IL PASTURA NEL DUOMO DI TARQUINIA – PARTE II

A cura di Maria Anna Chiatti

 

Il Pastura nel Duomo di Tarquinia: introduzione

Dopo aver introdotto nel precedente elaborato la produzione artistica del Pastura e qualche chiave interpretativa riguardo il ciclo mariano rappresentato nella Cappella Vitelleschi del Duomo di Tarquinia, in questo articolo se ne tratteranno nel particolare i singoli episodi.

Fig. 1 – Cappella Vitelleschi nel Duomo di Tarquinia. Opera propria.

I restauri

Gli affreschi eseguiti dal Pastura nel Duomo di Tarquinia rappresentano di certo il capolavoro dell’artista, in cui il pittore, ormai sessantenne, volle rendere omaggio ai maestri con cui aveva lavorato durante la sua carriera. La critica ha espresso spesso pareri non positivi riguardo il ciclo mariano nel Duomo di Tarquinia; i motivi di questi giudizi negativi sono comprensibili soprattutto alla luce dei dati raccolti durante il più recente intervento di restauro, conclusosi nel 2018. I dipinti furono infatti gravemente danneggiati durante un incendio nel 1643, e sottoposti a pesanti operazioni di ridipintura nei successivi restauri noti del 1880, 1937 e 1976. Nonostante poi il pittore e restauratore Igino Cupelloni (1918-2008) scrivesse nella relazione di fine restauro nel 1978 di aver rimosso tutte le ridipinture, nell’ultimo cantiere ne sono state trovate ancora numerose, delle quali molte tolte non senza una buona dose di coraggio[1]. Questo ha consentito di ritrovare la rotondità dei volti e delle teste che è tipica del Pastura, insieme allo sfumato degli incarnati e alla dolcezza delle espressioni. Tutti i critici che hanno osservato gli affreschi nel ‘900 hanno quindi avuto una visione solo parziale della loro qualità.

Fig. 2 – Pastura, Sibilla Frigia e Davide, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, vela della volta. Opera propria.

 

Il ciclo mariano del Pastura nel Duomo di Tarquinia

Con questo incarico Antonio del Massaro, detto il Pastura, ebbe finalmente superfici ampie da decorare e, come si evince dal pregio dei materiali impiegati, anche una notevole disponibilità economica. Francesca Moretti in un contributo per il Bollettino della Società Tarquiniense di Arte e Storia del 2001 sostiene che fu probabilmente Antenore, arcidiacono di Corneto, a sovrintendere al cantiere degli affreschi.

I modelli a cui il Pastura poteva facilmente far riferimento per le opere di Tarquinia erano i precedenti cantieri romani, tra cui l’Appartamento Borgia in Vaticano, ma anche le produzioni del Pinturicchio (1452-153), del Perugino (1448-1523) e del Signorelli (1441/1445-1523).

Fig. 3 – Pastura, L’incontro di Anna e Gioacchino, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, parete sinistra, registro inferiore. Opera propria.

Il ciclo è leggibile a partire dal registro inferiore di sinistra con L’incontro di Anna e Gioacchino per concludersi in quello inferiore di destra, andato quasi completamente perduto. Le scene sulle pareti sono introdotte dai lunghi cartigli tenuti da tre coppie di Sibille e profeti dipinte nelle vele della volta a crociera; la quarta vela è occupata dall’episodio dell’Incoronazione di Maria.

Fig. 4 – Pastura, Incoronazione di Maria, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, vela della volta. Opera propria.

Nella vela attigua all’arco trionfale sono dipinti la Sibilla Frigia e Davide, che con i loro cartigli annunciano forse quanto rappresentato sulle perdute vetrate istoriate dell’abside; nella vela sinistra il profeta Isaia (riconoscibile grazie alla lunga profezia sul cartiglio) e un’altra Sibilla presentano L’Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta Aurea. In questa rappresentazione la porta non è visibile, e anzi la scena si svolge in uno scarno paesaggio forse in riferimento al fatto che Gioacchino stava rientrando in città dal deserto per incontrare Anna. In questo episodio ci sono forti rimandi ai modi del Pinturicchio, soprattutto nel bel gesto di Gioacchino che posa la mano sulla spalla di Anna: un momento di grande intensità emotiva e insieme di una certa tensione solenne, molto pertinente al soggetto che notoriamente illustra il momento dell’Immacolata Concezione. Nell’abbraccio tra i due si realizza infatti il concepimento di Maria, purificata dal peccato originale. Questo riferimento trova conferma nella presenza, affianco a questo episodio, di una bella Madonna in una mandorla rosa, che poggia i piedi sulle nuvole.

Fig. 5 – Pastura, Madonna in mandorla, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, parete sinistra, registro inferiore. Opera propria.

Il registro superiore è interamente dedicato alla Nascita della Vergine, “fiore puro”: sullo sfondo, oltre il grande loggiato, si apre un bel paesaggio, in cui Luisa Caporossi ha riconosciuto Tarquinia nella città turrita con il fiume Mignone sulla destra[2]. L’ambientazione interna è molto ben costruita e dettagliata, e la scena della Nascita è composta secondo livelli diversi di dinamismo; dall’ancella indaffarata a sinistra, passando per le donne che accudiscono la neonata e la possente figura di spalle che porge una tazza ad Anna, per poi scemare nello statico gruppo di uomini a destra, dove Gioacchino sembra essere particolarmente pensoso, e alla puerpera, che guarda serena l’osservatore con uno sguardo benevolo e intenso.

Fig. 6 – Pastura, Nascita della Vergine, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, parete sinistra, registro superiore. Opera propria.

Poco sotto si snoda il fregio monocromo, strettamente legato al tema principale, che presenta una donna che allatta seduta su una grande coda di sirena che suona.

Sul lato opposto, nel registro superiore è rappresentato lo Sposalizio della Vergine, introdotto nella volta dal profeta Osea. La prima cosa interessante da notare è che la scena si svolge in un paesaggio aperto e non in una piazza lastricata come nella consueta tradizione iconografica. Il secondo dettaglio è che la città raffigurata sulla sinistra è Firenze, riconoscibile dalla cupola di Santa Maria del Fiore e dal campanile della Badia, fronteggiata a destra da un paesaggio marino (probabilmente un richiamo a Tarquinia); questa scelta si deve certamente al fatto che Giovanni Vitelleschi, il cardinale capofamiglia sepolto proprio sul lato destro della cappella Vitelleschi nel Duomo di Tarquinia, era stato arcivescovo di Firenze. In questo paesaggio così simbolico per la famiglia Vitelleschi si compie il miracolo della fioritura delle verghe, descritto nei vangeli apocrifi, in cui il bastone di Giuseppe fiorisce al cospetto di Maria e una colomba gli vola sul capo, segno divino che l’unione dei due è stata benedetta. Tutto intorno gli altri pretendenti di Maria, indignati, spaccano i loro bastoni. Lo stesso episodio è raffigurato nella Cappella Mazzatosta in Santa Maria della Verità a Viterbo (1469) da Lorenzo da Viterbo, e in entrambe le rappresentazioni gli studiosi hanno riconosciuto dei ritratti in alcuni personaggi secondari.

Fig. 7 – Pastura, Sposalizio della Vergine, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, parete destra, registro superiore. Opera propria.

Come per la parete sinistra, anche qui un fregio raccorda i due registri, stavolta rappresentando una donna sulla sfinge che viene sollevata da Cupido cieco.

Purtroppo il registro inferiore non è più leggibile, essendo andato quasi interamente perduto; tuttavia la critica ha ipotizzato vi fosse rappresentato un presepe, ipotesi rafforzata dal cartiglio della Sibilla sulla volta, che recita “cognosce deum tuum”.

Fig. 8 – Pastura, volta della Cappella Vitelleschi nel Duomo di Tarquinia. Opera propria.

