CHIESA DI SAN MARCO A ROSSANO CALABRO

A cura di Antonio Marchianò

La piccola chiesa di San Marco sorge all'estremità sud-orientale nel centro storico di Rossano su un banco di roccia tufacea. Edificata intorno al X secolo, probabilmente dopo il terremoto che colpì Rossano nel 950 d.C., la chiesa di San Marco è considerata uno dei massimi esempi di architettura religiosa bizantina in Calabria. Originariamente nasce come oratorio bizantino dedicato all'ascesi comunitaria dei monaci. I monaci eremiti vivevano nelle sottostanti grotte di tufo, utilizzando il piccolo oratorio per le preghiere comunitarie, per la meditazione, per i canti corali, e soprattutto per la lettura dei testi sacri. La struttura pare che sia stata fatta costruire a proprie spese da Euprassio, protaspatario delle Calabrie, che a quel tempo dimorava a Rossano. Egli edificò questa chiesa, che ai tempi di San Nilo era dedicata a Santa Anastasia, ed in seguito a San Marco. Molti credono che in questo luogo, prima che Euprassio avesse disposto di fabbricarvi questa chiesa, ne esistesse un’altra dedicata a San Marco, che forse andò in rovina.

Fig.1 - Chiesa di San Marco.

La struttura originaria presenta strette affinità con la Cattolica di Stilo. Di forma quadrata e pianta a croce greca, con cupola centrale e quattro volte intorno, tipicamente bizantine, la chiesa di San Marco presenta anche quattro pilastri che reggono la cupola centrale, terminanti con capitelli ornati. La facciata orientale è adornata da tre absidi semicircolari, con piccole finestre bifore in alto a transenna di stucco. L'interno dell'oratorio (fig.2) è diviso in nove riquadri da quattro pilastri ciascuno, sul riquadro centrale e su quelli angolari si levano le cupole. La struttura ha subito nel tempo una serie di aggiunte e manomissioni oltre a restauri resi necessari dai danni del terremoto del 1836, che tuttavia non ne hanno compromesso la fisionomia originale. Sul lato sinistro, quello dell'ingresso, sorgeva un pseudo campanile addossato alla cupola angolare, che nell'intenzione del costruttore locale doveva simulare una torretta quadrata sormontata da cupola.

Fig.2 - Chiesa di San Marco, interno.

Numerose aggiunte di abbellimento furono compiute in età barocca, quali il soffitto “di tavole rusticamente a rosoni” e un nuovo altare. Nel secolo scorso la chiesa è stata utilizzata come cimitero dei colerosi. Fra il 1926 e il 1931, a cura della soprintendenza alle antichità bruzio-lucane, fu condotta una campagna di restauro grazie alla quale è emerso sul muro di sinistra, in fondo al presbiterio, un frammento di affresco raffigurante una Madonna Odigitria (fig.3). L’affresco è stato datato al XIII secolo ed è l’unico resto di una decorazione pittorica originariamente molto estesa.  Il recente restauro dell'edificio avvenuto tra il 1977 e il 1980 ha portato alla luce due fosse, una delle quali destinata alla sepoltura comune dei cadaveri, l'altra invece doveva essere una sorta di passaggio segreto che conduceva direttamente alla Cattedrale di Rossano e quindi fungeva da possibile via di fuga. Alcuni pezzi scultorei come la mensa d'altare (fig.4), dal bordo decorato a motivi geometrici  e un frammento scultoreo decorato a foglie ed un'acquasantiera con un fiorone scolpito a risparmio.

Bibliografia

Burgarella F., “La Calabria bizantina (VI-XI secolo)”. In San Nilo di Rossano e l’Abbazia greca di Grottaferrata.

Burgarella F., “Rossano in epoca bizantina”. Daidalos, 2003, Vol. III, n. 3, pp. 10-15.

Fiorenza E., “La Cattolica di Stilo”. Laruffa Editore, Reggio Calabria 2016.

Musolino G., Santi eremiti italo greci. Grotte e chiese rupestri in Calabria. Rubbettino 2002, pag. 105.

Loiacono P., Restauri a monumenti della Calabria e della Basilicata / d’Italia, Anno 25, ser. 3, n. 1 (lug. 1931), p. 43-47.

Kruautheimer R., Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1986, p. 380.

Roma G., “Monasteri bizantini fortificati sul territorio della Calabria settentrionale. Problemi archeologici e Lettura.”. In Histoire et culture dans l’Italie byzantine: Ecole Française de Rome, 2006, Collection de L’Ecole Française de Rome Vol. 363, pp. 505-514.


CATTEDRALE DI MARIA SANTISSIMA DI ROMANIA A TROPEA

A cura di Antonio Marchiano

La facciata della cattedrale di Maria Santissima di Romania

La Cattedrale di Maria Santissima di Romania venne edificata a Tropea tra la fine del XII e l’inizio XIII secolo ad opera dei Normanni. Si tratta di un impianto a tre navate divise da pilastri ottagonali sormontati da archi a sesto acuto con doppia ghiera; tre absidi semicircolari concludono le navate. All'esterno risalta in maniera evidente la parete nord caratterizzata da un basamento in cui trova posto una serie di archi sormontata da un ordine di finestre e pseudo finestre caratterizzate da conci calcarei alternati a mattoni e conci di pietra lavica. La parete stessa è interrotta dall'ingresso settentrionale evidenziato da un portale settecentesco in marmo in cui trova posto un rilievo marmoreo riproducente l’icona della Beata Vergine Maria di Romania. La facciata principale è caratterizzata da un grande rosone del XVI secolo, dal portone dell’ingresso principale e da una piccola porta che immette nella navata sinistra. In alto, nel portone più grande, è collocata una scultura marmorea raffigurante la Madonna con il Bambino. Le absidi, interamente ricostruite sulle fondazioni originarie, riprendono il partito decorativo del fianco settentrionale.

Fig. 1 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania a Tropea.

