MAUSOLEO DI TREDOLICHE A CIRELLA
A cura di Antonio Marchianò
Il monumento funerario conosciuto come mausoleo di Tredoliche si trova alle spalle del promontorio di Cirella in provincia di Cosenza: viene considerato un unicum in quanto questo tipo di edificio è rarissimo, e rappresenta una delle più monumentali testimonianze dell’architettura funeraria di età romana in Calabria. Con la sua mole, che raggiunge il diametro di m. 13,45 (circa 45 piedi romani), segue per dimensioni solo un altro grande mausoleo della regione, quello a tumolo di Blanda Iulia della seconda metà del I secolo a.C. L’edificio è stato per lungo tempo al centro di un dibattito sul suo possibile carattere templare, sostenuta anche da Ulrich Kahrstedt nel 1960 e più di recente da Olga de Aloe. Ma gli studi di Guzzo G., Gioacchino F. e La Torre hanno definitivamente chiarito la funzione funeraria allineata alle più recenti mode architettoniche elaborate a Roma e più in generale nell'area centro-italica tra il II e il III secolo d.C.
L’impianto originale mostra una pianta centrale, formata da un tamburo circolare con avancorpo a fronte rettilinea in corrispondenza dell’ingresso. Il diametro esterno misura m. 13,45 mentre il muro curvilineo raggiungeva lo spessore di circa m. 1,5. La fronte anteriore era posta in tangenza alla circonferenza esterna, creando ai due lati un aggetto di circa m.1,18. Essa era orientata a nord, evidentemente verso la linea di costa e la via litorale inferiore. L’accesso (fig.3), disposto assialmente, doveva essere largo m.2,50 e si sviluppava con una leggera strombatura verso l’interno della costruzione. L’apertura terminava superiormente con un arco ribassato, protetto da un arco di scarico superiore, a tutto sesto. La porta partecipava all'organizzazione cruciforme dello spazio interno, definita dalla presenza di tre ampie nicchie rettangolari a fondo curvilineo: le due laterali, larghe m. 2,96 con la loro profondità di m. 0,90 furono create nello spessore del muro anulare; quella di fondo, volutamente più profonda allo scopo di enfatizzare l’importanza assiale (circa m. 1,50 = 5 p.r., pari allo spessore del tamburo murario), comportò la creazione di un elemento rettangolare aggettante, dalle dimensioni di circa m. 5,05 x 1,65. Tutti si inserivano entro grandi arcate a tutto sesto, definite da ghiere singole inglobate nella superficie muraria. Rispetto allo spiccato delle fondazioni queste si impostavano alla quota di m. 3,55 raggiungendo un’altezza totale commisurata alle dimensione della luce interna. Purtroppo nulla si conserva della copertura del monumento. Certamente doveva trattarsi di una grande cupola emisferica, impostata a una quota superiore rispetto alla muratura superstite. Su di essa, infatti, non si legge alcuna traccia d’innesto di una curvatura verticale.
Per la costruzione del mausoleo si dovette innanzitutto sbancare un tratto del pianoro in leggero pendio, creando un taglio ancora oggi visibile subito a nord dell’edificio, dove affiora un banco roccioso. Le fondazioni furono realizzate in cavo libero con una robusta struttura in cementizio (opus caementicium), formata da scaglie di calcare e frammenti di mattoni legati da malta di calce. Ben livellate nella risega interna, sul profilo esterno esse terminavano con un filare orizzontale continuo (euthynteria) che, con una risega di cm 30, sottolineava lo spiccato dell’elevato, fornendone al tempo stesso un regolare piano di imposta. La pulitura del monumento fatta nel 2008 ha permesso di raccogliere nuovi dati sulla parete inferiore della struttura (fig.4), innanzitutto l’impiego di materiali da costruzioni differenziati per euthynteria, evidentemente finalizzato a ridurre i costi del cantiere. Il filare dell’avancorpo d’ingresso e parte interiore del tamburo risultano apparecchiati con blocchi lapidei, tagliati sia in una roccia giallastra locale che nel micro-conglomerato naturale, mentre nelle altre parti, invece, appare realizzato con grandi mattoni. Si nota la presenza di una serie di brevi tacche incise sulla facciata superiore dei blocchi, omogenea sulla distribuzione e quindi in fase con il monumento.
Si tratterebbe di incassi per l’ancoraggio della leva utilizzata in cantiere per posizionare un elemento superiore, appoggiato alla muratura e completamente spoglio dopo la de-funzionalizzazione del mausoleo. Il monumento, ancora ben conservato (fig.2), è costituito da un tamburo circolare realizzato con una muratura a nucleo cementizio e doppio paramento in mattoni (opus testaceum). I laterizi, di buona fattura ma di taglio irregolare e di spessore variabile, probabilmente furono ricavati in parte da tegole. L’apparecchiatura è associata alla presenza di mattoni più grandi, messi in opera su singoli filari continui. La malta è di qualità non elevata, con aggregato naturale a granulometria variabile, grossi grumi di calce e una percentuale di laterizio pestato. Attenta appare anche la realizzazione delle tre arcate e della porta d’ingresso. Al posto delle arcate perdute in seguito a dei crolli e a degli interventi post-antichi sono state create ghiere a tutto sesto in sesquipedali a sezione rettangolare, che hanno comportato la creazione di giunti di malta ad andamento radicale. Poste a filo con la superficie interna del tamburo murario, presentano uno sviluppo orizzontale curvilineo commisurato ad essa. In corrispondenza dell’ingresso l’arcata si trasforma in un arco di scarico, posto a protezione dell’arco ribassato del portale, creando anch'esso in sesquipedali disposti radicalmente e posto contro triangoli d’imposta a mattoni.
Dopo i primi secoli di utilizzo, secondo alcuni studiosi, il mausoleo ha vissuto un riuso cristiano, anche in rapporto alla continuità insediativa dell’abitato, sede vescovile nel VII secolo. Tra il tardo medioevo e l’età moderna il mausoleo, oramai persa la funzione originale, spoglio del suo apparato decorativo, subì importanti trasformazioni per essere riutilizzato a scopi abitativi e/o difensivi. Molto probabilmente venne utilizzato come torre costiera lungo il litorale tirrenico calabrese. Il mausoleo di Cirella pone problemi che riguardano la datazione. L’impianto compositivo elaborò la forma cilindrica del tamburo, tipica dei grandi sepolcri tardo-repubblicani e della prima età imperiale, in una soluzione con camera funeraria interna completamente accessibile. Si tratta di una composizione architettonica che iniziò a comparire tra il Lazio e la Campania nel II secolo d.C., secondo alcuni sul modello, semplificato, del Pantheon Adrianeo, secondo altri sulla scia della forma di tholoide del templum Gestis Flaviae, il grande mausoleo dinastico costruito da Domiziano sul Quirinale tra l’89 e il 95 d.C.
Purtroppo pochi sono i dati per una caratterizzazione cronologica delle tecniche costruttive di età romana in Calabria, per cui diviene difficile intervenire sulle datazione proposte. L’apparecchiatura muraria del mausoleo sembra discostarsi dalle cortine testacee databili entro il principato di Antonino il Pio (come quelle note a Copia, Scolacium e Locri), offrendo margini per una cronologia più ampia. Se poi si fa riferimento con quanto avvenne nell'arte edificatoria dell’area centro-meridionale della penisola, le peculiarità edilizia del cantiere (quali la presenza di corsi di bipedali, l’ampio uso di tegole smarginate e mattoni di spessore differente, nonché con altro rapporto fra la malta dei giunti e i laterizi nella definizione del modulo) sembrano indiziare il monumento in fase tarda, cioè quella severiana. Di certo, con la sua mole e probabilmente con la decorazione architettonica, il mausoleo di Cirella costituì per tutta la tarda antichità un segno importante del paesaggio tirrenico calabrese, affiancato dal grande sepolcro a tumolo della vicina Blanda Iulia.
Bibliografia
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Mollo, F., Un impianto per la salagione del pesce di età imperiale a Cerillae (Diamante, Cosenza), lungo la costa tirrenica cosentina, Quaderni di Archeologia, N.S. III, 2013, pp. 75-105.
Paoletti, M., Occupazione romana e storia della città, in Storia della Calabria Antica. II, Età italica e romana, a cura di Settis S., Roma-Reggio Calabria, pp. 467-566.
L'ICONA DELLA MADONNA DEL PILERIO
A cura di Antonio Marchianò
Il culto della Madonna del Pilerio
L’icona della Madonna del Pilerio attualmente custodita e venerata nella Cattedrale di Cosenza, nella cappella a lei dedicata, è un pregevole dipinto su tavola risalente al XII sec. voluta dall'Arcivescovo Mons. Giovan Battista Costanzo per favorire l'afflusso dei pellegrini. Il culto cattolico della Madonna del Pilerio risale all'anno 1576, quando una devastante epidemia di peste si accanì sulla città di Cosenza facendo numerose vittime. Secondo la tradizione cattolica la popolazione ormai allo stremo, visti gli infruttuosi tentativi umani di arginare l'epidemia, si rivolse a Dio. Si narra che un devoto, che pregava dinanzi all'antica icona della Vergine Maria posta all'interno del Duomo cittadino, si accorse che sul viso della Madonna si era formato un bubbone di peste. Fu allertato il Vicario generale dell'epoca, si sparse immediatamente la notizia, e una grande folla si recò ad ammirare coi propri occhi lo strano evento, che venne interpretato come volontà della Vergine di accollarsi la malattia per liberare la popolazione. La regressione della peste nella città, che avvenne nei mesi successivi, venne interpretata come un vero e proprio miracolo. A seguito dell'evento, la Madonna del Pilerio venne eletta a Patrona Protettrice di Cosenza. La notizia del segno prodigioso non tardò a divulgarsi, e dai paesi vicini iniziò un crescente accorrere di devoti.