 

Note

[1] L. Caporossi, “Infiniti que’ virtuosi che la mala sorte sempre perseguita”. Pastura e la decorazione della Cappella Vitelleschi, in G. Insolera (a cura di), Il Pastura nel Duomo di Tarquinia. Gli affreschi di Antonio del Massaro da Viterbo dopo il restauro, Roma 2020, pp. 49-75, cit. p. 51

[2] Ivi, p. 63.

 

Bibliografia

Insolera (a cura di), Il Pastura nel Duomo di Tarquinia. Gli affreschi di Antonio del Massaro da Viterbo dopo il restauro, Roma 2020, con bibliografia precedente.


IL PASTURA NEL DUOMO DI TARQUINIA – PARTE I

A cura di Maria Anna Chiatti

Introduzione

Antonio del Massaro da Viterbo, detto il Pastura, nacque a Viterbo intorno al 1450; la prima notizia che lo riguarda risale però al 1478, quando risulta essere a Roma tra i firmatari dello statuto della corporazione di San Luca. Proprio in ambiente romano stabilì rapporti con numerosi artisti, come il Perugino (1448-1523), il Pinturicchio (1452-1513), Antoniazzo Romano (1430/1435-1508) e Melozzo da Forlì (1438-1494).

Il periodo romano e quello orvietano

Il Pastura lavorò poi a Orvieto fino al 1492, anno in cui fu di nuovo a Roma, dove collaborò con il Pinturicchio alla decorazione dell’Appartamento Borgia in Vaticano fino al 1495; in questo stesso periodo realizzò numerose altre opere, delle quali alcune oggi perdute, come quelle nell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia e nella Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio. Lo storico dell’arte Adolfo Venturi sostiene inoltre che il Pastura abbia collaborato con il Pinturicchio agli affreschi di Santa Maria del Popolo[1], nello specifico alla lunetta con Cristo morto nella Cappella Basso Della Rovere (fig. 1), alla rappresentazione dei Padri della Chiesa nella Cappella di Santa Caterina, e alla volta del coro.

Fig. 1 – Pastura, lunetta con Cristo Morto, 1485 ca., Cappella Basso Della Rovere, Santa Maria del Popolo, Roma Credits: Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=76699345.

Al periodo romano seguì un nuovo momento orvietano (circa 1497-1499), che vide impegnato il Pastura in alcune opere nel Duomo, giudicate però sfavorevolmente dalla committenza.

Dal 1508 al 1509 ricevette l’incarico dai Vitelleschi (famiglia nobile tarquiniese, di cui si è accennato qui) di dipingere gli affreschi nella cappella di famiglia nella Concattedrale di Santa Margherita, ossia il Duomo di Tarquinia, oggetto di questo articolo (fig. 2).

Fig. 2 – Cappella Vitelleschi nel Duomo di Tarquinia. Foto realizzata dalla redattrice.

Altre opere attribuite sicuramente al Pastura sono una serie di dipinti e affreschi (oggi staccati) conservati nel Museo Civico di Viterbo, tra cui una Natività e Adorazione dei pastori (fig. 3), una Madonna con angeli e i Santi Girolamo e Francesco, uno Stendardo processionale; oltre a numerosi altri dipinti presenti in molte chiese della Tuscia Viterbese e a Roma.

Fig. 3 – Pastura, Natività e Adorazione dei pastori, 1488, Museo Civico di Viterbo, proveniente dalla chiesa di Santa Maria della Verità. Credits: Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=75411358.

La data di morte del Pastura è ancora sconosciuta, ma avvenne certamente prima del 1516: riporta la data del 9 febbraio di quell’anno, infatti, un documento notarile che si riferisce ai beni da lui lasciati in eredità.

Il parere spesso sfavorevole della critica sul Pastura è ampiamente giustificato dalla evidente scarsità di apporti innovativi nelle sue opere, dalle quali si evince un chiaro tentativo di rifarsi ai modelli del Pinturicchio e del Perugino senza un reale approfondimento stilistico. È tuttavia opportuno evidenziare che ogni volto nei suoi dipinti è tratteggiato in modo da poterne leggere l’emozione; sovente i visi sono profusi di una dolcezza quasi drammatica. Il dato di maggiore importanza è comunque da ravvisare nella diffusione, ad opera del Pastura, delle forme della pittura quattrocentesca umbra nel Lazio.

Fig. 4 – Pastura, Volta della Cappella Vitelleschi, 1508-1509, Duomo di Tarquinia. Foto realizzata dalla redattrice.

Il Pastura nel Duomo di Tarquinia

Il ciclo di affreschi eseguiti dal Pastura nella Cappella Vitelleschi del Duomo di Tarquinia è a tema mariano: vi si trovano quindi rappresentati alcuni episodi della vita di Maria Vergine. In particolare sono raffigurate tre scene di Profeti e Sibille, e L’Incoronazione della Vergine nei triangoli della volta a crociera costolonata (fig. 4); la Nascita (fig. 5) e lo Sposalizio di Maria (fig. 6) nei lunettoni laterali; l’Incontro di Anna con Gioacchino, la Pietà, la Vergine col Bambino sulla parete di sinistra (fig. 5).

Il progetto decorativo della cappella proviene con molta probabilità dal testamento del vescovo Bartolomeo Vitelleschi (1410-1463, nipote del più noto Giovanni Vitelleschi, il “Cardinal Guerriero”), che aveva eletto il duomo di Tarquinia come luogo della propria sepoltura. In un articolo del 1986 Enzo Bentivoglio individuava come modello spaziale della Cappella Vitelleschi la Cappella Mazzatosta in Santa Maria della Verità a Viterbo (fig. 7), diversamente da quanto già sostenuto da Ernst Steinmann (1866-1934), che nel 1901 aveva riconosciuto come precedente strutturale l’originario coro voltato di Santa Maria del Popolo a Roma (poi modificato dal Bramante intorno al 1507).

Fig. 7 – Cappella Mazzatosta, 1469, Chiesa di Santa Maria della Verità, Viterbo. Credits: Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=75163555.

In effetti la critica ha riscontrato alcuni punti di contatto tra i cantieri coevi della Cappella Vitelleschi e di Santa Maria del Popolo, tra cui la vicinanza tra le due Incoronazioni (l’una del Pastura, l’altra del Pinturicchio) e quella tra le Natività (l’una nel coro di Tarquinia, l’altra sulla vetrata istoriata del coro di Roma). Quest’ultima scena si suppone possa essere stata eseguita utilizzando lo stesso cartone preparatorio[2].

Un elemento molto interessante è poi la piccola abside finestrata (fig. 8): è stato per lungo tempo ipotizzato che l’abside sia stata demolita nel XIX secolo, causando la perdita di uno degli affreschi del ciclo, e ricostruita con le due aperture visibili oggi. Tuttavia, l’orientamento delle luci nei dipinti sulle pareti suggerisce in realtà che le finestre fossero già presenti nel programma decorativo originario, magari con vetri istoriati, e che l’affresco dell’abside non sia mai esistito. Un altro indizio in questo senso è la scelta insolita di dedicare uno dei quattro spazi della volta alla rappresentazione dell’Incoronazione della Vergine, quando nelle altre tre vele ricorre il diffuso motivo delle Sibille e Profeti affiancati[3]. Questo è curioso, perché generalmente i quattro spazi della crociera sono destinati ad accogliere altrettanti soggetti legati tra loro, come gli Evangelisti, i Padri della Chiesa o i Profeti, mentre l’Incoronazione è frequentemente raffigurata nella conca absidale. È possibile che, non potendo dipingere questo importante episodio mariano nel luogo solitamente deputato, lo sia stato spostato più in alto.

Fig. 8 – Abside della Cappella Vitelleschi, Duomo di Tarquinia. Foto realizzata dalla redattrice.