Nella prima cappella di destra troviamo alcune sepolture della famiglia Galluppi, risalenti al 1598 e al 1651, e la tomba del filosofo Pasquale Galluppi. Nella seconda cappella è collocato un grande Crocifisso ligneo del XVI secolo. Andando avanti segue l’ingresso laterale meridionale e la tomba della famiglia Gazzetta (1530). Da qui si accede alla sagrestia e alla sala capitolare che ospita i ritratti dei Vescovi della Diocesi e arredi lignei settecenteschi. Ritornando alla navata destra si prosegue e si giunge alla cappella del SS Sacramento e di S. Domenico, che ospita pregevoli altari in marmo policromi e decorazioni del 1740; lateralmente è l’altare di S. Domenico e di S. Francesco di Paola. I pennacchi della volta e delle lunette ospitano tele di Giuseppe Grimaldi raffiguranti il martirio di Santa Domenica. Uscendo dalla cappella, in fondo all'abside della navata destra, vi sono l’organo e l’altare con la Madonna del Popolo, opera di Fra Agnolo Montorsoli (fig.2), seguace del Buonarroti, scolpita nel 1555.

Fig. 2 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania, scultura di Fra Agnolo Montorsoli.

Sulla parete dell’abside maggiore è collocata l’icona della Beata Vergine Maria di Romania (fig.3), opera di scuola giottesca attribuita a Lippo Beninvieni (metà del XIV). Il quadro di scuola giottesca, eseguito su tavola di cedro, è stato ritoccato più volte nel tempo con l'aggiunta di quattro angioletti ai lati, e reso rettangolare nella parte superiore, originariamente circolare. La pietà popolare le attribuisce numerosi miracoli che protessero la città da terremoti, pestilenze e dalla distruzione bellica.

Fig. 3 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania, Icona.

L'icona miracolosa della Madonna di Romania

La leggenda dice che al tempo delle lotte iconoclaste l’icona fu trafugata da marinai tropeani ad una imbarcazione proveniente dall’Oriente-bizantino sospinta da una tempesta nel porto di Tropea: per questo venne denominata Madonna della Romania. Riparate le avarie, il capitano cercò di ripartire ma la nave rimaneva ferma in rada. Nella stessa notte il Vescovo della città sognò la Madonna che gli chiedeva di rimanere a Tropea e diventarne la Protettrice. Il sogno si ripeté per varie notti. Alla fine il Vescovo, convocati gli alti funzionari e i cittadini, si recò al porto a prendere il quadro della Madonna. Non appena il quadro fu portato a terra la nave ripartì.  Successivamente la Madonna venne ancora in sogno ad un altro vescovo, avvertendolo di un terremoto che avrebbe devastato la Calabria. Questi il 27 Marzo 1638 istituì una processione di penitenza, che coinvolse tutto il popolo tropeano. Durante la processione si scatenò il terremoto che non procurò alcun danno ai tropeani.  Da un altro terremoto, molto più forte e più tragico, furono salvati successivamente i tropeani: quello del 1783 che investì la Calabria intera, ridisegnandone il volto geo-fisico visibile ancora oggi. Da questo avvenimento si rafforzò la devozione di Tropea per questa Madonna a cui i tropeani, riconoscendone l'intercessione benefica, diedero il titolo di Protettrice, e tutt'oggi i tropeani ricordano quel 27 di marzo 1638. Attribuite alla Madonna di Romania furono anche la salvezza dall'epidemia di peste che nel 1660 si espanse a Tropea e in tutto il regno di Napoli e che portò migliaia di vittime e poi, durante la seconda guerra mondiale, la non esplosione di due grandi ordigni bellici, anch'essi custoditi nella cattedrale di Tropea a ricordo di quella tragedia evitata.

Nella navata maggiore troviamo il pulpito settecentesco sotto il quale è collocato un bassorilievo della Natività, opera di Pietro Barbalonga (1598) facente parte, in origine, della cappella Galzerano. Passando dalla navata sinistra, nell'abside troviamo l’altare della Madonna della Libertà in marmo carrarese (statua del XVII) con un pregevole tabernacolo marmoreo di scuola toscana del XV secolo, commissionato dal Vescovo Pietro Balbo, di origine Toscane. Sull'uscita laterale verso il nord, un bassorilievo raffigurante la Resurrezione, attribuito al Gagini (metà del XVI secolo) e due tondi raffiguranti l’Annunciazione, dello stesso periodo. Purtroppo la chiesa ha subito numerosi rimaneggiamenti nei secoli a causa di terremoti ed incendi, fu riportato al suo stile architettonico originario con gli interventi di restauro del 1927-1931 che cancellarono quasi ogni traccia in stile Barocco e Neoclassico.

 

Bibliografia

De Sensi G., Sestito e Antonio Zumbo, Il Territorio in età antica, in Tropea - Storia, Cultura, Economia, a cura di Fulvio Mazza, Soveria Mannelli 2000.

Foti G., Attività della Soprintendenza archeologica della Calabria nel 1980, Atti XX CSMG, Istituto per la storia e l'archeologia della Magna Grecia, Taranto 1981.

Leone G., La Calabria dell’arte,: Città Calabria Edizioni, gruppo Rubbettino, 2008, pp. 31-32.

Pugliese F., Guida artistica, in Tropea, a cura di Pasquale Russo Vibo Valentia 2002.


LA CHIESA DI SAN DONATO AL PANTANO

A cura di Antonio Marchianò

La chiesa di San Donato al Pantano si trova a San Donato di Ninea, in provincia di Cosenza: si presenta a navata unica, ma in età posteriore è stata addossata alla parete sinistra una navatella di dimensioni minori. L'edificio ha una copertura a spioventi, e vi si accede attraverso due ingressi di età moderna. L’entrata principale è preceduta da una scala a gradini semicircolari in cemento, mentre l’entrata laterale è disposta sulla parete sud-est.

Fig. 1 - Chiesa di San Donato.

All'interno la chiesa a navata unica presenta una ricca decorazione pittorica solo parzialmente conservata in contro-facciata, sulla parete destra e su quella sinistra all'altezza del presbiterio. Gli affreschi presenti nella chiesa sono una tra le novità più significative della pittura monumentale bizantina in Calabria: non è facile la lettura stratigrafica delle pitture, sia per i margini piuttosto incerti di alcuni riquadri sia per la deliberata scelta di rinnovare singole porzioni dei dipinti murali “lasciando a vista” parti già esistenti. Il precario stato di conservazione lascia scorgere almeno sei figure stanti, di cui tre sono meglio visibili a lato della porta e sono identificabili, per le vesti liturgiche, con santi vescovi. Nell'ultima sagoma sulla sinistra, che dà inizio al santorale conservato, ossia alla successione delle figure dei santi sulle pareti, potrebbe essere individuata una figura di arcangelo. Accanto ad essa si dispongono due dei tre santi vescovi e uno di essi è identificato come S. Basilio, grazie all'iscrizione oggi leggibile. Questi sono stretti l’uno accanto all'altro e si toccano lasciando solo lo spazio sufficiente per le lettere greche.

