LE BOTTEGHE NAPOLETANE SULLA SCENA DI BETLEMME

A cura di Ornella Amato e Camilla Giuliano

 

Introduzione

Breve storia del presepe da Betlemme a Napoli

L'origine storica del presepe va ricercata nei Vangeli di Matteo e Luca dove, in circa 180 versi, sono riportati l’arrivo di Maria e Giuseppe a Betlemme e la nascita del Cristo.

Nel 1223 San Francesco d'Assisi, a Greccio, decise di mettere in scena quanto scritto nel testo sacro, affinché tutti potessero conoscere il vero significato del Natale.

Dopo di lui furono molte le iniziative cristiane che diedero vita alla celebrazione dell’evento; dalle scene teatrali si passò alla rappresentazione con statuette prodotte artigianalmente. Il primo presepe della storia venne realizzato da Arnolfo di Cambio nel 1283 ed è oggi conservato nella basilica Santa Maria Maggiore a Roma.

 

Le origini dell’arte presepiale napoletana

Il presepe è stato ben presto apprezzato nelle corti napoletane dove, in particolare con l'arrivo dei Borboni nella seconda metà del XVIII sec., raggiunse un livello altissimo.

La storia racconta che il re Carlo di Borbone, insieme alla regina Maria Amalia e all’intera corte, era solito trascorrere parte delle giornate estive a preparare mattoncini, casette e abiti per i personaggi che avrebbero animato il presepe della Cappella del palazzo reale della capitale, prendendo spunto e idee da coloro che animavano quotidianamente i vicoli e le strade.

Nasceva così il presepe napoletano quale trasposizione plastica del centro della città, con personaggi popolari abbigliati seguendo i costumi del tempo, coi suoi colori, le sue botteghe, le grida delle madri che dai balconi chiamavano i figli che si attardavano a rincasare.

La Napoli del XVIII sec. diventava, così, una nuova Betlemme.

 

Questa nuova arte divenne un simbolo della napoletanità nel mondo tanto da essere celebrata tutt’oggi nei principali musei cittadini, come dimostrano i presepi presenti nella Cappella del Palazzo Reale nel cuore della città e alla Reggia di Caserta o anche il più famoso presepe Cuciniello all’interno del Museo Nazionale di San Martino.

 

Il 28 dicembre 1879, Michele Cuciniello, presentava al pubblico un presepe di sughero, stucco e cartapesta in cui si ricreava la città coi suoi borghi e le sue case, nel quale si muovevano personaggi del popolo napoletano che s’intrecciavano con i protagonisti della Natività.

 

Si può affermare con certezza che il diletto estivo dei Borbone ed il presepe Cuciniello rappresentino il punto di partenza dei maestri presepiali di San Gregorio Armeno[1] che hanno portato fuori dalla città un’opera artigianale tutta napoletana.

 

L’arte presepiale napoletana dei giorni nostri

I maestri presepiali di Via San Gregorio Armeno tutt’oggi mantengono viva la tradizione inaugurata dai Borbone e realizzano presepi in sughero, legno e cartapesta guardando come modello al presepe Cuciniello, abbigliando i pastori con costumi tipicamente settecenteschi, evitando di discostarsi dalla tradizione, sforzandosi di mantenerla viva.

 

Nella realizzazione del presepe, l’iconografia perseguita è sempre uguale: il centro della scena è quello della Natività, le cui statuine vengono inserite nella grotta secondo un criterio ben preciso: al centro è il Bambino alla cui sinistra è inginocchiata la Vergine, rappresentata secondo la tradizione mariana, con una tunica bianca e con indosso un manto azzurro il cui bordo è talvolta dorato; a destra, in piedi, c’è San Giuseppe con indosso una tunica ed un mantello, in genere  viola e marrone e che tiene nella mano destra una piccola lanterna, mentre, con la sinistra regge e si poggia ad un bastone.

 

Dietro la Sacra Famiglia, trovano posto il bue a destra e, a sinistra, l’asino, mentre schiere angeliche scendono sulla grotta.

Davanti o anche dentro la grotta, s’incontrano i primi due personaggi tipicamente campani: gli zampognari che, con zampogna e ciaramella, suonano la ninna nanna al Bambino Gesù.

 

Secondo una leggenda, gli zampognari suonerebbero Tu scendi dalle Stelle, canto natalizio composto da Sant’Alfonso Maria dei Liguori nel dicembre del 1754.

La tradizione vuole anche che la loro origine sia dell’area beneventana.

In Campania, gli zampognari sono considerati il vero simbolo del Natale umile e semplice, il suono della zampogna e della ciaramella si sente lungo le strade in due momenti ben precisi del mese di dicembre: nove giorni prima della Solennità dell’Immacolata Concezione, con la novena all’Immacolata, e nove giorni prima di Natale con la novena di Natale.

