concepiti e generati dei, ninfe e uomini. Il Cinquecento ha costruito grotte artificiali, facendone emblemi e il centro emotivo del giardino. Non è un caso che in Strada Nuova, tutti i giardini culminassero con una grotta o un piccolo ninfeo. Quest’ultimi, consacrati all'acqua, riportano concrezioni di conchiglie, ciottoli marini, coralli, tutti elementi che rimandano all'elemento marino e che, insieme alle sculture poste all’interno, spesso figure pisciformi, ricreano un tempio intimo delle acque.

La ritrattistica

Nel XVII secolo, la ritrattistica viene chiamata a sottolineare il ruolo della classe dirigente, si ricerca un genere pittorico che palesi lo status sociale specie per i membri dell’oligarchia dominante, rispecchiando usi e costumi della società contemporanea. La condizione sociale del committente viene ostentata non solo dagli abiti, ornamenti e architetture, ma anche dalla rappresentazione dei propri giardini. Roseti, fiori, vasche e fontane zampillanti vengono accostati alla dama o alla famiglia aristocratica che, attraverso tali rappresentazioni simboliche, si identifica come padrona degli spazi verdi e loro unica fruitrice in grado di permettersi di goderne le particolarità.

In alcune rappresentazioni pittoriche diversi elementi di una scenografia di magnificenza vengono evidenziati (moduli dell’architettura, fontane, satiri, e aleggiano specie arboree. Le essenze floreali che compaiono nei dipinti rimandano, spesso, al loro significato simbolico), in altri casi compaiono pochi segni come una pianta o un albero in lontananza che fanno presumere la presenza del giardino.

Peter Paul Rubens, Giovanna Spinola Pavese, collezione privata.
Peter Paul Rubens, G.B. Carbone, ritratto di Battista Chiavari e Banetta Raggi, 1648-1650, Milano-Pesaro, Galleria Altomani.
D. Fiasella, La famiglia di Gio Vincenzo Imperiale nella Villa di Sampierdarena, 1642, Genova, Musei di Strada Nuova.

La Strada Nuova a Genova: alcuni esempi dei giardini dei palazzi a monte e a sud

Ci sono differenze tipologiche tra i giardini lato monte e quelli a mare della via.  I primi, in rapporto con la natura del territorio sono veri e propri spazi aperti nella collina realizzati con  terrazzamenti degradanti verso il palazzo. Diversa la struttura dei giardini sud, limitati e di breve estensione, compresi tra l’edificio e le preesistenti costruzioni medievali.

Sul lato mare i giardini erano quindi pensati per essere godibili dall’interno del palazzo. Per questi motivi sono stati alquanto trascurati e ancor oggi il visitatore che visita gli edifici in Strada Nuova se rimane colpito da quanto resta dei  giardini a monte, alcuni ancora visitabili, ignora l’esistenza dei giardini sul lato opposto, modificati e alterati nel corso dei secoli e a tutt’oggi,  quelli rimasti,  non facilmente accessibili.

I primi palazzi che si incontrano sul lato monte venendo da ponente e che mantengono ancora, nonostante i vari rifacimenti avvenuti nei secoli successivi, un impianto paesaggistico sono Palazzo Bianco e Palazzo Doria Tursi che insieme a Palazzo Rosso, posto frontalmente, fanno parte dei Musei di Strada Nuova. A ridosso di Palazzo Bianco sorgeva l’antica chiesa di san Francesco, poi demolita nel 1820. Il giardino che rimane a  ridosso del palazzo conserva frammenti di architettura e decorazione marmorea della distrutta chiesa. Fu eliminata la maggior parte della vegetazione e create aiuole geometriche dove in un disordine non casuale sono stati posti pezzi archeologici di fronte alle arcate della chiesa ancora visibili e inglobate in architetture recenti. Palazzo Doria Tursi è il palazzo più maestoso e rappresentativo per quanto riguarda i giardini, classico esempio di aree verdi realizzate con terrazzamenti che hanno portato allo sbancamento della collina di Castelletto. Gli architetti, con un tracciato di scale riuscirono a risolvere il problema di “fabbricare in costa” cui si dedicò anche Sebastiano Serlio nel settimo libro. Nella realizzazione del palazzo venne abbandonata ogni separazione tra il portico, cortile e scala facendone uno spazio unico senza interruzioni. La dimora doveva essere organizzata in vari appartamenti autonomi affacciati sui giardini adiacenti; come scrive il Poleggi, la grandezza delle misure del palazzo doveva rispondere a una dimensione famigliare che trovò in giardini separati a più livelli la possibilità di una vita articolata con indipendenza. Tra il 2001 e il 2004 sono stati condotti i restauri del palazzo e dei relativi spazi verdi. Durante i restaturi del giardino inferiore di levante hanno proceduto alla demolizione e ricostruzione del bordo delle aiuole a roccaglia seguito da un diradamento della vegetazione, gli alberi malati o in contrasto con l’immagine del giardino sono stati abbattuti.

Tra i giardini meglio conservati a lato monte della strada c’è sicuramente quello di Palazzo Nicolosio Pallavicino. All’ingresso dello stabile salta subito all’occhio lo spazio scenico con il bellissimo ninfeo settecentesco realizzato da Domenico Parodi. Il piano nobile è agganciato al terrapiano del giardino, sospeso sopra la galleria del centro cittadino realizzata agli inizi del Novecento. Tutta la decorazione interna è in stretta connessione con l’immagine del giardino cui le stanze si affacciano. Gli affreschi che interessano a noi sono quelli che più si sposano con l’apparato decorativo del giardino cui le stanze si affacciano; un continuo richiamo alla natura  ed agli elementi simbolici che già inizia nelle raffigurazioni dell’atrio. Domenico Parodi nella sala centrale rappresenta Bacco che regge la corona di Arianna, un tema dove trionfa la sensualità e una natura lussureggiante popolata da putti, grappoli d’uva e festoni di fiori e frutti. Un apparato scenografico dove la bidimensionalità della pittura ben si sposa con la tridimensionalità dello stucco.

Dalle immagini dell’affresco ci si sposta poi nel giardino dove in fondo al suo asse centrale, nella grotta, viene rappresentato un Bacco più giovane coronato da tralci di vite che riceva il vino dal Sileno alle sue spalle. Ai suoi piedi Satiri con tipici caratteri zoomorfi, che accompagnano il dio nel rito. La simmetria del giardino si presenta ancora oggi con due percorsi laterali e uno centrale. Le fonti individuate testimoniano l’esistenza di un’uccelliera detta “dei pavoni” restaurata nel 1791 forse posta nell’ala di ponente in simmetria con il pergolato. In fondo al giardino l’alto muraglione divide il giardino inferiore da quello superiore. Nel piccolo spazio superiore adibito ad orto, dovevano nascere rigogliose e delicate primizie tra cui i carciofi che compaiono negli inventari settecenteschi che, nel Cinquecento gli aristocratici genovesi regalavano come oggetto prezioso. Questo secondo giardino, citato nel passaggio di proprietà dai Centurione ai Pallavicino nel 1711, aveva sul muraglione di fondo un ninfeo ed è  tutt’ora presente la torre-cisterna sul lato destro. Quest’ultimo elemento di tradizione islamica, con all’interno una scala a chiocciola è da far risalire ai contatti che il Lomellino aveva con gli ambienti islamici. Nicolosio, è ricordato, infatti, come grande concessionario della pesca del corallo nell’isola tunisina di Tabarca. Questo materiale viene ostentato nel giardino, sia nelle pareti ai lati delle grotte sia all’interno di queste dove sono ne sono presenti degli “arbusti”.

Per Palazzo Pantaleo Spinola a sud della strada, di particolare interesse sono le soluzione realizzate nel Seicento al posto del giardino cinquecentesco. Nel XVII secolo  modifiche strutturali diedero vita al piano terra di un cortile ottagonale con giardino acciottolato e ninfeo triabsidato coincidente al piano superiore con lo splendido ninfeo sul terrazzo ad anello che ospitava il ratto di Elena di Pierre Puget. La geniale sistemazione seicentesca fece si che gli spazi dei saloni dialogassero con gli ambienti esterni non solo per la loro continuità visiva ma per il comune programma iconografico. Nel XX secolo il cortile fu coperto da una terrazza e lo spazio acciottolato con piante di agrumi è ora sede degli sportelli bancari del Banco di Chiavari e della Riviera Ligure. Diverso è il discorso per l’edificio a fianco, Palazzo Tobia Pallavicino. Il giardino cinquecentesco, solo visibile dalle piante di Rubens e del Reinhardt, venne soppresso nel Settecento per realizzare al suo posto un corpo di fabbrica che ospitasse una galleria dorata, per emulare quella degli specchi della reggia di Versailles; esempio supremo di rococò europeo.

