SAN MAURO E I LUOGHI DEL PASCOLI

A cura di Jacopo Zamagni
Fig. 1 - Ritratto di Giovanni Pascoli.

La Romagna, oltre a conservare splendidi borghi e castelli medievali, ha visto nascere tante personalità illustri destinate a rimanere nel firmamento della storia dell’arte e della cultura. Questo articolo concentrerà l’attenzione su una figura che, come poche altre, ha creato un legame indissolubile tra il suo paese natale, San Mauro di Romagna, e le sue opere: Giovanni Pascoli, uno dei più importanti poeti italiani dell’Ottocento e figura di spicco, insieme a Gabriele D’Annunzio, del Decadentismo italiano.

San Mauro Pascoli è un piccolo municipio situato nei pressi del Rubicone compreso in un’area fra la via Emilia e il mare. Non lontano dal comune si innalza maestoso il palazzo settecentesco della Torre, cuore della tenuta dei principi Torlonia, dove visse anche Giovanni Pascoli quando era fanciullo. Il compendio sorge nei pressi dell’antica Giovedìa, un tempio romano dedicato a Giove Capitolino difronte al quale, secondo la tradizione, Giulio Cesare sostò in preghiera dopo l’attraversamento del Rubicone.

Circa a metà del XII secolo in Romagna cominciarono ad affermarsi le autonomie comunali e San Mauro diventò parte del feudo dei Malatesta, potente famiglia che in questa regione vantava svariati possedimenti e numerosi castelli. Durante il periodo del dominio malatestiano, San Mauro venne inserita nell’ambito territoriale del castrum Savignani, ma i Sammauresi non accettarono questa collocazione e, nella prima metà del XV, secolo riuscirono ad ottenere l’autonomia. Ai Malatesta subentrarono gli Isei, poi gli Zampeschi ed infine i Riario. L’inizio del Cinquecento vide l’arrivo di Cesare Borgia detto il Valentino, figlio di papa Alessandro VI. Alla morte del pontefice San Mauro passò per brevissimo tempo alla Repubblica di Venezia per essere ceduta nuovamente al Papa, che assegnerà il feudo ancora ai Riario e poi agli Zampeschi. Nel 1578 S. Mauro ritornò sotto il diretto dominio della Chiesa e seguì tutte le vicissitudini del territorio romagnolo fino all’Unità d’Italia.

Nel marzo del 2019 è stato inaugurato il Parco Poesia Pascoli, un progetto culturale promosso dall’amministrazione comunale di san Mauro Pascoli che vuole valorizzare sia la figura di Giovanni Pascoli che gli edifici storici del territorio sammaurese. I beni inclusi nel succitato progetto che verranno di seguito illustrati sono il Museo Casa Pascoli e Villa Torlonia, nota anche come “la Torre”.

MUSEO CASA PASCOLI

Fig. 2 - Ingresso del Museo Casa Pascoli.

Il Museo Casa Pascoli è la casa che, il 31 dicembre 1855, ha dato i natali a Giovanni Pascoli e che lo ha ispirato per alcuni dei suoi più noti componimenti. Pascoli visse qui fino all’età di sette anni, per poi trasferirsi coi fratelli maggiori al collegio di Urbino; trascorrerà poi a San Mauro le vacanze estive. Come molti edifici storici romagnoli, anche Casa Pascoli subì ingenti danni durante la Seconda Guerra Mondiale e fu necessario ristrutturare l’edificio per poterlo riportare al suo aspetto originario.

Fig. 3 - Museo Casa Pascoli con annesso giardino esterno.

La casa all’esterno si presenta con un’architettura molto sobria, tipica delle case di campagna ottocentesche. Una volta varcato l’ingresso troviamo sulla destra la cucina, l’unico degli ambienti domestici ad essere scampato ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e che si può ammirare nel suo aspetto originale. La stanza presenta in alto una grande trave in legno e in fondo un grande focolare con utensili e mobili d’epoca.

Salendo al primo piano della casa, si accede agli ambienti più intimi e suggestivi. La prima stanza è la camera da letto, all’interno della quale si trovano la culla in legno appartenuta al piccolo Giovanni e una teca che conserva alcune lettere scritte da Pietro Guidi detto “Pirozz” , amico fraterno del poeta.

Di fronte alla camera da letto si trova lo studio del Pascoli, dove sono esposti importanti documenti storici, come le prime edizioni delle poesie pascoliane con dediche autografe che l’autore donò al Comune di San Mauro.

Fig. 8 - Studio del Pascoli e sullo sfondo libri e vocabolari appartenuti al poeta (da Archivio fotografico Museo Casa Pascoli).

La visita prosegue nell’adiacente giardino dove, ancora oggi, si conservano alcune delle specie botaniche che Pascoli citò nei propri componimenti, tra cui le rose rampicanti, i giaggioli e l’erba cedrina.

Fig. 9 - Giardino esterno del Museo Casa Pascoli.

La visita si conclude giungendo al cospetto della chiesetta dedicata alla Madonna dell’Acqua, un piccolo oratorio annesso al giardino di Casa Pascoli che fu luogo di consolazione spirituale per la madre del poeta, il quale, nel maggio del 1897, scrisse ai suoi amici di San Mauro: «E l’ospite saluterà commosso il mio mondo ideale che ha per confini l’Uso e il Rio Salto e per centro la chiesuola della Madonna dell’Acqua e il camposanto fosco di cipressi».

Fig. 10 - Chiesetta della Madonna dell‘Acqua.

VILLA TORLONIA (LA TORRE)

Fig. 11 - Complesso di Villa Torlonia.

Villa Torlonia è un grande residenza rustica situata a pochi chilometri di distanza da San Mauro Pascoli. E’ giunta fino a noi nell’aspetto che si consolidò nel XVIII secolo. L’edificio, già proprietà dei principi Torlonia, è formato da un corpo centrale contenente un ampio cortile interno e due edifici minori laterali: il primo, sulla sinistra, serviva come abitazione del fattore e magazzino; l’altro, sulla destra, è la piccola chiesa ottocentesca dei Santi Pietro e Paolo. La parte più antica di Villa Torlonia è rappresentata dalle cantine sottostanti l’attuale sala degli Archi, corrispondenti alle fondazioni del Castrum di Giovedìa (XI secolo).

La Torre riveste una particolare importanza non tanto per l’interesse artistico, quanto per la testimonianza che offre di un mondo agricolo ormai scomparso, dell'organizzazione sociale ed economica di cui le varie aree dell'edificio sono espressione. Villa Torlonia si impose nel tempo come una tenuta agricola di primaria importanza per il territorio romagnolo e non solo, raggiungendo livelli di assoluta eccellenza. Fra i prodotti che si affermarono a livello internazionale si ricordano i vini - compreso uno spumante denominato pretenziosamente “La Tour” - e la selezione delle razze bovine, che portarono alla vittoria in importanti concorsi nazionali ed esteri.

Fig. 15 - Cortile interno di Villa Torlonia.

La Corte di Giovedìa fu riconvertita da castello a masseria fortificata dominata da un’imponente torre, così come la si può vedere rappresentata nella Galleria delle Carte Geografiche dei Musei Vaticani.

Fig. 16 - Torre di Giovedìa.

Nel XVIII secolo la proprietà del complesso passò al nipote di Pio VI, Luigi Onesti Braschi. Nel secolo successivo divenne proprietà del principe Alessandro Torlonia, il quale nominò Giovanni Pascoli senior amministratore dei suoi beni in Romagna. A questi succedette per un breve periodo il figlio Ferdinando, il quale però morì improvvisamente. Nel 1855 gli subentrò il nipote Ruggero, che sostituì lo zio Giovanni anche nel ruolo di mandatario dei Torlonia. Ruggero aveva sposato, nel 1849, la sammaurese Caterina Vincenzi Allocatelli e i coniugi avevano fissato la loro dimora nella casa di lei, in paese. Qui nacquero ben dieci figli fra cui Giovanni (1855-1912), il futuro poeta.

La famiglia si trasferì alla tenuta della Torre nel 1862, e lì rimase fino al 1867, data della tragica morte - rimasta impunita - di Ruggero Pascoli, assassinato sulla via Emilia da due sicari mentre tornava in calesse da Cesena. Questo grave lutto stravolse la vita di tutti i membri della famiglia, i quali furono costretti a fare ritorno alla casa materna dove, purtroppo, sia la sorella che la madre si spensero l’anno successivo. Questi ulteriori drammatici eventi causarono la dispersione dei restanti membri della famiglia, i quali riportarono gravi traumi psicologici, come si evince dalle loro tormentate vite e dalle pagine poetiche del Pascoli.

Fig. 17 - Ritratto della famiglia Pascoli.

Nel secolo scorso la proprietà di Villa Torlonia fu smembrata e gli edifici furono in gran parte abbandonati, andando incontro ad un inesorabile deterioramento Nel 1974 il compendio è stato dichiarato di interesse storico dal Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1983 il Comune di S. Mauro ne ha acquisito la proprietà e lo ha restaurato, rendendolo fruibile alla collettività. Attualmente la struttura ospita convegni, spettacoli teatrali, mostre temporanee ed il Museo Multimediale Pascoliano.

 

Bibliografia

SUSANNA CALANDRINI, San Mauro; Giovedìa; La Torre, Pazzini Industria Grafica s.r.l., Verucchio, 1989.

ACCADEMIA PASCOLIANA SAN MAURO PASCOLI, Il Supplemento ai Quaderni di San Mauro – 4 – Giovanni Pascoli LA TORRE San Mauro, Tipografia BAIARDI s.n.c., San Mauro Pascoli, 1995.

SUSANNA CALANDRINI, Storia di S. Mauro Pascoli, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 2000.

 

Sitografia

www.casapascoli.it

www.parcopoesiapascoli.it


GATTEO: UN ANTICO BORGO

A cura di Jacopo Zamagni

INTRODUZIONE

Gatteo è un piccolo paese situato in provincia di Forlì-Cesena, nato come stanziamento romano e sorto in vicinanza dell’antico Compitum (l’attuale San Giovanni in Compito); a conferma di ciò sono i numerosi reperti archeologici (mattoni, marmi, metalli, monete e antiche statue) ritrovati in tutta la zona circostante.