Le pareti laterali sono divise orizzontalmente da due bei fregi monocromi anticheggianti, al centro dei quali spiccano gli stemmi di Giovanni e Bartolomeo Vitelleschi; l’uno coronato dal cappello cardinalizio, l’altro dalla mitra vescovile, che stavano ad indicare i punti di sepoltura dei due ecclesiastici.

Dopo aver offerto al lettore una doverosa introduzione sull’artista e alcune chiavi di interpretazione per il ciclo di affreschi del Pastura nel Duomo di Tarquinia, nel prossimo articolo si entrerà nello specifico della narrazione delle singole scene.

 

Note

[1] A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VII, 2, Milano 1913, pp. 708-718.

[2] L. Caporossi, “Infiniti que’ virtuosi che la mala sorte sempre perseguita”. Pastura e la decorazione della Cappella Vitelleschi, in G. Insolera (a cura di), Il Pastura nel Duomo di Tarquinia. Gli affreschi di Antonio del Massaro da Viterbo dopo il restauro, Roma 2020, pp. 49-75, cit. p. 56.

[3] Ibidem.

 

Bibliografia

Insolera (a cura di), Il Pastura nel Duomo di Tarquinia. Gli affreschi di Antonio del Massaro da Viterbo dopo il restauro, Roma 2020, con bibliografia precedente.

 

Sitografia

Dizionario Biografico degli Italiani online, alla voce Antonio del Massaro da Viterbo, detto il Pastura, al link: https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-del-massaro-da-viterbo-detto-il-pastura_(Dizionario-Biografico).


GIOVANNI BAGLIONE, ARTISTA ROMANO

A cura di Maria Anna Chiatti

Introduzione

Giovanni Baglione è stato un pittore e storico romano; nel seguente articolo ci si concentrerà su un’opera enigmatica e significativa della sua carriera, l’Amor sacro e Amor profano, dipinta in due versioni.

Giovanni Baglione

Fig. 1- Ritratto di Giovanni Baglione. Credits: By Ottavio Leoni - [1] file, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16211908.
Giovanni Baglione (Roma 1573 ca-1644) si formò in ambito tardo manieristico e fu attivo nelle grandi imprese sistine e clementine nella Roma di fine Cinquecento. È noto soprattutto per la sua opera biografica Le vite de' pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a' tempi di Papa Urbano VIII nel 1642, pubblicata nel 1642. Fu coetaneo di Caravaggio, nonché il primo pittore ad avvicinarsi a quella straordinaria e nuovissima visione naturalistica ufficialmente riconosciuta nelle tele di San Luigi dei Francesi eseguite dal Merisi per l'anno santo 1600. Da Caravaggio, Giovanni Baglione riprese il punto di vista ravvicinato dei personaggi, il fondo scuro su cui si stagliano figure illuminate da una luce intensa e diretta, e i forti contrasti chiaroscurali.

È degno di nota che Giovanni Baglione querelò per diffamazione proprio Caravaggio, insieme a Orazio Gentileschi e Onorio Longhi; la denuncia si basava su una serie di versi offensivi che circolavano in città, di cui Baglione credeva responsabili i pittori succitati, che finirono a processo nel 1603[1].

 

Amor sacro e Amor profano

Fig. 2 - Giovanni Baglione, Amor sacro e Amor profano, olio su tela, cm 240 x 143; Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma, inv. 1268 provenienza: collezioni Monte di Pietà, 1895. Credits: By Giovanni Baglione - Web Gallery of Art:   Image  Info about artwork, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=543512.

Il tema morale della lotta tra vizio e virtù, derivato dalla Psicomachia di Prudenzio, interpretato da Virgilio in Omnis vincit Amor, e infine codificato da Petrarca, conobbe agli inizi del Seicento una nuova fortunata diffusione[2].

Anche Giovanni Baglione rispose al richiamo di questo topos iconografico: la tela di rappresenta l’Amore sacro che trionfa sull’Amore profano, sovrastandolo.

Su fondo scuro si stagliano le figure di due giovani e quella di un diavolo, schiacciato nell’angolo in basso a sinistra, ritratto con il volto terrorizzato. L’Amore profano è alato ma nudo, la freccia stretta nella mano sinistra, l’arco nella destra. Riccioli castani incorniciano un viso spaventato.

Amor sacro è invece un bellissimo angelo con le ali spiegate, i capelli lunghi e un abbigliamento complesso e dettagliato, seppur succinto. Il lato destro del corpo è investito dalla luce, che ne evidenzia il bel corpo e l’ala; nella mano reca il dardo, anch’esso di una foggia particolarmente complessa.

Il segno della formazione tardo manierista di Giovanni Baglione è riconoscibile nella modalità compositiva delle singole figure, in particolare nell’Amore vincitore e nel suo abito così ricco, molto lontano dai tipi caravaggeschi[3].

Il dipinto riporta firma e data sopra la testa dell'Amore vinto: «IO Baglione/R:F:/1602». L'iscrizione tuttavia non è al momento visibile, a causa dell'ossidazione della vernice, ma fu scoperta durante un restauro nel 1979 insieme alle tracce di un vistoso pentimento sulla gamba nuda che cela un calzare in metallo sbalzato.

Giovanni Baglione e le vicende storico-critiche dell’Amor sacro e Amor profano

Lo stesso Baglione nomina questo dipinto nelle Vite, nel capitolo dedicato alla propria vita, l’ultimo del compendio: “[…] Et al Cardinal Giustiniani fece due dipinture di due Amori Divini, che tengono sotto i piedi l’Amor profano, il Mondo, il Demonio, e la Carne, e queste l’una incontro all’altra veggonsi nella Sala del suo Palagio, dal naturale con diligenza fatte […]”[4].

L’altra tela a cui Giovanni Baglione si riferisce è oggi conservata alla Gemäldegalerie, Staatliche Museen Berlino (fig. 3).

Fig. 3 – Giovanni Baglione, Amor sacro e Amor profano, olio su tela, 183 x 121 cm, Gemäldegalerie, Staatliche Museen, Berlino. Credits: By Giovanni Baglione - aAEHHHg3X36KeA at Google Cultural Institute, zoom level maximum, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=13327297.

Come si può notare, i due dipinti raffigurano due variazioni dello stesso tema, e sono diversi anche nelle dimensioni; per giunta le dimensioni dell’Amor sacro di Roma non corrispondono a quelle originali, dal momento che sappiamo da un inventario tardo seicentesco che la tela aveva dei fregi dipinti in chiaroscuro sui lati, in seguito eliminati. Un particolare da notare con attenzione è che il diavolo in basso a sinistra, nella versione oggi a Berlino (la prima ad essere stata realizzata) è raffigurato di spalle, mentre nell’altra ci mostra il viso. Proprio nella figura del demonio Hewarth Roettgen ha identificato il ritratto di Caravaggio.

Alcuni particolari sull'esecuzione dei due soggetti sono tramandati dalla testimonianza di Orazio Gentileschi nel processo del 1603, secondo il quale Baglione avrebbe realizzato prima l’Amor sacro in versione armata e solo in seguito, dal momento che il committente non era pienamente soddisfatto, anche la versione con l’Amore “tutto ignudo”.

Sulla questione dell’attribuzione dei due dipinti hanno discusso critici illustrissimi come Hermann Voss, Richard Spear e Valentino Martinelli, Roberto Longhi, Italo Faldi e Hewarth Röttgen.

Le due versioni dell'Amore vincitore rimasero nella collezione Giustiniani fino agli inizi del XIX secolo. Entrambe sono citate nell'inventario del 1802: una esposta nella Galleria e attribuita a Caravaggio, l'altra, segnata come copia di anonimo, in una stanza dell'appartamento. È molto probabile che la tela attribuita a Caravaggio, e quindi considerata di maggior pregio, fosse quella oggi a Berlino, dal momento che è l'unica delle due ad essere illustrata dal catalogo di vendita di Landon a Parigi del 1812[5].