La loro iconografia è abbastanza semplice: oltre agli strumenti, sono sempre abbigliati con vesti che ricordano i pastori, presenti sulla scena generalmente nella parte alta, insieme al loro gregge, a ricordare l’Annuncio di Gloria dato proprio ad essi, dagli angeli.

Il centro abitato, con le sue case, le sue botteghe, i suoi abitanti, invece si sviluppa generalmente ai lati.

Le case rimarcano quelle del centro storico partenopeo e dei suoi vicoli: bucati stesi ai balconi di ferro, finestre con inferriate curve, gabbiette per gli uccellini esposte fuori ai piccoli balconi, personaggi della Napoli del ‘700 che si mostrano nel loro quotidiano, lungo le strade della città.

 

La parte di maggior interesse è di certo data dalle rappresentazioni dei mestieri: si tratta di botteghe e attività le cui mercanzie sono esposte all’esterno dei locali e che facilmente si ritrovavano non solo nel centro città, ma anche nei quartieri più popolari ai quali ci si ispirava.

Non manca mai il pescivendolo, sul cui banco non devono mancare le vasche coi capitoni e il baccalà, poiché sono parte integrante del cenone della tradizione napoletana, e il fruttivendolo con le sue primizie, che chiudono il cenone ed il pranzo di Natale, la tradizionale osteria, nella quale non è protagonista solo l’oste, ma in genere i suoi clienti che sono riuniti intorno al tavolo.

 

Tra le botteghe, un ruolo particolare è quello della pizzeria.

Quella della pizza è una tradizione antichissima, che trae origine dalla focaccia lievitata dell’epoca dei romani che a loro volta s’ispirarono, all’uso di acqua, farina e lievito di alcune popolazioni risalenti al 3000 a.C.

In realtà il termine pizza venne introdotto solo tra il 1500 e il 1600, quando veniva venduta per strada dai fornai su delle bancarelle. Inizialmente era una pietanza per il popolo povero, ma a partire dall’ 800 ebbe grande diffusione in tutta Italia divenendo simbolo della cultura napoletana.

L’arte della pizza divenne così un mestiere, il pizzaiolo più famoso della storia fu Raffaele Esposito, che nell’11 giugno del 1889 chiamò la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, Margherita, in onore della regina di casa Savoia e del re Umberto I.

Il mestiere del pizzaiolo divenne un’icona della tradizione partenopea, e come tale si ritrova fra le statuette dei presepi a Napoli.

 

È tradizione mettere dietro al presepe, una scenografia che ricordi paesaggi orientali o più semplicemente un cielo stellato su cui poggiare la cometa. Nel presepe napoletano, questa tradizione è mantenuta, ma è spesso affiancata da vedute della città, come il golfo col Vesuvio o scorci di strade con cupole in lontananza.

 

La presenza delle cupole delle chiese, paradossalmente, non deve sorprendere: si tratta di chiese presenti in città al momento della realizzazione dei presepi, poiché sono solo i momenti della Natività e dell’annuncio ai pastori che vengono traslati da Betlemme a Napoli.

 

Conclusioni

Il presepe napoletano, nato nella seconda metà del Settecento da un diletto estivo della corte borbonica, oggi è una forma d’arte riconosciuta in tutto il mondo, conservata nei musei cittadini, che vuole rappresentare una nuova Betlemme: una Betlemme ricostruita, guardando ai vicoli, alle strade, alle case della Napoli del XVIII sec. e di coloro che la vivevano.

I loro abiti e le loro abitudini, trasposti sul presepio, non stonano con la rappresentazione della Natività, che segue sempre l’iconografia tradizionale e che deriva dal presepe di Greggio del 1223, realizzato da San Francesco d’Assisi, ma la inglobano armonicamente, come se fosse parte naturale di esso, senza temere sbavature.

 

 

 

 

 

Note

[1] Via San Gregorio Armeno è una delle strade del centro storico di Napoli lungo la quale si trovano esclusivamente botteghe di maestri presepiali e nelle quali si realizzano pastori che ricordano quelli del ‘700 napoletano; è nota anche come la via dei presepi e del Mercatini di Natale permanenti.

 

 

 

 

Sitografia

www.artigianatopresepiale.com

www.brundarte.it

www.presepi.com

www.porcellaneartistichenapoli.com

https://www.visitnaples.eu/napoletanita/sapori-di-napoli/la-storia-del-presepe-e-dell-arte-presepiale-da-betlemme-al-presepe-cuciniello , consultato il 01/11/2022;

https://www.campania.info/napoli/cosa-vedere-napoli/san-gregorio-armeno/ , consultato il 01/11/2022;

https://storienapoli.it/2020/12/17/via-san-gregorio-armeno-storia/#:~:text=Anzi%2C%20la%20santa%2C%20in%20modo,durante%20la%20fuga%20dall'Oriente. consultato il 01/11/2022;

http://www.gessetticolorati.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/10/scheda_presepe.pdf , consultato il 01/11/2022;

https://artepresepe.it/storia-presepe/ , consultato il 04/11/2022;

http://www.enzococcia.com/mestiere-pizzaiuolo/ , consultato il 05/11/2022;

https://italpizza.it/blog/quali-sono-le-origini-della-pizza , consultato il 05/11/2022;


LE TERME DI AGNANO

 A cura di Camilla Giuliano.