Fig. 1: il castello di Gatteo

Una pergamena ritrovata nell’archivio del soppresso monastero benedettino di San Pietro di Rimini riporta che nel marzo del 1140 Arduino, Abate del Monastero, concesse in enfiteusi (diritto reale di godimento che attribuisce al titolare, enfiteuta, lo stesso potere di godimento che spetta al proprietario) un “manso in fundo Catei” nella Pieve di San Giovanni in Compito. Il “fondo Gatteo” viene nominato in un’altra carta dello stesso archivio, datata 7 ottobre 1197, che rivela che fino a quell’epoca esisteva la Terra di Gatteo. Nel XIII – XIV sec. Gatteo diventò Comune medievale, una forma politica autonoma di governo cittadino con poteri conferiti ai Consoli Bulgarello nel 1233 e Ritio nel 1308. Nel 1371 Gatteo viene citata dal Cardinal Anglico nella “Descriptio Provintie Romandiole” come “Castrum Gatthei” con i suoi 70 focolari (famiglie composte mediamente da cinque o più persone) per un totale di oltre 350 abitanti. Nel 1452 Papa Niccolò V diede in concessione tutto il territorio di Gatteo in feudo ai Conti Guidi di Bagno e il 19 agosto 1452 vennero stabiliti i confini territoriali fra il Comune di Cesena e quello di Gatteo, indicando il limite nell’attuale fiume Rigossa.

Agli inizi del XVI secolo Gatteo faceva parte del Ducato di Romagna del Valentino, che però ebbe vita breve in seguito all’invasione dei Veneziani; dopo ciò, nel 1516 iniziò il dominio su Gatteo dei Conti Guidi di Bagno, i quali rimasero al potere fino al 1656 quando il Feudo di Gatteo tornò nelle mani del Pontefice.

Il 1° agosto 1849 Giuseppe Garibaldi, per dare man forte alla resistenza di Venezia attraversò la Romagna passando per Gatteo, per poi giungere a Cesenatico e salpare alla volta di Venezia. Con la nascita del Regno d’Italia Gatteo issò trionfalmente la bandiera tricolore, e il 30 marzo 1860 divenne Comune autonomo.

ORATORIO DI SAN ROCCO

Fig. 2. Facciata esterna di S. Rocco

La Chiesa (o Oratorio) di San Rocco è situata sul margine meridionale della parte storica di Gatteo. L’edificio portava scritta la propria data di fondazione, 1484, in una pietra collocata nell’ingresso, ma la chiesa è probabilmente più antica perché la dedica a San Rocco era avvenuta nel secolo precedente in ricordo di quando il santo passò da Gatteo, dopo la terribile peste nera del 1348. Nell’anno 1484 si ricostruì quindi la cappella del santo e si iniziò il ciclo degli affreschi votivi che si datano tra il 1484 e il 1508.

Il primo documento che registra la presenza degli affreschi è il verbale della visita pastorale, redatto dal Vescovo di Rimini nel 1577. Gli affreschi furono successivamente coperti con una mano di calce e riscoperti solo alla fine dell’Ottocento.

Attiguo alla chiesa si trovava il cimitero per gli appestati (malati di peste o altre epidemie contagiose), e sotto il pavimento della stessa era collocato un ampio ossario.

All’interno dell’Oratorio di San Rocco si trovano una serie di affreschi devozionali dipinti tra fine ‘400 e primo ‘500, realizzati in tempi diversi e in successione in base alle grazie ricevute, che riportano spesso il nome del committente. Nella Sacra Conversazione la Madonna in trono è collocata al centro (la Madonna indica con la mano il sesso del bambino a sottolineare la verità dell’incarnazione), a destra S. Elena con la croce (simboleggia l’accettazione della propria croce) e S. Gregorio Magno (che debellò la peste), mentre a sinistra è collocato S. Giovanni Battista (il Santo della Pieve di San Giovanni in Compito). Nella cornice dipinta in basso si può ancora leggere «Queste figure a fato fare il 30 de ma(gio) (1508)».

Fig. 3. Madonna in trono con Bambino e ai lati S. Elena, S. Gregorio Magno e S. Giovanni Battista

Insieme a questa “Sacra Conversazione”, si trova un altro affresco: al centro sta Maria con il Bambino in braccio, a sinistra S. Caterina da Siena e a destra S. Rocco che mostra la piaga nella coscia.

Fig. 4. Madonna, Bambino, S Rocco e S. Caterina da Siena

In un grande scomparto della fascia di affreschi che decora S. Rocco si possono ammirare S. Giorgio che uccide il drago (la peste), S. Lucia martire che mostra gli occhi strappati, e un’affollata Crocifissione che si innalza tra le figure citate sopra, tra cui il committente - quasi umile intruso col berretto in mano. Il Cristo barbuto è dipinto con energia popolaresca e arcaica, come pure l’angelo che raccoglie nel calice il prezioso sangue di Gesù. Le figure hanno tutte la consueta fissità, indice di ardente preghiera, tranne la Maddalena che abbraccia la Croce, poiché rappresenta l’umanità dolorante.

Successivamente si possono ammirare S. Caterina d’Alessandria e S. Sebastiano, martirizzato con frecce, simbolicamente identificato con gli appestati coperti di ulcere e piaghe. L’ultimo affresco (mutilo) di S. Rocco è molto enigmatico e rappresenta il papa con la mitria in capo, nudo e legato ad una colonna, flagellato da spietati energumeni. Potrebbe essere un’immagine simbolica delle terribili prove a cui, secondo le profezie dell’Apocalisse, verrà sottoposta la Chiesa sotto il regno dell’Anticristo.

IL CASTELLO DI GATTEO

Il castello di Gatteo (Castrum Gatthei) rappresenta un esempio pregevole di castello – recinto romagnolo di pianura; una citazione riferita al castello – recinto risale al 1290 in un libro delle Decime, dove la chiesa di San Lorenzo di Gatteo è situata «entro il recinto del castello».

Le origini del castello di Gatteo sono avvolte nell’oscurità delle lacune documentarie. Luigi Renato Pedretti mette in relazione l’origine del castello con l’Agger (fortificazione o accampamento a forma quadrata dell’esercito romano, delimitato da una staccionata e da un fossato), dunque l’«Aggero Gatthei» sarebbe una delle poche testimonianze dell’epoca romana rimaste in pianura. In ogni caso il castello di Gatteo, trovandosi nelle vicinanze del Compito e lungo una strada di collegamento tra le due arterie Emilia e Litoranea (o Popilia), aveva un importante ruolo strategico militare.

Fig. 10. Ricostruzione del castello di Gatteo

Il castello, di origine Malatestiana, si presenta con una pianta a rettangolo irregolare, con il fronte principale lungo il lato est che misura 83,50 metri e il lato ovest di 80,50 metri, mentre il lato nord è di 61,50 metri e il lato sud di 60 metri. Le mura, che contano una torre e cinque baluardi (torricini atti a formare una valida difesa), sono circondate da un largo fossato che in passato era pieno d’acqua. Le due torri angolari presentano una pianta esagonale con un lato verso l’interno e gli altri lati rivolti verso l’esterno; ciò era utile per non avere angoli morti ai fini del tiro difensivo operato dalle torri medesime.

La Seconda Guerra Mondiale ha lasciato ingenti danni al castello di Gatteo, poiché la torre sud-est (l’antica prigione) così come gran parte del fronte d’ingresso sono stati completamente rifatte. La torre centrale (sopralzata nel corso del Settecento) ha due ingressi, uno carraio e l’altro pedonale, entrambi dotati di ponte e passerella che scendono nel “fossone”.

La rimanente fronte lunga, a nord-ovest, è in gran parte mancante o assorbita da vecchie case sopravvissute. Di particolare interesse sono invece le due torri angolari che fanno capo al fronte nord-ovest: la torre occidentale è originale e ben conservata, e la torre settentrionale è diversa da tutte le altre torri perché presenta una pianta a forma di puntone, la cui punta è rivolta verso l’interno del recinto (fatto inconsueto e difficilmente spiegabile).

Fig. 15. Fronte nord-ovest delle mura

L’ingresso del castello, posto nel lato orientale della cinta, è costituito da un arco a tutto sesto, fiancheggiato da una piccola porta secondaria posta sul lato destro dell’entrata maggiore e sormontata da una torre quadrata, il cassero. Sopra il cassero si trova una torre civica seicentesca che fungeva sia da fortezza che da abitazione. Attorno alla torre principale erano presenti vecchie abitazioni, demolite durante l’ultima guerra.

Il castello al suo interno presenta poco di interessante; da un esame delle vecchie fondamenta risulta che al cassero fossero collegati gli alloggiamenti della guarnigione e delle scuderie. Nella piazza interna del castello era presente un pozzo «a commodo pubblico» e coloro che volevano servirsene dovevano partecipare alle spese.

Dalla seconda metà del Settecento in poi le mura del castello furono abbassate per rendere l’aria all’interno del castello più salubre e respirabile: come conseguenza di ciò il fossato fu svuotato dall’acqua e il ponte levatoio fu sostituito con un ponte in pietra.

Fig. 16. Ponte in pietra che collega il centro di Gatteo al castello

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

GIOVANNA MARONI, Terra uomini religioni, tra chiesa e castello, a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Gatteo, Stilgraf Cesena, Novembre 1988

EDOARDO M. TURCI, Il secolo e il millennio, La storia millenaria di Gatteo e del suo territorio nel primo centenario della Banca di Credito Cooperativo di Gatteo, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 1997

FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI CESENA, Oratorio di San Rocco in Gatteo, i restauri, Wafra litografia, Cesena, Luglio 2002

EDOARDO TURCI, Il Castello di Gatteo, già dei Malatesta e dei Guidi di Bagno, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 2004


LA RUBICONIA ACCADEMIA DEI FILOPATRIDI

A cura di Jacopo Zamagni
Fig. 1 - Ingresso Accademia.