I santi vescovi (fig.2) indossano il phelonion e reggono al petto con la mano sinistra un libro, mentre con la destra benedicono alla greca. L’altro santo vescovo, identificato grazie alla presenza di un’iscrizione “О АГΙОС ΝΙΚΟΛ АОС” ,è S. Nicola e indossa uno sticharion (tunica) azzurra, un phelonion rosso, che lascia intravedere l’epimanichion (il polsino) ocra della mano destra benedicente alla greca, il largo epitrachelion (la stola), anch'esso ocra e l’enchirion (il fazzoletto liturgico appeso alla vita) bianco e nero, che presenta il medesimo decoro della parte terminale dell’omophorion (il pallio) bianco, ornato da due grandi poloi sulle spalle. Nella figura di S. Nicola possiamo rintracciare dei confronti stilistici con le pitture absidali della vicina chiesa dello Spedale di Scalea. I santi vescovi di primo strato sono oggi visibili al di sotto di alcuni pannelli seriori pertinenti a una fase decorativa molto più estesa che riguarda l’intero edificio. La stratigrafia non è del tutto chiara e quindi non è possibile dire con certezza se il Cristo assiso in trono, appartenga al secondo o terzo strato. Alla fase pittorica del Cristo appartengono anche l’Arcangelo e la Vergine posti a sinistra e da esso separati da una testa coronata pertinente ad uno strato inferiore, ma comunque posto al di sopra dei santi vescovi. Il Cristo (fig.3) siede su un trono con spalliera perlata e schienale decorato e regge qualcosa (forse un libro) con la mano sinistra.  In alto troviamo un’iscrizione “Gesù Cristo” in greco “ΙС ХС”, mentre sul lato sinistro compare un’altra iscrizione “МΝΗСΤΗ” “ricordati di”.

Sulla parete destra d’ingresso a San Donato al Pantano sono raffigurati santi monaci, più grandi del naturale, fortemente compromessi dalla caduta dell’intonaco. A sinistra, per l’attributo delle catene, è forse possibile identificare la figura di S. Leonardo con il pastorale dal riccio zoomorfo, mentre sulla destra l’altra figura è ancora senza nome. Entrambe sono identificate come monaci dal koukoullion a punta, che nel S. Leonardo si prolunga nell’anabolos e sul quale, invece, il santo anonimo indossa il mantello bruno.

Fig. 4 - Parete destra, Koimesis.

Nella chiesa di San Donato al Pantano è presente una scena: la koimesis la terza di simile soggetto presente in Calabria dopo quella individuata nella chiesa del Campo a S. Andrea Apostolo dello Ionio e quella più tarda nella Cattolica di Stilo. La scena è composta da ventuno figure: al centro, su un catafalco perlato, è distesa la Vergine, intorno alla quale si dispongono gli Apostoli che vestono tuniche e mantelli di semplice foggia e che stringono nella mano destra un rotolo, tranne nei casi del santo, che abbraccia i piedi della Madonna e di quello chino su di lei. Poco più in alto, circondato da due angeli in volo dalle mani velate, compare un cristo che sorregge e quasi offre a loro l’animula della Vergine. Alla scena partecipano due donne aureolate in alto a sinistra e due vescovi, identificabili dai paramenti sacri (phelonion e omopholrion), che, con il libro al petto, si dispongono ai lati degli angeli e quindi del Cristo, quasi a rafforzare il valore liturgico della scena. La campagna pittorica di questa chiesa fu affidata a pittori diversi: al più dotato si devono gli splendidi santi monaci a dimensione più grande del vero e la figura del Cristo assiso in Trono. Lo dimostra la perizia nell'uso della linea per disegnare i volti e nel restituire consistenza e vitalità attraverso sapienti tocchi cromatici, oggi in buona parte perduti perché condotti a secco. Le pitture presenti nella chiesa avanzano datazioni diversificate e poco coerenti tra loro che spaziano dall’XI secolo del Cristo in trono fine XII secolo della Koemesis e alla metà del XIII secolo per i santi monaci.

 

Bibliografia

Falla Castelfranchi, M., I ritratti dei monaci italo-greci nella pittura bizantina dell’Italia meridionale, in “Rivista di Studi bizantini e neoellenici”, 39, 2002, pp.145-155.

Leone, G. Primi appunti per una ricerca sull’iconografia dei santi calobrogreci. I tre San Fantino, in chiesa e società nel mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, II, a cura di P. Borzomati et alii, Soveria Manelli 1998, pp. 1309-1353.

Martucci, A., Archeologia e topografia nella valle dell’Esaro e dell’Occido /Martucci A. Martucci G., 2006, p.136.

Kitzinger, K.,  I Mosaici del periodo normanno in Sicilia, 3, Il Duomo di Monreale: i mosaici dell’abside, della solea e delle cappelle laterali, Palermo 1994, fig.53.

Pace, V., Riflessi di Bisanzio nella Calabria medievale, in Calabria bizantina, a cura di V. Pace, Roma 2003, p.107.

Riccardi, L., Le pitture murali della chiesa di S. Donato al Pantano di San Donato di Ninea (Cs): note preliminari, in “Calabria letteraria”, 59,(2011), 4-6, pp.50-60.


CHIESA DEL CAMPO A SANT'ANDREA

A cura di Antonio Marchianò

Sul versante jonico della Calabria troviamo la chiesa del Campo a Sant'Andrea Apostolo dello Jonio. Secondo la tradizione fu costruita sul luogo in cui fu trovato un quadro della Vergine. E’ di difficile la datazione ma dovrebbe risalire al IX- X secolo. Il nome iniziale era quello di chiesa di S. Martino ed in secondo tempo venne chiamata con il nome di Santa Maria di Campo. La chiesa presenta una struttura molto semplice, a forma quadrangolare di metri 10x13.

Fig. 1 - Chiesa del Campo, interno.