 

Le origini del complesso termale di Agnano

Le terme di Agnano sono il più antico ed importante complesso termale della Campania, risalente a duemila anni prima di Cristo; le prime testimonianze risalgono al IV e III secolo a.C quando i colonizzatori greci[1], appresero l’uso benefico delle acque termali da popolazioni pre-elleniche residenti nell’area flegrea, i Volsci[2].

I Greci provenienti da oriente diedero grande impulso alla divulgazione della conoscenza dei benefici di queste acque, anche se, fu solo con i romani che si cominciò a parlare propriamente di thermae[3] .

Sorto sulle pendici del Monte Spina per sfruttare le antiche sorgenti naturali di calore del cratere di Agnano, le terme vennero realizzate in età romana a partire dal 117 - 138 d.C[4] e furono il più grande stabilimento sorto sino ad allora. Sviluppatosi su sette livelli in direzione SN, la sua caratteristica fu quella di riuscire a riscaldare gli ambienti usufruendo del calore naturale che fuoriusciva dalle colline del monte sul quale si ergeva.

I romani adottarono un sistema di condotti ed intercapedini (“hypocaustum”[5] un doppio pavimento) che semplificava la trasmissione di calore da una stanza all’altra, seguendo un andamento circolare.

Il percorso termale prevedeva soste negli ambienti caldi per la sauna e i bagni a temperatura variata, con permanenza nel frigidarium[6] per il bagno freddo.

Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente i complessi termali di Pozzuoli e di Ischia furono abbandonati, compreso quello di Agnano, e solo verso la fine del V secolo Trasamondo, il re dei Vandali, decise di recuperare l’edificio ampliandolo. Importanti notizie al riguardo ci vengono fornite dal poeta Felice, vissuto tra il V e VI secolo, che scrisse cinque epigrammi sulla ricostruzione delle stesse.

Gli antichi tramandarono la nozione delle acque termali come benefiche per la salute e per il corpo: erano conosciute nel Medioevo grazie a Cicerone, attraverso il detto: “Quamdiu ad aquas fuit, numquam est mortuus” ovvero “Finché si recò alle acque, è rimasto in vita”, e Plinio il Vecchio, che affermò che la medicina del suo tempo fece ricorso alle acque come ‘rifugio’ poiché nessun elemento naturale era più miracoloso di essa.

Per il loro uso terapeutico, le terme di Agnano vennero citate anche in una leggenda da Gregorio Magno[7] nell’opera letteraria i Dialogi secondo la quale il vescovo di Capua, San Germano, si recò nel sudatorio di alcune grotte artificiali presenti nell’area flegrea per curarsi un’ infezione cutanea; durante il percorso si imbatte’ contro l’ombra di Pascasio, diacono morto e condannato in Purgatorio il quale aspettava l’espiazione dei suoi peccati, Germano si riunì in preghiera liberando l’anima del diacono. Da qui quelle di Agnano iniziarono ad essere note come Le stufe di San Germano o il Sudario di Agnano.

 

Il Lago nel cratere

A causa dei continui movimenti bradisismici l’assetto del territorio e la circolazione delle acque mutarono, portando alla formazione di un lago che sommerse gli edifici termali impedendo la fruizione di questi per secoli [Fig. 1].

La fonte più attendibile è Pietro da Eboli in I Bagni di Pozzuoli, nel capitolo dedicato al sudatorio di Agnano, attesta come nei secoli successivi l’impianto termale sopravvisse esclusivamente come sudatorio naturale, lo stesso può essere riscontrato nella descrizione di una caccia di Alfonso d’Aragona del 1443 [Fig. 2].

A partire dal XIX secolo[8] il lago venne prosciugato per un’opera di bonifica condotta dall’ingegnere napoletano Martuscelli, il quale svuotò completamente il canale recuperando terreni destinati all’attività agricola e portando alla scoperta di decine di sorgenti termali.

 

La Grotta del Cane nella conca di Agnano

Situata nella conca di Agnano, la Grotta venne prodotta artificialmente dai romani a partire dal III - II secolo a.C., che scavando sulla Montagna accanto al lago di origine vulcanica, cercavano una fonte termale da sfruttare per i suoi vapori. In seguito, a causa della fuoriuscita di acido carbonico dal sottosuolo[9], la grotta divenne impraticabile.