La Rubiconia Accademia dei Filopatridi si trova all’interno di Palazzo Gregorini a Savignano sul Rubicone, una cittadina della provincia di Forlì-Cesena che nel 1933 così modificò il proprio nome da Savignano di Romagna; il motivo di questo cambio nome è presto detto, deriva infatti dal  riconoscimento ufficiale del Governo che il torrente che la attraversava era lo stesso storico fiume che segnava i confini di Roma (famoso perché la tradizione ci dice che Giulio Cesare, giunto sulle sue rive insieme alle truppe, pronunciò la famosa frase «Alea iacta est», “il dado è tratto”). Il palazzo prende il nome dall’omonima illustre famiglia che abitò qui dalla seconda metà del Settecento e fu acquistato dal Comune che ne ampliò la sede acquisendo anche la retrostante area cortilizia. Di questo palazzo il Comune di Savignano destinò all’Accademia dei Filopatridi una porzione, divisa su tre piani, dove furono collocate le sale di rappresentanza, le sale di riunione del Corpo Accademico e, successivamente, l’importante Biblioteca del Sodalizio.

L’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone viene considerata l’erede della più antica Accademia degli Incolti, la quale fu attiva dagli inizi del XVII secolo a Savignano. Probabilmente questa accademia era, all’inizio, una specie di circolo dove si tenevano dissertazioni dotte e un po' altisonanti e successivamente si trasformò in una società a vantaggio dell’istruzione pubblica della Romagna, prendendosi cura anche del patrimonio librario della biblioteca comunale. L’Accademia degli Incolti guadagnò sempre più prestigio grazie alla partecipazione dei suoi esponenti alla controversia circa il fiume che doveva identificarsi con il Rubicone degli antichi; grazie alla presenza di questo cenacolo di eruditi, Savignano si meritò l’appellativo di “ATENE DI ROMAGNA”.

L’Accademia attuale fu fondata, presumibilmente nel 1801, da personalità di altissimo rilievo culturale come Girolamo Amati, Bartolomeo Borghesi e Giulio Perticari, che le diedero il nome di Rubiconia Simpemenia dei Filopatridi. Il nome Filopatridi viene da Girolamo Amati, il quale sosteneva che l’Accademico doveva definirsi amatore della patria, inoltre la stessa doveva avere come emblema il Rubicone e doveva fare uso di nomi pastorali derivati dal mondo classico greco. Tra i primi membri dell’Accademia, oltre ai fondatori, si annoverano i nomi del prof. Eduardo Bignardi, il canonico Luigi Nardi ed altri illustri italiani del periodo come il poeta Vincenzo Monti, il prosatore Pietro Giordani, Monaldo Leopardi padre di Giacomo, Massimo D’Azeglio e tra gli stranieri Lazzaro Nicola Carnet, ministro della guerra francese.

 

All’inizio della sua vita, l’Accademia dei Filopatridi godette di buoni rapporti con la politica; nel mese di Febbraio del 1801 la Municipalità di Savignano inviò una lettera all’Accademia dove espresse il suo compiacimento per le finalità della stessa. Nel 1803 le cose cambiarono perché la legge governativa metteva in pericolo le Corporazioni e, di conseguenza, anche l’esistenza della Simpemenia. A ciò si aggiunse una controversia con il sotto-prefetto di Rimini del primo Regno Italico che, deducendo erroneamente che l’Accademia fosse una setta segreta collegata con gli Inglesi fondata dall’ex gesuita spagnolo Ossuna, ritenuto un rivoluzionario, denunciò l’Accademia al Governo.

Nel 1814 cadde il Governo di Napoleone e tornò il regime pontificio, il quale attuò una politica di repressione delle libere associazioni che portò alla sospensione di tutte le attività dell’Accademia. Dopo l’Unità d’Italia ci fu un rinnovato clima di libertà, al seguito del quale Giosuè Carducci, illustre docente presso l’Università di Bologna e divenuto accademico della Simpemenia col nome bucolico di Stesicoro, fu eletto prima Segretario e poi Presidente. Carducci ebbe l’incarico di riformare gli Statuti dell’Accademia: il nuovo Statuto abolì il calendario greco per le adunanze e i vecchi nomi bucolici di Protopemene, Efori, Docimasti, Tamia e Pemenografo che vennero sostituiti con i nomi moderni di Presidente, Ispettori, Censori, Amministratore e Segretario.

Il 6 maggio 1877, con Regio Decreto di Vittorio Emanuele II, la Rubiconia dei Filopatridi fu eretta in ente morale e messa in grado di amministrare il proprio patrimonio.

Durante il regime fascista l’Accademia fu costretta ad assoggettarsi pesantemente al controllo governativo e, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, divenne Presidente dell’Accademia dei Filopatridi Aldo Spallicci, poeta e cultore della lingua e della cultura romagnola; da allora l’Accademia ha potuto di nuovo impegnarsi per la promozione della cultura classica, della letteratura, delle scienze e delle ricerche storiche su Savignano, così come avviene tuttora.

Varcato il portone d’ingresso, alla sinistra del quale è stato recentemente collocato il busto bronzeo di Bartolomeo Borghesi, si trovano una serie di lapidi che provengono da antichi edifici storici savignanesi, in particolare dall’antica porta occidentale del castello, collocata sul ponte del Rubicone. Tra i manufatti lapidei più importanti sono presenti un antico stemma del Comune di Savignano di provenienza sconosciuta, una iscrizione che ricorda il restauro del ponte romano sul fiume Rubicone, il quadrante di un antico orologio risalente al Seicento e la lastra tombale del conte Andrea Cacciaguerra di Roversano. Dal corridoio del lapidario si accede all’Aula magna dove sono presenti alcune tele settecentesche e la galleria dei ritratti dei presidenti del XX secolo. Una cancellata fa accedere quindi allo scalone che porta ai piani superiori della Biblioteca: ai piedi dello scalone sono presenti due stemmi lapidei, provenienti dalla demolita porta occidentale, del cardinale Gaetano Fantuzzi, Protettore di Savignano, e Giovanni Francesco Stoppani, Legato di Romagna.

Al primo piano dell’Accademia sono allestite le principali sale della Biblioteca: il primo ambiente che si incontra è la Sala di Lettura, dove si trovano una serie di quadri di uomini illustri dell’Accademia e ad essa legati. Successivamente si accede alla Sala del Consiglio dove si trovano parecchie opere d’arte e documenti storici, tra cui il quadro celebrativo degli “Incolti” raffigurante la Madonna col Bambino, S. Nicola di Bari e l’emblema del Sodalizio. Degno di nota è anche il quadro relativo alla bolla di scomunica di Papa Alessandro VIII per chi avesse sottratto libri dalla biblioteca accademica.

Dopo la Sala del Consiglio si raggiunge la Sala dei Mappamondi, che prende il nome da due antichi mappamondi settecenteschi, uno zodiacale e uno terrestre, donati dall’abate E. de Lubelza.

Fig. 16 - Sala dei Mappamondi.

Si giunge quindi alla Sala Amaduzziana, al cui interno trova collocazione la Biblioteca personale dell’Amaduzzi, qui giunta da Roma per sua disposizione testamentaria. Si possono trovare anche una teca contenente antichi sigilli ed una statuetta decorativa dei palchi del teatro accademico di Savignano. Ritornati alla sala di lettura, si passa quindi alla Sala del Famedio, un tempo utilizzata come Aula Magna, con all’interno una “bigoncia” (recipiente usato nella viticoltura) in legno e seta utilizzata come podio dai relatori che declamavano le loro dissertazioni accademiche, dipinti della fine del 1700 e una serie di busti ed epigrafi marmoree di uomini illustri.

Fig. 19 - Bigoncia.

Salendo infine al secondo piano, troviamo le ultime sale, che sono: la Sala dei Vendemini che contiene opere storiche, geografiche, letterarie e soprattutto opere di carattere giuridico fra le quali preziose pandette del secolo XVI e la Sala F, dove si trovano opere giuridiche e di filosofi classici come Ovidio, Seneca, Quintiniano, Aristotele, Socino, Dionigi d’Alicarnasso e Plutarco.

Fig. 20 - Sala dei Rocchi.

La Biblioteca dell’Accademia si è formata con il lascito di illustri accademici, tra i quali si possono citare Girolamo Amati, Giorgio Faberi, Giancristoforo Amaduzzi, il de Lubelza, i fratelli Vendemini, Francesco Rocchi, Ezio Camuncoli, Romolo Comandini, Francesco e Gino Rocchi; è soprattutto una biblioteca umanistica, ricca di testi classici, oltre a possedere il ricco epistolario di Amaduzzi e del de Lubelza, in contatto con tutti gli eruditi del loro tempo. Sono presenti anche opere monumentali, tra le quali citiamo i famosi 33 volumi dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert (Livorno 1770), la prima enciclopedia della storia, e la raccolta dei 152 volumi del Giornale Arcadico (1819-59) e tanti testi importanti del periodo illuministico.

Fig. 21 - Enciclopedia Diderot e d’Alembert.

 

Bibliografia

Mazzotti, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, note storiche e biografiche, Santarcangelo 1975

I Fellini, Savignano e la sua Accademia, Savignano 1988

Foschi (a cura di), La Rubiconia Accademia dei Filopatridi, Savignano 2007

Sitografia

http://www.accademia-rubiconia-filop.org/


LA BIBLIOTECA MALATESTIANA DI CESENA

A cura di Jacopo Zamagni
1. Facciata esterna della Biblioteca Malatestiana.

La Biblioteca Malatestiana di Cesena è situata nel centro storico della città e rappresenta l’unico esempio al mondo di Biblioteca monastica rinascimentale perfettamente conservata, ricca di codici pregiati e di un numero rilevante di manoscritti di sommo valore storico e letterario. In Italia la Biblioteca Malatestiana è stata la prima ad essere inserita dall’Unesco nel registro della Memoire du Monde.