La chiesa, nei primi decenni del XII secolo passò ai Certosini della Certosa di Serra San Bruno. Il terremoto del 1783 la distrusse in gran parte. Nei primi dell'Ottocento il barone Pier Nicola Scoppa entrò in possesso della chiesa quando acquistò la Grancia dei Certosini in seguito alla soppressione dei beni degli ordini religiosi nel 1808, per volontà di Gioacchino Murat re di Napoli. Il barone fece ricostruire la chiesa e fece dipingere, o rinnovare, il quadro dell'Assunta. La baronessa Scoppa, in seguito, concesse in donazione i terreni di San Martino e la chiesetta del Campo al Collegio dei Padri Redentoristi, da lei fondato nel 1898. I Padri Redentoristi fecero restaurare la chiesa nel 1964, rifacendo fare il quadro della Vergine e rimodernando l'altare con marmi portati da altra chiesa. Nel 1985 nel corso dei lavori di restauro, sono stati rinvenuti degli affreschi bizantini, presumibilmente del X e XIII secolo.

Al suo interno troviamo un programma iconografico che si mostra in linea con quanto di norma è stato rilevato nell'Italia meridionale, in Puglia in particolare, tra il XII e XIII secolo. Il rinvenimento delle pitture bizantine è stato segnalato per la prima volta da Giorgio Leone, con una datazione approssimativa alla fine XII secolo, se non all'inizio del secolo successivo. Successivamente sono stati letti vari frammenti del ciclo e precisata la datazione alla prima metà del secolo XIII. Le pitture di S. Andrea Apostolo sono state inserite nella diffusione della cultura siciliana in Calabria secondo la Di Dario Guida. In questi affreschi si riscontra la presenza della Deesis nell'invaso del catino absidale dei santi padri della chiesa greca accompagnati da due santi diaconi, nel rispettivo semicilindro, dell’annunciazione, al lato fuori dell’abside; la koimesis, sulla parete opposta; un corteo di santi e probabilmente una raffigurazione della Madonna in trono sulla parete destra guardando l’abside e a sinistra rispetto all'antica entrata laterale presente sulla stessa parete e alla cui destra rimangono consistenti frammenti di un affresco esemplato sul modello di un’ icona agiografica rappresentante S. Marina e sulle cui scene ci sono giunte a noi iscrizioni in greco. Sulla parete a sinistra, guardando l’abside, ci sono dei piccoli frammenti emersi (fig.2-3). E’ possibile che vi fossero altri santi in fila, cosi come altri erano dipinti sui pilastri.

Il programma iconografico di riferimento costituisce un esempio della pittura bizantina nel XII secolo. La figura di S. Stefano (fig. 4) Protomartire, la quale si presenta bella e riccioluta, è l’unica figura superstite dove è possibile ammirare il viso.

In relazione alla perfetta adesione della cultura figurativa regionale alle istanze artistiche tardo comnene come si evince da un confronto, tra le pitture presenti a S. Andrea Apostolo sullo Jonio ed un’icona custodita nel Monastero di S. Caterina sul Monte Sinai attribuita da Kurt Weitzmann a un pittore dell’Italia meridionale, presumibilmente calabrese. Qualora l’assegnazione di questa icona risultasse vera, si potrebbe argomentare non solo su quanto delle situazioni stilistiche greche finora evidenziate sia veramente passato nella cultura artistica della Calabria medievale, ma anche su come tali trapassi furono elaborati dai pittori locali.

Fig. 4 - Chiesa del Campo, Santo Stefano Diacono.

 

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Di Dario Guida M. P., Icone di Calabria e altre icone meridionali, Soveria Mannelli 1992, pp. 43-54.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.

Falla Castelfranchi, M., Del ruolo dei programmi iconografici absidali nella pittura bizantina dell’Italia meridionale e di un’immagine desueta e colta nella cripta della Candelora a Massafra, in Il popolamento rupestre dell’area mediterranea: la tipologia delle fonti. Gli insediamenti rupestri della Sardegna, a cura di C. D. Fonseca, Galatina 1988, pp. 187-208.

Leone, G., Fragmenta picta. Per una storiografia della pittura calabrese in età normanna tra fonti, archeologia e restauri, in I Normanni in finibus calabriae, a cura di Cuteri, Soveria Mannelli 2003, pp. 143-171.

Weitzmann, Kurt, Mosaies in: Sinai treasures of the monastery of saint Catherine, ed K. A. Manafis, Athens, 1990, pp.61-67.


LA CHIESA DELLA PANAGHIA A ROSSANO CALABRO

A cura di Antonio Marchianò

La chiesa della Panaghia è un edificio religioso di epoca bizantina situato nel centro storico di Rossano Calabro. Il nome “Panaghia” significa “la santissima” ed è dedicato alla Madonna. La chiesa, di dimensioni davvero piccole, fu edificata nel XI secolo. Si tratta di un impianto a navata unica rettangolare coperta da capriate lignee, è coronata da un'abside semicircolare con semicatino superiore.

Fig. 1 - Chiesa della Panaghia a Rossano.

La costruzione, in muratura ordinaria, è rivolta ad est, seguendo l’andamento tipico delle chiese bizantine. All'esterno, semplice e scarna è la facciata, più volte rifatta; solo sei finestre e nessuna decorazione sui fianchi. Le finestre, monofore, terminanti ad archetti in mattoni, sono leggermente incassate rispetto ai pilastrini in calcare locale. Un’altra finestra, bifora questa volta, in cui archi in mattoni sono sostenuti da una colonnina centrale con pulvino, è inserita nell'abside semicircolare.

All'esterno della chiesa si nota la decorazione in cotto dell’abside (fig.2), composta da una duplice fascia di mattoni. La parte superiore è disposta a spina di pesce, mentre nella parte inferiore i mattoni sono disposti a forma di triangolo isoscele. Proprio questo tipo di decorazione, tipica della seconda età aurea bizantina, ci consente di datare l’edificio al X XI secolo. Sul lato sinistro dell'aula vi è una piccola cappella anch'essa absidata pavimentata in cotto e con un solaio in legno. La copertura è a capanna in corrispondenza dell'aula, mentre ad una falda in corrispondenza della cappella.

Fig. 2 - Chiesa della Panaghia.