Il nostro Amore vincitore fu quindi considerato una copia, malgrado recasse firma e data (forse già offuscate dall’ossidazione delle vernici), e rimase a Roma, con ogni probabilità in casa Giustiniani. Non si hanno sue notizie fino al 1857, anno in cui compare, con un riferimento a «Maniera di Caravaggio» in uno dei primi cataloghi del Monte di Pietà, che dalla metà dell'Ottocento aveva cominciato ad accettare opere d'arte come pegno per i prestiti; con lo stesso riferimento lo si trova ancora nel catalogo di vendita del Monte di Pietà del 1875. Rimasto invenduto è confluito nel 1895 nelle collezioni della Galleria Nazionale.

Nel 1908 fu consegnato in deposito all'Ambasciata d'Italia a Berlino, e dichiarato disperso in seguito ai bombardamenti del 1944: una volta ritrovato in una collezione privata tedesca e segnalato alla Direzione della Galleria, è finalmente rientrato a Roma nel 1963.

Un interessantissimo approfondimento sull’argomento è offerto dal professor Claudio Strinati nella rubrica “L’opera del lunedì” per il suo canale youtube Dialogues al link:

https://youtu.be/1cJxdsR3ZV0

 

 

Note

[1] Le carte del processo sono consultabili sul sito web dell’Archivio di Stato di Roma.

[2] Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Roma 1998, cit. p. 92.

[3] Ibidem.

[4] Baglione G., Le vite de' pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a' tempi di Papa Urbano VIII nel 1642, Roma 1642, cit. p. 403.

[5] Cfr. Strinati C., Vodret R., Caravaggio e i suoi, percorsi caravaggeschi in Palazzo Barberini, Catalogo della mostra, Napoli 1999, p. 32.

 

Bibliografia

Cola M.C., Giovanni Baglione, Amor sacro e Amor profano in Cieri Via C. (a cura di) Immagini degli dei: mitologia e collezionismo tra ‘500 e ‘600, Catalogo della mostra, Lecce 1996, pp. 189 e segg. Con bibliografia precedente

Magnanimi G., Giovanni Baglione, in Antologia di restauri, Catalogo della mostra, Roma 1982

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Roma 1998, scheda n° 62, p. 92

Roettgen H., Quel diavolo è Caravaggio. Giovanni Baglione e la sua denuncia satirica dell’amor terreno, in “Storia dell’arte” n° 79, 1993, pp. 326 e segg.

Strinati C., Vodret R., Caravaggio and his followers, Catalogo della mostra ad Hartford, Venezia 1998, p. 22

Strinati C., Vodret R., Caravaggio e i suoi, percorsi caravaggeschi in Palazzo Barberini, Catalogo della mostra, Napoli 1999, scheda n° 4, p. 32

 

Sitografia

Sito web dell’Archivio di Stato di Roma al link: https://archiviodistatoroma.beniculturali.it/it/237/il-processo-del-1603.


LA MADONNA DI TARQUINIA - II PARTE

A cura di Maria Anna Chiatti

Introduzione

Se nel precedente articolo si è cercato di delineare l’aspetto iconografico della Madonna di Tarquinia (fig. 1), in questo elaborato si tratteggeranno le interessantissime vicende storiche e critiche dell’opera. La tavola infatti venne ritrovata e identificata nel 1917 dal noto storico dell’arte Pietro Toesca (1877-1962).

Fig. 1 - Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia, 1437, tempera su tavola, 151 x 66, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma, inv. 5054 prov.: Chiesa di S. Maria Valverde, Corneto Tarquinia (VT). Credits: wha.hu

Ritrovamento e storia conservativa

Il 9 aprile 1917 Toesca arrivò a Tarquinia per compiere uno dei suoi sistematici sopralluoghi al patrimonio artistico italiano, dei quali i volumi del Medioevo e del Trecento raccolgono molti successi. Il risultato di questo specifico viaggio di studio però fu particolarmente degno di nota, come si legge nell’articolo scritto al riguardo per il fascicolo maggio-luglio del «Bollettino d'Arte»:

“A Corneto Tarquinia il caso, o il desiderio di vedere tutto, mi aveva condotto in una chiesa sotto le mura della città, a Santa Maria in Valverde, e dopo un'occhiata all'interno, tutto rifatto modernamente, deluso già mi volgevo ad uscire quando nella penombra, in alto, balenò un raggio di colore vivo e un gesto animato. Era lassù una tavola - copia o mirabile originale? -, ed un vetro me la nascondeva anche più che l'oscurità finché con una scala non fui sopra: era un dipinto quasi intatto (non fossero vernici guaste e tracce di voti) che diceva altamente il nome del suo autore - Filippo Lippi - benché sul cartellino avesse soltanto una data: Mccccxxxvii”[1].

Fig. 2 – La chiesa di Santa Maria di Valverde, Tarquinia. Credits: https://www.onesketch.it/restaurato-organo-a-tarquinia/.

Come sottolinea Enrico Parlato nel saggio dal quale è tratta la citazione di cui sopra[2], ancora dopo più di un secolo questo articolo resta imprescindibile per lo studio della Madonna di Tarquinia e, più in generale, dell’opera di Filippo Lippi. Tuttavia Toesca non era da solo nel momento della scoperta, essendo accompagnato dal direttore del nascente museo archeologico con sede in Palazzo Vitelleschi, l’archeologo Giuseppe Cultrera (1877-1968); questi, per amore dell’arte e per il timore che la Madonna di Tarquinia potesse essere trafugata una volta diffusasi la voce di una così importante scoperta, fece trasferire la tavola nel museo. L’anno successivo l’opera venne restaurata proprio a Palazzo Vitelleschi, con l’intento di esporla in un’area dedicata all’arte medievale e moderna: con questa finalità Cultrera commissionò nel 1921 una cornice che fosse adeguata alla bellezza del dipinto, poiché al momento del ritrovamento in Valverde la Madonna di Tarquinia risultava conservata entro una cornice a listello con vetro frontale. Tuttavia nel 1923, accatastata in un magazzino del complesso dell’ex convento di San Marco (antistante a Palazzo Vitelleschi), fu ritrovata la cornice originale; una volta restaurata anch’essa, nel 1924 finalmente opera e cornice furono ricomposte.

Fig. 3 – Palazzo Vitelleschi, sede del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia. Credits: Wikipedia Commons - Franck Schneider.

Grazie alla sua riscoperta, la Madonna di Tarquinia ha avuto un ruolo cruciale per comprendere meglio e ridefinire il ruolo di Filippo Lippi nel contesto dell'arte fiorentina del primo Quattrocento, e nel 2017, per celebrare i 100 anni dal ritrovamento di questa tavola, alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini[3] si è tenuta una mostra a cura di Enrico Parlato, il cui bellissimo e ricco catalogo illustra non soltanto la storia e dell’opera, ma ne ricostruisce il contesto socio-politico di riferimento, con importanti considerazioni sul Cardinale Giovanni Vitelleschi, committente del dipinto.

La Madonna di Tarquinia: committenza e destinazione

In effetti, l’attività di ricerca che è stata condotta proprio per la mostra ha consentito di ricomporre le vicende della tavola dal XIX secolo a oggi. Se ne sono accertate, come accennato, la committenza da parte di Vitelleschi, che alla data del 1437 concludeva il suo incarico come arcivescovo di Firenze per ricevere la porpora cardinalizia, e la provenienza dalla chiesa del convento agostiniano di San Marco a Tarquinia, chiuso in seguito all’eversione dell’asse ecclesiastico con la soppressione degli ordini e delle congregazioni religiose nel 1866. Con due Regi decreti nel 1866 e nel 1867 fu tolta infatti dapprima la capacità patrimoniale a tutti gli ordini e le congregazioni ecclesiastiche, quindi tutti i beni mobili e immobili appartenuti fino a quel momento alle corporazioni religiose regolari furono incamerati dal neonato Stato italiano attraverso la creazione di uno specifico Fondo per il culto.