Personaggio fondamentale nella storia della Biblioteca Malatestiana è Malatesta Domenico detto Novello (1418-1465), signore di Cesena e mecenate d’arte. Oltre a Malatesta Novello, ebbero un ruolo fondamentale anche i Frati Minori osservanti di S. Francesco, i quali chiesero al Papa di poter detrarre da un lascito di beneficenza la somma necessaria per costruire un’ampia libreria.

La costruzione della libreria ebbe inizio presumibilmente nel 1450 e la sua ultimazione avvenne nel 1454 ad opera dell’architetto marchigiano Matteo Nuti, già attivo nelle fabbriche malatestiane di Cesena dal 1448. Malatesta Novello andò ben oltre il ruolo di mecenate d’arte, poiché affidò la gestione della Biblioteca al Comune, che ne garantì l’utilizzazione e la conservazione. A proposito di ciò è interessante ricordare che una bolla papale del 1466 minacciava di scomunica chiunque avesse sottratto volumi alla biblioteca, cosa che servì a mantenere integra la Biblioteca. Il 20 novembre 1465 Malatesta Novello morì e redasse un testamento in cui lasciò 100 scudi annui ai Frati Minori “affinché essi provvedano al suo ampliamento, e trenta scudi per un lettore”. Nel 1474 Giovanni di Marco, medico di Novello, donò alla biblioteca 119 codici in gran parte sulla medicina e di altre discipline.

L’edificio della Biblioteca Malatestiana è suddiviso in due piani; al piano terra si trova la sezione moderna della biblioteca comunale che è stata inaugurata nel 1983. Ulteriori lavori di ampliamento e sistemazione sono tuttora in corso. Dal piano terra si sale al corridoio superiore del primo piano passando per lo scalone dove sono collocati vari reperti lapidei (stemmi, epigrafi) di varia provenienza.

6. Stemmi vari di famiglie gentilizie cesenati.

Attraversando il corridoio superiore si giunge davanti alla porta d’ingresso della Biblioteca che reca incisa nella cornice superiore la data “15 agosto 1454”, che presumibilmente costituisce la data di apertura della Biblioteca e il nome dell’artigiano che intagliò l’iscrizione, Cristoforo da San Giovanni in Persiceto.

La porta è suddivisa in 48 riquadri che contengono, nella fila superiore, gli stemmi malatestiani dello steccato, delle tre teste e della scacchiera, mentre nel resto dei riquadri sono raffigurate decorazioni a motivi geometrici e rose a quattro petali, simbolo dei Malatesta.

9. Riquadri intagliati del portale d’ingresso alla Malatestiana.

Sopra la porta è collocato un elefante indiano, che occupa quasi interamente il timpano, con un’iscrizione in latino: «Elephas indus culices non timet», (L’elefante indiano non teme le zanzare).

10. Timpano con elefante indiano.

Sopra la porta si trova un’altra iscrizione che recita: «Malatesta Novellus Pandulphi filiu Malatestae nepos dedit».

11. Iscrizione sopra la porta.

Insieme all'iscrizione è presente un’altra scultura raffigurante l’elefante, la quale si reputa che sia stata scolpita da Agostino di Duccio che all'epoca lavorava nel Tempio Malatestiano a Rimini. Infine a destra è posta l’epigrafe a lode e testimonianza dell’opera dell’architetto Matteo Nuti: «Matheus Nutius Fanensi ex Urbe creatus Dedalus alter opus tantum deduxit ad unguen».

Aula della Biblioteca Malatestiana

Varcata la porta si accede all'aula della Biblioteca Malatestiana, a pianta rettangolare e divisa in tre navate da venti colonne in pietra di Montecodruzzo, dieci per parte, mentre il pavimento si presenta completamente sgombro.

14. Sala della Biblioteca Malatestiana.

La lunga navate centrale presenta una volta a botte, mentre le undici campate delle navate laterali hanno volte a crociera impostate su semicolonne in laterizio.

I capitelli recano i diversi simboli malatestiani, la rosa a quattro petali che è l’arma scelta dai Malatesta a metà del Trecento per potersi attribuire la discendenza dalla famiglia romana degli Scipioni, le tre teste che suggeriscono il significato di male teste, le tre bande a scacchi e lo steccato militare con aste di tre colori, bianco, rosso e verde su un campo bianco, simbolo della forza di Malatesta Novello.

19. Capitello del colonnato della Biblioteca.

La luce entra attraverso ventidue finestrelle, in stile veneziano, collocate alle pareti laterali dipinte di intonaco verde e attraverso il rosone posto sulla parete in fondo, sotto cui è murata la lapide funeraria di Novello Malatesta, le cui ceneri furono qui spostate nel 1812. All'interno di ogni campata è inserita sul pavimento una targa marmorea che testimonia il dono di Malatesta Novello alla sua città.

All'interno dell’aula si trovano 58 banchi o “plutei”, in legno di pino, disposti nelle due navate laterali. Ogni banco fu costruito sia per contenere volumi, sia come sedile per i lettori che ci poggiavano i libri come fosse un leggio. Sui fianchi di ogni banco, rivolti verso il corridoio centrale, si trova lo stemma malatestiano delle tre teste, invece nell'ultimo banco della fila di destra è incisa la firma di un certo Francesco Fatioli di Ancona, un antico visitatore che visitò la Biblioteca Malatestiana nel 1467 pochi anni dopo l’apertura al pubblico.

I volumi posti all'interno dei banchi furono legati con delle catenelle in ferro battuto per evitare che venissero rubati oppure ritirati per essere letti e mai più restituiti. La maggioranza delle catenelle risale al XV secolo e formata da piccole “ghiande”, mentre le catenelle più recenti sono ad anelli intrecciati. I volumi della Biblioteca Malatestiana sono 343, scritti a mano e in maggioranza vergati su pergamena, cioè su pelle di pecora, capra o agnello, trattata in modo da poter accogliere la scrittura ad inchiostro. La maggior parte di questi volumi è scritta in latino, mentre 14 codici sono scritti in lingua greca, 7 in ebraico e un solo volume in italiano. Dal punto di vista della datazione, il manoscritto più antico risale all'inizio del IX secolo, numerosi libri risalgono al Due-Trecento ed infine un gruppo di 126 codici fu scritto a metà Quattrocento da copisti italiani e stranieri al servizio di Malatesta Novello. All'inizio e alla fine di ogni volume venivano poste, durante la rilegatura, alcune carte bianche per proteggere il primo e l’ultimo foglio scritto; in queste pagine bianche si trovano tutt'oggi annotazioni, disegni, preghiere o versi di poesie scritte da chi comprava il libro oppure da chi lo leggeva.

All'interno dell’aula della Biblioteca si trovano testimonianze di altri visitatori che hanno lasciato la loro firma intagliata sull'intonaco verde delle pareti.

28. Firme sull'intonaco di alcuni visitatori della Biblioteca.

Biblioteca Piana

Di fronte all'aula della Biblioteca Malatestiana si trova la Biblioteca Piana, il cui nome deriva da Papa Pio VII, al secolo Gregorio Barnaba Chiaramonti (Cesena 1742 – Roma 1823). Al suo interno sono conservati 5500 volumi a stampa dei secoli XV-XIX, una sessantina di codici e vari manoscritti che testimoniano gli interessi del pontefice per le belle arti, l’antiquaria e la numismatica che gli valsero l’appellativo di “papa archeologo”.

29. Sala della Biblioteca Piana.

Nel 1821 il papa lasciò la sua biblioteca in uso ai benedettini di Cesena e la raccolta libraria fu custodita dai monaci nell'abbazia di Santa Maria del Monte fino al 1866 quando lo Stato italiano, in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose, la trasferì nelle mani del Comune. Dal 1941 la Biblioteca Piana è in deposito a tempo indeterminato al Comune di Cesena e oggi si conserva nel salone di fronte alla Biblioteca Malatestiana.

Nella Biblioteca Piana sono esposte due serie di corali, una commissionata dal cardinale Bessarione a metà del Quattrocento e composta da otto corali, l’altra commissionata dal vescovo di Cesena Giovanni Venturelli alla fine del XV secolo e composta da 8 corali.

30. Libri della Biblioteca Piana.

In una vetrina della sala sono esposti cinque libri di piccolo formato, tra cui il “libro più piccolo del mondo leggibile senza lente”. Il libro misura 15 x 9 mm, stampato nel 1897 dalla casa editrice dei fratelli Salmin e contiene al suo interno una lettera di Galileo Galilei all'indirizzo della Granduchessa di Toscana Cristina di Lorena, nella quale lo scienziato dà conto delle sue scoperte scientifiche.

31. Cinque libri di piccolo formato, al centro il libro più piccolo del mondo.

La Biblioteca Piana contiene una sessantina di manoscritti medievali che vanno dall’XI al XV secolo, esposti nelle vetrine in ordine cronologico in modo tale da costruire una specie di “storia della scrittura”; si può infatti osservare l’evoluzione della scrittura dalle forme in uso dopo il Mille fino alla scrittura inventata e diffusa dagli umanisti nel Quattrocento.

Oltre ai manoscritti, nella Biblioteca Piana si trova la Mazza, uno stemma in argento donato a Cesena da Pio VI (Giannangelo Braschi) nel 1790 per sostituire la mancata elezione di Cesena a capo del Dipartimento del Rubicone.

36. Mazza papale.

 

Bibliografia

ANGELA FABBRI, Cesena e i suoi dintorni, guida turistica – storica – artistica, Cassa Rurale ed Artigiana – Cesena, Imola, 1981, pp. 52-81.

A cura di PIERO LUCCHI, Corali Miniati del Quattrocento nella Biblioteca Malatestiana, Fabbri Editore, Sonzogno, 1989.

RICCARDO DOMENICHINI, ANTONELLA MENGHI, ALBERTO SEVERI, Cesena, Maggioli Editore, Rimini, 1991, pp. 53-60.

A cura di FABRIZIO LOLLINI e PIERO LUCCHI, Libraria Domini, I manoscritti della Biblioteca Malatestiana: testi e decorazioni, Grafis Edizioni, Bologna, 1995.