Anche i palazzi vicini hanno subito modifiche sostanziali, a parte il giardino di Palazzetto Doria che conserva pressoché inalterato l’assetto originario. La maggior parte di questi spazi verdi privati è stata modificata nel corso del XVIII secolo creando soluzioni nuove e aggiornate al gusto dell’epoca. È il caso di Palazzo Baldassarre Lomellino-Campanella dove venne chiamato Andrea Tagliafichi, uno degli architetti più importanti dell’aristocrazia genovese che operò soluzioni terrazzate nuove con tempietti in stile neoclassico. In Palazzo Lazzaro e Giacomo Spinola- Cattaneo Adorno i rilievi del Rubens mostrano la specularità dei due lotti interni; la simmetria dei giardini doveva essere ripartita in parterre con al centro delle vasche, come mostra la pianta del primo piano del Rubens. Lo spazio di ponente, diversamente da quello vicino che è interamente terrazzato ed abbellito con piante in vaso, ultima con un ninfeo. La parte del calpestio termina, infatti, con un’area in terra battuta dove sono presenti alberi e palme; in asse con l’ipotetica vasca che doveva trovarsi al centro del giardino, incastonato nel retro del palazzo di fronte, un ninfeo. In primo piano, al centro della nicchia sullo sfondo di un paesaggio, ormai indefinito, formato da tinte brune e l’azzurro di quello che doveva essere il cielo, è presente una composizione scultorea.  Una figura maschile, tardo rinascimentale, cavalca un delfino spalancando con la mano sinistra la bocca dell’animale per far uscire l’acqua che doveva alimentare il basso barchile sottostante. Ai suoi piedi tre figure femminili pisciformi portano le mani al petto, nell’atto di far zampillare l’acqua dai seni; classica iconografia che ben si sposa con l’elemento acquatico delle grotte e ninfei

Il cantiere di Strada Nuova non fu solo luogo di sperimentazioni architettoniche nuove e cantiere di pittori e scultori aggiornati dell’epoca, ma rispecchia il gusto rinascimentale per l’ostentazione del lusso, del bello e della ricercatezza che si palesa non solo nell’architettura fine a se stessa, ma si allarga allo spazio verde visto come elemento imprescindibile dell’architettura di palazzo.

Palazzo Nicolosio Lomellino

Domenico Parodi, Progetto per il ninfeo di Palazzo Lomellini, Genova, Palazzo Rosso, Gabinetto, Disegni e stampe (n. inv, 4667).
Costruzione della Galleria Zecca-Portello, 1924 e il sovrastante giardino Lomellino.

Domenico Parodi, Bacco che regge la corona di Arianna, primo quarto del XVIII sec, secondo piano nobile.

Palazzo Bianco

 

Palazzo Doria Tursi 

 

Per la realizzazione di un polo museale unitario, nel 2004, venne progettato un collegamento tra i due Palazzi, Bianco e Doria Tursi, che permettesse il raggiungimento delle due gallerie museali. Venne creato un manufatto, definito “Cerniera” che aveva il compito di congiungere i livelli dei giardini dei due edifici. Il collegamento avvenne a ponente in corrispondenza del braccio vetrato realizzato per le colombiane del 1892.

Palazzo Pantaleo Spinola-Banco di Chiavari e della Riviera Ligure

 

Palazzo di Andrea Spinola, sezione assonometrica ipotetica dello stato originario. Punti di vista esterni della volta della sala. [1]
Il cortile-giardino ottagono, oggi coperto di Palazzo Spinola Gambaro. (Archivio Fotografico della Soprintendenza peri Beni Architettonici ed Ambientali della Liguria).
Stato attuale. Banco di Chiavari e della Riviera Ligure. Cortile ottagonale ora adibito a sportelli bancari.

Palazzetto Doria

Palazzo Baldassarre Lomellino-Campanella

Palazzo Lazzaro e Giacomo Spinola-Cattaneo Adorno

 

Palazzo Rosso

Nel vasto terrazzo pensile settecentesco, due moderni pergolati fanno da cornice a un portale settecentesco. Quest’ultimo[1] faceva parte del monastero di San Silvestro; scolpito da Giacomo Gaggini e Angelo Maria Mortola su commissione delle monache domenicane. Presenta due grandi angeli che fungono da cariatidi, mentre altri due sorreggono un medaglione che rappresenta San Domenico.

 

I giardini di Strada Nuova nelle testimonianze dei viaggiatori[3]

[…] Le terrazze tenute a giardino, fra edifizio ed edifizio, con le viti che formano arcate verdi, coi boschetti d’aranci e con gli oleandri fioriti, a venti, trenta, quaranta piedi al di sopra della strada.[4]

[…] Palazzo Spinola, con l’esterno interamente dipinto; nell’interno l’atrio, la scala, le logge in alto, il cortile e il giardino formano una composizione imponente.[5]

 […] Gli scaloni conducono a giardini incantati dove gli aranci, i melograni, i rosai, i gelsomini esalano profumi prestigiosi, dove le vasche, le fontane e le cascate fanno brillare tutti i loro colori spandendo freschezza e un infinito sussurro. Questi giardini, alti sopra bei portici, lasciano cadere sulla strada la polvere umida degli zampilli, il profumo dei fiori e il ricco fogliame. Ci si chiede se Semiramide abbia avuto simili giardini a Babilonia.[6]

 […] Vidi il palazzo di Giovanni Battista d’Auria, una costruzione molto maestosa il cui giardino non soltanto era molto attraente ma anche adorno di statue e di fontane.[7]

 [… ] Palazzo Tursi, così lo rallegrano l’olezzo dei giardini, l’agitarsi degli arbusti e il lene mormorio delle fonti.[8]

 

Note e riferimenti

[1] L'immagine tratta da Lo Spazio Dipinto, il grande affresco genovese nel '600, indica diversi punti di vista di lettura del programma iconografico della sala del Piola.

[2] Il portale fu trasportato nel giardino di  Palazzo Rosso probabilmente dopo i bombardamenti del 1942 e del 1944 che  distrussero parte della chiesa.

[3]Relativo alla fortuna di Strada Nuova negli scritti dei viaggiatori , vedere: Genova dei grandi viaggiatori, a cura ,di Franco Paloscia; Viaggio in Liguria, a cura, di Giueseppe Mercenaro.

[4]C. Dickens, 1846, p. 36.

[5]J. Burckhardt, 1855.

[6]J. Autran, 1840, in Viaggio in Liguria di Giuseppe Mercenaro.

[7]F. Morison, 1594, in Strada Nuova di E. Poleggi.

[8] F. Alizeri, 1846.

 

Bibliografia

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Mercenaro, Viaggio in Liguria, Genova, 1992

I fiori del Barocco, pittura a Genova dal naturalismo al rococo, Catalogo della mostra a cura di A. Orlando, Cinisello Balsamo, 2006

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Labò, I palazzi di Genova di Pietro Paolo Rubens e altri scritti di architettura, Genova, 1970

P. Gauthier, Les plus beaux édifices de la ville de Genes, Paris, 1818-1832

Monache Domenicane e Genova, a cura di C. Cavelli Traverso, Roma, 2010

Boccardo, C. Di Fabio, I Musei di Strada Nuova, Torino, 2004

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Palazzo Nicolosio Lomellino di Strada Nuova a Genova, a cura di G. Bozzo - B. Merlano - M. Rabino, Genova, 2004

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Reinhardt, Palast Architektur von Oberitalien und Toscana, Berlin, 1886


LA MADONNA DEI MARTIRI A MOLFETTA

TRA ARCHITETTURA E FOLKLORE

La Basilica della Madonna dei Martiri a Molfetta, città balneare in provincia di Bari, è stata intitolata alla compatrona della diocesi di Molfetta a partire dal 1951 con la Bolla pontificia del papa Pio XII.

La chiesa è stata elevata a Basilica Pontificia nel 1987, proclamato anno Mariano da Giovanni Paolo II, ma affonda le sue radici in un passato molto più lontano.

Partendo dalla stessa intitolazione della Madonna, “Dei Martiri”, si può facilmente ricostruire un passato importante per la comunità molfettese: nella città esisteva infatti un complesso costituito dal Monastero della Carnaria, che insieme allo Spedale dei Crociati, così erroneamente definito a causa di trascrizioni errate, dava rifugio a pellegrini denominati martiri per estensione del significato del termine, perché questi morivano in nome della fede. Infatti, il pellegrinaggio non era solo una cammino di fede, ma portava inevitabilmente disagi, difficoltà, penitenze, astinenze, digiuni, facili motivi di morte.

Il santuario della Madonna dei Martiri a Molfetta costituiva un passaggio obbligato tra i due poli più importanti dell’itinerario di pellegrinaggio pugliese: la grotta dell’Arcangelo nel Gargano e la basilica di San Nicola a Bari. Esso infatti, svolgeva soprattutto funzione di ricovero per i più poveri come la maggior parte degli ospizi e degli ospedali, lungo le vie di pellegrinaggio. Nobili e benestanti invece, alloggiavano in case private appartenenti ad amici o familiari o si facevano costruire dei ricoveri. La maggior parte degli ospizi era sotto la protezione della Madonna della pietà o della Misericordia, quasi sempre accompagnati da un piccolo cimitero che dava sepoltura a pellegrini o crociati di passaggio. Questo titolo mariano compare sempre più spesso, in accordo con un concetto di maternità, protezione, verso poveri, sofferenti ed umili, iconograficamente rappresentato da una Madonna con grande mantello che avvolge tutti.