Fig. 4 – Veduta aerea dell’area dell’ex Convento di San Marco a Tarquinia. Credits: https://images.app.goo.gl/t1trjkgt3c6neCDp8.

È opportuno evidenziare innanzitutto che il cardinale guerriero volle far costruire il proprio palazzo signorile prospiciente la chiesa del convento di San Marco, che ne divenne in qualche modo una cappella palatina pubblica[4]; non da ultimo, nel testamento redatto da Vitelleschi durante la prigionia in Castel Sant’Angelo, egli designava come proprio luogo di sepoltura la chiesa di San Marco e non la cattedrale cittadina (dove riposa ancora oggi). Si può dunque supporre un coinvolgimento personale di Vitelleschi con gli agostiniani, motivo della donazione della Madonna di Tarquinia al convento.

Livia Carloni ha inoltre segnalato[5] come nella ricostruzione della sistemazione della chiesa in oggetto durante i secoli, fosse presente sia nell’assetto quattrocentesco che in quello seicentesco un altare dedicato alla Madonna delle Grazie con la tavola di Lippi, forse in contesto funerario. La Madonna di Tarquinia era quindi adorata come Madonna delle Grazie (il cui unico attributo iconografico certo è l’abbraccio tra la Vergine e il Bambino) e ornata da una serie di gioielli ed ex voto, segno che il valore simbolico dell’immagine aveva prevalso su quello artistico per assecondare precise esigenze di carattere teologico e cultuale; lo stato conservativo denunciato da Toesca del resto evidenziava la presenza di residui di cera e abrasioni.

Collocazione ottocentesca

Nel corso degli anni ’40 dell’Ottocento la chiesa di San Marco subì un ulteriore rifacimento, che si concluse nel 1847 con l’aggiornamento del programma decorativo secondo i più moderni dettami artistici di papa Pio IX ad opera del pittore Pietro Gagliardi (1809-1890). L’artista, molto amato dagli agostiniani, mise mano a tutte le pale d’altare della chiesa, compresa la Madonna del Lippi; questa fu scorporata dalla cornice originaria e inserita nell’apertura appositamente ricavata in una grande tela raffigurante San Marco (questa grande opera è oggi collocata nella navata destra della chiesa di San Giovanni Gerosolimitano, di cui si è parlato in un articolo qualche mese fa).

La Madonna di Tarquinia risulta essere nella stessa collocazione in un elenco del Fondo degli edifici di culto del 1874, tra gli oggetti di proprietà statale ubicati in San Marco[6]; e ancora non era stata spostata nel 1908, a detta di don Benedetto Reali che reggeva la chiesa dopo che gli agostiniani erano andati via. Questi la descrive in una lettera al sindaco come «antica e risalente al Quattrocento»[7] (fig. 5) nell’ultimo riferimento prima del 1916, quando la chiesa venne dismessa e la tavola forse trasferita in Santa Maria di Valverde scorporata dalla tela del Gagliardi, dove avvenne la felice agnizione del Toesca. Fu conservata poi nel museo archeologico di Palazzo Vitelleschi fino al secondo conflitto mondiale, quando si reputò prudente spostarla in un luogo di deposito al sicuro dai bombardamenti. Rimase quindi presso i Musei Vaticani per arrivare nel 1953 nell’attuale luogo di conservazione a Palazzo Barberini.

Fig. 5 - Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia, particolare del cartiglio recante la data di esecuzione.

 

Note

[1] E. Parlato, Verso la «gratia»: vicende e interpretazioni della Madonna di Tarquinia dopo il 1917, in Parlato E. (a cura di), Altro Rinascimento. Il giovane Filippo Lippi e la Madonna di Tarquinia, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Barberini 16/11/2017 – 18/02/2018, Officina libraria, Roma 2017, cit. p. 75.

[2] Ibidem.

[3] Cfr. https://www.barberinicorsini.org/evento/altro-rinascimento-il-giovane-filippo-lippi-e-la-madonna-di-tarquinia/

[4] L. Carloni, Una Madonna per gli agostiniani, in Parlato E. (a cura di), Altro Rinascimento. Il giovane Filippo Lippi e la Madonna di Tarquinia, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Barberini 16/11/2017 – 18/02/2018, Officina libraria, Roma 2017, p. 67.

[5] Ivi.

[6] Ibidem.

[7] Idem, p. 68.

 

Bibliografia

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998.

Parlato E. (a cura di), Altro Rinascimento. Il giovane Filippo Lippi e la Madonna di Tarquinia, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Barberini 16/11/2017 – 18/02/2018, Officina libraria, Roma 2017.

 

Sitografia

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LA MADONNA DI TARQUINIA DI FRA’ FILIPPO LIPPI

A cura di Maria Anna Chiatti

Introduzione

Percorrendo le sale della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma di Palazzo Barberini si incontrano (come ampiamente tratteggiato negli articoli precedenti) innumerevoli capolavori. Uno di questi, attualmente esposto al pianterreno, è la cosiddetta Madonna di Tarquinia di fra’ Filippo Lippi.

Fig. 1 – Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia, 1437, tempera su tavola, 151 x 66, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma, inv. 5054 prov.: Chiesa di S. Maria Valverde, Corneto Tarquinia (VT).

Fra’ Filippo Lippi

Filippo Lippi (1406 circa-1469) fu figlio di un macellaio, e pronunciò i voti nel 1421 nel convento di Santa Maria del Carmine a Firenze dopo essere rimasto orfano; qui incontrò Masaccio (1401-1428), e poté ammirarne i lavori nella Cappella Brancacci. Si sa poi che nel 1434 Lippi fu a Padova, ma di questo periodo non si sono conservate opere, in quanto la sua attività comincia a essere documentata a Firenze a partire dal 1437. Una vicenda degna di nota, che non riguarda l’attività artistica di Lippi, è che circa vent’anni dopo questa data, questi fu nominato cappellano del convento di Santa Margherita a Prato, dal quale rapì la monaca Lucrezia Buti e ne ebbe un figlio, Filippino (1457-1504, che diventerà artista sulle orme del padre). La scandalosa relazione fu denunciata alle autorità ecclesiastiche, tuttavia Cosimo de’ Medici, Signore di Firenze, si interessò alla questione intercedendo presso papa Pio II e ottenne che i due amanti fossero sciolti dai voti e potessero vivere come legittimi sposi.

Per ciò che concerne la fortuna critica dell’artista, Giorgio Vasari (1511-1574) all’interno delle sue Vite ne sottolineò la bravura nel disegno, tecnica in cui Lippi affinò una modalità dolcissima che conferì ai volti femminili. In seguito probabilmente si è sottovalutata la levatura di Filippo Lippi, fino a che la critica recente ha finalmente colto la grande statura di questo artista, che fu uno dei protagonisti del rinnovamento artistico nella Firenze del Quattrocento. Egli tradusse con accenti più profani le posizioni di Masaccio e di Beato Angelico (1395-1455), con un fare garbato, dolce e piacevole, apparentemente facile, che ha forse ritardato la comprensione dello spessore culturale di Lippi.

Se gli esordi dell’artista sono intrisi dell’influenza della pittura di Masaccio, la Madonna di Tarquinia mostra invece un'immagine potente, grazie ad un linearismo dinamico che risente di Donatello, su un fondo interno che richiama i fiamminghi, in una luce radente e un po' cupa.

Fig. 2 – Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia, particolare.