I pellegrinaggi continuarono nel tempo e crebbero di numero, tanto che nel 1603 l'Arcivescovo Mons. Giovan Battista Costanzo, per meglio favorire l'afflusso dei pellegrini, tolse l'icona dal luogo dove si trovava e lo collocò prima su uno dei pilastri della navata centrale del Duomo, poi sull'altare maggiore, e infine, nel 1607, nella cappella appositamente costruita e dedicata alla Vergine, dove ancora oggi si venera. Il 17 aprile 1607, su richiesta unanime dei cosentini, l'Arc. Mons. Costanzo incoronò la Vergine del Pilerio come Regina e Patrona della città. Nel 1783 un violento terremoto si abbatté su Cosenza. In quell'occasione si constatò un altro segno sul viso dell'immagine della Madonna: furono infatti notate delle screpolature, che poi scomparvero ma non del tutto, una volta passato il pericolo. Il 6 luglio 1798 si stabilì la celebrazione della sua festa, il giorno 8 settembre di ogni anno, per la sua Natività. Il 12 giugno 1836 l'Arc. Mons. Lorenzo Puntillo (1833-1873) fece una seconda incoronazione con corone d'oro e gemme di grande valore. In seguito al terribile terremoto del 12 febbraio 1854 i cosentini chiesero e, l'11 gennaio 1855 ottennero, dall'autorità ecclesiastica l'istituzione di una seconda festa, detta "del patrocinio", in onore della Vergine da celebrarsi ogni anno, il 12 febbraio. Nel 1922 avvenne una terza incoronazione, autorizzata dal capitolo Vaticano e celebrata dall'Arc. Mons. Trussoni (1912-1933). Durante la seconda guerra mondiale si ebbero a Cosenza due spaventosi bombardamenti che decimarono quasi la città: il 12 aprile e il 28 agosto 1943. Per iniziativa dell'Arc. Aniello Calcara (1941-1961) il 6 settembre 1943 il quadro della Madonna fu temporaneamente trasferito nel Convento dei Padri Minori di Pietrafitta con l'intento di proteggerlo. L'anno 1948 fu caratterizzato dalla "Peregrinatio Mariae" voluta da Calcara come preparazione al Congresso Mariano programmato per il 1951. Il 20 febbraio nuovamente ci fu a Cosenza un violento terremoto. Anche in questa occasione i cosentini si affidarono alla protezione della Madonna del Pilerio, e chiesero e ottennero da Achille Lauro (amministratore apostolico dell'Arcidiocesi) una processione. Il 10 maggio 1981 l'Arc. Dino Trabalzini elevò a Santuario della Vergine SS. del Pilerio il monumentale Duomo di Cosenza. Il 6 ottobre 1984 avvenne la storica visita alla Madonna del Pilerio e al Duomo da parte di Sua Santità Papa Giovanni Paolo II, la cui devozione filiale alla Madonna contraddistinse il suo intero pontificato. Il 10 ottobre 1988 Mons. Dino Trabalzini, in chiusura dei festeggiamenti per l'anno Mariano, proclamò la Madonna del Pilerio Patrona Principale dell'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano e ne confermò il titolo di "Patrona della Città di Cosenza".
L'icona della Madonna del Pilerio: descrizione
L’icona misura 95 x 65 cm ed è stata eseguita in ambito mediterraneo occidentale; grazie alle sue caratteristiche iconografiche è definita “bizantina”. La tavola su cui è rappresentata la Vergine che allatta il Bambino ha subito nel tempo vari rimaneggiamenti, ma anche danneggiamenti, fino ad essere stata completamente ridipinta. Solo con i restauri voluti dall'arcivescovo Mons. Enea Selis nel 1976-77 ed eseguiti presso la Sovrintendenza per i Beni culturali è stata ripristinata la bellezza originale, che ha permesso una lettura approfondita della immagine dipinta sul legno. L’icona infatti fino ad allora era considerata di scarso valore artistico, e solo una mera riproduzione di una più antica icona medievale. Secondo la Di Dario Guida, l’icona sembra essere stata eseguita durante l’ultimo scorcio della dominazione Sveva. Risulta come uno dei prodotti artistici più rilevanti di un vasto movimento artistico e culturale che subì sia gli influssi del “bizantinismo aulico delle opere messinesi del XIII secolo, sia le affinità delle ricerche plastiche perseguite dai maestri toscani pre-cimabueschi” L’icona si inserisce, inoltre, in una linea che unisce, dal punto di vista artistico, Monreale, Messina e la Campania.
La figura della Vergine
Partendo dalla figura della Vergine rappresentata possiamo affermare, confortati da autorevoli studi, che l’immagine è la sintesi tra una Galaktotrophousa (Colei che dona il latte) e la Kikkotissa (Vergine dal rosso manto). I due particolari pittorici relativi all'allattamento del Divin Bambino e del Maforiuòn (manto rosso) emergono nella loro immediatezza appena ci si accosta all'icona.
Il titolo di Pilerio, chiaramente postumo alla sua realizzazione, offre diverse interpretazioni, alcune anche apparentemente contrastanti, ma tutte permettono di cogliere la ricchezza delle interpretazioni di tipo teologico, devozionale e pastorale date all'icona. La più tradizionale interpretazione del titolo è quella di Pilastro. Essa fa letteralmente riferimento alla collocazione originaria dell'icona, che si trovava collocata su una colonna all'interno della chiesa Cattedrale. Questo titolo potrebbe risalire proprio al periodo di dominazione spagnola o comunque all'epoca del miracolo della peste nel 1576, epoca nella quale l’influenza della pietas spagnola potrebbe aver portato a Cosenza la devozione per la Vergine del Pilar, anch'essa collocata su di una colonna. Testimonianze di questa influenza sono ancora presenti, ad esempio, nell'America latina, dove forte fu la dominazione spagnola. Un altro dato di cui tener conto è la certa influenza bizantina dovuta all'appartenenza della Città all’Eparchia greca fin dal IV secolo e della vicinanza con Rossano. Nella tradizione e nella liturgia bizantina è uso collocare la Vergine proprio alla porta del Tempio e nei punti strategici delle Città come atto di affidamento alla “Custode” del popolo di Dio (dal greco puloròs = custode della porta).
L’icona è avvolta da una luce tutta particolare che emerge dallo sfondo oro che simboleggia la gloria di Dio che tutto abbraccia. La grazia trasfigura la creatura nella quale “abita l’Altissimo”. Tutte le icone, ma particolarmente quelle della Madre di Dio, sono accompagnate dall'oro che indica il progetto e l’iniziativa di Dio, la gloria scende e prende possesso della tenda. Anche il rosso del velo che scende dal capo e il porpora dell’abito di cui Maria è rivestita sono simboli della divinità che “avvolge” la giovane di Nazaret e ne coinvolge mente e cuore. Il colore porpora dell’abito richiama anche la dimensione sacerdotale e regale ma soprattutto la “potenza dell’Altissimo” di cui l’Angelo annunziante le parla quando le propone il grande progetto della salvezza e della maternità. Il velo rosso che scende sulla spalla vuole significare che la Vergine Maria è stata “avvolta” dall'alto e ricoperta dalla grazia. Il marrone della veste della vergine è richiamo della sua umanità, mentre l’altra parte di manto di colore blu che avvolge la donna, ed avvolge anche gli abiti, indica il privilegiato rapporto con Dio di questa creatura. Base di ogni colore è il bianco che in tutta la tavola esprime la purezza, l’immacolato concepimento della Vergine. Esso si intravede sulla fronte, nella manica del braccio sinistro ed è l’abito che ella indossa sotto tutti gli altri. Le tre stelle, secondo l’iconografia classica bizantina, sono collocate una sulla fronte e due ai lati sulle spalle. Esse indicano che Maria è inabitata dalla Trinità ma anche la sua Verginità prima, durante e dopo il parto. I medaglioni dorati intorno al capo della Vergine sono undici. Rappresentano la Chiesa Apostolica senza l’apostolo Giuda che aveva tradito il Signore. Questo particolare stellario indica Maria presente nel Cenacolo di Gerusalemme, accanto agli Apostoli, proprio nei giorni e nelle ore della Pasqua fino alla Pentecoste. Le scritte in latino (MR e DOMINI) collocate rispettivamente a sinistra e a destra dell’immagine come prescritto dal Concilio di Nicea (787d.C) indicano la maternità divina di Maria. L’aureola sul capo del Divino Bambino contrassegnato dalla croce è un chiaro richiamo alla Passione di Cristo e al suo regnare glorioso. Il mistero dell’Incarnazione infatti è strettamente collegato con quello della Redenzione. Un ultimo segno che appare sulla tavola è la macchia scura sul volto della Vergine. È il segno della peste di cui Maria si è caricata per liberare miracolosamente la città di Cosenza afflitta dal terribile morbo e di cui storia e devozione popolare sono ancora testimoni. La Vergine Maria regge il Bambino tra le braccia e Gesù è seduto delicatamente sulla mano destra; essa diventa per lui quasi un trono da cui regna. Un drappo rosso posto tra le mani della Madonna richiama la sua signoria, la sua potestà regale e sacerdotale, la sua divinità. Non è escluso anche il richiamo alla Passione. Gesù che prende il latte dalla mammella diventa un particolare iconografico molto evidente: c’è una stretta tensione tra Cristo che è capo della Chiesa e il suo corpo mistico, di cui Maria ne è icona perfetta. Alcuni studiosi vedono proprio nella posizione del collo piegata verso il Bambino questa strettissima dipendenza e questo stretto rapporto tra Gesù e Maria, tra Cristo e la Chiesa. L’iconografia del seno si chiarisce ancora di più se la Vergine è colta nella dimensione di nutrice dei figli (Colei che nutre, imbandisce il banchetto, la mensa) fino a diventare, come la invoca la Chiesa ortodossa, Trapeza, evidente richiamo alla mensa eucaristica. Il Bambino è rappresentato con due addomi, strettamente legati da una fascia rossa intrecciata, ad indicare che le due nature umana e divina che sono unite in Cristo. Nella piccola fascia rossa intrecciata alcuni hanno intravisto anche un prolungamento del cordone ombelicale che unisce il figlio (divino) alla Vergine (madre) per esprimere visivamente il titolo di Madre di Dio (Theotòkos) inciso sulla tavola. Copre il Bambino un trasparente velo bianco che ricorda la divina purezza di Cristo agnello senza macchia che toglie i peccati del mondo e riscatta con l’effusione del suo sangue l’intera umanità dalla schiavitù, dai peccati e dalla morte. La Vergine come in ogni antica icona indica con la mano sinistra il figlio, si fa Odigitria (indica la Via) per tutti coloro che guardano la sua immagine e che potrebbero cadere nella tentazione di fermare lo sguardo su di lei. Le dita delle mani indicano anche alcune verità di fede: le tre dita della mano destra richiamano il mistero trinitario e ancora il parto verginale di Maria toccata dal mistero dell’Incarnazione; le due dita della mano sinistra invece indicano la doppia natura umana e divina di Cristo.