Non esiste una leggenda di fondazione del santuario della Madonna dei Martiri, tuttavia le fonti storiche fanno risalire la messa in opera di un ospizio per i Crociati e una cappella, verso la fine dell’anno Mille, a Ruggero il Guiscardo, a cui solo in seguito sarebbe stato aggiunta la chiesa.[1]

Il primitivo tempio, voluto da Guglielmo I re di Sicilia, fu costruito laddove ancora oggi si trova, in riva al mare. Era formato da una sola navata sormontata da due cupole gemelle, di cui oggi ne rimane solo una che occupa l’attuale abside.

Nel 1700 fu aggiunta una nuova cupola, dietro l’altare maggiore dove oggi si trova il coro. Gli studi condotti fino a questo momento, non sono riusciti a ricostruire con precisione l’architettura della Chiesa, nonostante gli scavi del 1987 su tutta l'area di ponente, alla ricerca di fondazioni precedenti. Secondo la tradizione locale, la pianta è da ricondurre alla seconda metà del XII secolo (1162), quando cioè il Vescovo di Ruvo Ursone (1162-1163) avrebbe consacrato la prima pietra della Chiesa romanica di S.Maria per volere di Guglielmo I, re di Sicilia.

È possibile ricostruire l'aspetto della Chiesa della fine XI secolo ed inizio del XII, comprensiva di campanile e cappelle, seguendo un manoscritto della Visita parrocchiale di Mons. Pompeo Sarnelli oggi proprietà dell'Archivio di S.Maria. La chiesa, così composta, venne distrutta nel XIX secolo per costruire quella che oggi vediamo. Il manoscritto descrive la presenza di una torre forse preesistente alla Chiesa romanica, che aveva funzione di difesa e che fu adibita anche ad uso liturgico. Vi è descritto anche un piccolo giardino con una fontana che oggi è stata ricoperta, senza permetterne più la localizzazione. Il complesso, fin da questo momento, doveva assolvere a diverse funzioni, quali: dimora degli ecclesiastici, degli inservienti, residenza vescovile estiva o alternativa, foresteria per personaggi di rilievo, struttura ricettiva per i devoti della Vergine, per forestieri e pellegrini.[2]

La fisionomia e la destinazione della chiesa così delineate, non subirono cambiamenti di rilievo fino al secolo XIII. Con il Vescovo Filippo del Giudice Caracciolo (1785-1844) e con l’insediamento dei Padri Riformati, si desiderò costruire un nuovo edificio, molto più grande, demolendo il precedente. Il culto della Regina dei Martiri aveva infatti visto un esponenziale incremento presso la comunità molfettese.

Infatti, diverse sono le testimonianze degli storici locali che attribuiscono miracoli individuali e collettivi alla Madonna dei Martiri, in occasione di pestilenze, terremoti o invasione nemiche.

Ad esempio, Anselmo Adorno, influente genovese in Puglia, alla fine del 1470, narra di un prete di Barletta che aveva vissuto in prima persona uno di questi miracoli: una nave era stata colpita da una tempesta e il proprietario, volendo salvare il suo equipaggio, promise alla Madonna dei Martiri metà della nave, già colpita dalle intemperie. Pronunciato il voto apparve la Madonna, l’equipaggio si salvò e la nave giunse in salvo a Corfù.

Un altro evento miracoloso risale al 1485 quando i Turchi invasero la città, mettendo a ferro a fuoco la cappella della Madonna. L’immagine sacra però rimase indenne e i Turchi, adirati per l’accaduto, saccheggiarono la chiesa. La Madonna intervenne e non permise alla nave, carica di bottino, di prendere il largo. I turchi atterriti furono costretti a sbarcare e a riconsegnare tutto ciò che era stato depredato.

Un evento salvifico, decisivo per l’affermazione del culto mariano si ebbe nel 1530, quando la città fu assediata dall'esercito francese. La Madonna apparve sopra le mura, disorientando i soldati e mettendoli in fuga. Questa apparizione permise alla città e ai cittadini, di rimanere incolumi e perciò la popolazione fece voto di celebrare l’11 maggio, ogni anno.

Diversi sono poi i miracoli individuali frequentemente concessi dalla Madonna dei Martiri, quali guarigioni di storpi, ciechi, muti, lebbrosi, partorienti in pericolo di vita, ecc. A Lei, i malati o i loro parenti, facevano voto oppure lasciavano un opulento dono per omaggiarla della grazia ricevuta.[3]

LA MADONNA DEI MARTIRI A MOLFETTA: ARCHITETTURA DI FEDE

Tornando all'aspetto architettonico della chiesa, in epoca neoclassica presentava tre navate, l'Altare Maggiore col quadro della Vergine, il Coro, due cappelle laterali, quella del Rosario e del Santo Sepolcro e cinque altari secondari.

Il concretizzarsi dell’attuale composizione architettonica della basilica, si ebbe intorno al 1851 quando si procedette a rivestire l’interno di stucchi, a seguito degli interventi strutturali che resero la basilica più grande.[4]

L’odierna basilica ha tre navate, con due ordini di colonne. La navata centrale è a tutto sesto decorata con rosoni esagonali incassati, quelle laterali invece presentano delle volte con decorazioni in stucco. Sulla porta di ingresso è posizionata la tribuna con l’organo monumentale.[5]

L’attuale organo sostituisce quello seicentesco del quale, dal 1937, si sono perse le tracce. Le uniche informazioni di cui siamo in possesso, sono quelle derivanti da una visita pastorale effettuata nel 1699, dal vescovo di Bisceglie (BAT) Pompeo Sarnelli, il quale descriveva un organo monumentale in ottone, nella cantoria sull’ingresso principale della basilica, che riportava una iscrizione con il nome del donatore, Francesco Coloredi, e la data, 1680.[6]

Continuando la descrizione dell’odierno santuario, proseguiamo verso le pareti laterali. Su di queste, sono collocati cinque altari in marmi policromi sui quali vi sono opere d’arte contemporanee e antiche. Tra queste possiamo ricordare le tele di G. Porta, “Il transito di S. Giuseppe”, “L’ Adorazione dei Magi, “, “la Visitazione di Maria”.

Celebre è anche l’olio su tela appartenente alla tipologia della Madonna con Bambino, attorno al quale vi sono diverse leggende. Presumibilmente l’opera sarebbe giunta a Molfetta, intorno al 1188 grazie ai Cristiani che avevano combattuto in Terra Santa e che l’avevano sottratta agli infedeli, lasciandola in custodia al santuario in cambio dell’ospitalità ricevuta. Secondo una credenza popolare invece, il quadro sarebbe stato ritrovato in mare da alcuni pescatori locali. Questi, gioiosi per il ritrovamento, vollero donarlo a qualche chiesa della città, ma sulla via del ritorno, si imbatterono in un vascello di Mussulmani, con i quali ingaggiarono battaglia per il possesso dell’opera sacra. Gli avversari se ne impadronirono, ma mentre facevano ritorno alle loro terre, improvvisamente le acque del mare si ritrassero facendo inabissare il vascello. Giorni seguenti i marinai molfettesi, tornarono nel luogo di ritrovamento dell’opera e la pescarono ancora una volta. Riuscirono finalmente a portarla nel santuario della Madonna dei Martiri dove si trova tutt’ora.

Un’altra leggenda legata alla Madonna con il Bambino, vuole invece che essa sia stata dipinta da San Luca in persona, perché del tutto simile all’immagine di Santa Maria Maggiore di Roma. La verità d’altronde, potrebbe essere che sia una imitazione di un originale più antico. Il quadro comunque, nel XVI sec. fu fatto restaurare e abbellito da una cornice d’argento, dall’allora vescovo.[7]

Secondo gli storici, più verosimilmente, l’icona della Madonna dei Martiri fu dipinta, secondo alcuni, su una tavola di cipresso alla maniera greca, per altri, ad olio su un supporto ligneo di cedro. Misura cm 100 x 66 e presenta i due soggetti principali al centro della scena: la Vergine Maria e il Divino Bambino che si stringono in un tenero abbraccio. Sul fondo, negli angoli, compaiono due soggetti marginali ovvero due teste di angeli nimbate.