PAOLA ERRANI, MORENA VANZOLINI, La biblioteca Malatestiana di Cesena, Collana delle perle volume 1, Tipo-lito Wafra, Cesena, 2009.

 

Sitografia

http://www.comune.cesena.fc.it/malatestiana


BERTINORO: “IL BALCONE DELLA ROMAGNA”

A cura di Jacopo Zamagni

Bertinoro: storia e origini

Fig. 1 - Panorama del borgo di Bertinoro.

Bertinoro è un borgo di origine medievale che sorge sulla cima del Monte Cesubeo, situato a metà tra le città di Cesena e Forlì. Grazie alla sua posizione panoramica, tra la pianura e le colline, Bertinoro è soprannominata “Il balcone della Romagna”.

Le origini di Bertinoro sono varie e discordi, a causa di errate ed arbitrarie interpretazioni basate su elementi insufficienti. Quello che si può definire con certezza è la presenza dell’uomo fin dall'età primitiva: ciò è stato dedotto da alcune serie di scavi effettuati nell'anno 1886, quando furono rinvenuti resti di uno scheletro insieme a vasi ridotti in frantumi, e negli anni 1902 e 1911. Grazie a queste scoperte si è potuto dedurre che Bertinoro fu abitata prima dai Liguri e poi dagli Etruschi, i quali furono poi cacciati via dai Romani nel 192 a.C. Giunti a Bertinoro, i Romani trovarono un terreno invivibile per l’uomo a causa della forte presenza di paludi, radure erbose e foreste, così bonificarono il terreno rendendolo il “giardino” che adesso tutti noi possiamo ammirare.

Poco dopo l’anno 1000 e con il cessare delle invasioni barbariche, Bertinoro divenne una contea, fu cinta da nuove mura e prese il nome di Castrum Britannorum (Castello dei Britanni), sembra come derivazione dai pellegrini della Britannia francese.

I conti bertinoresi appartenevano quasi tutti all'illustre famiglia degli Honesti di Ravenna. Successivamente l’imperatore Federico I di Svevia, dopo la sconfitta nella famosa battaglia di Legnano, scelse Bertinoro come sede e si fermò nella Rocca con la sua corte nell'anno 1177, per poi ripartire per la Germania.

Dopo essere stata contesa da varie Signorie, nel 1382 Bertinoro, per disposizione di papa Innocenzo VI, divenne Civitas e sede vescovile. Seguì un periodo turbolento, arrivarono i Malatesta, poi gli Ordelaffi, Cesare Borgia, e poi fu annessa definitivamente allo Stato della Chiesa alla caduta del Valentino.

Negli anni del XVIII secolo Bertinoro era abitata da circa tremila persone, era sede vescovile, di un seminario e di ben otto Ordini religiosi, oltre a numerose Confraternite. Seguì tutte le vicissitudini della Romagna durante il periodo napoleonico fino all'Unità d’Italia e poi fino ai giorni nostri.

Il centro storico è formato da uno borgo di origine medievale racchiuso all'interno di possenti mura, anche se purtroppo la maggior parte delle storiche porte di accesso sono state demolite nel secolo scorso per consentire un più facile accesso alle auto. Questa “sorte” è toccata a Bertinoro come purtroppo a tanti altri borghi italiani.

La Rocca

Fig. 2 - Rocca di Bertinoro.

La Rocca di Bertinoro sorge sulla cima del colle di Bertinoro. L’origine della Rocca si attesta intorno all'anno 1000 e fu considerata una delle opere difensive più temute, oltre che sicuro rifugio per i conti, da Federico Barbarossa, Novello Malatesta e Cesare Borgia.

Durante la Contea, la Rocca fu testimone della sua trasformazione dal suo umile inizio fino all'apogeo della potenza e della gloria, dopo di che la Rocca venne abbandonata dopo la caduta della Contea da parte dei Bulgari e dei Mainardi.

La fortezza contava quattro torri che sorgevano agli angoli. La torre maschia all'angolo nord-est, la torre all’angolo nord, munita di un ponte levatoio che dava accesso a un viadotto il quale portava alla sottostante porta del Soccorso. Particolare rilievo aveva la torre rivolta a sud, trasformata nell'ingresso principale alla Rocca, poiché qui si trovava un sistema difensivo di mura e di torrioni. Nel cortile interno della Rocca era collocato un vasto cisternone che raccoglieva le acque piovane, mentre le stanze intorno al cortile erano abitate dai soldati.

Nel 1496 un fulmine dimezzò la torre grande, che cadendo distrusse in parte il fabbricato interno e la cisterna. Dal 1584, anno del trasferimento della sede vescovile, la Rocca subì continue trasformazioni da parte dei vescovi che modellarono la fortezza secondo i loro gusti.

Dal 1985 la Rocca è centro per lo studio e la conservazione dell’arredo liturgico e del costume religioso, mentre dal 1994 il rivellino della Rocca e la sala nobile del castello ospitano il Centro Residenziale Universitario con servizi avanzati per attività formative, convegni, incontri di studio e ricerca per studiosi e professionisti di paesi di tutto il mondo.

La Cattedrale di Santa Caterina

La Cattedrale di Santa Caterina è situata nella piazza principale di Bertinoro. La sua costruzione fu voluta fortemente dal Vescovo di Bertinoro monsignor Gian Andrea Caligari, che finanziò i lavori di costruzione della Cattedrale con le proprie risorse finanziarie e con il sostegno della comunità bertinorese. La costruzione si concluse nel 1601 quando il vescovo pose una lapide a memoria dell’impresa. La cattedrale fu costruita accanto al Palazzo Comunale perché sembrava che dovesse crollare e quindi “la chiesa sarebbe apparsa in tutta la sua bellezza nella nuova e più ampia piazza”. Ancora oggi la facciata della Cattedrale risulta costruita a ridosso del Palazzo Comunale, dal quale la separa uno spazio di soli tre metri; in questo interstizio murario si trovano il portico e la scala ad unica rampa che dà accesso all'interno del tempio.

La pianta della Cattedrale è a pianta longitudinale, costituita da tre navate definite e ritmate da pilastri a sezione cruciforme alternati a colonne di ordine ionico. L’abside è illuminata da due grandi finestre rettangolari e una serie di dipinti ne decora il catino e le volte a crociera e a botte. Il pavimento della cattedrale è un mosaico alla veneziana, risalente all'Ottocento, disposto a formare delle stelle inscritte in circonferenza entro cornice quadrilatera.

Tra le opere d’arte collocate all'interno della Cattedrale si trova la spaziosa tela (550 X 300 cm.) in fondo all'abside raffigurante Le nozze mistiche di Santa Caterina del pittore forlivese Giuseppe Marchetti (1722-1801). Nell'altare del braccio sinistro del transetto si trova un grande Crocifisso ligneo a cui i devoti bertinoresi si affidano per ottenere grazia; si narra che un pellegrino giunto a Bertinoro recasse sottobraccio qualcosa di davvero prezioso. Fermatosi nei pressi di una casupola alla quale si appoggiava un albero di fico, il pellegrino avrebbe chiesto alla persona che viveva in quella casa di avere quell'albero di fico per intagliarlo, in cambio di una stanza vuota al piano terra della casa. Tre giorni dopo il proprietario della casa trovò, al posto dell’albero, il magnifico crocifisso che si può ammirare oggi.

Nella terza cappella di sinistra si trova il quadro di Francesco Longhi (1544-1618), la Madonna col Bambino e gli Apostoli Pietro e Paolo, mentre nella prima cappella di sinistra è presente un complesso d’altare con due statue in stucco e angeli dislocati alla sommità, ai lati del timpano.

Fig. 10 - Prima cappella di sinistra della Cattedrale.

Il Palazzo Comunale di Bertinoro

Fig. 11 - Veduta esterna del Palazzo Comunale.

Il Palazzo Comunale fu edificato nel 1306, fra l’Oratorio di Santa Caterina e la vecchia torre, su volere di Pino degli Ordelaffi in accordo con Alberguccio Mainardi. Le otto colonne del portico, di stile tra il bizantino e il romano, sembrano anteriori al 1300 e tutti i muri risultano interamente composti di materiale di residuo di altri fabbricati. L’edificio si alza di un solo piano su un fronte di 40 metri ed è poggiato su otto colonne dalle quali si staccano ampie arcate.

Fig. 12 - Colonnato del Palazzo Comunale.

Il lato rivolto a est costituiva l’abitazione del governatore ed era composto di quattro camere; questo lato fu quello che subì più modifiche a causa dei diversi usi a cui fu adibito. Il piano terra era occupato dal corpo di guardia e dal personale di servizio.

Fig. 13 - Interno del Colonnato del Palazzo Comunale.

Lo scalone d’ingresso conduce nella sala centrale denominata “del popolo”, dove i cittadini si riunivano per esprimere la loro volontà in occasione di grandi avvenimenti. Da qui si passa alla sala “dei quadri”, chiamata così perché qui si possono ammirare sei tele dipinte dal pittore forlivese Antonio Zambianchi nel XVIII secolo, che ritraggono avvenimenti di storia locale. Oltre a queste sale, si trovano la sala magna che era riservata al governatore e la sala “del fuoco” perché è l’unica che abbia conservato il vasto focolare.

Accanto al Palazzo Comunale si trova la torre del Comune, la quale serviva ai naviganti; si vuole preesistesse al palazzo e che sia stata dimezzata in altezza, inoltre sarebbe stata imposta una cella campanaria in stile barocco in stridente contrasto con lo stile artistico del complesso.

Fig. 14 - Torre del Comune

La Colonna dell’Ospitalità

Fig. 15 - Colonna dell’Ospitalità.

La Colonna dell’Ospitalità fu elevata il 5 Settembre 1926 sulle fondamenta antiche della Colonna degli anelli. La colonna sorse a metà del XIII secolo come simbolo di cortesia e di amore, per togliere motivi di dissensi e litigi tra le migliori famiglie bertinoresi.