La Madonna di Tarquinia

La Madonna di Tarquinia rappresenta un prezioso manufatto artistico non soltanto per la potenza dello stile, ma anche perché è un’opera che riporta dipinta la data di esecuzione; sul cartiglio alla base del trono è infatti scritto "A. D. MCCCCXXXVII" (Anno Domini 1437).

La Vergine è raffigurata in trono, con il Bambino in braccio. Lo scranno è in marmo, o in legno dipinto ad imitare il marmo, ed è a pianta circolare, appoggiato su un piedistallo con scanalature così vicino al piano del dipinto che sembra stia per precipitare[1]; la spalliera concava occupa l’intera estensione orizzontale della tavola. La Madonna è ben definita nei volumi, esaltati dal panneggio che restituisce un corpo vero, realistico seppur monumentale; anche Gesù, proteso verso la madre in una posa del tutto insolita, con un abbraccio quasi aggressivo, risulta molto definito soprattutto dalle decise linee di contorno, che manifestano già le caratteristiche formali delle figure di Filippo Lippi.

Fig. 3 – Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia. Credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/37/Lippi%2C_madonna_di_tarquinia%2C_1437.jpg.

Ben più interessante, a parere di chi scrive, è tuttavia l’ambientazione del dipinto, giacché alla sapienza volumetrica derivante dall’influenza di Masaccio alla Brancacci, fra’ Filippo aggiunge una descrizione degli interni molto minuziosa, di stampo fiammingo. L’analogia con i dipinti dell’Europa del Nord sta nella prospettiva a più punti di fuga (un espediente che consente di mostrare l’interno simultaneamente da più visioni), ma anche nell’ambiente scelto per la rappresentazione: si tratta di una stanza con una finestra aperta, sulla sinistra, dalla quale si intravede un paesaggio con alberi e mura urbane. In una alcova a destra sta il letto di Maria con una coperta rossa, ovvero il thalamus virginis, che sta a indicare la Vergine come sposa e madre. Il fondo è costituito da un portone chiodato con le ante spalancate, nella cui apertura si inquadra il muro di un cortile interno o, forse, quello di un edificio che sorge sul lato opposto della strada.

Lo sfondo del dipinto, il secondo piano, consente poi di avanzare alcune ipotesi circa le influenze della pittura veneta sul Lippi, che alla data dell’esecuzione della tavola era reduce dal soggiorno a Padova. Inoltre, la raffinatezza dei particolari di ascendenza fiamminga ha fatto anche supporre un viaggio nelle Fiandre del Lippi intorno al 1435, e un suo diretto rapporto con Robert Campin (1378-1444) e Rogier Van Der Weiden (1399-1464)[2].

Infine, è decisamente degna di nota la bellissima cornice in legno dorato dalle linee tardogotiche. Dapprima i restauratori hanno creduto che questa fosse una cornice antica riadattata alla Madonna di Tarquinia, ma hanno scoperto in seguito che si trattava di una cornice «a scatola»[3], la cui fodera posteriore aveva la funzione di contenere e sostenere la tavola grazie alle tre assi verticali.

 

Se in questo articolo si è affrontata la questione iconografica del dipinto, nel prossimo si ricostruiranno le intriganti vicende storiche e critiche che la Madonna di Tarquinia ha attraversato, dalla collocazione originaria (nel convento di San Marco a Tarquinia), al ritrovamento avvenuto nel 1917 da parte di Pietro Toesca, fino all'attuale esposizione in Palazzo Barberini.

 

Note

[1] K. Christiansen, Filippo Lippi pittore carmelitano, in E. Parlato (a cura di), Altro Rinascimento. Il giovane Filippo Lippi e la Madonna di Tarquinia, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Barberini 16/11/2017 – 18/02/2018, Officina libraria, Roma 2017, cit. p. 55.

[2] Cfr. Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998, p. 20.

[3] G. Martellotti, C. Silvestri, Materia e tecnica, I. Qualche dato sulla Madonna di Tarquinia, in E. Parlato (a cura di), Altro Rinascimento. Il giovane Filippo Lippi e la Madonna di Tarquinia, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Barberini 16/11/2017 – 18/02/2018, Officina libraria, Roma 2017, p. 86.

 

Bibliografia

Bertelli C., Briganti G., Giuliano A., Storia dell’arte italiana, vol. 3, Bruno Mondadori, Milano 2009

Cricco G., Di Teodoro F., Itinerario nell’arte, vol. 2, Zanichelli editore, Bologna 2008

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998

Parlato E. (a cura di), Altro Rinascimento. Il giovane Filippo Lippi e la Madonna di Tarquinia, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Barberini 16/11/2017 – 18/02/2018, Officina libraria, Roma 2017

 

Sitografia

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LA GALLERIA NAZIONALE D’ARTE ANTICA DI ROMA

A cura di Maria Anna Chiatti

Introduzione

In questo articolo si percorrerà una nuova parte dell’intricata storia che ha portato alla conformazione dell’assetto attuale della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, ossia quella di Palazzo Barberini e Galleria Corsini: due sedi, intenzionalmente e profondamente diverse, per un unico museo.

Fig. 1 – Anonimo, Madonna Advocata, XI sec., tempera su tavola rivestita di tela, provenienza coll. Cini.  Credits: https://www.barberinicorsini.org/.

La necessità di una Galleria Nazionale

Come detto nell’articolo precedente, il Decreto Regio del 20 giugno 1895 creò la Regia Galleria d’Arte Antica e Gabinetto delle Stampe con sede in Palazzo Corsini. Tale istituzione fu la conseguenza dell'ingente donazione allo Stato Italiano, da parte dei Corsini, dell’intera collezione d’arte (contenente un buon numero di opere di provenienza Barberini) e del palazzo in via della Lungara, nel 1883. Questa sede mantenne inizialmente l’originale programma allestitivo della quadreria settecentesca, con le opere esposte su tutta la superficie delle pareti.

Tuttavia lo Stato progettò un museo con una valenza diversa dalle collezioni fidecommissarie romane soltanto dopo l'acquisto della collezione Torlonia e di quella del Monte di Pietà nel 1892. A quel punto la grande quantità delle opere di proprietà statale necessitava di una sede ulteriore per l’esposizione.

Fig. 2 – Giovanni da Rimini, Storie di Cristo, 1305 ca., tempera su tavola, provenienza coll. Sciarra. Credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/98/Giovanni_da_rimini%2C_storie_della_vita_di_cristo%2C_1305_circa%2C_52%2C5_x_34%2C5_cm%2C_Galleria_Nazionale_d%27Arte_Antica%2C_Roma.jpg.

Inoltre, nell’arco del ventennio successivo, si susseguirono molte nuove acquisizioni, come i 14 dipinti provenienti dalla collezione Odescalchi, le 43 opere della collezione Hertz nel 1915 e i 164 pezzi della collezione Chigi nel 1918 [1].

Nonostante la straordinaria mole di materiale artistico a disposizione, ancora dopo il primo conflitto mondiale lo Stato preferì adottare forme di concessione d’uso delle opere a ministeri, enti pubblici e uffici piuttosto che risolvere il problema di una collocazione permanente, problema che si faceva tuttavia sempre più incalzante. Già nel XVIII e XIX secolo infatti erano nati grandi musei nelle capitali europee (il Louvre, il Prado, l’Ermitage, la National Gallery, per citarne alcuni), mentre Roma contava soltanto una serie di musei che intendevano sottolinearne il ruolo di capitale d’Italia, ma nessuno che fosse un vero concorrente dei colossi stranieri per completezza delle collezioni e modernità di concezione del museo.

Fig. 3 – Filippo Lippi, Annunciazione e due devoti, 1435, olio su tavola, provenienza coll. Hertz. Credits: https://www.barberinicorsini.org/.