Maria è rappresentata a mezzobusto, sorregge con il braccio sinistro il Bambino e lo stringe a sé, mentre con la mano destra, poggiata sul petto, sembra volerlo “mostrare” e indicarlo come vera via per la salvezza (tipologia dell’Odegitria). La Vergine tocca con la sua guancia quella del Figlio che risponde in un abbraccio verso la Madre. Va sottolineato come i colori scelti per le tuniche dei personaggi, abbiamo dei precisi scopi iconografici. Il piccolo Gesù indossa una tunica rosso-porpora, colore che ne sottolinea la divinità. Alle sue spalle è possibile notare un lembo della veste che pende verso il basso a significare l’effusione della Grazia Divina, da parte del Cristo, su tutta l’umanità. Anche la Vergine indossa una tunica rosso-porpora e completa il suo abbigliamento avvolgendosi in un manto di un colore blu scurissimo, bordato d’oro. La tunica della Madre di Dio, infatti, è rosso-porpora a indicare la Sua divinità, il blu scuro del manto sottolinea la sua natura umana, mentre le bordature dorate stanno a indicarci la luce sovrannaturale che la avvolge.[8]

All’interno della Basilica della Madonna dei Martiri, come precedentemente spiegato, sono presenti cinque altari in marmi policromi. Di questi, il maggiore, presenta un paliotto in argento. Grazie alle testimonianze pervenuteci, sappiamo he questo fu commissionato a maestranze napoletane intorno al 1669, spendendo una cifra importante che fu raggiunta grazie a prestiti dell’allora Università molfettese.[9]

Di maestranze napoletane, risulta essere anche la splendida statua del Cristo Morto, opera in marmo della scuola di Sannmartino, celebre autore del Cristo Velato. Questa è collocata all’interno dell’antica cappella dell’Annunziata, e costituisce una copia esatta dell’Anastasi di Gerusalemme. La costruzione della cappella è imputabile al XVI sec. commissionata dall’illustre famiglia Lepore. Sulla mensa dell’altere dedicato al sepolcro di Cristo, fino alla fine del Seicento, vi era una statua lignea del Cristo. Sull’altare c’era un’arca di legno con il coperchio aperto. Sulla parte anteriore dell’arca si trovava la statua di Cristo morto avvolto nel lenzuolo con il capo su un cuscino in stoffa. L’interno dell’arca era poi rivestito in seta, che nel corso del tempo, subì un forte deterioramento. Cosi al posto di quella statua lignea, il vescovo Celestino Orlandi, nel 1761 fece collocare quella marmorea. La statua rappresenta Cristo morto sul sudario, con tre chiodi del supplizio accanto ai piedi, e il capo poggiato sul cuscino a quattro nappe.[10]

Concludendo il tour all’interno della Basilica della Madonna dei Martiri, il cappellone della Vergine dei Martiri è ciò che resta dell’architettura medioevale. Sotto l’arco a sesto acuto si trova uno degli altari in marmo, sul quale troneggia l’icona lignea della Madonna, precedentemente descritta. Ai lati dell’altare, incorniciati d a medaglioni in marmo, le tele opera del maestro d’Elia, di S. Corrado, Patrono di Molfetta, e di S. Nicola, Patrono di Bari.[11]

Da tutto quello che è stato raccontato fino a questo momento, si può evincere come non solo la Basilica, ma anche e soprattutto il culto della Madonna dei Martiri a Molfetta rivesta un ruolo particolare nella vita di ciascun fedele ancora oggi. Tale importanza, si perpetua nei secoli a partire da un’antica promessa fatta alla Vergine Maria a seguito della peste che imperversava in Terra di Bari nel 1656 e che continuò a mietere migliaia di vittime per oltre un anno e mezzo. Molfetta ne uscì indenne grazie alla protezione del "Manto Divino" della Madonna dei Martiri e di S. Corrado.[12]

Il giorno 8 settembre di ogni anno, la promessa viene onorata e la Madonna portata in processione, issata su due barche connesse tra loro e trasportata dal porto antico a quello commerciale. La processione dà inizio a una serie di festeggiamenti cittadini che prendono il nome della comunemente conosciuta “fiera”, una ricorrenza annuale irrinunciabile per ogni molfettese.

 

Biografia e sitografia

1 Tripputi A.M., La madonna dei Martiri di Molfetta, Mezzina, Molfetta, 1990.

2 http://www.madonnadeimartiri.it/storia.asp

3 Tripputi A.M., La madonna dei Martiri di Molfetta, Mezzina, Molfetta, 1990.

4 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997.

5 Il santuario della Madonna dei Martiri, Guida del pellegrini, Litografia Falcone, Manfredonia, 1998.

6 Del Vescovo G. A., L’organo seicentesco di santa Maria dei Martiri, in Solenni festeggiamenti della Compatrona Maria SS. Dei martiri, 1998

7 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997

8 Del Rosso G., L’immagine della Madonna dei Martiri - Evoluzione di un’iconografia mariana, in Luce e Vita

9 Pisani C., Il <<voto perpetuo>> fatto dai molfettesi alla Madonna dei Martiri nel 1656, anno della peste, in L’altra Molfetta, anno XXXI n. 9, 2015

10 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997

11 Il santuario della Madonna dei Martiri, Guida del pellegrini, Litografia Falcone, Manfredonia, 1998

12 Pisani C., Il <<voto perpetuo>> fatto dai molfettesi alla Madonna dei Martiri nel 1656, anno della peste, in L’altra Molfetta, anno XXXI n. 9, 2015


TEMPIETTO SAN PIETRO IN MONTORIO

A Roma, in uno degli angoli più suggestivi della città eterna, sul colle Gianicolo, sorge il celeberrimo Tempietto di San Pietro in Montorio, chiamato anche Tempietto del Bramante. L'edificio è situato nel luogo esatto dove, secondo la tradizione, l'apostolo Pietro venne crocifisso a testa in giù.

Dietro la disarmante bellezza del Tempietto vi è Donato Bramante, la costruzione venne infatti, commissionata al grande artista ed architetto di Fermignano. Egli intorno al 1499 arrivò a Roma e qui, grazie al Papa Giulio II, riuscì ad iniziare quelle grandi imprese architettoniche che avrebbero cambiato il volto della città e dato l'avvio all'architettura del Cinquecento.

Nel 1502 il re di Spagna ordinò al Bramante la progettazione del Tempietto, il complesso monastico infatti, apparteneva ad una congregazione spagnola.

DESCRIZIONE

Il Tempietto di San Pietro in Montorio è di piccole dimensioni, sopraelevato rispetto al piano del cortile nel quale è situato. Il corpo centrale cilindrico, la cui muratura è scavata da nicchie con catino a conchiglia e scandita da paraste come proiezione delle colonne del peristilio, è delimitato da 16 colonne tuscaniche trabeate, prelevate da un monumento antico a noi ignoto. Le metope del fregio presentano decorazioni a tema liturgico che rimandano a San Pietro, al di sopra della cornice anulare corre una balconata con balaustra.

Date le piccole dimensioni dell'edificio, all'interno le paraste si dimezzano, diventando otto e si raggruppano a coppie attorno alle quattro piccole finestre lungo due assi ortogonali, lasciando maggior superficie parietale per le porte. La forma cilindrica è in qualche modo trasformata da alte e profonde nicchie, quattro delle quali ospitano piccole statue degli evangelisti. Sull'altare è collocata una statua di San Pietro di anonimo lombardo, il pavimento è a tessere marmoree policrome, nello stile cosmatesco. Tutto lo spazio è coperto con una cupola, progettata in conglomerato cementizio e posta su di un tamburo, ornata da lesene a formare un ordine sovrapposto a quello delle colonne. La costruzione è soprastante una cripta circolare il cui centro indica il luogo dove venne piantata la croce del martirio, asse ideale di tutta la costruzione. Alla cripta si accede con scale esterne realizzate nel XVII secolo mentre originariamente esisteva solo una botola.

Secondo i progetti iniziali, il tempietto avrebbe dovuto inserirsi al centro di un cortile circolare non realizzato (l'attuale è di forma quadrangolare), così da evidenziare la perfetta simmetria dell'impianto e sottolineare la centralità del tempio la cui struttura si radiava nel cortile, proiettando le 16 colonne in altre 16 a formare un portico circolare.

RIFERIMENTI AD ALTRE OPERE

Il lavoro di Bramante è un chiaro rimando all'architettura antica, è consapevolmente modellato sul tempio periptero circolare, utilizzato nell'architettura romana antica e di cui erano ben visibili degli esempi: il Tempio di Vesta nel Foro e il Tempio di Ercole Vincitore. Un altro riferimento di Bramante fu la ben più grande mole del Pantheon, a pianta circolare. In effetti la costruzione del tempietto si pone al centro della ricerca che coinvolse tutti gli architetti del Rinascimento relativa alla pianta centrale come modello per rappresentare la realtà divina ed il cosmo; questo in modo particolare per la forma circolare, espressione concettuale e visiva della "figura del mondo". L'opera architettonica di Bramante trova un parallelo anche in alcune opere pittoriche, tra cui il contemporaneo dipinto di Raffaello, "Lo sposalizio della Vergine", a conferma dell'importanza del tema del tempio circolare nella cultura del primo Cinquecento.

SIMBOLOGIA

Nell'edificio, inoltre, sono state individuate delle simbologie, in particolare nella divisione dei luoghi: la cripta, il sacello e la cupola potrebbero rappresentare nell'ordine: la Chiesa originaria delle catacombe, la Chiesa contemporanea militante e la Chiesa trionfante nella gloria. Ancora, altri elementi simbolici si denotano nei numeri: sul perimetro del tempietto vi sono 16 colonne,  numero  considerato perfetto da Vitruvio, inoltre il numero 16 è scomponibile anche in 8+8 e l'8 è un numero estremamente simbolico che significa infinito ma anche morte e resurrezione.