All'estremità destra della parte inferiore dell’abside, delimitata da un rettangolo di colore bruno, si conserva gran parte di un affresco raffigurante l’immagine di S. Giovanni Crisostomo(fig.3). Il volto del santo presenta una barba corta a punta che spicca contro la grande aureola dorata circondata da una corona di perle. L’iscrizione a sinistra e a destra dice, in caratteri greci: Ο АГ[ΙΟС] ΙΩ [АΝΝΗС] Ο Х [Р] УСΟСΤОМОС (O AGHIOS IOANNES CRISOSTOMO, San Giovanni Crisostomo). Gli occhi spalancati, e rivolti verso chi guarda, invitano a leggere il testo del rotolo che entrambe le mani del santo stanno svolgendo. Si tratta di alcune parole della preghiera che ricorre nella liturgia a lui dedicata, più precisamente all'inizio dell’invocazione che il sacerdote preannuncia: ΟУ [Д] ДΙС ДΞΙОС ΤΩΝ С[АРΚ] Ι [ ΔΕ] ΔΕМΕΝΩΝ ΤАΙС СА [Р] ΚΙΚАΙС ΕПΙѲУМΙАΙС ΚАΙ [ΗΔ] ΩΝАΙС “nessuno di coloro che sono ancora schiavi dei desideri e delle voglie della carne, è degno di accostarsi a me”.

Fig. 3 - Chiesa della Panaghia, San Giovanni Crisostomo.

Un altro affresco presente nella chiesa della Panaghia è il volto di un santo con aureola che rappresenta con molta sicurezza S. Basilio di Cesarea (fig4).

In considerazione del fatto che nel 1363 nella diocesi di Rossano fu introdotto il rito latino, gli affreschi della Panaghia non possono essere in nessun caso posteriori a questa data. Falla Castelfranchi ha datato questi affreschi fine XIII-XIV secolo, mentre Di Dario Guida li considera appartenenti al XIV secolo.

Nel 1933-34 si ebbe un radicale restauro della chiesa. Nel corso del restauro vennero alla luce alcuni frammenti di parti architettoniche e decorative, sezioni di pilastri, di capitelli e di un arco ornato, usate in epoca imprecisata per colmare una lesione del muro, e che ora si trovano nel museo Nazionale di Reggio Calabria. Lo studioso Lipisky ha esaminato questi frammenti, li ha descritti singolarmente e ha cercato di spiegare la loro collocazione originaria. Lepisky sostiene due possibilità: o si tratta di resti di una iconostasi, o un tramezzo del coro aperto, oppure di un baldacchino che si levava sull’altare. Egli considera quest’ultima ipotesi come la più vicina al vero.

Fig. 4 - Chiesa della Panaghia, San Basilio.

 

Bibliografia

Willemsen, C. A., Odenthal, D., CalabriaDestino di una terra di transito, Bari 1967, p.59.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in “Calabria bizantina”. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61

Di Dario Guida, M. P., Cultura artistica della Calabria medievale. Contributi e i primi orientamenti, Cava dei Tirreni 1978,p.89.

Sitografia

http://www.artesacrarossano.it/scheda_chiesa.php?IDc=15


EUGENIO CERCHIARO: UNA DINASTIA FAMILIARE

A cura di Antonio Marchianò

Per cercare di capire meglio le origini e il contesto in cui Eugenio Cerchiaro si è formato bisogna far riferimento ad altre personalità della Calabria settentrionale. Infatti, con Cerchiaro, siamo difronte a un caso raro in Calabria, ad una vera e propria “dinastia famigliare” di intagliatori. Abbiamo diversi esponenti che portano il cognome Cerchiaro e che hanno lavorato in Calabria e in Basilicata. Il capostipite di questa famiglia, che ha operato tra il XVII e il XVIII sec. è Giovan Pietro Cerchiaro. Attraverso le sue uniche due opere certe possiamo collocarlo tra il 1667 e il 1684. Queste due opere sono: il fastigio ligneo che inquadrava il polittico del Vivarini, nella chiesa di San Bernardino a Castrovillari datato e firmato nel 1667, e la statua di S. Giuliano sempre a Castrovillari, nella chiesa di S. Giuliano, scolpita nel 1684. L’altra figura è Carlo Cerchiaro, documentato tra il 1733 e il 1746: nel 1733 è indicato nella Cappella dell’Angelo nella chiesa di Santa Maria del Gamio di Saracena come colui che indora la vetrata della cappella stessa, mentre nel 1746 nel catasto onciario di Castrovillari figura come pittore e architetto.

L’attività di Eugenio si pone, almeno cronologicamente, tra l’attività di Giovan Pietro e Carlo Cerchiaro. Secondo gli studiosi Eugenio è figlio, più che nipote, di Giovan Pietro e fratello, molto probabilmente, di Carlo. Ci troviamo dinanzi ad una formazione di bottega che ha attraversato due secoli e che ha avuto la sua origine a Morano, tanto che quando si parla dei Cerchiaro si parla di bottega moranese. Questa bottega si è poi trasferita a Castrovillari in un secondo momento. L’origine moranese della bottega dei Cerchiaro è sostenuta dalla presenza di altri esponenti della famiglia, dei quali sappiamo, non tramite le opere a loro attribuite bensì tramite documenti, che lavorarono nella Chiesa della Maddalena. Il fatto che Eugenio, come gli altri esponenti, lavorò a Morano, Castrovillari e a Saracena, non è del tutto casuale. Infatti ci troviamo nell'area della catena montuosa del Pollino e pertanto era facile reperire la materia prima, il legno. Per quanto riguarda la categoria degli intagliatori in Calabria abbiamo i Moranesi, i quali sfruttano le risorse dei boschi del Pollino, e i Roglianesi, che invece sfruttano le risorse della Sila. Eugenio Cerchiaro è uno scultore e intagliatore che pone nelle sue opere alcune caratteristiche desunte dal barocco, probabilmente prese in prestito dalla cultura napoletana. Tuttavia le sue opere sono mitigate da una cultura provinciale, autoctona.