Bibliografia
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Leone G., Icone della “Teotokos” in Calabria, in “Concilio Niceno II e l’iconografia mariana in Calabria”, atti del convegno, Cz, 1987, a cura di Squillace M., Edizioni Vivarium, Catanzaro, 1990, pp.119 e ss.
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Pio IX, Bolla Ineffabilis Deus, dogma dell’Immacolata, 8 dicembre 1854.
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Vitari S., Il Duomo di Cosenza, in Bilotto L., Il Duomo di Cosenza, Effesette, Cosenza, 1989, p.101.
I GIGANTI DI PIETRA DI CAMPANA
A cura di Antonio Marchianò
La Stonehenge della Calabria
I Giganti di Pietra di Campana, chiamati anche Pietre della Incavallicata, sono due sculture megalitiche create probabilmente dai primi abitanti della Calabria, e sono situati vicino Campana, nel Parco Nazionale della Sila. Il sito di Campana è considerato la Stonehenge della Calabria.
Numerose sono le teorie su queste sculture. La prima teoria le fa risalire all'epoca della conquista di Pirro, quindi all'inizio III secolo a.C. Pirro, con trentamila uomini e venti elefanti, giunse in Magna Grecia su invito dei Tarantini per combattere l’avanzata romana da Nord, nel 280 a.C. Anche se questa ipotesi non ha nessun senso logico perché la statua dell’elefante richiese parecchio tempo per essere scolpita.
La seconda sosterrebbe che siano state costruite dai soldati di Annibale durante la Seconda Guerra Punica, verso la fine del III secolo a.C. A differenza di Pirro, Annibale soggiornò per lungo tempo nel Bruttium, l’antica Calabria e sicuramente anche in Sila, ma aveva, alla discesa delle Alpi, un solo elefante, poiché dei trentotto con cui era partito, trentasette morirono sulle Alpi. Uno dei suoi accampamenti principali fu il Castra Hannibalis, situato nella zona della marina di Catanzaro, dunque molto più a sud di Campana. Durante la presenza di Annibale nell'Italia meridionale, furono coniate diverse monete recanti come simbolo il cavallo, mai l’elefante che invece fu usato nelle zecche puniche africane e spagnole. Dall'esempio di shekel punico, moneta del periodo di Annibale, si denota la diversa rappresentazione iconografica rispetto all'elefante di roccia dell’Incavallicata. L’Elefante di Campana, ad una attenta analisi, non sembra essere né asiatico né africano, sia per la forma delle orecchie che per quella delle zanne: dritte, rivolte verso il basso, connotazioni proprie dell’Elephas Antiquus! Non sembra sia stato il passaggio di Pirro e di Annibale in Calabria a far conoscere gli elefanti agli abitanti di Campana. E inoltre, le Pietre dell’Incavallicata sono strutture imponenti che hanno richiesto tempi lunghi per l’elevazione dei ponteggi o terrapieni e per la scultura delle rocce. Sono, quindi, con molta probabilità da attribuire ad una popolazione residente nell'area e non al passaggio occasionale di qualche esercito straniero.
La terza ipotesi, lo identificherebbe come un Elephas Antiquus, una specie che si è estinta circa 11.000 anni fa, perché la scultura ha le zanne dritte come questa specie, e non le zanne ricurve verso l'esterno, come gli elefanti attuali. I megaliti sono stati scolpiti solo in epoca preistorica, non si conoscono megaliti in epoca romana (Pirro ed Annibale). Nel dicembre 2017 la sovrintendenza archeologica delle Calabria ha rinvenuto nel lago Cecita, a circa 20 chilometri di distanza in linea d'aria dai megaliti di Campana, il fossile completo di un Elephas Antiquus, con zanne e corpo intatti. Questo fatto conferma la presenza della specie nell'area della Sila.
In un documento scritto nel 1600 dal vescovo Francesco Marino, cita la presenza di una delle due statue che viene definita: "Il gran colosso caduto al suolo a causa dei terremoti". Nella mappa della Calabria, disegnata da Giovanni Antonio Magini, nel 1603 la zona è definita: "Il Cozzo dei Giganti".
Dal punto di vista geologico, le rocce dell’Incavallicata appartengono all'unità delle Arenarie giallastre e grigie a echinidi clipeastri di età Serravalliano-Tortoniano (Miocene medio-superiore), come desunto dalla Carta geologica d’Italia alla scala 1:100.000 del Servizio geologico d’Italia, foglio 230 Rossano, rilevato negli anni 1888-1890 dall’ing. Cortese, uno dei più illustri geologi dell’allora Regio Ufficio geologico.
Il primo ad interessarsi di questi megalite negli ultimi due decenni è stato l’architetto Domenico Canino. Egli è convinto fortemente che le due sculture siano entrambe dovute all'opera di uomini preistorici, ad una specie di artigiani-artisti che non fecero altro che rappresentare, quasi per ringraziamento. E, a maggior rafforzamento della sua teoria, egli ricorda che l’esemplare rinvenuto lungo il Cecita è proprio del tipo raffigurato a Campana: a conforto di ciò egli ricorda le misure dell’elefante di pietra e dei resti messi al sicuro durante gli scavi e ora sottoposti a nuove indagini scientifiche più approfondite e a studi appropriati presso l’Università del Molise. Le misure dell’elefante di Campana, alto m 5,80, coinciderebbero con quelle ipotizzate dai primi esami dei fossili provenienti dal Cecita: alto al garrese circa 4 metri e con le zanne lunghe circa tre metri. “Quasi il gemello dell’elefante di Campana” ha affermato il Canino in una recente intervista. Tra l’altro la distanza tra le rive del Lago Cecita e la località Incavallicata è soltanto di pochi chilometri in linea d’aria. E noi dobbiamo immaginare l’altopiano silano non come appare oggi, una immensa foresta, bensì costituito da una diffusa savana con alberi di basso fusto e enormi praterie d’erba. L’habitat naturale per uomini preistorici dediti alla caccia e alla lotta per la sopravvivenza. In questo mondo gli stessi elefanti costituivano probabilmente una fonte di cibo ed è facile immaginare quanto fosse preziosa la loro presenza, oltre che per l’alimentazione insieme ad altre specie cacciabili, anche per l’uso che poteva farsi dell’avorio per realizzare utensili e gioielli nonché come merce di scambio.
I giganti di pietra di Campana: descrizione delle statue
La prima statua, chiamata "L'Elefante" (fig.2) è alta 5,50 m, rappresenterebbe un elefante. Osservandola da un lato è ben visibile la lunga proboscide e le due zanne. L’elefante ha tutte e quattro le zampe emicilindriche ben modellate e visibili, due sul lato destro, due su quello sinistro. La zampa posteriore sinistra è ritratta in flessione, cioè l’elefante è ritratto in movimento.
Potrebbe trattarsi dell’Elephas Antiquus, estintosi 12 mila anni fa e ad avvalorare l’affascinante tesi sono le dimensioni delle zanne: 180 centimetri, in parte mutilate, che se ricostruite interamente arriverebbero a misurare 220. E se questa ipotesi fosse vera, quelle di Campana sarebbero le sculture preistoriche più grandi d’Europa.
Dietro la zanna c’è un’altra protuberanza cilindrica mutilata che si protende verso il basso, e dà l’impressione della gamba di un uomo a cavallo dell’animale, ma la statua nella sua parte alta è incompleta. La statua è complessivamente alta 5 metri.
La seconda, alta 7,50 m, è invece mutila nella parte alta, ma sembrerebbe rappresentare le gambe di un essere umano ed è stata ribattezzata "Il Ciclope" o anche "Il Guerriero Seduto" (fig. 3), infatti la posizione della statua richiama le sculture del Tempio di Abu-Simbel, in Egitto.
Alcuni blocchi di roccia caduti dalla sommità dei colossi (non tutti purtroppo) giacciono sul pianoro circostante a poca distanza dalle statue, e forse sarebbe possibile riconoscerne la collocazione nella posizione originale.
Vicino all’Incavallicata, a circa 500 metri di distanza dalla roccia dell’Elefante, in località Pietra Pertosa, è stata trovata una scultura di roccia calcarea scolpita con lo stesso metodo, rappresentante un grosso rettile senza zampe, una sorta di enorme serpente diviso in diversi tronchi cilindrici, alcuni cavi all'interno, lungo complessivamente 10 metri circa.
Dopo alcune ore di cammino si giunge ad una enorme collina di pietra, sulla cui cima è sagomata una grossa balena di 60 metri e quello che da lontano sembrava l’occhio della balena, si rivela essere una coppia di grotte identiche per foggia a quelle sottostanti l’elefante ed il ciclope, solo molto più grandi. Questa enorme pietra ad un'analisi ravvicinata non appare però come una scultura, ma piuttosto come una collina del tutto naturale dove qualcuno ha modellato solo il dorso, ha scavato le due grotte nella roccia ed ha inciso il calcare sulla parte del muso con una scanalatura orizzontale, che essendo segnata in profondità nella roccia ha un colore molto più vivo, per dare l’impressione della bocca del grosso cetaceo.
L’Incavallicata è ancora avvolta nel mistero nonostante i campanesi abbiano sentito parlare delle rocce fin dall'infanzia. Gli anziani raccontavano storie di briganti e tesori nascosti o si limitavano semplicemente a dire che furono gli “Antichi” a scolpirle, per cercare riparo dalle intemperie.
Bibliografia
Casalinuovo R., I Megaliti di Stalettì, 2003.
Stuppello F., Giganti di Pietra di Campana, in calabriaportal. URL consultato il 2 luglio 2018.
Renzo L., Campana, Immagini della memoria, 1988.
Gli elefanti preistorici della Calabria, in National Geographic. URL consultato il 2 luglio 2018 (archiviato dall'url originale il 2 luglio 2018).
Bollettino della società geografica Italiana Roma - serie XIII, vol.I (2008),pp.163-168.