Nel tempo vennero condotti una serie di esperimenti con il Cane del Lazzarone che, introdotto dallo stesso padrone nella cavità della grotta [Fig. 3], poco dopo l’inalazione dei vapori compiva gli stessi movimenti comuni ad ogni animale la cui respirazione viene contratta: il ventre si ritirava, gli occhi si gonfiavano, la lingua spessa e livida fuoriusciva dalla gola. Appena fuori dalla grotta, respirando l’aria naturale il cane rinsaviva; secondo il Lazzarone, tale esperimento non poteva essere compiuto più di dodici o quindici volte sullo stesso animale poiché sarebbe morto in preda a convulsioni e sintomi simili a quelli della rabbia.

A partire dagli anni 2000 gli studi sulla Grotta del Cane vennero ripresi ed il primo ad entrare nella cavità fu lo speleologo napoletano Rosario Varriale, che per ben due volte effettuò un sopralluogo degli ambienti fornendo una descrizione dettagliata della grotta.

 

Le statue

Quattro furono le statue romane, databili alla prima metà del II secolo a.C, rinvenute durante gli scavi: Afrodite armata, della quale giunsero il busto, le gambe e i piedi di un amorino alla sua sinistra; la statua maschile di Ganimede, il coppiere di Zeus; Venere marina, la statua più completa[10]; Hermes con Dionisio bambino, priva della testa e delle gambe.

 

 

L’influenza liberty

Nel 1900 la fama delle terme di Agnano, così come quella delle stufe di Nerone e delle terme di Ischia crebbe in maniera dirompente, arrivando all’orecchio dei più illustri medici del tempo, i quali si recavano personalmente a Napoli per provare le acque curative delle terme.

Il 16 febbraio del 1909 venne costituita la Società Terme di Agnano nata grazie alla collaborazione di architetti ed ingegneri che modificarono gli antichi assetti adattandoli alle esigenze della ricca borghesia del tempo.

Il primo luglio del 1911 vennero inaugurati gli ambienti principali, mentre i lavori continuarono fino alla metà degli anni ’20 (interrotti durante la Prima Guerra Mondiale e ripresi in subito dopo).

Agli anni della belle époque risale l’Arco di Arata [Fig.4], edificato in stile liberty e visibile ancora oggi, mentre gli scaloni centrali[11] in forme e stile neo-barocco [Fig.5] sono datati a febbraio - marzo del 1926.

 

Con l’entrata in guerra dell’Italia la struttura visse un periodo di abbandono. L’inaugurazione del 1925 fece sì che le terme di Agnano divenissero centro di attività di svago ed emblematico esempio per la cura del benessere del corpo.

Il centro termale rimase aperto anche durante la Seconda Guerra Mondiale fino a quando, nel 1943, non venne proclamato lo stato di emergenza. Le truppe naziste, in ritirata nel settembre dello stesso anno, occuparono i viali del centro termale e lo bombardarono facendo crollare l’edificio, adibito ad Albergo, situato sul Monte Spina. Ciò che rimase venne requisito dagli americani per essere restituito a guerra finita.

 

Tra gli anni 60’ e 70’ del 1900 l’architetto Giulio De Rosa e l’ingegnere Adriano Reale s’impegnarono a progettare una nuova sistemazione del complesso termale; demolirono e spostarono gli impianti originali per dargli la collocazione visibile e fruibile oggi.

 

 

 

Le figure 4 e 5 sono state scattate dalla redattrice dell'articolo.

 

 

 

Note

[1] Giunti in Italia meridionale dalle zone dell’Asia Minore e dal Peloponneso a seguito di lotte interne.

[2] Chiamati anche Opici o mitici Cimmeri, la leggenda narra che queste popolazioni nomade facessero uso di grotte termali già a partire dalla preistoria.

[3] Parola latina che deriva da un termine greco “ϑερμαί (πηγαί)” che definiamo come sorgenti calde.

[4] Il periodo d’oro dell’Impero Romano sotto il consolato di Publio Elio Traiano Adriano.

[5] Secondo le fonti classiche Sergio Orata, un ricco imprenditore romano era l’inventore di questo sistema, ma in realtà a lui va’ attribuito il merito di aver introdotto nel mondo romano un sistema di diffusione del calore già conosciuto in Grecia dal III secolo a.C.

[6] In questa sala erano presenti due delle quattro statue recuperate durante gli scavi.

[7] Poeta e Papa latino attivo in età Barbarica (Alto Medioevo).

[8] Il lago di Agnano, ex lago vulcanico, occupava una vasta area di circa 6 km.

[9] Il fenomeno noto come “mofeta”.

[10] Variante romana dell’Afrodite Cnidia di Prassitele con l’acconciatura che richiama la Venere Capitolina.

[11] Attribuiti erroneamente ad Arata.

 

 

Sitografia

altaterradilavoro.com/le-terme-di-agnano-una-perla-dei-campi-flegrei/ , consultato il 02/07/2022

https://www.termediagnano.it/archeologia-2/ , consultato il 02/07/2022

http://www.termediagnano.it/wp-content/uploads/2016/06/LA-STORIA.pdf , consultato il 02/07/2022

https://www.archeologiaviva.it/3168/i-romani-alle-terme/ , consultato il 27/07/2022.