La figura di Eugenio Cerchiaro è stata studiata soprattutto negli ultimi decenni. Il primo che lo menziona è Emilio Barillaro, nel suo libro del 1972 lo segnala come “colui che ha intagliato” il coro ligneo della chiesa di S. Giuliano e ne riporta l’iscrizione M.E.C. 1715. Gianluigi Trombetti invece, storico di Castrovillari, in un suo libro del 1989 parla di Castrovillari e riporta anche una piccola biografia su Eugenio citando le uniche due opere fino ad allora attribuite al suo corpus: il coro e la statua dell’angelo custode, e qui ricaviamo la notizia che Eugenio è o figlio o nipote di Giovan Pietro, mentre la critica successiva eliminerà questo dubbio sostenendo che sia il figlio. Giorgio Leone, in un suo testo degli anni ’91 - ’92, sostiene che le sculture realizzate da Eugenio hanno come modello la statua del S. Giuliano presente nella chiesa di S. Giuliano a Castrovillari realizzata da Giovan Pietro Cerchiaro, con la differenza che le sue sono più schematiche ed alleggerite.

Le sculture di Cerchiaro vengono suddivise per caratteristiche: nelle statue che rappresentano figure femminili troviamo statue sovente rappresentate con manti svolazzanti crespati con panneggi molto fitti. Invece nelle statue maschili le vesti e le tuniche dei santi sono quasi schiacciate e aderiscono al corpo. Analizzando le vesti delle sculture femminili, queste risultano spesso particolarmente simili. Presentano sempre una tunica e un’altra veste che copre la tunica dove l’unica variante sono i lembi i quali, alcune volte, sono liberi e svolazzanti, come nel caso  della Santa Margherita, mentre in altre sculture sono chiusi. Sono sempre presenti nell'opera di Eugenio alcune cinture che cingono i vestiti. I volti sono molto simili tra loro, hanno tratti somatici identici. Essi hanno una caratterizzazione quasi popolana, caratteristiche che si riscontrano in alcune tipologie di scultura settecentesca. La caratteristica più importante è che queste sculture hanno i veli che terminano a punta ma che si aprono ai lati formando un rombo quasi irregolare. I capelli seguono la conformazione dei veli per cui si aprono ai lati. I visi sono molto iconici e spesso tendono a spezzare la caratterizzazione barocca della scultura. Nella parte inferiore troviamo movimenti e panneggi che rimandano al barocco mentre nella parte superiore abbiamo dei visi iconici. Un’ulteriore caratteristica delle opere di Eugenio è la presenza di un ginocchio che è sempre flesso e avanzato rispetto all'altro. Eugenio, come già detto, è conosciuto non solo nella Calabria settentrionale ma anche in Basilicata. La presenza di opere sia in Calabria che in Basilicata è dato dal fatto che fino al 1973 molti paesi che facevano parte della diocesi di Cassano anticamente appartenevano alla diocesi di Tursi-Anglona e viceversa. Per questo motivo c’era questa osmosi culturale tra le due diocesi.

Opere attribuite ad Eugenio Cerchiaro:

  • Madonna della Purificazione o Madonna della Candelora, chiesa di S. Nicola di Bari a Morano Calabro (fig.1)
  • S. Giuseppe, chiesa di S. Teodoro Laino Borgo
  • Santa Lucia, chiesa di S. Pietro Cerchiara di Calabria
  • S. Nicola di Bari, Morano Calabro
  • Madonna del Rosario e Angeli, chiesa di Santa Maria dei Colli a Mormanno
  • Madonna delle Grazie, chiesa di S. Francesco di Paola Terranova del Pollino
  • Santa Margherita di Antiochia, chiesa di Santa Margherita di Antiochia Amendolara (fig. 2)
  • S. Leonardo, chiesa di S. Nicola di Mira Trebisacce
  • Madonna del Carmine, Trebisacce
  • S. Vito Martire, chiesa Santa Maria del Gamio a Saracena
  • Coro ligneo, chiesa di S. Giuliano Castrovillari 1715
  • Angelo Custode, chiesa di Santa Maria del Gamio a Saracena (fig.3)

 

Bibliografia

Barillaro E., Calabria: guida artistica e archeologica. Cosenza 1972, p. 188.

Leone G., Scultura in legno in Calabria. L’apporto locale nel Seicento e nel Settecento in Sculture in legno in Calabria. Dal Medioevo al Settecento,[Catalogo della mostra (Altomonte: 2008-2009)] , a cura di Pierluigi Leone de Castris, Napoli, Paparo, 2009, pp.90-92.

Leone G., Scultori di confine, alcuni esempi di scultura in legno nell’area del Pollino(..e di altre zone della Calabria settentrionale e della Basilicata meridionale tra il cinquecento e il settecento), in Tomei A.- Curzi G. (a cura di ), Abruzzo: un laboratorio di ricerca, Atti 2009, [ “studi medievale e moderni: arte, letteratura e storia” a. XV, 2011], Napoli 2011, pp. 328-336.

L’intaglio ligneo nella provincia di Cosenza: Schedatura del patrimonio storico artistico in Il Legno, Mostra sulla lavorazione del legno in provincia di Cosenza… a cura di Anna Cipparrone, Cosenza 2013 (Scheda Madonna della Purificazione, pp. 166-167; scheda San Nicola di Bari, pp. 170-171.

Ludovico Noia, Studi sul patrimonio artistico(Secoli XV- XVIII), Ferrari Editore, Trebisacce 2015.

Trombetti G., in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: la collegiata di San Nicola, Catalogo mostra 1999, (coord. Bosco S.), Roma 1996, p. 55.


IL CODEX PURPUREUS, O CODICE PURPUREO

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

Il Codex Purpureus è un manoscritto onciale greco, conservato nel Museo Diocesano di Rossano (Cs). Comprende un evangelario con i testi di Matteo e di Marco e una serie di miniature che lo rendono uno dei più antichi esemplari di manoscritti miniati del Nuovo Testamento conservatisi. Il Codice riporta testi vergati in oro ed argento ed è impreziosito da 14 miniature, accompagnate in calce da cartigli descrittivi, che illustrano i momenti più significativi della vita e della predicazione di Gesù. Il Codex Purpureus Rossanensis riveste uno straordinario interesse, sia dal punto di vista biblico e religioso, che da quello artistico, paleografico e storico-documentario. L’evangelario appartiene al tipo di produzione libraria color porpora, a cui appartengono anche i Vangeli cosiddetti Beratinus, Sinopensis ed il Petropolitanus. Deve il nome “Purpureus” alla peculiare colorazione rossastra delle pagine (in latino purpureus).

Fig. 1 - Codice Purpureo, Frontespizio.