IL CASTELLO DI MURAT A PIZZO CALABRO
ORIGINE DEL CASTELLO DI MURAT A PIZZO CALABRO
La costruzione del castello di Murat a Pizzo Calabro è legata agli eventi storici del periodo aragonese in Calabria. Il castello venne edificato nel XV secolo per volere del re di Spagna Ferdinando I di d’Aragona, giunto in Calabria per sedare la sanguinosa Congiura dei Baroni, ordita contro di lui da alcuni feudatari locali. Dopo aver sopraffatto in modo sanguinoso i cospiratori, il re aragonese costruì buona parte del sistema difensivo del suo regno ordinando la costruzione del castello nell'ottica di aumentare la forza del versante tirrenico. Il castello, completato nel 1492, è una struttura imponente dalle mura particolarmente spesse in quasi perfetto stato di conservazione. Le casermette addossate alle torri sono state abbattute per ordine della Sovrintendenza delle Belle Arti di Reggio Calabria nel 1945. Nel 1878 i locali adibiti a carcere ritenuti insufficienti e malsani furono trasformati in aule per scuole elementari maschili. Nel 1882 nella torre maggiore fu istituita una stazione meteorologica, mentre nel 1892 il Ministero della Pubblica Istruzione proclamò il castello “Monumento Nazionale”. Nel dopoguerra le stanze superiori sono state adibite a circolo ricreativo e culturale mentre i sotterranei, incorporati alle torri, in un modesto ostello per la gioventù capace di 40 posti letto.
IL CASTELLO DI PIZZO: GIOACCHINO MURAT
Il Castello di Pizzo deve la sua notorietà al fatto di essere stato carcere famoso e prigione politica d’importanza nazionale. Tra i prigionieri più celebri si ricorda Tommaso Campanella, filosofo e poeta di Stilo, e Ricciotti Garibaldi, figlio dell’eroe dei due mondi. Nel 1815 il Castello acquista notorietà mondiale per via della cattura di Gioacchino Murat, re di Napoli, e tutto il suo stato maggiore di guerra. Gioacchino era il cognato di Napoleone Bonaparte e sposo di Carolina Bonaparte, era riuscito a conquistare il Regno di Napoli, e il suo governo aveva portato a buoni esiti sia in campo amministrativo sia nel miglioramento dell’istruzione. Fu Napoleone a proclamare il cognato re di Napoli. Murat creò una buona intesa col popolo napoletano che ne apprezzava la bella presenza, il carattere sanguigno, il coraggio fisico, il gusto dello spettacolo e alcuni tentativi di porre riparo alla sua miseria. Nel clima illuministico del tempo avviò profonde riforme. Diede al regno un sistema fiscale solido regolare e semplice. Confiscò i beni della manomorta ecclesiastica, soppresse tutti i monasteri e li incamerò nel Demanio, inimicandosi il clero. Introdusse l’imposta fondiaria sottoponendo a tributo grandi estensioni di terre. Fondò il Banco delle Due Sicilie e introdusse i codici napoleonici. Istituì il corpo degli Ingegneri di ponti e strade e avviò opere pubbliche di rilievo a Napoli e nelle altre regioni meridionali. Dopo la disfatta di Waterloo, il declino di Napoleone travolse anche Murat, che nel 1815 tentò di riconquistare il regno di Napoli; partì infatti alla volta della Campania con sei barche a vela e duecentocinquanta uomini, con l’obbiettivo di riprendersi il trono, ma una tempesta disperse la flotta, e la sua barca, insieme ad un’altra superstite, approdò a Pizzo. Venne catturato, processato e condannato a morte. Prima di morire scrisse una lettera alla moglie Carolina ed ai suoi quattro figli (fig.5). Dopo giorni di prigionia, venne giustiziato con sei colpi di fucile, il 13 ottobre 1815, nel castello di Pizzo.
Molte sono le congetture a proposito del seppellimento della salma e del rinvenimento dei gioielli personali posseduti al momento della cattura. Forse il corpo si trova sepolto in una fossa comune nella navata centrale della chiesa di S. Giorgio che qualche anno prima della sua morte lo stesso Murat fece edificare a Pizzo Calabro. Però c’è chi afferma che esso si trovi sepolto in una fossa comune nel locale cimitero. Altri giurano invece che il corpo sia stato gettato in mare e la testa recisa sia stata fatta recapitare a Ferdinando di Borbone che volle ricompensare, oltre alla Città “fidelissima” di Pizzo, gli abili artefici della soppressione di un personaggio che si rendeva sempre più importante e seriamente incomodo.
Il castello di Pizzo: l'interno
Il castello si sviluppa su una pianta quadrangolare, presenta un piano a livello stradale e un piano superiore. È dotato da due torri cilindriche angolari; la torre grande, detta torre mastra, è di origine angioina. Un tempo si accedeva attraverso un ponte lavatoio, oggi trasformato in un imponente portone, dove una lapide ricorda Gioacchino Murat. Sotto il piano a livello stradale vi sono i sotterranei ai quali è vietato l’accesso, ma si narra che conducevano fuori città, nei pressi di Vibo Valentia e verso il lago Angitola. La parte della fortezza oggi visitabile riguarda i semi sotterranei e il piano superiore. Dalle terrazze del castello è visibile il golfo di Sant’Eufemia e lo Stromboli fumante (fig.3).
All'interno del castello di Murat a Pizzo Calabro troviamo un Museo, allestito nella maniera più fedele possibile all'ambiente in cui si svolsero gli avvenimenti che portarono alla morte di Murat, e che propone una ricostruzione storica con dei manichini in costume che riproducono gli ultimi giorni di vita del cognato di Napoleone.
Nelle sue sale si possono ammirare: una biblioteca telematica murattiana e Napoleonica, stampe e piante sulle origini aragonesi del castello, copie e riproduzioni dei cimeli murattiani, una collezioni di monete, armi d’epoca consistenti in fucili, pistole, sciabole e cannoni. Tra i pezzi più importanti troviamo un busto ottocentesco di Murat realizzato dallo scultore francese Jean J. Catex e un elmo in marmo di una statua equestre di Ferdinando IV del Canova.
Bibliografia
Chimirri, R. Atlante storico dell’architettura in Calabria. Tipologie colte e tradizionali, Rubbettino, 2008 pp. 54-55.
De Lorenzo, R. Murat, Roma, Salerno Editrice, 2011.
De Majo, S., GIOACCHINO NAPOLEONE Murat, re di Napoli, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 55, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2001. URL consultato il 12 luglio 2014.
Frangipane A., Il castello di Pizzo, in <<Brutium>>, N.6, 1937.
LA GROTTA DEL ROMITO A PAPASIDERO
Arte preistorica a Papasidero
La grotta del Romito è un sito risalente al Paleolitico superiore, contenente una delle più antiche testimonianze dell'arte preistorica in Italia e una delle più importanti a livello europeo, situata in località Nuppolara nel comune di Papasidero, nella valle del fiume Lao, in Calabria, provincia di Cosenza.
Il sito consta di due parti: la Grotta vera e propria è lunga circa 20 metri, e il Riparo che si estende è circa 34 metri. I depositi della grotta e del riparo costituiscono una sola grande formazione in cui si possono ammirare suggestive stalagmiti e stalattiti; all’interno si trova anche una galleria ancora inesplorata.
Sito di fondamentale importanza per la preistoria calabrese, esso costituisce uno dei più importanti giacimenti italiani del Paleolitico superiore (30.000-10.000 anni fa) e attesta frequentazioni più recenti risalenti al Neolitico europeo (7.000 – 4.000 anni fa). Ed è proprio in questa cavità che visse “l’uomo del Romito”, probabilmente un uomo di Cro-Magnon, il quale non sapeva allevare gli animali, non conosceva l’agricoltura e la lavorazione della ceramica. In seguito fu l’Homo Sapiens ad abitare intensamente la grotta lasciando innumerevoli testimonianze del suo passaggio con i suoi strumenti litici e ossei, con lo stupendo graffito e con i resti dei propri scheletri.
La Grotta viene scoperta nella proprietà di Agostino Cersosimo, nella primavera del 1961, su segnalazione di due Papasideresi, durante un censimento agrario. In realtà, già nel 1954, un appassionato di archeologia di Laino Borgo aveva segnalato l’esistenza del Riparo precisando la presenza della figura di un toro. La grande scoperta fu quindi affidata ad un archeologo di fama internazionale, Paolo Graziosi, dell’Università di Firenze, che diresse i lavori fino al 1968. Nell'ultimo decennio, a partire dagli anni 2000, la cura del sito è stata affidata ad un suo discepolo, Fabio Martini, che insegna nella stessa Università.
Le numerose scoperte archeologiche restituite dal sito offrono agli studiosi parecchi elementi utili alla ricostruzione storica delle attività delle comunità di cacciatori-raccoglitori che abitarono il sito, le condizioni di vita dei gruppi umani preistorici, la loro interazione con l’ambiente e il paesaggio circostanti. Indicazioni sulla fauna e sui condizionamenti subiti dalle comunità dalle dinamiche climatiche avvenute dalla fine del Paleolitico al Neolitico: la presenza nella grotta di un torrente, antecedente a 24.000 anni fa e avente fasi di ingrossamento alterne nei secoli, ha consentito la frequentazione umana in seguito ai prosciugamenti ed interventi di bonifica.
Riferibile al periodo Neolitico è ad esempio il ritrovamento di ossidiana che lascia ipotizzare “l’area del Romito” come centro di scambio e transito, tra l’area tirrenica e quella jonica, del vetro vulcanico proveniente dalle isole Eolie, confermando l’importanza delle popolazioni neolitiche della Calabria nel commercio e il controllo di questo materiale. Nel cunicolo della grotta è stato rinvenuto un punteruolo di osso con inciso un motivo geometrico costituito da un rettangolo inscritto in un altro, da fasci di linee parallele, rette e zig-zag e da segni a dente di lupo ai margini dello strumento. Essi ricordano analoghi motivi geometrici dell’“arte mobiliare”, forme artistiche relative agli oggetti “Mobili” cioè di oggetti di uso sia rituale sia quotidiano risalenti al periodo preistorico, della grotta Polesini presso Tivoli e di quella spagnola del Parpallò presso Valencia.