IL DUOMO DI POZZUOLI

A cura di Camilla Giuliano

 

 

 

Il Tempio di Augusto

Il Tempio di Augusto fu realizzato in età Augustea tra il 27 a.C e il 14 d.C, costruito per volere del mercante Lucio Calpurnio[1] come tributo ad Ottaviano Augusto quando era ancora in vita.

Fu eretto sui resti del primo tempio, visibile dal mare, di età Repubblicana, un Tempio Capitolio risalente al 194 a.C dedicato alla Triade Capitolina[2] .

Il Tempio sorge nell’attuale Rione Terra[3], ove la città di Pozzuoli[4] venne trasformata in importante porto romano, fungendo da grande scalo per i rifornimenti alimentari, in particolare il grano importato da Alessandria d’Egitto per l’annona di Roma che a quel tempo assisteva ad una pericolosa carestia.

L’edificio fu costruito da Lucio Cocceio Aucto, architetto ed ingegnere romano alle dipendenze di Marco V. Agrippa[5], pensato per essere realizzato interamente in marmo bianco con blocchi a secco, senza l’utilizzo di malta; dall’impianto rettangolare orientato in direzione nord-sud.

Il Tempio è detto pseudoperiptero esastilo[6], caratterizzato da un ampio spazio sui quattro lati che circondano il corpo centrale, nove colonne scanalate di ordine corinzio di tradizione tardo-ellenistica sui lati maggiori (fig. 1); inoltre, due rampe laterali ascendenti al basamento del pronao, permettono l’accesso al culto nella parte sud dell’edificio.

 

Basilica di San Procolo Martire

A seguito della caduta dell’Impero Romano d’Occidente prima e d’Oriente poi ed in seguito all’invasione dei barbari, la popolazione puteolana decise di insediarsi sulla rocca fortifera della città, il Rione Terra.

Tra il V e VI secolo con l’avvento dell’evangelizzazione, fu costruita una chiesa dedicata al santo patrono della città, San Procolo, uno dei sette martiri puteolani assieme a San Gennaro[7].

La chiesa sarebbe stata costruita intorno al tempio con l’utilizzo integrale delle strutture preesistenti.

In epoca barocca, attorno al 1632 - 1636 cominciò un’opera di restauro dell’intera città comprendente la Cattedrale e la Basilica del santo patrono di Pozzuoli. I lavori, iniziati per opera del contributo del frate Martin de Leòn y Cardenas, arcivescovo cattolico spagnolo e vescovo della diocesi flegrea, vennero commissionati all’architetto Bartolomeo Picchiatti con la collaborazione dello scultore Cosimo Fanzago. Quel che restava del vecchio Tempio augusteo non venne demolito bensì inglobato nella struttura del Duomo nascente, le colonne furono assorbite delle mura che circondavano la cappella barocca e sul tetto venne eretto un imponente campanile e venne anche spostata l’entrata alla direzione nord dalla direzione sud.

L’interno della cappella barocca presentava un altare di marmi policromi ed un ciborio decorato con pietre preziose, oggi scomparse a causa di saccheggi avvenuti nei secoli, ospitante dodici tele, più una dietro l’altare, la pala di Agostino Beltrano raffigurante La decapitazione di San Gennaro (fig. 2), dei più importanti pittori del Seicento: Francesco e Cesare Fracanzano, Giovanni Lanfranco, Onofrio Giannone, Paolo Finoglio, Agostino Beltrano, Massimo Stanzione e Artemisia Gentileschi. Quest’ultima è autrice di tre opere presenti nella chiesa, tra cui San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, un olio su tela dalle grandi dimensioni a lungo conservato presso il Museo Nazionale, oggi collocato nel Museo Diocesano di Pozzuoli, retrostante al Duomo[8].

La scena rappresentata è quella del martirio di San Gennaro, nel momento in cui il santo e i suoi seguaci stanno per essere dati in pasto a delle belve dalle fattezze irriconoscibili, ma queste, ammansite, quasi si inginocchiano al suo cospetto leccandogli i piedi in segno di sottomissione.

Artemisia riprende con estremo realismo i personaggi situandoli all’interno dell’anfiteatro Flavio di Pozzuoli laddove il martirio sarebbe dovuto avvenire. La firma dell’artista presente nella tela in basso a destra (“Artemisia Gentileschi” e non più “A. Gentileschi”) venne recuperata solo dopo gli anni 70’ del 1900 a seguito di un importante restauro.

Le altre due tele della pittrice presenti nel Duomo sono I santi Procolo e Nicea e l’Adorazione dei Magi, quest’ultima conservata presso il Museo di San Martino di Napoli per cinquant’anni prima di tornare alla sua collocazione originaria nella cappella.