L'edificio e la maestria del Bramante non passarono inosservati: nel 1570 Andrea Palladio, che aveva inserito il Tempietto fra quelli antichi nel suo "I quattro libri dell'architettura", si giustificò affermando che Bramante era "stato il primo a metter in luce la buona, e bella Architettura, che dagli Antichi fin'a quel tempo era stata nascosta".

BIBLIOGRAFIA

Storia dell'arte italiana-Bertelli, Briganti, Giuliano-Electa Mondadori

Itinerario nell'arte-Giorgio Cricco-Zanichelli


ABBAZIA DI SANTA MARIA DI CORAZZO

Il monastero, lambito dai torrente Amato e dal torrente Corace immerso nel cuore della Sila Piccola presso la frazione Castagna di Carlopoli in provincia di Catanzaro, fu fondato nel 1060, durante l’ambizioso progetto di rilatinizzazione territoriale, ad opera di Roberto il Guiscardo.

Tra il XIV e il XVI secolo, l’abbazia divenne un centro di snodo e di controllo importante per tutto il territorio, nonostante alternanze di periodi economici non propriamente floridi.

Realizzato in pietra locale e laterizi, la chiesa è orientata con la zona sacra ad est e l’ingresso ad ovest rialzata rispetto al resto del monastero. La pianta a croce latina con abside rettangolare e transetto ha navata centrale e unica, su cui si aprono due cappelle e due ambienti minori. A settentrione è ancora presente la Porta dei morti che conduce al cimitero monastico, verso sud è visibile la scala che portava al dormitorio da cui è ancora possibile ammirare i resti delle celle monastiche. Ad Ovest, infine, all’interno della chiesa, si trovavano il coro dei monaci, i banchi degli infermi, il pulpito e il coro dei conversi.

Tra gli spazi dell’abbazia probabilmente è il chiostro che rappresentava il fulcro della vita dei monaci, soprattutto per la sua funzione religiosa. Si trattava dell’ambiente che metteva in comunicazione le zone claustrali isolate dall’esterno riunendole in un unico nucleo riservato, così come la funzione architettonica vuole.

Intorno all’anno 1000, il complesso passò all’ordine monastico dei Cistercensi e con essi raggiunse il punto più alto del suo splendore proprio nella prima metà del XIII sec.

Diversi personaggi hanno visitato e soggiornato nei locali dell’abbazia tra cui il filosofo, nato a Stilo, Gioacchino da Fiore, citato da Dante nella Divina Commedia, il quale ne divenne anche abate dal 1177 fino al 1187; dal 1561 al 1564, invece, ospitò il filosofo Bernardino Telesio, il quale terminò gli studi per poter completare la sua monumentale opera, De rerum natura iuxta propria principia, la leggenda vuole che proprio qui trovò l’ispirazione per dare il via al suo componimento.

Come ogni struttura monastica che si rispetti, in un periodo in cui il culto delle reliquie è il centro su cui la religione ruota la propria attività di propaganda religiosa e di gestione delle donazioni, l’interno dell’Abbazia di Santa Maria di Corazzo custodiva importanti reliquie, tra le quali frammenti lignei della croce di Cristo, le vesti di Gesù, una pietra del Santo Sepolcro e una ciocca di capelli di Maria Maddalena, cimeli giunte fin qui per opera probabilmente dei Cavalieri Templari, un ordine molto attivi in territorio calabro.

Come quasi spesso accade, la maestosità e l’importanza di questo centro finì per proseguire verso un lento ma inevitabile declino. Basti pensare alla peste del 1348 che colpì l’intera regione e al terremoto dell’anno successivo che segno anche strutturalmente l’edificio. Seguirono la guerra tra Napoli e il regno di Sicilia nel 1372 e lo scisma d’Occidente, tra il 1378 e il 1417, che portò una serie di turbamenti tra le congregazioni religiose di voga nel periodo.

Il 500 non fu un secolo migliore; per via delle commende ecclesiastiche molte fabbriche dell’Abbazia chiusero e i latifondisti locali e i nobili locali specularono privi di scrupoli provocando l’impoverimento della popolazione locale. Nonostante tutto, nello stesso periodo, gli abitanti del villaggio di Castagna decisero di autotassarsi per finanziare i lavori di restauro della Chiesa e dell’Abbazia. La ripresa fu labile e il 600 dà il via al definitivo declino dell’abbazia, finché il 27 Marzo 1638, la vigilia del giorno delle Palme, un terremoto di altissima entità colpisce la Calabria, radendo al suolo Il monastero e la chiesa.

Trascorso un decennio dal terribile sisma, l’Abate commendatario Ginetti cercò di puntare sulla rinascita di Corazzo richiamando a sé artisti della scuola napoletana al fine di ricostruire gli ambienti sia del monastero che della chiesa. Risalgono proprio a questo periodo, con molta probabilità, le opere che attualmente sono sparse nei territori limitrofi, si tratta di marmi di Gimigliano, decorazioni religiose, immagini sacre, affreschi e dipinti.

Quando tutto sembrava rifiorire, nel 1783 un ulteriore terremoto distrugge entrambi gli edifici da poco ricostruiti. Come se non bastasse, nel 1807 i francesi emanano una legge per la soppressione degli ordini monastici di San Benedetto e di San Bernardo e nello stesso anno, con decreto di Gioacchino Murat, i possedimenti dell’Abbazia di Santa Maria di Corazzo passano al demanio pubblico.

La tormentata storia dell’Abbazia di Santa Maria di Corazzo finisce nel 1808, nel momento in cui fu soppressa da un decreto del governo del Re di Napoli Giuseppe Bonaparte.

Attualmente il magnifico rudere dell’Abbazia di Santa Maria di Corazzo è meta di numerosi turisti e conserva il fascino di un tempo lontano totalmente immerso nella natura. Inoltre, molti degli arredi sono stati recuperati e riutilizzati come nel caso dell’altare maggiore in marmi policromi, una delle due acquasantiere in marmo e sei candelabri lignei che attualmente si trovano nella Chiesa di San Giovanni Battista a Soveria Mannelli, oppure dei due altari lignei conservati nella Chiesa di San Giacomo a Cicala e ancora dell’organo e dell’altorilievo in marmo con Madonna col Bambino attualmente custoditi nella Chiesa dello Spirito Santo della frazione Castagna di Carlopoli.

 

Bibliografia e sitografia

https://samueleanastasio.it/2018/04/27/il-monastero-cistercense-di-corazzo/

http://www.comune.carlopoli.cz.it/index.php?action=index&p=279

https://www.sergiostraface.it/i-tesori-dell-abbazia-di-santa-maria-di-corazzo-di-castagna-in-calabria/

Fotografie gentilmente offerte dal dott. Samuele Maria Anastasio, archeologo medievista.


INTRODUZIONE ALL'ARCHEOLOGIA DELL'ABRUZZO

Questo primo articolo nasce per essere una guida nel mondo dell’archeologia sul territorio abruzzese, per far sì che tutti possano scoprire le meraviglie di questa regione. Il periodo che prenderemo in analisi va dai primi segni di occupazione del territorio fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente.

La sua particolare morfologia ha permesso a moltissime civiltà di stanziarsi in questa regione, dando vita ad una moltitudine di culture e tradizioni diverse. Queste popolazioni si suddividono in: Marrucini, che si stanziarono alle pendici della Majella, Equi che occupavano la zona montuosa del Fucino, i Frentani che si stabilirono nella fascia costiera tra Ortona (CH) e Termoli (CB), i Carricini che occupavano l’area del basso Abruzzo a confine con il Molise, i Marsi che hanno dato il nome a quello che oggi è conosciuto come “Territorio della Marsica”, i Peligni, che si stanziarono nell’area occidentale della Majella, i Sanniti che occupavano l’area dell’aquilano a confine con il Molise, i Petruzi che vivevano nel territorio compreso tra i fiumi Salinello e Vomano (TE), i Sabini che occupavano un territorio tra Rieti e L’Aquila e infine i Vestini che si stabilirono nella parte sud occidentale dell’Abruzzo. I primi segni di civiltà li troviamo a partire dal I millennio a.C. (fase di formazione): si tratta di grandi impianti di necropoli a forma circolare, con tombe a singola inumazione, ricoperte da tumuli e circondate da pietre e da file di stele (lastra oblunga elevata) in pietra. La necropoli più importante, utilizzata tra il IX e il I secolo a.C., la troviamo nella zona di Fossa (AQ) dove sono state rinvenute circa cinquecento tombe circondate da file di stele poste in ordine decrescente. (fig.1) Questa tipologia di lastra era riservata solo agli uomini adulti e questo ha permesso di capire la tipologia delle sepolture di quel territorio.