Nei livelli più alti del terreno sono state rinvenute tre sepolture datate a 9.200 anni fa, contenenti ciascuna una coppia di scheletri disposti secondo un procedimento ben definito e giacenti in strati epipaleolitici. Una di queste sepolture si trova nella Grotta e due nel Riparo, poco distanti dal masso con la figura taurina. Gli scheletri sepolti all'interno della Grotta del Romito, sono differenti dagli altri resti trovati in Europa perché i ricercatori precedentemente avevano trovato resti scheletrici sepolti individualmente, mentre in questo insediamento hanno trovato per lo più coppie di scheletri. Le sepolture hanno suggerito agli studiosi che probabilmente la Grotta era un posto “sacro” dove veniva effettuato il cosiddetto “Matrimonio-Sati” (la sepoltura di una coppia), conferma della supremazia delle associazioni filiali fra gli uomini e le donne dagli inizi stessi della storia umana. I primi scheletri rinvenuti alla luce nel Riparo sono: un uomo e una donna sdraiati in una piccola fossa ovale l’uno sull’altro. La donna copriva in parte la spalla sinistra dell’uomo e la sua nuca poggiava sulla guancia del compagno. L’uomo le copriva le spalle col braccio sinistro, mentre il destro era disteso lungo il corpo. Il corredo funebre era costituito da un grosso frammento di corno di bos primigenius appoggiato sul femore sinistro dell’uomo, mentre un altro corno era appoggiato sulla spalla destra. Intorno agli scheletri erano deposte delle selci lavorate. I due individui, di 15/20 anni di età, sono ambedue di statura molto piccola: 1,40 metri il maschio, 85 centimetri la femmina, che presenta il femore e l’omero affetti da un forte dismorfismo e da osteoporosi.
Altri due scheletri umani ritrovati nel Riparo sono disposti l’uno sull’altro e di sesso diverso. Si tratta di individui che avevano circa 30 anni, alti 1,46 e 1,55 metri, entrambi sepolti con le gambe flesse. Alcune ossa del secondo individuo non erano al loro giusto posto (l’uomo a destra figurava, infatti senza femore e con l’epifisi nella fossa del bacino), probabilmente perché dopo la morte del primo individuo, alla riapertura della fossa per seppellirvi il secondo, sarebbero state involontariamente mosse le ossa è asportato il femore del primo.
La terza sepoltura si trovava nel deposito della grotta circa allo stesso livello di quelle del riparo. Erano due individui sdraiati sul dorso e affiancati, con le braccia distese, la destra appoggiata sul bacino e la sinistra entro il bacino. Si tratta di due individui maschili, di età al di sotto dei venti anni, di statura di 1,59\1,60 metri circa. Dello scheletro di sinistra rimanevano solo il bacino, gli arti inferiore e le ossa di un braccio. Parte della scatola cranica e metà della faccia furono ritrovate in seguito, in quanto il deposito era stato sconvolto da lavori di scavi forse per rendere pianeggiante il terreno. L’individuo di destra era, invece, completo. Di questi scheletri una coppia è esposta al Museo di Preistoria di Firenze, insieme alle schegge litiche ritrovate (circa 280); un’altra è esposta al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria e una terza è ancora oggetto di studio da parte dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze nei loro laboratori. Durante gli scavi sono state rinvenute anche un paio di sepolture singole. Un anziano di 35 anni (corrispondenti agli odierni 100) che, dagli accertamenti del caso, è risultato essere stato reso disabile da molte malattie, ferimenti da caccia e cadute. L’altro ritrovamento umano di grande interesse, si è rivelato essere quello di un giovane cacciatore che, nonostante la giovane età, fu sepolto con un corredo di oggetti degni di un capo. Altra caratteristica interessante di quest’uomo paleolitico, è l’altezza notevole per l’epoca e per la zona meridionale infatti, lo scheletro ritrovato appartenevano ad un individuo alto 1,74 metri.
Oltre agli importanti resti umani, sono state ritrovate incisioni rupestri. La prima è quella dei cosiddetti “Segni Lineari” (fig.3), un masso di circa 3.50 metri, con semplici tratti rettilinei o leggermente curvilinei, più o meno profondamente incisi, disposti in tutte le direzioni, senza alcun significato apparente.
La seconda è quella del “Masso dei Tori” che si trova presso l’imboccatura della grotta sono incisi su diversi livelli tre profili di Bos Primigenius, un bovino selvatico antenato dei bovini domestici. Rappresenta una delle più importanti raffigurazioni dell’arte rupestre del Paleolitico Superiore: è così perfetto nel disegno e nella prospettiva, quanto nella scelta della superficie rupestre che gli dona un senso tridimensionale, da far affermare al professor Graziosi di essere di fronte a “la più maestosa e felice espressione del verismo paleolitico mediterraneo, dovuto ad un “Michelangelo dell’epoca”. La figura di toro (fig. 4), lunga circa 1,20 metri è incisa su un masso di circa 2,30 metri di lunghezza e inclinato di 45°. Il disegno, di proporzioni perfette, è eseguito con tratto sicuro così come è caratteristico dell’arte paleolitica. Le corna, viste ambedue di lato, sono proiettate in avanti ed hanno il profilo chiuso. Sono rappresentati con cura alcuni particolari, come le narici, la bocca, l’occhio e, appena accennato, l’orecchio. In grande evidenza sono le pieghe cutanee del collo e i piedi fessurati. Un segmento attraversa la figura dell’animale in corrispondenza dei reni.
Secondo Graziosi:” Si ha l’impressione che almeno parte di questi segni preesistessero alla esecuzione del toro e che qualcuno sia stato addirittura utilizzato per la realizzazione delle grandi pieghe”. Tra le zampe posteriori dell’uro vi è incisa, molto più sottilmente, un’altra immagine di bovino di cui è eseguita soltanto la testa, il petto e una parte della schiena. Anche esso presenta le corna proiettate in avanti, ma a profilo aperto e solo nella seconda metà divise in due, mentre nella prima parte appare un solo corno, ripetendo un modulo tipico dell’arte paleolitica mediterranea. Sull'estremità inferiore dello stesso masso è incisa una terza piccola testa di toro. A fianco del masso col toro si trova una stalagmite a forma di equide senza testa. Graziosi sostiene che:” Il rinvenimento delle sepolture nell'area intorno e tra i due grandi massi incisi farebbe pensare a due stele o una stele (quella col toro) delimitanti un’area funebre”. Infatti la ricorrenza di resti di uro insieme agli scheletri rimanda a funzioni di offerte funerarie, elementi che forniscono informazioni sull'universo simbolico, le pratiche rituali e funerarie paleolitiche. Lo studioso Martini assegna a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione e conferisce all'ambiente un indiscutibile legame con il sacro. L’importanza del sito di Papasidero, è legata all'abbondanza di reperti, che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 e 10.000 anni fa, che hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens”.
Bibliografia
Bartoli F., Carnieri E., Mallegni F. 2004, Dieta dei paleolitici della Grotta del Romito (Papasidero, CS), Atti XXXVII Riunione Scientifica Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, “Preistoria e Protostoria della Calabria”, II, pp. 679-682.
Cattani L., Colonese A.C., Ricciardi S. 2004, Ricostruzione climatica e ambientale di Grotta del Romito: analisi palinologiche e malacofaunistiche dei livelli epigravettiani C-D, Atti XXXVII Riunione Scientifica I.I.P.P, “Preistoria e Protostoria della Calabria”, II, pp. 637-640.
Graziosi P. 1961, Papasidero (prov. di Cosenza), Rivista di Scienze Preistoriche, Notiziario, XVI, pp. 259.
Graziosi P. 1962A, La scoperta di incisioni rupestri di tipo paleolitico nella grotta del Romito presso Papasidero in Calabria, Klearchos, 13-14, pp. 12-20.
Martini F. 2000-2001, Grotta del Romito (Papasidero, Prov. di Cosenza), Rivista di Scienze Preistoriche, Notiziario, LI, pp. 496.
Martini F., Bisconti M., Casciarri S., Fabbri P.F., Leonini V., Lo Vetro D., Mallegni F., Martino G., Noto F., Ricci S., Ricciardi S., Rickards O. 2004. La nuova sepoltura epigravettiana “Romito 7” a Papasidero, Atti XXXVII Riunione Scientifica Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, “Preistoria e Protostoria della Calabria”, I, pp 101-111.
Martini F., Lo Vetro D. 2005, Grotta del Romito (Papasidero, Cosenza): recenti risultati degli scavi e degli studi, in Ambrogio B., Tinè V., a cura di, Preistoria e Protostoria della Calabria. Scavi e Ricerche 2003, Atti delle giornate di studio sulla, Atti giornate di studio Pellaro (RC) 25-26 Ottobre 2003, pp. 5-15.
Martini F., Lo Vetro D. 2008, Grotta del Romito (Papasidero, Prov. di Cosenza), Rivista di Scienze Preistoriche, LVIII, Notiziario, pp. 422.
Martini F., Lo Vetro D. 2011, a cura di, Grotta del Romito a Papasidero: uomo, ambiente e cultura nel Paleolitico della Calabria: ricerche 1961-2011, Guide del Museo e Istituto fiorentino di Preistoria, Firenze. Editoriale Progetto 2000, Cosenza.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]
LA CHIESA DI SOTTERRA A PAOLA
Una chiesa sotto un'altra chiesa
La chiesa ipogea di Sotterra si trova in località Gaudimare, a pochi passi dal centro storico di Paola, in prossimità della chiesa del Carmine che la sovrasta. La chiesetta è infatti una delle più antiche della Calabria è stata dimenticata per secoli non solo “sotto” la terra, ma anche “sotto” il luogo scelto per la chiesa del Carmine. La sua datazione è incerta, ma secondo alcuni studiosi potrebbe risalire all’ VIII secolo. Subì diversi rimaneggiamenti nel corso del tempo, fino a scomparire, forse in epoca cinquecentesca, a causa di eventi franosi o per una grande alluvione del torrente Palumbo. Dopo la riscoperta nel 1876, in modo fortuito, si sono moltiplicati gli studi e le teorie sulla chiesetta.
La chiesa si incrocia con la sovrastante chiesa del Carmine, dalla quale si accede per mezzo di una scala del portico. Per scendere più agevolmente nella cripta fu praticata un’apertura nel pavimento della chiesa superiore. Di questo accesso è rimasta l’apertura in fondo alla attuale scala, ora trasformata in un finestrone con inferriata. Secondo alcuni, l’edificio era una cripta, secondo altri era l’oratorio di eremiti. Due importanti monografie presentano differenze fondamentali: secondo le osservazioni di Francesco Ruffo la chiesa di Sotterra è bizantina, mentre per Rubino essa ha solo tracce bizantine. Nel catalogo degli edifici monumentali del Francipane, si trovano osservazioni che fanno capo dell’attività della Soprintendenza ai monumenti del successore di Paolo Orsi, Edoardo Galli, in base ai rilievi e grafici dell’assistente Ricca. Queste osservazioni sono di grande pregio. Nel primo elenco del 1929-1933, viene descritta: “chiesa del Comune di Sotterra in contrada Gaudimare, di origine basiliana (VII-VIII) ma ricostruita, con cripta medievale affrescata”.