Rimossa nel 1570 per far posto ad una fontana, nel 1922 si scoperse una nicchia dove era riposta la base di una colonna. Nel 1926 si identificò la base di quella colonna come le fondamenta della Colonna degli anelli e ciò accrebbe nella cittadinanza bertinorese il desiderio di veder risorgere l’antico monumento, il quale fu esaudito il 5 settembre 1926.

Sul lato nord-est della colonna è collocato il motto “omnibus una” che l’Accademia letteraria dei Benigni aveva scritto sulla sua insegna riproducente la Colonna. Sul lato nord-ovest si trova la scritta “Hic constitit viator” che significa “qui si fermò il viandante”, mentre nel lato sud è rievocata la data d’inaugurazione.

Colle di Monte Maggio (Ex Cappuccini)

Fig. 18 - Monte Maggio.

Monte Maggio dista poco più di un chilometro da Bertinoro e la sovrasta raggiungendo l’altezza di 328 metri s.l.m. Sul finire dell’anno 1000, sulla cima del monte, sorgeva un castello che fu poi fatto demolire dal Conte Ugo degli Honesti. Nel 1297 Galasso di Montefeltro, per vendicare l’affronto fatto ai ghibellini da Alberguccio Mainardi, assediò Bertinoro e, per facilitarne la resa, fece costruire la bastia di Monte Maggio che fu poi distrutta.

Nel 1393 la bastia fu ricostruita dagli Ordelaffi per tentare di riconquistare Bertinoro, tentativo che fallì per il tempestivo intervento di Galeotto Malatesta.

Nel 1539 i frati Francescani si trasferirono dal loro convento di Piazza Cavour al Monte Maggio e così prese il nome di Monte dei Cappuccini; sulle fondamenta della bastia, i frati edificarono un convento e lo recinsero di bellissime mura. Nel 1597 la chiesa fu consacrata dal Vescovo Caligari.

Il convento possedeva una ricca biblioteca, perciò il convento fu scelto dall’Accademia dei Benigni per le manifestazioni letterarie. I Cappuccini praticavano l’ospitalità e spesso i poveri salivano al convento per essere ristorati.

Nel 1867 il convento e il terreno furono incamerati dallo stato che ne fecero dono al Comune di Bertinoro. I frati se ne andarono e lasciarono gran parte dei loro libri pregiati alla biblioteca comunale.

Dopo essere stato utilizzato come luogo ricreativo, oggi quel che rimane dell’ex convento, ancora di proprietà del Comune, giace in stato di abbandono.

 

 

BIbliografia

LUIGI GATTI, Bertinoro, notizie storiche, a cura dell’Accademia dei Benigni, Bertinoro 1979.

STEFANIA MAZZOTTI, Storia di Bertinoro, testi di M. Graziella Bazzocchi, Laura Bezzi, Anna Fabbri, Anna Maria Leoni, Kira Zama, Elisabeth Zezza, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 1998.

GIORDANO VIROLI, Chiese ville e palazzi forlivesi, Cassa dei Risparmi di Forlì S.p.A., Nuova Alfa Editoriale, Forlì 1999, pp. 39-46.

Viaggio attraverso le regioni italiane: Romagna, Le guide di 888.it, Fininternet S.p.A., 2002, pp. 134-135.


ARIMINUM

LA RIMINI ROMANA

La colonia di diritto latino di Ariminum fu fondata dai Romani nel 268 a.C. sulla foce del fiume Marecchia (Ariminus). La colonia rappresentava il centro nevralgico dell’Italia antica poiché era situata al limite del territorio dei Galli Boi e protetta dall’Adriatico e dai fiumi Marecchia e Ausa. Oltre a ciò, Ariminum era uno snodo strategico tra il Nord e il Centro Italia poiché era attraversata da due importanti strade: la Via Emilia, costruita nel 187 a. C., che giungeva fino a Piacenza e la Via Popilia (o Via Romea) che, passando per Ravenna, arrivava fino ad Aquileia.

Ariminum era delimitata da tre lati: a Est dal mare, a Nord dal fiume Marecchia e a Sud dal torrente Ausa. Rispetto alla pianta classica delle città romane, Rimini presenta un perimetro irregolare poiché a oriente il confine seguiva l’andamento curvo della spiaggia e del porto, mentre nell’angolo meridionale era parzialmente condizionato dalla fossa Patara, oggi interrata.

Nel 90 a. C. Ariminum, durante le guerre puniche, fu elevata al rango di Municipio e iscritta alla tribù Aniensis e, a seguito della costituzione della Gallia Cisalpina, ne divenne la città più settentrionale.

La città di Ariminum raggiunse il vertice della sua ricchezza e potenza durante l’epoca di Augusto, quando la città fu divisa in sette Vici, di cui ci sono rimasti solo quattro dei sette nomi dei Vici (Dianense, Germalo, Velabrense e Aventiniense).

I monumenti odierni, i quali testimoniano la presenza dei Romani a Rimini, sono opera degli Imperatori Augusto e i suoi successori Tiberio e Adriano che promossero la costruzione dei monumenti e delle opere pubbliche che sono arrivate fino a noi. Qui di seguito andrò a illustrare, singolarmente, i monumenti dell’età romana a Rimini.

Arco d’Augusto

L’Arco d’Augusto rappresentava la porta d’ingresso a coloro che, partendo da Roma, giungevano a Rimini avendo attraversato la Via Flaminia. Si può affermare che questo Arco sia uno dei monumenti più celebri dell’intera Italia Settentrionale perché è la più antica porta “onoraria” conservata, oltre al fatto che fu posta su una delle strade più frequentate dell’Italia Antica.

L’Arco fu costruito nel 27 a. C., per mezzo di un decreto del Senato Romano, per onorare l’Imperatore Augusto che fece restaurare la Via Flaminia e le più importanti strade d’Italia.

Inserito originariamente all’interno delle mura della città tra due torri lapidee più antiche, oggi l’Arco si presenta isolato e somiglia più ad un arco trionfale: l’isolamento dell’Arco avvenne ad opera del Duce tra il 1936 e il 1938.

L’Arco di Augusto è ad un solo fornice, alto 8,84 metri, e affiancato da semicolonne corinzie che reggono la trabeazione e il timpano, sormontati dall’attico, il quale fu sostituito nel Medioevo da un muro circondato da merli ghibellini. Secondo la tradizione la sommità dell’Arco era coronata da una quadriga marmorea guidata da Augusto (notizia che trova conferma in una notizia di Cassio Dione).

All’interno dei pennacchi, dentro i capitelli, si trovano quattro clipei (due per fronte), in cui sono raffigurati i busti delle divinità tutelari della colonia:

  • Fronte verso Roma: a sinistra Giove, col simbolo del fulmine; a destra Apollo, protettore della casa augustea, coi simboli della cetra e del corvo.
  • Fronte verso la città: a sinistra Nettuno, col tridente e il delfino; a destra la Dea Roma, col gladio e un trofeo di armi, simbolo della potenza romana.

Sull’attico è incisa la seguente iscrizione onoraria che, tradotta in italiano, recita: “Il Senato e il Popolo Romano – all’Imperatore Cesare Augusto figlio del Divo Giulio, comandante supremo dell’esercito per la settima volta e designato l’ottava, quando la via Flaminia e le altre – celeberrime strade d’Italia per sua deliberazione e volontà furono restaurate”.

Foro

Il foro, che corrisponde all’odierna Piazza Tre Martiri, rappresentava il centro della vita urbana in età repubblicana e nella prima parte dell’età imperiale. Originariamente ornata da importanti edifici pubblici, l’attuale Piazza Tre Martiri conservava all’angolo di via IV novembre, i resti dell’antica pietra (suggestum) sopra la quale Giulio Cesare arringò le proprie truppe la sera fra l’11 e il 12 gennaio 49 a.C. per seguirlo, di fatto, contro il Senato di Roma. La pietra è andata perduta nel secolo scorso, mentre il cippo che la sosteneva, arrivato ai giorni nostri, è del 1555 come recita l’epigrafe in latino sul retro, che tradotta, suona così: “i consoli riminesi hanno restituito questo suggestum crollato per la sua antichità nei mesi di novembre e dicembre 1555”.

Sono ben documentati il decumano e il cardine massimi; il decumano era la prosecuzione della Via Flaminia (la quale terminava all’Arco di Augusto) e congiungeva in una perfetta linea retta l’Arco e il Ponte di Tiberio.

In occasione dei più recenti lavori di ristrutturazione della piazza, è stato messo in luce e recintato un tratto dell’antica pavimentazione del foro romano.

Ponte di Tiberio

Dalla parte opposta del centro, rispetto all’Arco d’Augusto, si trova il Ponte di Tiberio, iniziato da Augusto e terminato da Tiberio (14-21 d. C.). Questo ponte ha resistito, nel corso dei secoli, alle intemperie naturali grazie alla sua solida struttura e agli accorgimenti progettati dai suoi costruttori (ad esempio la disposizione dei piloni che sono disposti seguendo la corrente) e ha ispirato artisti del Rinascimento, del calibro di Giovanni Bellini, Andrea Palladio e Antonio da Sangallo, i quali presero nota delle caratteristiche strutturali e formali del ponte.

Il ponte è giunto a noi in perfette condizioni, tant’è che supporta tutt’oggi il traffico veicolare e pedonale dei cittadini di Rimini.

L’infrastruttura è composta da cinque arcate a pieno centro e misura 62,60 metri di lunghezza. I piloni del ponte sono obliqui rispetto all’asse del ponte, per favorire la corrente del fiume. Nel serraglio di alcune arcate, su entrambi i fronti del ponte, sono scolpiti degli emblemi in cui si riconoscono allusioni a cariche e onori attribuiti ad Augusto.

Così come l’Arco d’Augusto termina la Via Flaminia, il Ponte di Tiberio conclude la Via Emilia, perciò le due più importanti strade consolari hanno a Rimini il loro “termine” monumentale.