 

Il Museo Diocesano

Nel Museo Diocesano, situato lungo il retro della chiesa, oltre al San Gennaro di Artemisia Gentileschi sono presenti oggetti sacri come un’ampollina con il sangue di San Gennaro, un busto in bronzo e argento che raffigura il santo suddetto ed utilizzato durante le processioni di paese; e una collezione che raccoglie i più antichi reperti archeologici rinvenuti nell’area flegrea, tra cui vasi in ceramica corinzia risalenti al VII secolo a.C. Nella basilica è presente quella che viene definita come la “piccola cappella sistina di Pozzuoli”, una sala antistante l’altare del Duomo in cui sono presenti gli affreschi di tutti i vescovi a partire da Cardenas fino alla metà del 1700, cui però manca la parte sottostante degli affreschi a causa di atti di vandalismo.

 

L’incendio e il restauro

Tra la notte del 16 e 17 maggio del 1964 un incendio distrusse gran parte della cattedrale, caddero il tetto della navata centrale e il campanile edificato nel 1633, gli affreschi seicenteschi furono distrutti, mentre la zona presbiterale rimase intatta, eppure dalla distruzione vennero scoperte delle colonne nascoste del Tempio di Augusto e recuperate per opera del professore e restauratore Ezio De Felice che, insieme all'architetto Paolo Di Monda e all'ingegnere Mario Cappelli, che abbatterono una parte della cappella barocca per riportare alla luce il vecchio tempio. Il 2 marzo del 1970 un allarme di bradisismo costrinse la popolazione ad evacuare il Rione Terra abbandonando la cattedrale e gli edifici circostanti. Nel 1971 venne emanata una legge che prevedeva che tutti gli immobili di proprietà della chiesa fossero di proprietà del comune di Pozzuoli, ma ciò non li salvò dagli atti di vandalismo e saccheggio durati fin oltre il 1980[9].

Nel 2003, venne emanato dalla Regione Campania un Concorso internazionale per la progettazione del restauro del monumento puteolano. Vinto dall'architetto Marco Dezzi Bardeschi il progetto, intitolato “Elogio del palinsesto”, prevedeva il reinserimento dell’antica struttura con quella barocca in concomitanza di elementi contemporanei (fig. 3): l’antico pronao divenne l’atrio d’accesso alla chiesa, gli intercolumni laterali dell’antico Tempio vennero rinchiusi entro pareti di cristallo (fig. 4) e sullo stesso cristallo, visibile all’entrata del Duomo, furono serigrafate quattro colonne. Il tetto dell’antica navata centrale del Tempio fu coronato da un trasparente baldacchino a calotta stellata, in cui la posizione delle luci riproduce la costellazione di una notte del 61 d.C in cui San Paolo di Tarso sbarcò a Pozzuoli consacrando il Tempio augusteo come Chiesa cristiana.

I lavori di restauro sono durati 10 anni e l’11 maggio del 2014 il Duomo di Pozzuoli, Basilica e Cattedrale di San Procolo, venne riaperto al culto.

 

 

 

 

 

 

 

Note

1 Attestato dalle iscrizioni latine presenti sulla parte del colonnato “L. Calpurnius L.f. templum Augusto cum ornamentis d.s.f” in traduzione “Lucio Calpurnio, figlio di Lucio, dedicò a sue spese questo tempio ed il suo arredo ad Augusto”.

2 Giove, Giunone e Minerva.

3 Termine di origine medievale usato dai marinai per indicare il villaggio e/o le città situate in opposizione al mare.

4 Puteolis latina dei tempi romani risalgono alle prime colonizzazioni del 530 a.C di popolazioni greche che scappavano dal governo di tipo tirannico di Policrate.

5 Stratega di Augusto.

6 Che dal greco significa “che ha intorno ali”.

7 Subirono la decapitazione nel 305 d.C durante le persecuzioni nei confronti dei cristiani per opera dell’imperatore Diocleziano.

8 La tela presente al centro della parete nord-ovest della basilica è in realtà una stampa che sostituisce l’originale esposto al museo.

9 Anno del terremoto dell’Irpino durante il quale venne allontanato il vescovo della diocesi dalla chiesa.

 

 

 

 

Bibliografia

Amedeo Visconti, Massimiliano Lanzillo, Archaiologhìa, cap. 3.1, La parola ai manufatti: Età geometrica, Età del ferro. D6, Anafora attica, Geometrico Medio, pp. 24-25, Ed.Tiotinx Edizioni S.r.l 2020.