Il Codex

Con i suoi 188 fogli, pari a 376 pagine in pergamena sottilissima di agnello, è l’esempio più cospicuo e più rappresentativo del genere. Il formato attuale del manoscritto misura mm. 300x250 mentre lo specchio scrittorio è di mm 215x215 ca. I fogli sono in pergamena accuratamente lavorata, tinta di colore purpureo, con discromie che talvolta si possono ritenere originarie, ma in più casi dovute a fattori diversi, soprattutto umidità. Il manoscritto è formato di regola da quinioni, cioè 40 fascicoli di 10 fogli, iniziati con lato carne, disposti secondo la legge di Gregory (carne contro carne e pelo contro pelo) e segnati nell'angolo inferiore interno sul recto del primo foglio. Restano escluse da questa struttura le pp. 1-18, che sono parti introduttive, e le pp. 239-242, contenenti, a p. 241, il ritratto di Marco. Il Codex Purpureus Rossanensis, nella lista internazionale dei manoscritti rari ecclesiastici, porta il suffisso alfabetico Ф e il numero 043. Contiene l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco, mutilo quest’ultimo dei vv. 14-20 conclusivi dell’ultimo capitolo. La scrittura in cui è vergato il testo dei Vangeli è la maiuscola biblica, si tratta di forme grafiche che si caratterizzano a partire dal tardo II secolo d.C. Nel Codice di Rossano la maiuscola biblica mostra caratteri artificiosi, modulo monumentale, forte chiaroscuro e orpelli decorativi che ne indicano, da una parte, la collocazione cronologica tarda, dall’altra la funzione ideologico-sacrale ad essa sottesa. In funzione di vera e propria scrittura distintiva è adoperata, invece, la maiuscola ogivale diritta, nella quale sono state redatte le scritte relative al repertorio iconografico, gli indici dei capitula, il colofone del Vangelo di Matteo, i riferimenti ai canoni eusebiani, le indicazioni di contenuto nei margini superiori, alcune integrazioni, le lettere/cifre di segnatura dei fascicoli. Si tratta, ancora una volta, di una scrittura di ascendenza antica, ma definitasi più di recente, grosso modo nel V secolo e testimoniata nel mondo bizantino più a lungo della maiuscola biblica, fino al secolo XI. Tali scritture si devono ritenere opera di una stessa mano. L’inchiostro adoperato è aureo per il titolo e le tre righe iniziali della prima pagina di ciascun vangelo, argenteo per tutto il resto. Le miniature conservate nel Codice di Rossano sono quattordici. Di esse, dodici raffigurano eventi della vita di Cristo, una funge da titolo alle tavole dei canoni andate perdute, mentre l’ultima è un ritratto di Marco, che occupa l’intera pagina. Tutte le miniature vennero dipinte su una pergamena meno fine di quella usata per il testo dei Vangeli. Ad essa fu applicata una tinta purpurea diversa da quella adoperata per le pagine destinate al testo. La pergamena più spessa forniva una base più solida ai colori, mentre la tinta più opaca impediva alla miniatura dipinta sulla facciata di un foglio di essere vista rovesciata sull'altra facciata. Il Codex Purpureus è strutturato in modo che miniature e testo risultino raggruppati in fogli distinti.

Purtroppo non ci sono elementi per poter stabilire con sicurezza la datazione del Codice Purpureo, il luogo in cui fu realizzato e l’identità di chi lo portò a Rossano. La maggior parte degli studiosi, basandosi sullo stile del manoscritto, per quanto concerne la datazione, concordano un periodo compreso tra il il IV e il VI-VII secolo. Il secolo più accreditato è il VI. Dal confronto con altri manoscritti coevi si evince che, molto probabilmente, il codice è stato realizzato in Siria, forse ad Antiochia, oppure in un centro dell’Asia Minore, come Efeso, Cappadocia, Costantinopoli o forse ad Alessandria d’Egitto. Si ipotizza che il codice sia arrivato a Rossano nel VII secolo, a causa del primo iconoclasmo, e che sia stato condotto a Rossano da un gruppo di monaci greco-orientali che custodivano il prezioso testo Sacro. Il testo fu ritrovato nel 1864 all'interno della sacrestia della Cattedrale di Maria Santissima Achiropita di Rossano. Fu segnalato per la prima volta dal Giornalista Cesare Malpica. Nel 1879 il codice fu studiato per la prima volta, dal punto di vista scientifico, dai tedeschi Von Gebhardt e Adolf Harnack, i quali lo sottoposero all'attenzione della cultura internazionale. Nel 1907 il Codice venne esaminato dallo storico dell’arte e architetto Antonio Munoz. Il primo restauro fino ad ora documentato fu condotto nel 1919 da Nestore Leoni che provvide a consolidare e stirare la pergamena servendosi di gelatina stesa a caldo, rendendola trasparente in maniera irreversibile. Tra i più rilevanti studiosi italiani si segnalano quelli di Dei Maffei (1978), e Cavallo (1987); quest’ultimo viene ricordato per la realizzazione del facsimile e del commento analitico del Codice.

Il Codex Purpureus di Rossano è un documento d’inestimabile valore storico archeologico. Grazie alle sue tavole policrome perfettamente conservate, è considerato il più antico libro illustrato del mondo. Nell'ottobre del 2015 è stato riconosciuto Patrimonio dell’Umanità ed inserito dall’Unesco tra i 47 nuovi documenti del registro della memoria mondiale.

Fig.2 - Codice Purpureo, l’ingresso di Gesù a Gerusalemme.

Bibliografia e Sitografia

Dè Maffei F., Il Codice Purpureo di Rossano Calabro, in Atti del Congresso Internazionale su S. Nilo di Rossano, 28 settembre-1 ottobre 1986, Rossano-Grottaferrata, 1989, pp. 365-376.

Filareto F., Renzo L., Il codice Purpureo di Rossano, perla Bizantina della Calabria, Museo Diocesano d’Arte Sacra Editore, Rossano 2001.

Leone G., La Calabria dell’arte,: Città Calabria Edizioni, gruppo Rubbettino, 2008, pp. 4-6.

Malpica C., La Toscana, l'Umbria e la Magna Grecia, Napoli 1846, pp. 313.

Muñoz A., Il Codice Purpureo di Rossano e il frammento Sinopense, con XVI tavole in cromofototipia, VII in fototipia e 10 illustrazioni nel testo, Roma, Danesi Editore, 1907.