Fig 1. Necropoli di Fossa (AQ)

A partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. (fase orientalizzante e arcaica) troviamo dei corredi più complessi all’interno delle necropoli, questo è probabilmente dovuto allo sviluppo di classi aristocratiche ora organizzate attorno a capi guerrieri, che venivano spesso sepolti con carri o oggetti pregiati di importazione per lo più etrusca. Aumenta il numero di tombe a circolo di notevoli dimensioni che riflettono molto probabilmente una divisione degli abitati; troviamo sepolture maschili con panoplie (insieme assortito di armi), spesso in ferro, e sepolture femminili caratterizzate da parures. Inoltre sono stati rinvenuti nelle sepolture anche oggetti di vasellame metallico, oreficerie, avori, ambre, servizi per la cottura delle carni e per il simposio (banchetto). La necropoli più importante in uso in questo periodo è sicuramente quella di Campovalano (TE), in cui sono state riportate alla luce più di duecento tombe riferibili al VII e VI secolo a.C. Le tombe sono tutte a fossa rivestite di lastre e, lateralmente, con lastre-guanciali riempite di pietre e lastroni. (fig.2) Il corredo seguiva quasi sempre uno schema ben preciso: il vasellame veniva collocato presso il capo e i piedi, lungo i fianchi invece venivano posti utensili metallici, mentre armi e ornamenti erano posti sul corpo. Un altro sito importante di questo periodo lo troviamo a Loreto Aprutino (PE). Questo si differenzia da quello di Campovalano poiché il corredo funebre maschile è meno ricco mentre quello femminile è molto più variegato e complesso, con abbigliamenti caratteristici e pettorali a maglia di bronzo e la ceramiche di provenienza etrusca. Un altro sito funebre lo troviamo presso Alfedena (AQ) in cui sono state rinvenute pochissime ceramiche di importazione e dove l’armamento tipico era caratterizzato dal kardiophylax (una disco-corazza a difesa del cuore, i due dischi erano realizzati con una lamina di bronzo all’esterno e una di ferro all’interno, collegate da una cintura di cuoio) con decorazioni teriomorfi “a collo di cigno” sulla parte esterna. (fig.3) Nel corredo femminile troviamo lunghe catenelle di fasce a maglie che scendono dal petto alle ginocchia con motivi a spirale e pendagli con motivi simili al kardiophylax. (fig.4).

Fig 2. Necropoli di Campovalano (TE).
Fig 3. Kardiophylax della necropoli di Alfedena (AQ).
Fig 4. Corredo femminile della necropoli di Alfedena (AQ).

Tra il VI e V secolo a.C. (fase arcaica) vengono a formarsi i primi gruppi etnici, ognuno dei quali guidati da un proprio principes: per tramandare il loro ricordo vengono realizzate monumentali sculture. Tra questi, uno degli esempi più lampanti e meglio conservato è “Il guerriero di Capestrano” (fig. 5) rinvenuto a Capestrano (CH) nel 1934. Si tratta di una stele-statua probabilmente utilizzata come segnacolo. La statua, alta circa due metri, rappresenta probabilmente il momento dell’esposizione del cadavere che viene tenuto in piedi da due lance; la parte anatomica è molto grossolana mentre molto dettagliati sono l’ornamento del guerriero (collare e bracciale) e l’armamento (dischi-corazza, cinturone, spada e ascia) e troviamo tracce di policromia. Sempre nei pressi di Capestrano è stato rinvenuto un busto femminile (fig.6) con un accurata resa di abbigliamento (corpetto fissato da fibule ad una mantellina e cintura) e, anche in questo caso, sono presenti tracce di colore. Entrambe le statue-stele possono essere datate intorno al VI secolo a.C. La stele più antica ritrovata nel territorio abruzzese è quella di Guardiagrele (CH) datata intorno alla metà del VII secolo a.C. Si tratta di una lastra rettangolare con gli ornamenti incisi e la testa sormontante.

A partire dalla fine del V secolo a.C. inizia un inesorabile processo di esaurimento di queste produzioni e, le continue invasioni del IV secolo da parte dei Celti, portarono ad una destrutturazione politica e sociale sul territorio. Si diffondono i primi luoghi di culto collettivi, situati di norma in luoghi di confine, che vengono frequentati da popoli diversi con finalità di incontro o scambio. Lo sviluppo della religione porta all’antropomorfizzazione delle divinità e questo lo sappiamo grazie al ritrovamento di bronzetti umanizzati sia maschile che femminili. Uno dei santuari più importanti risalenti al IV secolo a.C. è quello dedicato a Ercole Curino, protettore di sorgenti, acque salutari e dei mercati, situato nei pressi di Sulmona (AQ). Il santuario (fig.7) era situato lungo la via che collegava Roma agli Appennini e si sviluppava su due piani: la parte inferiore presentava quattordici stanze mentre la parte superiore ospitava il Sacello (piccolo recinto circolare o quadrato). All’interno del santuario troviamo tratti di policromia lungo le pareti mentre sul pavimento si può notare un mosaico di stile ellenico che raffigura intrecci di vite, torri, onde e delfini. (fig.8).

Intorno al III secolo a.C., con l’espansione della potenza militare di Roma, il territorio passò sotto l’influenza dell’Urbe e questo, all’inizio del I sec, portò i popoli abruzzesi ad allearsi con i Sanniti e a creare la “lega italica” ossia una coalizione militare che puntava a ottenere i diritti di cittadinanza romana. Insieme, posero la loro capitale presso Corfinium, l’attuale Corfinio (AQ), dove venne coniata una moneta d’argento (fig.9) recante per la prima volta il nome “Italia” (Viteliù). Nell’89 a.C., dopo due anni di battaglie e nonostante la vittoria dell’esercito romano, la lega italica ottenne il diritto di cittadinanza. Durante il periodo sotto l’influenza romana, molte delle città italiche più importanti vennero trasformate in municipia: Amiternum (vicino l’Aquila), Teate (Chieti), Anxanum (Lanciano), Histonium (Vasto), Sulmo (Sulmona), Interamnia Praetutiorum (Teramo), Corfinium (Corfinio), Pinnae (Penne), Alba Fucens (vicino Avezano) e Murrivium (San Benedetto dei Marsi). È in queste città che possiamo trovare importanti resti archeologici come teatri, anfiteatri, templi e terme. Uno dei più importanti siti archeologici è sicuramente quello di Alba Fucens, una colonia latina fondata nel 303 a.C., che si trova nell’attuale frazione di Massa d’Albe (AQ). Gli scavi condotti prima dagli studiosi belgi e poi dalla Soprintendenza dei Beni Culturali, hanno portato alla luce i resti di un abitato circondato da mura, i resti di un anfiteatro datato intorno al I secolo d.C. e sul colle sono stati rinvenuti resti di quello che doveva essere un tempio dedicato ad Apollo. (fig.10). Un altro sito di particolare importanza è quello di Amiternum dal quale sono emersi i resti di un abitato con importanti strutture come un teatro, un anfiteatro, un complesso termale e un acquedotto. L’anfiteatro (fig.11) fu realizzato verso la metà del I secolo d.C. e ospitava circa seimila spettatori; quello che ne rimane oggi sono le quarantotto arcate su due piani che delimitavano il perimetro. Il teatro costruito in età augustea poteva contenere fino a duemila spettatori e, ad oggi, restano la parte inferiore della cavea, l’orchestra e la scena.

Fig 9. Moneta d'argento.
Fig 10. Sito archeologico di Alba Fucens (AQ).

Durante il regno augusteo, intorno al 7 d.C., l’Italia romana fu divisa in undici territori e il territorio dell’attuale Abruzzo fu separato tra la Regio IV Samnium che comprendeva gran parte dell’Abruzzo e del Molise e la Regio V Picenum situata nell’attuale provincia teramana. Il territorio abruzzese entrò in contatto con la nuova religione che si stava sviluppando, il cristianesimo, e questo lo sappiamo grazie alle fonti ritrovate che ci narrano delle persecuzioni avvenute nei pressi di Interamnia (Teramo). Grazie a questi documenti, sappiamo anche che questa nuova religione ebbe molta difficolta a penetrare nelle zone montuose a causa dello stile di vita più conservativo rispetto alla costa. Fu solo con l’editto di Milano (313 d.C.) e quello di Tessalonica (380 d.C.) che si vengono a formare vere comunità cristiane nel territorio e molte delle basiliche di stampo romano presenti vennero riutilizzate per svolgere riti e funzioni cristiane. L’inesorabile declino dell’impero romano colpì in particolar modo tutta la penisola italica e, di conseguenza, anche il territorio abruzzese che subì una profonda crisi economica dovuta al crollo dell’agricoltura che portò all’abbandono di numerosi centri abitati e al ridimensionamenti di quelli più grandi. Nel 476 d.C, con la deposizione di Romolo Augustolo da parte del generale Odoacre, calò il sipario su quella che è stata una delle massime potenze che la storia abbia mai conosciuto: l’Impero Romano d’Occidente.

 

SITOGRAFIA:

beniculturali.it

beniculturali.marche.it

centrostoricocb.it

comunedicapestrano.it

comunedifossa.it

majellando.it

molise2000.wordpress.com

roma-victrix.com

sabap-abruzzo.beniculturali.it

turismo.provincia.teramo.it

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cappelli R. Faranda, Storia della Provincia di Teramo dalle origini al 1922, Teramo, 1980

ANTON MARIA MARAGLIANO

Anton Maria Maragliano è stato il più importante artefice della scultura lignea genovese di età tardobarocca, autore di sculture devozionali, pale d'altare, statuette per il presepe, raffinato mobilio, immagini allegoriche, crocifissi e, soprattutto, enormi macchine processionali composte da gruppi scultorei, che necessitano di innumerevoli uomini per essere trasportate, come accade tutt'oggi nelle ricorrenze religiose.