Nel secondo elenco, molto più curato, è del 1938 viene riportato: “Santuario Ipogeo di origine bizantina, ricostruito nel XIV. Interno della cripta a tipo basilicale, con presbiterio e abside decorati da un ciclo di affreschi in parte di età bizantina e in parte iconografia benedettina del XIV secolo”. L’edificio si presenta come una semplice aula rettangolare monoabsidata, orientata lungo l’asse nord-sud e preceduta da un endonartece. È sormontata da volte a botte, suddivisa da tre archi in quattro campate, e un’abside semicircolare.
Fig. 1- Chiesa di Sotterra, la Vergine e gli Apostoli nel semicilindro, il Cristo in gloria, nel catino.
Nonostante secoli di oblio, sono arrivati fino a noi bellissimi affreschi. Le più antiche pitture secondo Pace risalgono all'età normanna ed in particolare alla fine del XI-XII secolo. La stessa datazione è stata proposta anche da Falla Castelfranchi.
La chiesa di Sotterra a Paola: descrizione
Gli affreschi sono distribuiti all'interno dell’abside dove, al di sopra di una zoccolatura dipinta a motivi geometrici romboidali, trovano un’ascensione suddivisa in due registri: la Vergine e gli Apostoli, nel semi-cilindro; il Cristo in gloria, nel catino. Quest’ultimo soggetto parrebbe contaminato dal tema occidentale della Majestas Domini. Una fascia orizzontale divide e nello stesso tempo fa convergere le due parti, superiore e inferiore, dell’icona. Gli Apostoli nonostante debbano essere undici, perché l’Ascensione avviene prima dell’elezione di Mattia al posto di Giuda, sono sempre dodici per esprimere la totalità della chiesa, con la Vergine al centro spesso affiancata da due candidi angeli. Alcuni Apostoli indicano con il dito alzato il trono di Cristo e le palme proiettate verso l’alto contribuiscono a rendere l’idea del congiungimento fra terra e cielo. I dodici Apostoli anziché raggruppati sono allineati in maniera semplice ma pieni di pensiero e carattere. Non si capisce perché qualcuno scriva che sono un uomo e una donna in maniera alternata quando è evidente come donna solo la Vergine. Forse perché nei moduli bizantini due Apostoli sono sempre raffigurati senza barba come si può notare anche nell'icona di Recklinghausen. Le due zone sono divise dalle fasce orizzontali e dalla mandorla entro la quale è il Cristo eppure hanno un punto di convergenza. Accanto alla zona delimitata della mandorla si osservano i resti dei panneggi dei due angeli. Ai lati dell’abside si svolge il tema dell’Annunciazione, con l’angelo (fig.2) a sinistra che annuncia il divino concepimento e la Madonna (fig.3) sul lato opposto.
Fig. 2- Chiesa di Sotterra, affresco, angelo dell’Annunciazione.
Fig. 3- Chiesa di Sotterra, Madonna.
L’angelo, che, volando è già prossimo alla terra, ma non la tocca, ha le braccia incrociate sul petto e larghe ali a ventaglio che sconfinano dalla cornice. In posizione aerea, con una lunga stola tramezzata da numerose crocette di forma latina, con leggera torsione si protende verso la Madonna. Tutte e due le figure sono in una parete liscia con sfondo a tappeto di stile cosmatesco. Il movimento del panneggio, con un dinamico rigonfiamento che lo solleva dal fondo, ed una stola come agitata dal vento, contrastano con il pacato incrociare delle braccia sul petto. La Madonna è in piedi, con veste sobria e manto orlato. Una mano è sul petto e l’altra sorregge un libro, la testa leggermente piegata verso l’angelo. Queste due figure dipinte da un artista ignoto sono datate XIV-XIV secolo. Sulla parete di sinistra ci sono altri due affreschi più recenti, risalenti al Quattrocento: una Madonna con Bambino e la figura di un santo (fig4).
Fig. 4- Chiesa di Sotterra, Madonna con il Bambino e Santo.
Bibliografia
Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.
Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.
Musolino, G., Calabria Bizantina, Venezia 1966, pp.341-342.
Russo, F., La chiesa bizantina di Sotterra (storia e arte), Roma 1949, p.14.
Venditti, A., Architettura bizantina nell’Italia meridionale, Campania, Calabria e Lucania, Napoli 1967, p.221
Verduci, R., La chiesa di Sotterra di Paola, Reggio Calabria, 2001, pp. 9-64.
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IL MONUMENTO FUNEBRE DI ISABELLA D'ARAGONA
A cura di Antonio Marchianò
Introduzione
Il monumento funebre di Isabella D’Aragona
Il monumento funebre di Isabella D’Aragona si trova nel transetto della Cattedrale di Cosenza. Il monumento era scomparso in seguito ai rimaneggiamenti subiti della Cattedrale e fu scoperto solo nel 1891 durante i lavori di restauro. Si ritiene che venne realizzato poco dopo la morte della Regina da uno scultore francese, forse facente parte del seguito dei reali, attivo nell'ottavo decennio del Duecento. L’opera è giunta frammentaria, priva di iscrizioni che doveva accompagnarla, delle probabili dorature, delle cromie e della cassa in cui furono conservate le spoglie della regina. Il monumento è uno degli esempi più significativi di scultura monumentale dell’Ile-de-France conservato nell'Italia meridionale.
Isabella D’Aragona nacque nel 1248, figlia di Giacomo I il conquistatore re di D’Aragona, la più piccola di otto fratelli. Della sua infanzia e adolescenza si conosce poco, però si sa che fu "utilizzata" per i giochi di potere di suo padre che voleva rafforzare sia la sua posizione in Europa e presso i francesi, sia combattere gli infedeli, cioè i musulmani. E infatti con il trattato di Corbeil Giacomo concesse sua figlia al figlio del re di Francia, Felipe, e questo segnò la pace tra i due grandi regni. Nel 1262 i due si sposarono a Clermont-en-Auvergne e l’anno seguente ebbero quattro figli. Durante questo periodo il re di Francia, che era molto cristiano, sarà il futuro San Luigi dei francesi, decise di fare una crociata per liberare Gerusalemme. Nel luglio 1270 Isabella accompagnò il marito Filippo III l’Ardito a Tunisi per l’Ottava Crociata, successivamente ad agosto, Isabella divenne regina di Francia per la morte del suocero Luigi IX di Francia. Al ritorno in Francia l’11 gennaio 1271, mentre attraversava il fiume Savuto nei pressi di Martirano, in Calabria, incinta di sei mesi del quinto figlio, cadde da cavallo. Dopo numerosi giorni di agonia morì il 28 gennaio. Filippo III fece seppellire nella Cattedrale di Cosenza il corpo della regina insieme al figlio nato morto, mentre le ossa furono trasportate nella Basilica di Saint-Denis in Francia. Nell’archivio della Cattedrale di Cosenza c’è una piccola pergamena che spesso viene confusa con il testamento di Isabella. Essa è in realtà, un atto di compra-vendita della vendita di un terreno. Inoltre in questo testo è citato come il re di Francia abbia donato del denaro affinché venisse celebrata una messa in suffragio della defunta moglie. Il vero testamento fu scritto durante la sua agonia tra il 19 e 28 gennaio. In esso Isabella appare come la regina dei Francesi, dice di offrire del denaro per costruire la cappella dove doveva riposare, lascia del denaro alla badante dei suoi figli, lascia i suoi soldi e i suoi vestiti ai poveri, agli studenti e agli infermi.
Il monumento si presenta come una trifora cieca a trafori di trilobi e quadrilobi in un disegno e un dettaglio di esecuzione di tardo rayonnant, simile a quello dei finestroni delle cappelle che venivano costruite lungo i fianchi di Notre-Dame a Parigi. I tre altorilievi a grandezza poco meno naturale assumono aspetto di statue entro nicchie e mostrano lo stile grazioso e sofisticato proprio di tanta scultura, anche funeraria, prodotta in ambito della corte parigina. Al centro del monumento troviamo la Madonna con il bambino, dal panneggio sinuoso e che accenna a un delicato incurvarsi del corpo, tipico della statuaria francese del duecento e degli avori (fig.2). Ai lati della Madonna, in atto di adorazione, compaiono la regina (fig.3) a sinistra e sulla destra Filippo L’Ardito (fig.4).
Lo studioso Stefano Bottari ha notato che il volto della regina è raffigurato con occhi chiusi, sembra calcato su una maschera mortuaria, Mentre i lineamenti del re sono simili a quelli che si vedono nella figura giacente del suo monumento di Saint-Denis, avviato per iniziativa da Filippo il Bello nel 1298 e sistemato nel 1307. Nel caso della figura del re il confronto con la tomba di Saint-Denis è interessante perché, oltre ai tratti fisionomici e alle peculiarità del costume, che appaiono molto simili, si riscontrano analogie anche sul piano stilistico. Questo suggerisce l’origine e l’educazione francese dell’ignoto scultore autore della tomba cosentina, avvenuta appunto tra i cantieri di Saint-Denis e quelli di Notre-Dame. La presenza a Cosenza della tomba di questa regina deve considerarsi del tutto causale per l’imprevedibilità della morte avvenuta durante la caduta da cavallo.
Bibliografia e Sitografia
Arnone N., "Le tombe regie del Duomo si Cosenza", Archivio storico per le provincie napoletane, 18, 1893, pp. 380-408.
Bottari S., "Il monumento alla Regina Isabella nella Cattedrale di Cosenza", Arte antica e moderna, 4, 1958, pp. 399-344.
De Castris 1986, Arte di corte nella Napoli angioina, Napoli 1986,p. 161.
Foderaro G., "Il sepolcro della regina Isabella d’Aragona nel Duomo di Cosenza", Bollettino calabrese di cultura e bibliografia, 7, 1990, pp. 292-306.
Martelli G., "Il monumento funerario della regina Isabella nella Cattedrale di Cosenza", Calabria nobilissima, 4, 1950, pp. 9-21.
Romanini, Angiola Maria. Peroni Adriano, Arte Medievale, interpretazioni storiografiche, Spoleto 2005, pp. 403.