Quando finalmente, nel 1949, lo Stato acquistò Palazzo Barberini con la precisa intenzione di renderlo sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica, l’edificio era ancora abitato in parte dai Barberini, ma era ormai spoglio delle collezioni d’arte fidecommissarie della famiglia. Infatti il Regio Decreto Legge del 26 aprile 1934, su richiesta dei principi Barberini e Corsini (i due rami tra cui era stato diviso il fidecommisso Barberini nel 1871[2]), consentiva di dividere le collezioni fidecommissarie in tre parti: la prima (16 dipinti su un totale di più di 600) sarebbe spettata allo Stato come risarcimento di ogni tipo di tassa, compresi i dazi di esportazione, per la seconda serie, che sarebbe rimasta a disposizione dei principi per la vendita anche all’estero. Le opere della prima parte sono ancora oggi identificabili grazie alla sigla “F”, seguita da un numero progressivo: tra queste è presente la Fornarina di Raffaello (F1)[3]. Infine, un terzo gruppo di dipinti sarebbe rimasto vincolato ai proprietari (quindi non vendibile a privati né in Italia, tantomeno all’estero) in base alle normative vigenti sulle opere di interesse storico e artistico; di questi dipinti, 112 furono acquistati dallo Stato nel 1952 per essere esposti nella Galleria Nazionale.

Fig. 4 – Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia, 1437, tempera su tavola, provenienza Chiesa di S. Maria di Valverde a Tarquinia. Credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/37/Lippi%2C_madonna_di_tarquinia%2C_1437.jpg.

La legge del ’34 segnò, come si può ben immaginare, la definitiva dispersione delle collezioni. Tra le opere alienabili comparivano infatti dipinti come La morte di Germanico di Nicolas Poussin, ora al museo di Minneapolis, la Santa Caterina di Caravaggio ora nella Collezione Von Tyssen a Madrid, I bari, sempre del Merisi, conservato oggi al Kimbell Art Museum di Fort Worth; senza considerare poi una incredibile quantità di opere di altri artisti, come le tavolette del Maestro delle Tavole Barberini, identificato successivamente con fra’ Carnevale[4].

Nello stesso – nefasto – 1934, i Barberini concessero in affitto una grande parte del palazzo al Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, che ne fece la propria sede. Il contratto iniziale prevedeva una scadenza al 1953 ma, dopo una lunga ed estenuante prova di forza tra il Ministero della Difesa e quello dell’Istruzione (poi dei Beni Culturali), i locali furono sgomberati soltanto nel 2006; in seguito le sale furono sottoposte ad un’accurata campagna di restauro e oggi finalmente fanno tutte parte della Galleria Nazionale.

Fig. 5 – Raffaello Sanzio, La Fornarina, 1520 ca., olio su tavola, provenienza coll. Barberini. Credits: https://www.barberinicorsini.org/.

L’allestimento della Galleria Nazionale

Nel frattempo, a partire dal ’49, si procedette alla sistemazione delle collezioni negli spazi disponibili del piano nobile, che furono aperti al pubblico nel 1953. L’iniziale allestimento prevedeva già la divisione in due sedi, con le opere inventariate ordinate cronologicamente, disposte a prescindere dalla collezione di provenienza (quindi la collezione Corsini, che fino a quel momento era stata esposta nella sua interezza fu separate). Le opere dai primitivi fino a tutto il secolo XVI furono collocate a Palazzo Barberini, e quelle di XVII e XVIII secolo a Palazzo Corsini. Soltanto nel 1984 si definì una migliore soluzione allestitiva, riportando tutta la collezione Corsini nella propria sede originaria, nelle condizioni di esposizione in cui era stata donata allo Stato, come quadreria settecentesca. Tutte le altre opere, provenienti da acquisizioni e donazioni post 1883 o da collezioni prive della loro sede storica, furono esposte nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini. Ciò avvenne con il preciso scopo di creare una galleria che fosse sì autosufficiente nel proprio percorso espositivo, ma anche una collezione d’arte ampliabile attraverso nuove acquisizioni. Proprio questo intento di apertura rese fin da subito la Galleria Nazionale di Palazzo Barberini un museo differente rispetto alle collezioni storiche romane con una struttura (de)finita, avvicinandola ai prestigiosi musei nazionali stranieri.

Fig. 6 – Hans Holbein, Enrico VIII, 1539-1540, olio su tavola, provenienza coll. Torlonia. Credits: https://www.barberinicorsini.org/.

Le opere

Per quanto riguarda la collezione conservata a Palazzo Barberini, questa si compone di oltre 3500 opere tra dipinti e oggetti di arte decorativa; nel computo sono compresi gli arredi (persino alcuni arredi di Palazzo Chigi, collocati nella loro sede d’origine) e oggetti che provengono dall’ex Museo Artistico Industriale, ma non sono calcolati i dipinti a parete e a soffitto che sono presenti a Palazzo Barberini. Tra queste opere, circa 600 sono in deposito presso enti esterni per ovvie ragioni di spazio.

Fig. 7 – Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso, 1597-1599, olio su tela, provenienza coll. Kwhoschinski. Credits: https://www.barberinicorsini.org/.

La collezione dei dipinti copre un arco temporale che va dal XII al XVIII secolo, e abbonda di capolavori, soprattutto di Cinque e Seicento; un insieme che è unico non solo perché numericamente impressionante, ma perché annovera al suo interno molte opere dei medesimi pittori, che risultano così di più agevole lettura perché perfettamente contestualizzate.

Fig. 8 – Michelangelo Merisi da Caravaggio, Giuditta che taglia la testa a Oloferne, 1599, olio su tela, provenienza coll. Coppi. Credits: https://www.barberinicorsini.org/.

Il dipinto più antico della collezione è la Madonna advocata, di autore anonimo. Si tratta di una tavola rivestita di tela, rappresentante una Madonna protettrice dei fedeli, che intercede per loro presso il Figlio. Una particolarità di quest’opera bizantineggiante è la presenza di Gesù in alto a sinistra, iconograficamente insolita.

Proseguendo cronologicamente si trovano esposte alcune croci di XIII secolo e opere di XIV secolo che dimostrano recepita l’innovazione giottesca, come la tavola con le Storie di Cristo di Giovanni da Rimini (attività 1292-1309 o 1314/1315) o quella con le Storie della Passione di Cristo di Giovanni Baronzio (documentato 1345-1362 ca.).

A ben rappresentare il ‘400 in questa breve trattazione sulla collezione della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini sono due opere di Filippo Lippi (1406 ca.-1469): una elegantissima Annunciazione e la Madonna di Tarquinia. Quest’ultima è una Madonna in trono con Bambino, datata 1437, ritrovata da Pietro Toesca (1877-1962) nel 1917 in una chiesa di Corneto Tarquinia, ed è un’opera molto importante sia per la datazione riportata sul cartiglio in basso, che per l’impostazione spaziale e prospettica.

Fig. 9 – Simon Vouet, La Buona Ventura, 1617, olio su tela, provenienza coll. Torlonia. Credits: https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2020/01/albert-camus-anniversario-morte/attachment/simon-vouet-la-buona-ventura-1617/.

Come anticipato, i capolavori pittorici del Cinquecento presenti in collezione sono numerosissimi: oltre alla già citata Fornarina di Raffaello (1483-1520), si possono ammirare Giuditta e Oloferne e il Narciso di Caravaggio (1571-1610), il ritratto in abito nuziale di Enrico VIII di Hans Holbein il giovane (1497-1543), ma anche opere di Domenico Beccafumi (1486-1551), del Bronzino (1503-1572), di Jacopo Zucchi (1541-1589). E poi il Seicento, con capolavori come la Maddalena di Guido Reni (1575-1642), la Venere che suona l’arpa di Giovanni Lanfranco (1582-1647), La Buona Ventura di Simon Vouet (1590-1649) e tante altre dei maestri italiani e stranieri. L’arte del Seicento è poi quella che meglio comunica con la decorazione originale del palazzo, testimoniando uno dei momenti di maggiore splendore della città di Roma.