Maragliano è il regista della devozione delle “casacce” liguri (confraternite religiose formate da laici, spesso in competizione fra loro, che hanno come sede un oratorio): questo è verissimo, ma sarebbe scorretto accostarlo solo ad una dimensione popolare, infatti egli lavorò anche per famiglie aristocratiche.

Cenni biografici

Nonostante gli approfonditi studi compiuti sull'artista, la sua vita rimane, ancora oggi, in gran parte un mistero. Si è cercato di ricostruirla grazie ai documenti emersi dagli archivi e ad un capitolo a lui dedicato da Carlo Giuseppe Ratti (artista e autore del 1700) nella sua raccolta di biografie sugli artisti locali sul modello di Giorgio Vasari, pubblicata nel 1762; tuttavia rimangono ancora molti dubbi e problemi.

Anton Maria Maragliano nasce a Genova nel 1664 in una famiglia mediamente agiata; il padre, Luigi, panettiere, non può però permettersi di avviare i figli agli studi: Anton Maria rimane di fatto analfabeta.

All’età di 16 anni viene messo a bottega dallo zio G. Battista Agnesi, scultore notevole (secondo Ratti frequentò anche la bottega di un certo Arata, definito modesto) che impartisce al giovane le prime nozioni sulla lavorazione del legno. Qualche anno dopo lo ritroviamo a collaborare con la fiorente bottega di Giovanni Antonio Torre (le modalità della collaborazione rimangono sconosciute) dove Maragliano inizia ad affinare la propria tecnica e a elaborare uno stile del tutto personale.

Nel 1688, Maragliano, ventiquattrenne, chiedeva, tramite una “supplica” rivolta al Senato della Repubblica di Genova, di potersi sottrarre all'obbligo di iscriversi all’arte dei bancalari (cioè dei falegnami, alla quale erano tenuti ad iscriversi anche gli scultori del legno), poiché l’artista sosteneva che la scultura in legno fosse, tra le arti liberali, la più nobile, allo stesso livello della pittura, lasciando trasparire un carattere orgoglioso e una grande consapevolezza di sé. Non conosciamo l'esito della causa, ma rimane il fatto che Anton Maria non risulterà mai iscritto alla suddetta corporazione. Circa nello stesso periodo, aprì una personale bottega e già nel 1692 assunse il primo aiutante, per poi trasferirsi dal 1700 nella celebre bottega di via Giulia, (oggi scomparsa per la costruzione di piazza De Ferrari e il taglio di Via XX Settembre) dalla quale fino alla sua morte e oltre uscirono enormi quantità di sculture, realizzate con l'aiuto di innumerevoli collaboratori. Spirò nel 1739 lasciando la gestione della bottega al nipote.

Panorama artistico e opere

La scena artistica genovese di fine ‘700 era dominata in pittura dai membri di “Casa Piola”, laboriosa bottega che vantava esponenti del calibro di Domenico Piola (il capobottega, ormai anziano), il figlio Paolo Gerolamo e Gregorio De Ferrari. Questi artisti, come Filippo Parodi in scultura, erano venuti in contatto con la rivoluzione artistica berniniana, una cultura figurativa che essi studiarono sia a Roma, sia tramite le opere di un grande scultore come Pierre Puget, che in dieci anni di attività, lasciò nella “Superba” poche, ma mirabili, sculture.

È in questo vivace contesto che Maragliano rivoluziona la scultura in legno: le sue opere sono il frutto di una stretta collaborazione con gli artisti genovesi sopraccitati, che in molti casi fornivano anche i disegni progettuali per le sue sculture.

Le opere di Anton Maria sono teatrali e ricche di forza patetica, in pieno stile Barocco, inoltre si allineano ai dettami della controriforma: i suoi personaggi sono facilmente riconoscibili dai tipici attributi che li contraddistinguono e sempre raffigurati in un evento particolarmente significativo della loro vita (es. figura 1: Giovanni Battista, rappresentato nel momento del suo martirio per decapitazione) e possiedono una forte espressività, di grande impatto, mirata a coinvolgere emotivamente il fedele che le osserva (es. figura 2: Compianto sul Cristo morto).

La cassa processionale eseguita nel 1694 per la confraternita di Celle Ligure (figure 3 e 4) è considerata il suo capolavoro giovanile. I modelli di questo simulacro non sono da ricercare nei precedenti in legno, bensì nelle tele di Gregorio De Ferrari, in particolare quella posta su un altare laterale della chiesa di Santa Maria delle Vigne a Genova (figura 5). Non si era mai visto prima nulla di simile: l’avvitamento del corpo di Lucifero e il volo soave dell’arcangelo conquistano lo spazio in ogni direzione, le figure sono in forte contrasto tra di loro: San Michele è un giovane bellissimo dai riccioli finemente lavorati grazie ad un sapiente uso della sgorbia, la pelle chiara, l'espressione pacata, vestito con una corazza dorata, compie una torsione nell'atto di planare sul diavolo, i capelli e le frange del gonnellino sono sferzate dal vento. Lucifero, invece, è paonazzo, le unghie affilate, i muscoli contratti, i capelli scompigliati e il volto, deformato dalla rabbia, si esibisce in un urlo terribile.

Figura 5 – Gregorio De Ferrari, S. Michele Arcangelo sconfigge il demonio, Genova, S. Maria delle Vigne.

Il San Sebastiano realizzato nel 1700 per la confraternita della Santissima Trinità di Rapallo (figura 6), invece, è un omaggio alla più bella opera che Pierre Puget aveva lasciato a Genova (in particolare nella basilica di Nostra Signora Assunta nel quartiere di Carignano, figura 7) raffigurante il medesimo soggetto, ma in marmo, realizzata tra il 1664 e il 1668. Il San Sebastiano di Maragliano è stato protagonista, nel 2018, di una grande mostra al Metropolitan Museum of Art di New York intitolata “Like Life: sculpture, colour and the body"; la fermezza dei curatori che per aggiudicarsi l'opera in prestito non hanno esitato a sborsare un'importante cifra (utilizzata per il trasporto ed il restauro) invita a riflettere.

Le casse processionali di Maragliano sono, talvolta, talmente affollate di personaggi e sculture di ogni tipo da raggiungere notevoli dimensioni e altezze: ne è un esempio la cassa che rappresenta Sant'Antonio in visita a San Paolo Eremita (figure 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14) realizzata nel 1709/1710 per l’oratorio di Sant'Antonio Abate, che è forse il più grande capolavoro del maestro per complessità, dimensioni e qualità dell'intaglio: il gruppo narra del momento in cui, secondo la leggenda, Antonio Abate recatosi nel deserto per far visita a Paolo Eremita, di veneranda età, giunge proprio nel momento del decesso di quest'ultimo e si ferma ad osservare la salma senza vita consumata dagli stenti dell'eremitaggio. Il pesante basamento è finemente scolpito a simulare un terreno roccioso ed è cosparso di intrecci vegetali e piccoli rettili, simboli allegorici della resurrezione. I personaggi possiedono i loro tipici attributi: il maialino, la mitria e il pastorale per S. Antonio; il fuoco e il teschio, simboli della vita eremitica, per S. Paolo; i due leoni, invece, sempre secondo la leggenda, scavano la fossa al posto di Antonio, stanco per il lungo viaggio. Ciò che Sant'Antonio non può vedere, ma è esclusivo privilegio di chi osserva, è la grandiosa gloria angelica che si innalza sopra al defunto e rappresenta l’anima dello stesso che ascende al cielo. Per realizzare questa complessa opera, Anton Maria, ricorre a un ingegnoso sistema di incastri tra le membra degli angeli e le nuvole, oltre che a sostegni strutturali in ferro, abilmente celati all’occhio di chi guarda, dimostrando di saper brillantemente superare anche le più complesse problematiche statiche.

Figura 12

Maragliano si cimentò spesso, nell'arco della sua vita, nel tema della crocifissione (figure 15, 16). I crocifissi del maestro presentano canoni ben precisi, a partire dal corpo smagrito che esibisce un’anatomia indagata nei più piccoli dettagli, mentre il bacino si sposta, in maniera più o meno accentuata a seconda dell'opera, sull'esterno ed è sempre avvolto da uno svolazzante perizoma. Ma è certamente nei volti (figure 17, 18) che si può cogliere con maggior precisione la personale firma di Maragliano: il naso dritto e a punta, gli occhi sporgenti, l'arcata sopraccigliare marcata e tondeggiante, capelli mossi con qualche ciocca che cade disordinata su un lato, seguendo l'andamento della testa, l'espressione aulica che trasmette serenità. Uno degli esemplari meglio riusciti è il crocifisso eseguito per la cappella dei signori Squarciafico (figura 16) nel transetto sinistro della chiesa di Santa Maria delle Vigne nei vicoli di Genova.

Oltre che nell’iconografia del Crocifisso morto, Maragliano eseguì anche un buon numero di Crocifissi in procinto di morire, detti “spiranti", drammatici ed espressivi, più adatti ad essere portati in processione. Un magnifico esempio è il crocifisso di San Michele di Pagana (Rapallo) scolpito nel 1738 (figura 19).