Sitografia
http://www.cattedraledicosenza.it/
CHIESA DI SAN NICOLA A SCALEA
A cura di Antonio Marchianò
La chiesa di San Nicola a Scalea è un piccolo edificio a navata unica che conserva alcuni tra i più cospicui e significativi affreschi bizantini della Calabria. Essa è comunemente detta dello “Spedale” ma dovette essere intitolata a S. Nicola come dimostra l’affresco presente nell’abside col santo in cattedra ed è forse da identificare con la chiesa di S. Nicola dei Siracusani ricordata dalle fonti.
A sinistra della porta vicino all'abside (fig.2), in alto, si conserva un busto di un santo, benedicente. Si tratta dello strato più antico. A destra della porta, in alto, sono visibili tre strati di affresco: al più recente appartiene l’immagine di S. Nicola a sinistra, al secondo strato quelle sempre di S. Nicola e di S. Giovanni Battista, al di sotto del quale emerge lo strato più antico sia per motivi tecnici, in quanto l’intonaco è più basso rispetto agli altri, sia per motivi stilistici poiché è formato da pochi brani frammentari posti sulla parete meridionale.
A questa fase appartengono i frammenti di un’aureola perlinata e di due mani levate nell'atteggiamento dell’orante accompagnati dall'iscrizione ΕὐστἁѲηος. Segue sulla destra un altro riquadro in cui è possibile vedere la testa di Cristo, con grandi occhi bovini, e contraddistinta dal nimbo crucifero, e dalle lettere tra le corna di una cerva: si tratta della visione di S. Eustachio. E’ stato notato come la versione iconografica del santo in posizione di orante al Cristo fra le corna della cerva denunci non solo connessioni con la Georgia e la Cappadocia, ma anche un milieu costantinopolitano. Sempre sulla stessa parete ci sono giunti altri frammenti da assegnare a questa fase, a sinistra della seconda porta, verso la parete di fondo. In alto si intravede una scena mutila con un busto forse di santo presso cui compare, sulla sinistra, una figura più piccola, (un bambino): segue un riquadro con la rappresentazione di uno strano animale e probabilmente di un corso d’acqua. Al di sotto dell’animale è campita una scena pastorale, con alcune caprette che pascolano ed un pastore che ne munge una. Nello strato più antico, nella parete meridionale della chiesa, troviamo l’immagine della Visione di S. Eustachio, cui forse si potrebbero ricollegare i brani presso la seconda porta. Dalla leggenda del santo sappiamo che la vita del martire fu segnata da episodi avventurosi poi rappresentati in pittura. Il frammento del busto di un santo accompagnato da un bambino per esempio potrebbe riferirsi all'episodio di Teopista, moglie di Eustachio, rapita dal capitano della nave che portò tutta la famiglia del santo in Egitto. La scena più frequente è la visione del santo, in genere rappresentato a cavallo nell'atto di benedire la lancia o l’arco, attestata in Cappadocia e in Georgia.
Sotto il profilo iconografico la scena sembra allinearsi, sia pure con qualche variante, ad una tradizione costantinopolitana che muove dalle rappresentazioni della visione di S. Eustachio nei più antichi salteri bizantini, dove il santo è rappresentato in ginocchio, con il cavallo alle spalle e le mani levate verso la visione. La datazione per il primo stato riguarda un grande problema, perché la mancanza di documentazione scritta non ci permette di datare con precisione questi affreschi. E’ stata proposta dalla Falla Castelfranchi una datazione che risale al X secolo.
Nel secondo strato emergono interessanti indicazioni a livello storico, stilistico e iconografico. Nel catino absidale è campati la Deesis. Nel cilindro compaiono quattro santi vescovi, ai lati di S. Nicola assiso in trono. La presenza di questo santo è molto importante riguardo il problema dell’intitolazione della chiesa: si tratta del tema del santo eponimo nell'abside, di origine paleocristiana. Tra le immagini significative compare, nella nicchia della parete absidale destra, il ritratto di S. Fantino. La presenza dell’immagine si spiega, in aggiunta della venerazione che gli fu attribuita nella Calabria bizantina, in quanto il santo visse a lungo sia come eremita che come egumeno di un monastero, nel Mercurion. Sulla destra dell’abside sono conservate le immagini di S. Lorenzo. Al di sopra corre una larga fascia decorata che separa la parete inferiore della parete absidale da quella superiore; in alto sono visibili alcuni piedi pertinenti non alla Visitazione, bensì forse ad un’Ascensione. Questo tipo d’immagine è molto diffusa nell'Italia meridionale e anche in Calabria. Ne è un esempio l’Ascensione nella Cattolica di Stilo. Il soggetto di Scalea doveva presentare uno schema bizantino “puro”, con Cristo nella mandorla seduto su un arcobaleno e non nella versione occidentale, contaminata dalla Majestas Domini, con Cristo sul trono, come il caso della chiesa di Sotterra a Paola. Nel muro absidale settentrionale e meridionale troviamo due santi di alta qualità. Il secondo strato presente a Scalea attraverso l’esame stilistico e i numerosi confronti ci permette di datarlo entro il XI secolo. L’immagine di S. Nicola presenta un grande grafismo e una forte tendenza al linearismo che costituisce una peculiarità della pittura bizantina dell’XI secolo, documentata soprattutto in Grecia e nelle isole. Nella diffusione di questo stile giocano un ruolo importante delle miniature del tipo l’Exultet I di Bari, del 1030, ed altri.
Sulla parte destra della prima porta troviamo una parete palinsesto dove sono visibili tre strati: al più antico appartiene l’immagine frammentaria della Visione di S. Eustachio, più in basso, i busti di S. Nicola e di S. Giovanni Battista(fig.3): all'ultimo strato appartiene un’altra immagine di San Nicola datata tra fine XIII e prima metà del XIV secolo. Sulla parete settentrionale, a partire dall'abside, compare la figura di un santo, stante, acefala, che appartiene allo stesso strato degli affreschi dell’abside. Segue l’immagine frammentaria della Vergine in trono con Bambino, ai cui piedi è prostrato un donatore, quindi, presso la porta d’ingresso, un santo che regge un cartiglio con un’iscrizione in greco. Questi affreschi, con l’eccezione del primo santo, possiamo attribuirli al XIII secolo.
Bibliografia
Falla Castelfranchi, M., Del ruolo dei programmi iconografici absidali nella pittura bizantina dell’Italia meridionale e di un’immagine desueta e colta nella cripta della Candelora a Massafra, in Il popolamento rupestre dell’area mediterranea: la tipologia delle fonti. Gli insediamenti rupestri della Sardegna, a cura di C. D. Fonseca, Galatina 1988, pp. 187-208.
Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.
Di Dario Guida, M. P., Cultura artistica della Calabria medievale. Contributi e i primi orientamenti, Cava dei Tirreni 1978.
Di Dario Guida, M. P., Itinerari per la Calabria, Roma 1983.
SANTA MARIA DEL PATIR
A cura di Antonio Marchianò
L'abbazia di Santa Maria del Patire, a Rossano, fu fondata intorno al 1095 dal monaco e sacerdote Bartolomeo di Simeri, grazie all'aiuto del conte Ruggero e dell'ammiraglio normanno Cristodulo. Venne dedicata a "Santa Maria Nuova Odigitria", anche se è conosciuta con il nome di "Santa Maria del Patìr", o semplicemente "Patire" (dal greco Patèr = padre), attribuzione data come segno di devozione al padre fondatore. Le vicende della formazione della chiesa sono narrate nel Bios di S. Bartolomeo di Simeri. Nel Bios racconta che il santo siciliano viveva in una laura nei pressi di Rossano, dove ben presto venne raggiunto da discepoli desiderosi di seguire il suo esempio. La Vergine, apparsagli in sogno, ispirò al santo il desiderio di fondare in quel luogo un monastero a Lei dedicato. Per avere i mezzi e i fondi necessari, Bartolomeo si rivolse ad un personaggio eminente della corte normanna: Cristodulo, ammiraglio della flotta normanna di Sicilia. Per suo tramite, il santo fu presentato alla contessa Adelaide, che lo accolse con favore ad approntò con molta generosità i mezzi necessari per la costruzione del monastero. Il monastero divenne per tutti Santa Maria τοũ πατρός, del Padre , per la presenza e la fama di Bartolomeo.
Oltre al Bios ci sono altri due documenti che ci informano sulla fondazione del Monastero. Il primo, datato al 1103, è una donazione di Ruggero II a Bartolomeo, che vi figura come abate della nuova Odigitria. L’altro è una bolla del 1105 in cui il pontefice Pasquale II sottometteva il monastero alla Santa Sede. La ricchezza del monastero fu assicurata da numerose elargizioni e donazioni di pontefici e personaggi di rilievo. Le sorti del monastero rossanese seguirono infatti quelle del monachesimo greco del sud Italia, che dopo la splendida fioritura di età medievale fu interessato da un lento declino economico, spirituale e culturale. Il monastero venne definitivamente soppresso nel 1806, anche se i religiosi se ne allontanarono solo nel 1830.
Del complesso monastico rimangono ora i ruderi di un chiostro, frutto però di rifacimenti posteriori, e la chiesa, che nonostante le spoliazioni, i restauri, frequenti terremoti che la colpirono minandone parzialmente le strutture, mostra sostanzialmente le forme originali. E’ una costruzione in pietra, adornata da una cornice di conci e mattoncini su mensole che percorrono l’intero edificio, eccetto il lato settentrionale. Gli elementi decorativi più interessanti si trovano nella zona absidale. Decorazioni cromatiche si trovano anche presso i portali laterali: nel portale meridionale, fiancheggiato da due colonne con capitelli e mensole decorate, abbiamo un originale motivo di fiori stilizzati, mentre in quello settentrionale, anch'esso fiancheggiato da due colonne, vi è nella ghiera un motivo a saetta. Una serie di arcatelle cieche scandite al ritmo di cinque da lesene poggianti su uno zoccolo, percorre invece le tre absidi, ed ogni arcatella è decorata a sua volta da un tondo che racchiude un motivo stellare realizzato con tarsie di vario colore. La facciata è invece piuttosto semplice, ed evidenzia la tripartizione interna. Vi si apre un unico portale, fiancheggiato da colonne con capitelli decorati e sormontati da due oculi, il superiore probabilmente coevo alla ricostruzione, l’inferiore più tardo.