 

Sitografia

https://www.puteolisacra.it/il-progetto/ , consultato il 29/04/2022

https://www.romanoimpero.com/2010/12/puteoli-pozzuoli-campania.html , consultato il 06/05/2022

https://www.themaprogetto.it/tempio-duomo-pozzuoli-elogio-del-palinsesto/ , consultato il 06/05/2022

http://www.campiflegrei.it/desktop/Duomo%20di%20Pozzuoli.html , consultato il 17/05/2022

https://web.faraone.it/realizzazioni-faraone/tempio-di-augusto-pozzuoli/ , consultato il 17/05/2022

https://faraone.it/realizzazioni/tempio-di-augusto-pozzuoli/ , consultato il 17/05/2022


L'ANFITEATRO FLAVIO DI POZZUOLI

A cura di Camilla Giuliano

 

Introduzione

L’Anfiteatro Maggiore Flavio di Pozzuoli è uno dei siti archeologici più importanti e ben conservati d’Italia. Ben pochi sanno che prima di questo era presente un primo anfiteatro, detto poi “Minore” [1].

 

Breve storia dell’Anfiteatro puteolano delle origini ai giorni nostri

Venne eretto nel I secolo d.C in età imperiale, sotto la dinastia Flavia, da cui il nome. Inaugurato dall’imperatore Tito, è il terzo Anfiteatro al mondo per grandezza, seguendo il Colosseo di Roma e quello di Capua. Secondo Cassio Dione, storico greco di Roma, presso di esso nel 66 d.C si tennero i ludi in onore del re dell’Armenia, Tiridate, dunque l’anfiteatro risalirebbe agli anni del consolato di Nerone, ma a causa della damnatio memoriae la menzione del suo nome venne proibita, invece, il completamento della struttura e le decorazioni vennero ascritte all’età Flavia. 

Un’iscrizione epigrafica apposta in quattro copie su ciascuno degli ingressi principali attesta la sua collocazione in quest’ultima età, in quanto recita: COLONIA FLAVIA AUGUSTA PUTEOLANA PECUNIA SUA ovvero: LA COLONIA FLAVIA AUGUSTA PUTEOLANA COSTRUI’ A SUE SPESE.

Tra la seconda metà del I e gli inizi del IV secolo d.C, l’Anfiteatro Maggiore fece da sfondo alle persecuzioni cristiane portate avanti dai romani a partire da Nerone; tra le vittime delle aggressioni vanno ricordati i martiri San Gennaro e San Procolo, oggi rispettivamente i santi protettori di Napoli e Pozzuoli. In particolare, Artemisia Gentileschi dipinse la tela, oggi conservata al Museo Diocesano di Pozzuoli, che raffigura la scena del martirio avente come sfondo proprio gli archi dell’anfiteatro preso in esame. 

Durante il Medioevo esso fu usato a lungo come cava di pietre da costruzione, e, successivamente fu spoliato, subendo così la medesima sorte toccata al Colosseo di Roma. 

Nel 1689 sull’edificio venne eretta una piccola chiesa dedicata a S. Gennaro, sconsacrata e distrutta nel 1837 per volere del re Ferdinando II di Borbone, il quale ordinò lo sterro del monumento. Tra il 1839 e il 1845 l’architetto napoletano Carlo Bonucci liberò gran parte dei sotterranei e in successive campagne di scavo E. Ruggiero e l’archeologo Giuseppe Fiorelli riportarono alla luce l’arena e alcuni dei passaggi radiali. L’ultima opera di scavo fu negli anni che vanno dal 1926 al 1947, che liberò definitivamente la struttura dai detriti accumulati nel tempo. 

Nel corso degli anni è stato meta di turisti provenienti da tutto il mondo e luogo di incontro per diverse rappresentazioni teatrali e musicali. Negli anni ’90 vennero costruite delle gradinate in legno andate poi distrutte nell’incendio che colpì l’anfiteatro il 16 luglio 2021 [Fig. 1].

Oggi l’Anfiteatro di Pozzuoli aderisce ad iniziative di rilievo come: le Giornate Europee del Patrimonio 2021, promossa dal Ministero della Cultura, il percorso espositivo “Proiezioni” di Fabio Pagano, la “Notte Europea dei Musei”, un’esperienza immersiva in cui il pubblico può godere di un suggestivo percorso al buio nei sotterranei dell’Anfiteatro.

  

La struttura

La denominazione di anfiteatro derivava dall’unione di due parole greche: theatron e amphi “che gira intorno”. 

L’edificio presenta una struttura dalla pianta ellittica delle dimensioni 149x116 metri e poteva contenere circa 40.000 spettatori. [Fig. 2]

 

L’anfiteatro si ergeva su tre livelli, l’arena, gli spalti e i sotterranei; la sua costruzione si elevava su tre ordini in cui i primi due, ad arcate, sostenevano la cavea, a sua volta suddivisa in tre settori (summa, media e ima), l’ultimo si presentava all’esterno come un alto loggiato con un muro continuo, finestrato e ornato da statue oggi andate perdute. 