Rotili M., Il Codice Purpureo di Rossano, Cava dei Tirreni 1980.

 

Sitografia

http://www.artesacrarossano.it/codex.php


CHIESA DI SANT'ADRIANO A SAN DEMETRIO CORONE

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

La fondazione della chiesa di Sant'Adriano è legata alla figura di S. Nilo di Rossano, uno dei maggiori protagonisti del monachesimo greco dell’Italia meridionale del X secolo. Nel 955 S. Nilo dopo un periodo di duro ascetismo nella valle del Mercurion si trasferì a San Demetrio e su un terreno di proprietà della famiglia fondò il suo ascetario, divenuto poi un cenobio, accanto a un piccolo oratorio già esistente dedicato ai santi martiri Adriano e Natalia. S. Nilo rimase qui fino al 980.

Fig. 1- Chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone.

Dopo la sua partenza la chiesa fu distrutta durante un’invasione saracena. Successivamente fu ricostruita da S. Vitale da Castronuovo anche se molti sostengono che questa è un’ipotesi sbagliata. Nel 1088 il duca normanno Ruggero Borsa figlio di Roberto il Guiscardo donò il monastero, con tutti i suoi edifici, alla abbazia benedettina di Cava dei Tirreni. Questa dipendenza fu importante per la storia edilizia della chiesa, durò per diciotto anni. Nel 1106 lo stesso Ruggero Borsa sottrasse il monastero alla Badia di Cava dei Tirreni e lo restituì ai basiliani.  In epoca normanna, tra la metà del XII secolo e la prima metà del XIII secolo, il monastero raggiunse uno stato patrimoniale di floridezza economica e fu ricostruito ex novo. In questo periodo venne costruito il pavimento in opus sectile. Si presume che l’intera pavimentazione fosse decorata in origine con disegni geometrici, di cui oggi solo la metà è giunta a noi, mentre il rimanente è rivestita con mattonelle, frutto dei restauri del XX secolo. Oltre al pavimento in opus sectile troviamo quattro lastre figurative medievali: un leone e un serpente che si contendono una preda irriconoscibile(fig.3), un serpente che si avvolge in tre spire, un felino(fig.2) non si sa se una pantera o un gatto), un serpente avvolto nelle spire. Paolo Orsi sostiene che i materiali utilizzati nel pavimento forse sono provenienti dall'antica città di Copia non lontano da San Demetrio Corone.

All'interno della chiesa di Sant'Adriano non solo il pavimento presenta delle decorazioni, ma anche le pareti. In origine gli affreschi decoravano tutte le pareti della chiesa, ma solo una parte è giunta fino a noi; furono scoperti fortuitamente nel 1939, durante gli interventi di restauro di Dillon. Lo studioso li rinvenne al di sotto di uno strato di calce apposto probabilmente dagli stessi monaci del monastero alla fine del Settecento, forse per cancellare ogni traccia dell’antica presenza bizantina. Gli affreschi sono stati datati fine dell’XI secolo inizi del XII secolo. Il ciclo si svolge lungo la navata centrale, nei sottarchi e nei muri circostanti agli archi delle navate minori. Il programma figurativo è prevalentemente iconico e attinge al repertorio agiografico dell’Italia meridionale. Negli intradossi degli archi vi sono raffigurati santi stanti e isolati. Purtroppo le figure non hanno iscrizioni e questo rende assai difficile la loro esatta identificazione.

La chiesa di Sant'Adriano presenta quattro archi per ogni lato. Al di sotto di ogni arco sono inserite due figure di santi separate da un clipeo con motivo floreale (fig.4), per un totale di sedici santi, di cui solo dodici esistenti per intero, due frammentari e due totalmente scomparsi. Altri affreschi si trovano nel muro interno della navata nord dove troviamo una serie di santi, tutti di sesso maschile, mentre nella navata sud troviamo figure di sante, le uniche identificate: S. Giuditta, S. Anastasia e S. Irene

Fig. 4- Chiesa di Sant’Adriano, santi separati da un clipeo con motivo floreale.

In questa navata troviamo anche una scena narrativa: la presentazione della Vergine al tempio (fig. 5). La scena è composta da numerose figure, la Vergine condotta al tempio dai Gioachino e S. Anna affidata al sacerdote Zaccaria vicino ad un ciborio, una processione composta da sette fanciulle con lampade accese. L’altare maggiore della chiesa è datata 1731, attribuito a Domenico Costa. Sopra campeggia una tela del martirio di Sant'Adriano probabilmente opera del pittore Francesco Saverio Ricci. Nelle due nicchie ai fianchi della tela, sono collocati due busti lignei del 1600 raffiguranti Sant'Adriano e Santa Natalia. Nell'altare a sinistra è raffigurata la Madonna con San Nilo e San Vito, mentre in quello di destra è raffigurato San Basilio.

Fig. 5- Chiesa di Sant’Adriano, presentazione della Vergine al tempio.

Nella chiesa di Sant'Adriano sono presenti anche delle sculture: un capitello bizantino del X secolo adattato ad acquasantiera, una conca ottagonale presumibilmente d’epoca normanna e un coperchio del X secolo. Si tratta di opere di botteghe locali, facente parti di quell'arte che l’Orsi definisce basiliano calabrese, in quanto influenzata dalla cultura bizantina al tempo dei normanni. La chiesa ha subito nei secoli varie perdite e rifacimenti, ma nel complesso non ha perso del tutto la sua bellezza al suo interno di elementi bizantini e normanni.

 

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Dillon, A., La Badia greca di S. Adriano. Nuove indagini sul monumento e notizie della scoperta di un ciclo di pitture bizantine, Reggio Calabria 1948, pp. 7-27.

Garzya Romano, C., La Basilicata, La Calabria, in Italia romanica, IX, Milano1988, pp. 101-108.

Lavermicocca, N., San Demetrio Corone (Rossano): la chiesa di S. Adriano e i suoi affreschi, in “Rivista di studi bizantini e slavi”, III, (1983), p. 262.

Orsi, P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze, 1929, pp. 155-158.

Pace V., Pittura bizantina in Italia meridionale (sec. XI-XIV), in “I bizantini in Italia”, 1982, pp.427-494.

Pensabene, P., Il riuso in Calabria, in i normanni in finibus Calabriae, a cura di Cuteri, F. A.,  Soveria Mannelli 2003, pp. 77-94.

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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