L’interno è una basilica a tre navate, di cui la centrale più alta delle laterali, con copertura ad incavallature lignee. Le navate sono divise da arcate a sesto acuto poggianti su colonne in muratura, impostate su basi , forse di rimpiego, prive di capitello. Un arco trionfale e due laterali più piccoli immettono nell'area del presbiterio, sopraelevato rispetto al resto della costruzione e suddiviso in tre ambienti absidati. La tripartizione dello spazio presbiteriale, tipico delle costruzioni legate alla cultura orientale, risponde a criteri di ordine liturgico: nel vano centrale, più ampio, detto Bema, avviene la liturgia eucaristica vera e propria; il vano a sinistra dell’altare, il Diakonikos, è utilizzato per i riti della vestizione e per la conservazione di libri, vasi sacri e altri oggetti di culto; infine nel vano di destra, detto Protesis, avvengono i riti preparatori alla liturgia vera e propria. Tutti e tre i vani presentano una copertura a cupola. Il monastero presenta una decorazione pavimentale in mosaico nella navata centrale ed in opus sectile presso le navate laterali. Tale decorazione doveva svolgersi per gran parte del pavimento attuale. In una visita apostolica del 1587 parla di un “pavimento tutto de marmi, ad usanza delle chiese di Roma et bona parte, circa il terzo de detto pavimento, è fatto et lavorato a dadi de marmo con animale at mostri depinti..” In seguito all'abbandono della chiesa, i baroni Compagna utilizzarono parte di questi marmi per la decorazione della loro cappella di famiglia nella vicina Schiavonea. Non rimane dunque che una vasta area decorata presso la navata centrale, il cui disegno presenta elementi vegetali (fiori e foglie) intrecciati fra loro a formare delle rotae, dischi di oltre due metri di diametro, con figure di animali mitologici: un liocorno, un centauro (fig2), un felino(fig.3) e un grifone (fig4). Troviamo anche un’iscrizione che recita che BLASIUS VENERABILIS ABBAS HOC TOTUM IUSSIT FIERI. Blasio è documentato come abate di Santa Maria del Patir nel 1152: intorno a questi anni è possibile datare l’opera musiva. Nelle navate laterali rimangono invece resti di decorazioni in opus sectile con motivi geometrici, del tutto simili a quelli ritrovati nel pavimento musivo della vicina San Adriano a San Demetrio Corone.
Il pavimento non è l’unico vanto della costruzione: la relazione del 1587 ci informa della suppellettile ed oggetti liturgici di grande valore, di cui oggi non rimane nulla, eccetto una tavola con la Vergine Odigitria donata da Atanasio Calceopilo nel periodo del suo archimandriato ed oggi presso il Museo Arcivescovile di Rossano. Un altro oggetto è il fonte battesimale conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York (fig.5), reca un iscrizione incisa lungo il bordo data al 1137 su commissione di Luca, successore di Bartolomeo come igumeno del Patirion. L’oggetto mostra nella forma e nella decorazione contatti e derivazioni d’ambiente nordico rare in Italia. L’autore forse fu Gandolfo artefice della conca battesimale oggi conservata presso il Museo Nazionale di Messina, proveniente dal monastero di S. Salvatore a Messina. Luca commissionò il prezioso recipiente patirense a Gandolfo, un artigiano d’oltralpe.
Bibliografia
Barralt X., Altet l., Il mosaico pavimentale, in La pittura in Italia. L’Altomedioevo, Milano 1994.
Barralt X., Altet l., Volte e tappeti musivi in Occidente e nell’Islam, in Il mosaico, a cura di C. Bertelli, Milano 1998.
Batifol P., l’abaye de Rossano contribution a l’historire de la vaticane (Paris 1891),London 1971,pp.6,55,60, Vat.2000,2050.
Burgarella F., “Rossano in epoca bizantina”. Daidalos, 2003, Vol. III, n. 3, pp. 10-15.
Colafemmina, C., San Nilo di Rossano e gli ebrei, in Atti del Congresso Internazionale su S. Nilo di Rossano (28 settembre – 1 ottobre 1986), Rossano-Grottaferrata 1989, pp. 119-130.
Gradilone, A., Storia di Rossano, Cosenza 1967.
Guiglia Guidobaldi, s.v. Pavimento, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. IX, Roma 1998.
Guilou A., Le liber visitationis d’athanase Chalkeopolos (1457-1458). Contribution à l’historie du monachismo grec en Italie meridionale (studi e testi 206), Città del Vaticano 1960,pp.140-147, 271-273; F. Russo“ Storia ed arte del Patirion Rossanese”, in fede arte XII 1964,pp. 308-312; F. Russo, regesto vaticano per la Calabria, II, Roma 1974,nn. 1190, 11970-11976.
Mercati S. G., ” Sul tipico del monastero di S. Batolomeo di Trigoria tradotto in italo-calabrese in trascrizione greca da Francesco Vucisano”, in ASCL VIII, 1938, p.205;S. G. Mercati, “Sulle reliquie del monastero di S. Maria del Patir presso Rossano “, in ASCL IX, 1939, pp. 1-14.
Nordhaggen P.J. , s.v. Mosaico, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. VIII, Roma 1997.
Orsi P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze 1929,pp.113-151.
Rende M., Cronistoria del monastero e chiesa di S. Maria del Patir(Napoli 1717), Ris. Anast. Rossano scalo 1994.
Sitografia
http://www.artesacrarossano.it/codex.php
IL PONTE DI ANNIBALE O SANT’ANGELO
A cura di Antonio Marchianò
Il ponte è situato a Scigliano lungo il tragitto del fiume Savuto in provincia di Cosenza. Si tratta di un ponte di epoca romana risalente al periodo che va dal 121 al 131 a C. cioè durante la costruzione della via Popilia. Questo ponte assieme al ponte Fabricio dell’Isola Tiberina (69 a C.) ed il ponte Emilio (179 a C.) è uno dei più antichi ed importanti d’Italia.
E’ anche conosciuto come il ponte di Annibale o Ponte Sant'Angelo. Il primo nome si riferisce al passaggio di Annibale con le sue truppe sopra la struttura, anche se non esistono documenti attendibili su questa ipotesi. Il secondo nome, invece, fa riferimento alla tradizione popolare che narra uno scontro tra S. Angelo e il diavolo, quest’ultimo sarebbe stato scagliato dal santo contro il ponte, dove anticamente vi era una fessura, poi ricucita durante la ristrutturazione del 1961. Il ponte fu costruito con archi in tufo calcareo rosso prelevati da una cava sulla parete di una collina vicinissima al ponte. Ancora oggi si vedono i tagli sulla parete, operati dagli schiavi al servizio dell’esercito romano. I blocchi venivano precipitati a valle e cadevano proprio dove sorge il ponte. Questi massi venivano lavorati o messi in opera o adoperati per fare la calce nella fornace adiacente, anch'essa ritrovata in passato. Le fondazioni del ponte si trovano a profondità di circa 1,50 m dal piano attuale del greto del fiume. Sono costruite da una platea di due ordini di blocchi squadrati e sovrapposti per una larghezza di 5 m e una lunghezza pari a quella del ponte compresa la rampa di salita dell’estremo più basso. L’altezza della platea e circa di 1,50 m. La volta è costituita da due archi concentrici a tutto sesto di blocchi squadrati di tufo secco sfalsati. Il secondo arco è in tufo per le parti prospettiche e in pietrame e pozzolana all'interno, a copertura del primo arco portante. L’arco portante è impostato sulla platea di fondazione, senza pile d’appoggio, e il secondo arco ha solo funzione di rinforzo e di contrappeso al primo.
La lunghezza dell’arco è di 21,50 m. mentre la larghezza è di 3,55 (fig.2). L’altezza massima è di 11 m. rispetto all'attuale piano del fiume. I romani in virtù dell’importanza del ponte, lo costruirono in modo da sfidare il tempo e le intemperie, comprese le piene del Savuto. Il piano di calpestio, la cui larghezza totale è di 48m., è stata costruito in muratura con pietre di fiume e pietra pozzolana. Da un lato troviamo una tipica rampa romana che poggia sulla roccia della collina. Sull'altro lato poggia invece su un arco trasversale chiuso da muri dallo spessore di 50 cm.
Accanto al ponte, nei suoi estremi esistono invece, i resti di due garrite, utilizzate per riparare le truppe a protezione del ponte. Vicino al ponte, invece, sulle fondamenta di caseggiati romani è stata costruita una vecchia casa colonica, rudere anch'esso e in parte sede della chiesetta di S. Angelo (fig.3).
L’antica tradizione popolare diede a questo ponte il nome di Annibale, ma secondo gli studi condotti da Eduardo Galli nel 1906 negano questa convinzione. Lo studioso afferma che “ i ritrovamenti, nelle vicinanze, di embrici, di vasi, di monete imperiali, hanno generato nelle anime semplici dei paesani la falsa credenza che Annibale, prima di partire dall'Italia, ci abbia dimorato lungamente costruendo perfino il ponte e che perciò porta il suo nome”. A smentire questa tesi è, lo stile prettamente romano, l’analisi di cippi miliari sulla via Popilia, e la data di costruzione della via Popilia, tra il 131 e il 121 a C. cioè ottanta anni dopo il passaggio del generale. L'origine romana del Ponte è dimostrabile da diverse ipotesi e da alcuni reperti recuperati. Durante l'ultimo restauro de ponte sono state rinvenute monete antiche, a tal proposito Saturno Tucci, in uno dei suoi libri scrive: "Sul piedritto a monte venne ricucita la famosa lesione che, a suo tempo, permise di scoprire una camera vuota, all'interno della quale gli operai si sbizzarrirono a scavare alla ricerca di un antico tesoro che la diceria popolare voleva fosse lì nascosto. Furono trovate, invece, alcune monete che vanno dal periodo greco (350-194 a.C.) al periodo romano fino ai "Vespri Siciliani" (1200-1280 a.C.)”.
Attualmente il ponte è uno tra monumenti recensiti e sotto la protezione dell’Unesco ma, pur essendo uno dei ponti più antichi d’Italia, è fuori da ogni circuito turistico sia regionale che nazionale.
Bibliografia
De Sensi Sestino G., Tra l’amato e il Savuto. Tomo II: studi sul Lametino antico e tardo antico, Soveria Mannelli: Rubbettino, 1999.
Galli E., Intorno ad un ponte della Via Popilia sul fiume Savuto, Catania: Giannotta, 1906.
Tucci S., Storia del ponte romano sul fiume Savuto, Soveria Mannelli: Calabria letteraria editrice 1991.