L’intero perimetro era percorribile dal pian terreno mediante tre ambulacri concentrici e collegati tramite appositi ambienti disposti radialmente. Il percorso esterno si sviluppava sotto un porticato ad archi, i cui pilastri erano decorati all’esterno da semicolonne addossate; dei due ambulacri interni, quello nella zona mediana dell’anfiteatro era riservato al pubblico, mentre l’altro, posto dietro il podio lungo il perimetro dell’arena, era destinato al personale di servizio. 

Quattro erano gli ingressi principali posti alle estremità degli assi maggiore e minore, in concomitanza una rete di corridoi interni [Fig. 3] facilitavano gli spostamenti al pubblico e al personale, portando talvolta anche ai sotterranei. Quest’ultimi, perfettamente conservati nel tempo, si sviluppavano secondo due assi perpendicolari sormontati a loro volta da due corridoi principali collegati tramite un ambulacro anulare. 

I sotterranei erano il luogo in cui venivano chiuse in gabbie di ferro le bestie feroci ed i gladiatori pronti a domarle[2] ed una di queste divenne la cella di San Gennaro.

Nella parte sottostante l’anfiteatro era visibile anche parte degli impianti idrici, facenti parte di un complesso sistema di canalizzazione delle acque che le convogliava in una fogna centrale collocata esattamente sotto il piano dell’arena.

Con l’avvenire dei secoli, sono andate perdute le colonne con capitelli in stile composito [Fig. 4] che adornavano il porticato, altre vennero fatte scivolare nei sotterranei agli inizi del Novecento [Fig. 5].

L’arena, dalle dimensioni di 75x42 metri, era traforata da una serie di botole quadrangolari, coperte da lastre in legno e collegate ai sotterranei; il piano di questa era attraversato interamente da una fossa profonda 45 metri dal quale venivano sollevate le scenografie durante i ludi e gli spettacoli. 

Le gradinate suddivise in tre settori e in cunei numerati, i cui posti erano di maggiore o minore pregio in rapporto alla distanza dall’arena: quelli più vicini erano riservati ai senatori, ai cavalieri romani, ai magistrati e sacerdoti cittadini.

La parte più alta, chiamata summa cavea, era raggiungibile dal piano stradale esterno mediante rampe di scale [Fig. 6]; vi erano ventotto accessi di questo tipo collocati in ciascuno dei quattro settori ed ingressi principali, invece, gli accessi alle cavee dei settori più bassi erano distribuiti lungo l’ambulacro interno.

La media cavea, raggiungibile percorrendo dodici corridoi in discesa o quattro scale situate ai lati dei fornici sull’asse longitudinale maggiore, era composta da quattordici scale.

Per la costruzione dell’edificio vennero impiegati la pietra e la calce, per renderlo più duraturo nel corso del tempo, unendo i mattoni attraverso la tecnica dell’opus reticularum (opera reticolata) e del laterizio, già impiegati nell’edilizia romana [Fig. 7].

In seguito alla profonda crisi bradisismica che colpì l’area Flegrea nel 1983 - 1984, un intervento di restauro riuscì a recuperare l’intero settore dell’ima cavea i cui gradini conservavano il rivestimento d’origine dipinto in intonaco chiaro; la stessa sorte non toccò invece agli altri settori andati distrutti negli anni a causa di un mal-restauro compiuto attorno al 1970.

 

Conclusioni

Spettacoli, luogo di martirii, lotte tra gladiatori, la maestosità degli anfiteatri romani non ha tempo. A distanza di secoli è possibile ammirare l’edificio e conoscere la sua storia grazie ad attività e visite guidate promosse dal sito.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

[1] Dell’Anfiteatro Minore si hanno poche notizie in quanto il suo impianto originario è stato sostituito dalla linea ferroviaria Napoli-Roma costruita nel 1915; sappiamo che ospitava circa 20.000 spettatori, la metà dell’Anfiteatro Maggiore.

[2] I gladiatori erano per lo più schiavi di guerra allenati per dare spettacolo e divertire il pubblico aristocratico. 

 

 

 

 

Bibliografia

Per lo stile dei capitelli: G.C.Argan, Storia dell’arte italiana, Sansoni editore 1986; capitolo terzo, L’arte greca pp.25 - 34.

Per l’architettura romana: G.C.Argan, Storia dell’arte italiana, Sansoni editore 1986; capitolo quinto, L’arte romana pp.127 - 134.

 

Sitografia

https://www.coopculture.it/it/poi/anfiteatro-flavio-di-pozzuoli/ , consultato il 08/06/2022

https://www.around-naples.com/it/anfiteatro-flavio-di-pozzuoli.html , consultato il 08/06/2022

http://www.pafleg.it/it/4388/localit/66/anfiteatro-flavio , consultato il 08/06/2022

http://www.parcoenea.it/area_flegrea.aspx , consultato il 09/06/2022

https://www.ildenaro.it/anfiteatro-flavio-di-pozzuoli-in-fiamme-le-gradinate-in-legno/ , consultato il 09/06/2022