Figura 19 - Anton Maria Maragliano, crocifisso, 1738, legno scolpito e dipinto, S. Michele di Pagana, Rapallo (GE).

Conclusione

L'opera di Maragliano divenne un modello imitato per molti anni a venire ed ancora oggi le sue statue sono considerate modelli di bellezza inarrivabili alle quali ispirarsi, specialmente per ciò che riguarda la devozione popolare. Dal novembre 2018 fino al marzo 2019, in alcuni spazi del Palazzo Reale di Genova, è stata allestita un’importante mostra monografica sull’autore, a cura del professor Daniele Sanguineti dell'università di Genova, per celebrare un artista che rappresenta una coscienza collettiva per i genovesi, i quali tutt'oggi si fregiano di possederne un'opera, grande o piccola che sia, nel proprio oratorio o chiesa di quartiere, da poter tramandare alle generazioni future.

Fonti:

Anton Maria Maragliano, 1664-1739, “insignis sculptor Genue”, Daniele Sanguineti. Sagep.

Lezioni del corso di “storia dell'arte della Liguria in età moderna" con Laura Stagno.


DOMENICO ZAMPIERI DETTO IL DOMENICHINO

Il Domenichino

Domenico Zampieri nome d'arte del Domenichino nacque a Bologna il 21 Ottobre del 1581. In giovane età mostrò interessi artistici portando il padre a fargli frequentare la bottega bolognese del pittore fiammingo Denijs Calvaert. Assieme a lui studiarono anche Guido Reni e Francesco Albani con il quale condividerà l’inclinazione classicista. Nel 1595 Domenichino venne cacciato dalla bottega di Calvaert dopo che quest’ultimo sorprese il pittore felsineo a copiare delle stampe di Agostino Carracci. Trovò successivamente ospitalità presso l’Accademia degli Incamminati dove in quel momento vi operavano Ludovico e Agostino Carracci, visto che Annibale si trovava a Roma per le decorazioni di Palazzo Farnese. Successivamente all’Accademia giunsero anche l’amico Francesco Albani e Guido Reni che assieme a Ludovico Carracci e al Domenichino  affrescarono l’oratorio di San Colombano di Bologna nel 1600, attribuendo a quest’ultimo la Deposizione nel sepolcro1. L’anno successivo si trasferì a Roma, raggiungendo l’Albani per studiare le opere di Raffaello e collaborare con Annibale Carracci. Con lui collaborerà a Roma fino al 1609, anno della morte di Annibale. In questo periodo diverrà molto amico con il cardinale Girolamo Agucchi per cui dipingerà la Liberazione di Pietro2 del 1604, nella chiesa di San Pietro in Vincoli, ottenendo sempre in quell’anno la prima commissione pubblica a Roma per i tre affreschi nella Chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo e partecipa ai lavori di decorazione della Galleria di Palazzo Farnese portando a termine la Fanciulla e l’Unicorno3 per la serie degli Amori degli Dei, e tre paesaggi mitologici tra cui La morte di Adone.

Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3

Verso la fine del primo decennio del 1600 vennero realizzati altri capolavori a fresco come la Flagellazione di Sant’Andrea4 per San Gregorio al Celio (1608), le Storie di Diana5 nel palazzo Giustiniani a Bassano Romano (1609) e grazie all’appoggio di monsignor Giovanni Battista Agucchi, segretario del “cardinal nepote” Pietro Aldobrandini, nonché fratello del cardinale Girolamo Agucchi ottenne la commissione per affrescare la Cappella dei Santissimi Fondatori, nell’Abbazia di San Nilo a Grottaferrata con le storie del santo6 terminata nel 1610. Sempre in quell’anno portò a termine su tavola, il Paesaggio con san Girolamo7 dove notiamo come il leone proviene da una xilografia di Tiziano, a conferma che nelle pitture di paesaggio il Domenichino rivolgeva l’attenzione verso l’arte veneziana.

Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6a
Fig. 6b
Fig. 6c
Fig. 6d
Fig. 6e
Fig. 7

Nel 1611 Pierre Polet gli commissionò la decorazione della cappella della propria famiglia in San Luigi dei Francesi con le Storie di Santa Cecilia8, prendendo come esempio per le figure le statue classiche e l’opera di Raffaello, l’Estasi di Santa Cecilia. Porterà a termine questa commissione nel 1614. Sempre quell’anno portò a termine la tela raffigurante la Comunione di San Gerolamo9 (Pinacoteca Vaticana) eseguito per l’altare maggiore di San Girolamo della Carità. Questo dipinto presenta una forte relazione con la tela di Agostino Carracci incentrata sempre sulla comunione del santo che si trova a Bologna, riprendendo l’uso di colori raffinati e, rispetto al Carracci, invertendo la composizione e diminuendo il numero delle figure presenti. Nel 1615 portò a termine l’Angelo Custode10 per una chiesa di Palermo (Museo Capodimonte, Napoli) mentre l’anno successivo, ancora una volta il monsignor Agucchi gli diede l’incarico di decorare una serie di paesaggi11 per la villa Aldobrandini a Frascati (National Gallery, Londra), trovando anche il tempo di dirigersi a Fano per compiere l’affresco con le Storie della Vergine12 nella cappella Nolfi del Duomo della città.

Fig. 8
Fig. 8b
Fig. 8c
Fig. 9
Fig. 10
Fig. 12a
Fig. 12b

Nel 1617 il pittore ricevette il pagamento per il completamento della Caccia di Diana13 e la Sibilla Cumana14 entrambi commissionati dal cardinal Pietro Aldobrandini (Galleria Borghese, Roma) e vide posta l’Assunta15 nel soffitto della chiesa di Santa Maria in Trastevere. La Caccia di Diana sebbene destinata alla collezione del cardinal Aldobrandini finì in quella del cardinal Scipione Borghese, impossessandosene con la forza dopo il rifiuto e il successivo incarceramento per alcuni giorni del Domenichino. L’opera tratta una scena dell’Eneide (V, 485-518) e si può notare come il pittore rielabori lo stile dei Baccanali tizianeschi, la sensualità delle opere del Correggio e la limpidezza raffaellesca. Dopo quanto accadutogli, il Domenichino lasciò Roma nel 1618 per dirigersi a Bologna dove completò la Pala della Madonna del Rosario16 (Pinacoteca Nazionale, Bologna) prima di trasferirsi a Fano per poi tornare nella sua città natale e sposarsi con Marsibilia Barbetti.

Fig. 13
Fig. 14
Fig 15
Fig. 16

Il Domenichino venne richiamato a Roma nel 1621 da papa Gregorio XV, venendo nominato architetto generale della camera apostolica, senza progettare nessun edificio. L’anno seguente ottenne l’incarico di affrescare i pennacchi17 e il coro della basilica di Sant’Andrea della Valle e qualche anno dopo di dipingere l’abside con le storie del santo18. In questa impresa notiamo come si sia discostato dal suo linguaggio classico avvicinandosi ad un recupero della resa atmosferica caratteristica di Ludovico Carracci. Anche nella realizzazione degli evangelisti sui pennacchi il pittore rimanda a tratti raffaelleschi, michelangioleschi e correggeschi, mentre per gli episodi del santo c’è un rimando alle opere del maestro bolognese. Il tutto venne portato a termine nel 1628.

Fig. 17a (cupola del Lanfranco).
Fig. 18a

Mentre porta a compimento l’incarico di Sant’Andrea della Valle, produceva altre tele come le Storie di Ercole (Louvre), il Rimprovero di Adamo ed Eva19, iniziato nel 1623 e terminato un decennio dopo, la Conversione di San Paolo per il duomo di Volterra, il martirio di San Sebastiano, ora in Santa Maria degli Angeli (prima nella basilica di San Pietro) e il Martirio di San Pietro da Verona20 del 1626 (Pinacoteca Nazionale, Bologna). Sempre nel 1628 inizia gli affreschi dei pennacchi21 per San Carlo ai Catinari raffiguranti le quattro virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza) conclusi nel Giugno del 1630.

Fig. 19
Fig. 20
Fig. 21a
Fig. 21b
Fig. 21c

Nel Giugno dello stesso anno il pittore parte alla volta di Napoli con moglie e figlia dopo aver accettato l’incarico per la Cappella del Tesoro del Duomo offerto dai Deputati della Cappella del Tesoro di San Gennaro. Non apprezzato dal Viceré e invidiato dagli altri artisti napoletani presenti in quel periodo, nel 1634 lasciò Napoli dirigendosi a Frascati ospitato nella Villa Aldobrandini, anche se all’inizio dell’anno successivo dovette rientrare nella città partenopea dopo che i Deputati del Tesoro di San Gennaro sequestrarono la moglie e la figlia del pittore. Fino al 1641 il Domenichino lavorò alla realizzazione dei pennacchi22 raffiguranti la Vita di San Gennaro nella Cappella, morendo il 3 Aprile dello stesso anno.

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/domenichino_%28Dizionario-Biografico%29/