Anfiteatro

Fuori dal perimetro urbano dell’allora colonia Ariminum, sorgeva l’anfiteatro: costruito nel II secolo d. C., la sua arena (74 x 45 m.) era ampia quasi quella del Colosseo di Roma.

Oggi si possono ammirare i resti di questo monumento, perché le strutture laterizie dell’anfiteatro vennero prima incorporate nelle mura tardoromane e medievali, successivamente furono interrate a causa delle frequenti piene del fiume Ausa.

Teatro

Dell’imponente edificio per spettacoli eretto nel I sec. d.C., non rimangono che pochi ruderi oggi inglobati in più recenti costruzioni che ricalcano l’originario andamento curvilineo delle gradinate (cavea).

Prossimo al foro, fu probabilmente eretto per volontà di Augusto nell’ambito degli interventi di sviluppo urbanistico promossi dall’imperatore. Di forma semicircolare, aveva un diametro esterno di ca. 80 metri, mentre all’interno la lunghezza della scena misurava ca. 23 metri. La cavea, completamente autoportante, era sorretta da murature radiali e concentriche, costruite in malta con laterizi a vista. Corridoi di accesso coperti da volte a botte, consentivano lo smistamento verso le scale che conducevano alle gradinate.

Occultato per secoli, ma mai completamente cancellato dalla memoria come attestano alcune fonti medievali, il teatro fu “riscoperto” agli inizi degli anni ’60.

Porta Montanara

La Porta Montanara era l’ingresso meridionale della città e rappresenta l’unico esempio, nell’Italia settentrionale, di porta urbica di età sillana giunta ai giorni nostri. L’appellativo “Montanara” dato alla porta deriva dal fatto che questa rappresentava l’accesso per coloro che giungevano a Rimini attraverso la Valmarecchia. Originariamente la porta era composta da un doppio fornice, il quale agevolava la viabilità, che incanalava in passaggi paralleli, il percorso in uscita da Rimini e quello in entrata. Dal punto di vista strutturale, la porta era formata da blocchi di arenaria di colorazione giallastra e strutturata in due fornici speculari costituiti da un doppio giro di cunei di 3,45 metri di larghezza e 5,90 di altezza. La porta, nel suo complesso, aveva una profondità di 2,20 metri e una larghezza complessiva di 12,5 metri. Sotto il Regno di Antonino Pio (138-161 d. C.), a causa dell’innalzamento della strada, il fornice di sinistra venne chiuso, l’altro fornice venne rialzato e in seguito la porta fu collegata alle abitazioni limitrofe fino alla Seconda Guerra Mondiale. La città di Rimini, durante la guerra, subì gravi danni a causa dei bombardamenti: la Porta Montanara fu il monumento che subì i danni più gravi. Nel 1943 la porta fu smantellata per permettere ai camion militari dell’esercito di raggiungere Rimini e, successivamente, i resti dell’arco furono collocati nel cortile del Museo Civico di Rimini. Nel 2004 l’arco fu ricomposto e posizionato nei pressi della sua posizione originaria.

Domus del chirurgo

Durante l’estate nel 1989 fu scoperto a Piazza Ferrari, a seguito di alcuni lavori di abbellimento urbano, un grande complesso archeologico sviluppatosi tra l'epoca romana tardo-imperiale e la tarda antichità. La casa, costruita nel II secolo d. C., fu chiamata “Domus del Chirurgo” perché l’edificio è stato identificato con la residenza e lo studio di un medico. All’interno sono stati trovati molti reperti chirurgici dell’epoca, il che avvalora il fatto che l’abitazione apparteneva a un chirurgo, che si suppone fosse greco per via di iscrizioni greche rinvenute al suo interno.

La Domus fu distrutta nel 257 d. C. a causa di un incendio provocato dall’invasione barbarica degli Alamanni.

Museo della città di Rimini

Il Museo della Città conserva, oltre ai reperti rinvenuti nella “Domus del chirurgo”, diverse testimonianze della Rimini romana rinvenuti durante le diverse campagne di scavo collegate alla ricostruzione della città a seguito delle gravi distruzioni provocate dalla seconda guerra mondiale.

In particolare si apprezzano alcuni mosaici pavimentali provenienti da domus del periodo imperiale, nonché alcuni monumenti funerari conservati nel lapidario.

Nell’aprile 2016 è stato aperto un Centro Visitatori (in Corso d’Augusto n. 135) dedicato alla Rimini romana, che si avvale di sofisticati strumenti multimediali in grado di ricostruire virtualmente l’aspetto generale della città romana nonché e dei principali monumenti.

Bibliografia essenziale

NEVIO MATTEINI, Rimini, guida storica e artistica, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 1978.

PIER GIORGIO PASINI, Guida per Rimini, in GUIDEVERDI, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 1989., pp. 9-25.

AA.VV., Storia di Rimini, dall’epoca romana a capitale del turismo europeo, Bruno Ghigi Editore, Rimini 2004, pp. 8-32.

ANGELO TURCHINI, Storia di Rimini, dalla preistoria all’anno Duemila, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 2015, pp. 38-73.

Sitografia

http://www.rimini-it.it/rimini-romana.html

https://www.comune.rimini.it/comune-e-citta/citta/monumenti

http://www.bisanzioit.blogspot.com


LONGIANO, IL VILLAGGIO IDEALE

Longiano è una piccola città situata su di un colle che sovrasta le pianure verso Cesena e Rimini. L’appellativo villaggio ideale si collega al 1992, quando la città di Longiano vinse il concorso organizzato dalla Comunità Europea e dalla rivista “Airone”. Nonostante si trovi ai margini della Via Emilia, Longiano non possiede testimonianze di civiltà romana, come per altre città romagnole; ciò è dovuto al frequente passaggio di eserciti barbarici e delle loro conseguenti spoliazioni. A partire dal Medioevo, Longiano ebbe uno sviluppo molto fiorente: sebbene si trovasse geograficamente più vicina a Cesena rispetto a Rimini, la città fu sempre fedele alla città rivierasca. Lo sviluppo di Longiano ebbe un forte incremento durante la signoria dei Malatesta, i quali governarono la città dal 1295 al 1463. Il castello di Longiano, divenuto Castello Malatestiano durante la signoria dei Malatesta era adibita, non solo a baluardo di difesa del territorio, ma anche a residenza estiva.

Longiano non fu mai teatro di cronache storiche di particolare rilievo, e le poche cronache registrano episodi delle battaglie, prima tra Rimini e Cesena, poi tra i Malatesta e gli eserciti della Chiesa e infine tra i Malatesta e i potenti vicini. Nel Marzo del 1198 i cesenati distrussero Longiano, la quale fu ricostruita l’anno successivo dai riminesi. La città, alleatasi con l’esercito di Rimini, si vendicò di questo atto il 14 giugno 1216 quando sconfisse l’esercito di Cesena al Monte delle Forche. Dopo questa data non si registrarono più fatti particolari fino al 13 dicembre 1295, quando ci fu la piena affermazione del potere dei Malatesta su Rimini. Nel 1297 Longiano fu data alle fiamme dai cesenati, alleati con i forlivesi, i faentini e gli imolesi, e in seguito gli fu dato il nome di borgo bruciato. Nel 1429 il condottiero Carlo Malatesta, fratello di Pandolfo e tra i più illuminati della signoria dei Malatesta, morì nel castello di Longiano. La città ripassò sotto il dominio dello Stato Pontificio nel 1463 per rimanervi fino al 1859.

 

IL CASTELLO MALATESTIANO

Il Castello Malatestiano di Longiano si trova sulla sommità del colle su cui si adagia il borgo, ed è circondata da una doppia cinta muraria perfettamente conservata. Non si hanno notizie certe sulla data di edificazione del castello, però una pergamena del 1059 indica che nella zona di Longiano fu edificato un castello a scopo difensivo contro l’esercito di Cesena. Dal 1290 al 1463 il castello vide il suo massimo splendore quando divenne la residenza della famiglia Malatesta, i quali lo ampliarono e lo resero più fortificato. Il castello fu sede del Municipio fino al 1989 e oggi è sede della Fondazione Tito Balestra, che gestisce una delle raccolte d’arte moderna e contemporanea più ricche dell’Emilia-Romagna.

Oggi si accede al Castello Malatestiano attraverso un cortile esterno dove a destra si trova la Torre Civica, la torre più alta di tutto il complesso e al centro una vasca veneziana dove si trova una targhetta che recita: “Corte Carlo Malatesta - N. Rimini 5-6-1368 - M. Longiano 14-9-1429”.

 

SANTUARIO DEL SANTISSIMO CROCIFISSO

Il Santuario del Santissimo Crocifisso è una chiesa che divenne in seguito un santuario francescano ed è il più importante luogo di culto del villaggio ideale di Longiano. Non esistono fonti certe sulla data di costruzione e dunque si ipotizza che la data più probabile possa essere il 1357, che è la data incisa sulla campana minore. La chiesa e il convento furono costruiti fuori dalle mura del castrum Longiani attraverso i canoni tipici dell’Ordine francescano, semplicità e povertà. Particolarmente importante nella storia del Santuario fu il 6 maggio 1493: i paesani di Gambettola donarono una vitella che s’inginocchiò “in forma di profonda venerazione” di fronte ad una immagine del crocifisso. Il giorno seguente questa immagine fu portata in processione per le vie del paese “con molta solennità, devozione e pompa”. In seguito l’immagine del crocifisso fu spostato dal chiostro all'interno della chiesa e collocato su un altare costruito appositamente. Nel 1697 fu istituita la Confraternita laicale intitolata al SS. Crocifisso, su iniziativa del dottor Baldassarre Manzi.

Il Crocifisso del Santuario, oggetto di culto da almeno cinque secoli, è un dipinto a tempera su tela sottile applicata su una tavola di rovere risalente al XIII secolo. La figura del Crocifisso si trova al centro, su un tabellone decorato a rombi, la cui matrice stilistica si rifà alla pittura di Giunta Pisano (1200-1260), mentre ai margini del braccio trasversale del Crocifisso si trovano le figure di Maria e Giovanni. La cornice che ospita il Crocifisso è datata 1781, quando si decise di dotarsi di una “macchina” adatta a portare il Crocifisso in processione.

 

MUSEO D’ARTE SACRA

Il Museo d’arte sacra del villaggio ideale di Longiano è stato inaugurato il 18 marzo 1989 dal Comune di Longiano e dalla Diocesi di Cesena e Sarsina. Il museo si trova all'interno dell’Oratorio di S. Giuseppe, un edificio tardobarocco che si trova sotto i bastioni del Castello Malatestiano.

All’interno del museo sono custodite importanti opere d'arte, insieme a preziosi e innumerevoli oggetti sacri come arredi, paramenti, reliquie ed ex-voto. Tra i dipinti più importanti si possono citare “l’Assunta e i Santi Antonio Abate e Girolamo”, attribuito a Giovanni Battista Barbiani (1593-1650) e il “San Valerio Martire” di Giuseppe Rosi (1750). Dentro delle bacheche in vetro sono conservati preziosi oggetti, tra cui un tabernacolo, calici e altri oggetti rituali, un piviale in seta rossa e oro, e una pisside in argento sbalzato utilizzato da papa Giovanni Paolo II in occasione della visita in Romagna nel 1986.

Parte dei dipinti esposti sono stati restaurati col contributo di privati cittadini, tra cui alcuni ex-voto, madonne e santi votivi.

 

MUSEO DEL TERRITORIO

Il Museo del Territorio di Longiano è un museo nato nel 1986 dove sono raccolti gli strumenti che raccontano gli usi e costumi del territorio longianese e, più in generale, dell’intera Romagna. Attualmente sono presenti circa tremila oggetti, donati e depositati da collezionisti e ricercatori locali. La raccolta è ordinata in undici ambienti espositivi, seguendo lo schema dei mestieri e dei lavori delle donne. Al piano terreno sono proposti strumenti e materiali legati a figure artigianali tradizionali: il falegname, il fabbro, il meccanico, il calzolaio, il muratore, il barbiere. Al piano superiore sono ricostruite la cucina tipica romagnola e la camera da letto in stile anni Trenta, in aggiunta si trovano due sale dove sono custoditi gli strumenti per la lavorazione della tela e per i lavori della campagna. Lungo le scale sono appese fotografie originali riferite anche agli antichi castelli malatestiani. Infine nel giardino accanto al museo si possono ammirare degli attrezzi per la semina, l'aratura ed altri lavori agricoli.

 

TEATRO PETRELLA

A fianco di quello che rimane del convento di San Girolamo sorge il maestoso Teatro Petrella, edificato nel 1865 dall’ ing. Giulio Turchi e dedicato al compositore palermitano Errico Petrella, personaggio allora famoso che partecipò all’inaugurazione. Nel dopoguerra il teatro andò in disuso ma nel 1980 il Comune di Longiano decise di restaurarlo e nel 1986 fu reinaugurato. Da allora ha ospitato primari artisti che qui spesso hanno presentato le loro opere in anteprima nazionale, quali: Gino Paoli, Ivano Fossati, Fabrizio De Andrè Anna Oxa, Ornella Vanoni, Francesco De Gregori e tanti artisti di Teatro.

Longiano, il villaggio ideale ricco di storia, arte e cultura.

Bibliografia essenziale:

P. GINO ZANOTTI, Longiano, il paese – il santuario, appunti di storia e di arte, Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1965

ADAMO BRIGIDI, Memorie cronologiche di Longiano, Bruno Ghigi Editore, Rimini, 1988

CLAUDIO RIVA (a cura di), Il Crocifisso di Longiano, fulcro di Fede e di Arte, Stilgraf, Cesena, 1992

GIORGIO MAGNANI con la collaborazione di Ezio Lorenzini, Longiano, storia personaggi, pro-loco e cultura, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2004

Sitografia:

https://www.beniculturali.it/mibac


SANTA MARIA DEL MONTE DI CESENA

UN'ABBAZIA DALLA STORIA MILLENARIA

L’antica abbazia benedettina di Santa Maria del Monte sovrasta, con la sua imponente mole, la città di Cesena.

Fu fondata sul colle Spaziano da S. Mauro eremita, poi vescovo di Cesena, che lì fu sepolto in un antico sarcofago romano, oggi trasformato nell'altare della cripta.

Le prime notizie relative al culto mariano ci vengono da S. Pier Damiano (1049) nella sua "Vita di S. Mauro". Fondamentale la data del 1318, allorquando fu trasferita, dalla pieve di Montereale, la statua della Madonna, ancora oggi venerata.

La più eloquente testimonianza del plurisecolare culto verso la Madonna del Monte, venerata sotto il titolo dell’Assunzione, è costituita dal corpus di circa 700 tavolette votive (ex voto), le più antiche delle quali risalgono al Quattrocento, che testimoniano il sollievo fisico e morale dalle miserie e dalle disgrazie umane ottenuto attraverso l’intercessione della Madonna.

La devozione era tale che, per antica consuetudine, contemplata pure negli Statuti comunali, la mattina del 15 agosto le massime autorità cittadine, unitamente ai membri delle corporazioni e dei mestieri, salivano in devoto pellegrinaggio al Monte e offrivano ceri alla Madonna.

Nel secolo XV la basilica medievale si rivelò insufficiente per raccogliere i pellegrini, e si procedette ad imponenti lavori. La basilica fu allungata ed allargata con la costruzione di una grande cappella, di una slanciata cupola e di varie cappelle lungo la navata. Tutta la nuova fabbrica venne affrescata, sia nella navata centrale come nella cupola e nel grande catino absidale.

L'ABBAZIA DI SANTA MARIA DEL MONTE: L'INTERNO

Lungo tutto il fregio della navata, terminato nel 1559, Girolamo Longhi illustrava la vita della Madonna in 14 scene, intercalate da figure di angeli, profeti e sibille. La cupola, innalzata dal bolognese Francesco Morandi, detto il Terribilia, a seguito del terremoto del 1768 fu ricostruita dal ticinese Pietro Carlo Borboni e affrescata da Giuseppe Milani, cesenate d’adozione ma originario di Parma. È del Milani anche l’affresco del catino dell’abside, raffigurante l’incoronazione della Vergine da parte della SS. ma Trinità.

Pregevole il coro ligneo cinquecentesco, notevoli la sacrestia monumentale e la sala capitolare con affreschi del XV secolo.

Nelle cappelle laterali sono collocati alcuni preziosi dipinti. L’opera più pregevole è la “Presentazione di Gesù al tempio” di Francesco Rabolini detto il Francia, al momento non visibile perché in corso di restauro. Ma abbiamo anche una Annunciazione di Bartolomeo Coda (sec. XV), S. Mauro che guarisce un malato di Francesco Mancini (sec XVII), la Gloria di S Benedetto e S. Scolastica attribuito a G.B. Barbieri (sec. XVII), S. Lorenzo di Scuola bolognese (sec XVII) e S. Sebastiano attribuito a V. Ansaloni (sec. XVII).

Del complesso monastico si apprezzano i due chiostri e la ricca biblioteca, il corridoio monumentale, i due scaloni settecenteschi, nonché altri ambienti soggetti però in parte alle restrizioni previste dalla clausura monastica.

Soppresso, come tutti i monasteri italiani, da Napoleone nel 1797, si deve alla devozione filiale di Pio VII, già monaco al Monte, se nel 1821 il monastero poté riaprire, per essere però nuovamente chiuso dallo Stato unitario nel 1866. Fu definitivamente riaperto nel 1888 dall’abate Bonifacio Krug, che recuperò le ormai fatiscenti strutture e diede un nuovo impulso alla vita monastica, facendone un centro di riferimento per la vita religiosa e culturale cesenate del tempo e non solo.

Nei giorni 8-10 maggio 1986 l’abbazia del Monte ha avuto l’onore di ospitare il Santo Padre Giovanni Paolo II, che qui ha soggiornato durante il suo viaggio apostolico in Romagna.

La visita al complesso monastico può iniziare dal chiostro quattrocentesco che presenta eleganti colonne di travertino con eleganti capitelli di stile classico l’uno diverso dall’altro. Al centro del chiostro cisterna adornata da un prezioso pozzale in ferro battuto del 600. Quindi si passa al chiostro grande, costruito nel 500 in stile dorico a doppio loggiato, ma ricostruito dopo un disastroso incendio del 1751 in pilastri di laterizio con la chiusura del loggiato superiore. La cisterna fu costruita nel 1551 su probabile disegno di Leonardo da Vinci ed è sormontata da un imponente pozzale marmoreo aggiunto nel 1558.

La biblioteca antica del monastero fu incamerata dallo Stato nell’800, poi ricostituita ma distrutta nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, oggi completamente rinnovata e ricca di 50.000 volumi di carattere soprattutto ecclesiastico. È formata da due ampi saloni aperti l’uno sull’altro messi in comunicazione da un elegante ballatoio.

Infine è presente un laboratorio di restauro del libro largamente affermatosi presso le biblioteche e archivi di Stato, che svolse una grande lavoro per la riparazione dei danni della Biblioteca Nazionale di Firenze a seguito della disastrosa alluvione del 1966.

Bibliografia essenziale:

  1. Novelli, Il coro intagliato della Basilica di S. Maria del Monte di Cesena, Cesena 1965.
  2. Dolcini, S. Maria del Monte di Cesena, in Monasteri Benedettini in Emilia Romagna, Silvana editoriale, Milano 1980, pp. 221-231.

La Madonna del MonteCesena, Pazzini editore, Verucchio 1993.

  1. Faranda, Fides tua te salvum fecit, i dipinti votivi nel Santuario di S. Maria del Monte a Cesena, Modena 1997.
  2. Novelli – L. D’Elia, Abbazia di S. Maria del Monte, Genova 1999
  3. Faranda, La cupola dell’abbazia di S. Maria del Monte di Cesena, Cesena 2009.

 

Sitografia:

www.abbaziadelmonte.it

https://www.facebook.com/AmicidelMonteCesena/

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