Fig. 10 – Giovanni Lanfranco, Venere che suona l’arpa, 1630, olio su tela, provenienza coll. Barberini. Credits: http://www.arte.it/opera/venere-che-suona-l-arpa-4664.

Anche la pittura del Settecento è rappresentata da un gruppo piuttosto nutrito di opere, e si snoda attraverso varie scuole che consentono al pubblico di farsi un’idea omogenea della pittura italiana del XVIII secolo. Tra queste si possono ammirare il Ritratto di giovane fumatore di Giacomo Ceruti (1698-1768), la Madonna con Bambino e San Filippo Neri e alcuni ritratti di Pompeo Batoni (1708-1787), La nuda di Pierre Subleyras (1699-1749). La collezione settecentesca, come si può ben immaginare, si collegava alla visita dell'appartamento di Cornelia Costanza Barberini e Giulio Cesare Colonna di Sciarra al secondo piano.

Fig. 11 -  Pierre Subleyras, La nuda, 1740 ca., olio su tela.

Non basterebbe una vita per descrivere adeguatamente ogni bellezza esposta nella Galleria Nazionale di Palazzo Barberini; proprio in virtù di ciò, questa serie di articoli vuole offrire al lettore soltanto uno spunto per andare di persona ad ammirare la quantità di opere meravigliose di questo museo. Magari più di una volta!

 

Note

[1] L. Mochi Onori, R. Vodret, Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998, cit. p. 10.

[2] Ivi, pag. 11

[3] Cfr. https://www.barberinicorsini.org/arte/collezioni/

[4] Settis S., Il museo cancellato, «La Repubblica», 6 maggio 2005.

 

Bibliografia

Antinori A., Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, pp. 140 – 145.

Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, Palazzo Barberini, Palombi Editori, Roma 2001.

Di Monte M., Figure del potere. I Barberini collezionisti di cultura, traduzione italiana, leggermente rivista, del saggio Ikonographien der Macht. Die Barberini als Sammler, in Wege des Barock. Die Nationalgalerien Barberini Corsini in Rom, a c. di O. Westheider, M. Philipp, München-London-NewYork, 2019, pp. 34-43. [URL: https://www.academia.edu/41040218/Figure_del_potere_I_Barberini_collezionisti_di_cultura].

Di Monte M., Settecento elegante, illuminismo selvaggio. La decorazione degli appartamenti della principessa Cornelia Costanza a Palazzo Barberini, intervento al convegno internazionale "Imatges del poder a la Barcelona del Set-cents. Relacions i influències en el context mediterrani", Palau Moja, Barcellona, 28-29/04/2015.

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998.

Settis S., Il museo cancellato, «LaRepubblica», 6 maggio 2005 [URL: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/05/06/il-museo-cancellato.html].

 

Sitografia:

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 04/01/21).


DALLA COLLEZIONE BARBERINI ALLA GALLERIA NAZIONALE

A cura di Maria Anna Chiatti

Dopo aver profusamente parlato del palazzo nei precedenti articoli, in questo elaborato si percorreranno alcune delle tappe che hanno visto la collezione Barberini rappresentare il nucleo delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, nelle sedi di Palazzo Barberini e Palazzo Corsini.

La collezione Barberini come «capitale culturale»

È assai importante ricordare che la famiglia Barberini nel XVII secolo conobbe una straordinaria fortuna, legata certamente al pontificato di Urbano VIII (che durò dal 1623 al 1644), ma anche alla fama del cardinal nepote Francesco: questa fortuna fu strettamente connessa al programma politico-culturale che i membri della casata riuscirono a delineare. Francesco fu grande mecenate e appassionato collezionista di opere d’arte e di oggetti preziosi, nondimeno ebbe l’acume di capire che il nuovo status della sua famiglia, dopo l’elezione al soglio pontificio dello zio Maffeo, richiedeva non soltanto l’acquisizione e l’accrescimento di un cospicuo patrimonio economico e finanziario, ma anche la conquista di ciò che il sociologo Pierre Bourdieu alla fine degli anni ’70 del Novecento avrebbe chiamato un «capitale culturale», connesso e trasformabile a sua volta in capitale sociale (quindi relazioni), e in capitale simbolico (onore, reputazione)[1]. Per «capitale culturale» in sociologia si intende l’insieme dei beni sociali di una persona: intelletto, istruzione, capacità espressive e di saper fare che un individuo sviluppa e acquisisce nel corso della vita all’interno del proprio strato sociale; il «capitale culturale» comprende anche tutti i beni materiali che un individuo possiede e può trasmettere, perché considerati rari o preziosi dalla società e quindi degni di essere ricercati.[2] In quest’ottica va pertanto interpretato il collezionismo della famiglia, che interessò molti aspetti della cultura: dalle opere d’arte ai numerosi volumi che componevano la biblioteca di Francesco (circa 40.000), fino a beni immateriali (come informazioni e curiosità) che contribuirono a rafforzare la politica di autoaffermazione dei Barberini.

Fig. 3 - Prospero Ballerini ? (attivo alla fine del XVIII sec.), Ritratto di Cornelia Costanza Barberini e Giulio Cesare Colonna, 1770. Credits: https://www.instagram.com/barberinicorsini/?hl=it.

Dopo la morte di Francesco, avvenuta nel 1679, la reputazione della famiglia andò scemando. Come si è visto nell’approfondimento sull’appartamento di Cornelia Costanza, questa era l’ultima erede diretta della casata, e gli appartamenti al secondo piano fatti decorare da lei e dal marito Giulio Cesare Colonna furono gli unici ambienti abitati dai Barberini fino al 1955. Tuttavia la disinvolta autogestione del patrimonio di famiglia da parte di Cornelia Costanza fu motivo di complicate vicende ereditarie, segnate da polemiche e vertenze giuridiche. Alle origini della causa fu il conferimento del diritto di maggiorasco (il diritto di ereditare l’intero patrimonio) da parte di Cornelia Costanza al secondogenito Carlo (1735-1819) anziché al primogenito Urbano (1733-1796), il quale impugnò la questione. La vertenza si prolungò per decenni, ed ebbe risoluzione soltanto nel 1811 con un accordo che prevedeva la divisione delle collezioni tra i due rami della famiglia, i Barberini e i Colonna[3]. Come si può ben immaginare, la collezione Barberini subì numerose alienazioni nonostante fosse sottoposta a fidecommesso. Questa specifica disposizione testamentaria è oggi di limitata applicazione, ma fu in uso già nel diritto romano e fu conservata anche nel passaggio dallo Stato Pontificio al Regno d’Italia: il vincolo fidecommessario serviva a garantire che l’eredità non fosse smembrata, e, oltre alla raccolta Barberini, salvaguardò altre importantissime collezioni romane, come quelle Torlonia e Doria Pamphili.

Dalle alienazioni alla Galleria Nazionale

Fig. 4 - Fotografia di Carlo Felice Barberini Colonna, 1859 ca. Credits: https://ladyreading.forumfree.it/?t=60707892.

Un inventario barberiniano di metà ‘800 segnala la precisa sistemazione di tutte le opere all’interno del palazzo dopo la divisione con i Colonna di Sciarra; questi ultimi vendettero poi l’intera collezione alla fine del secolo, segnando così una grande dispersione di opere che in origine erano dei Barberini. In seguito la collezione Barberini fu ulteriormente divisa con la famiglia Corsini, grazie ai matrimoni organizzati da Carlo Felice Barberini Colonna (1817-1880) per le figlie Anna (1840-1911) e Maria Luisa Barberini Colonna (1844-1906) con Tommaso (1835-1919) e Pierfrancesco Corsini (1837-1916).

Dopo il 1881 poco meno della metà della collezione passò ai Corsini di Firenze, e nonostante le numerose alienazioni e divisioni, la parte rimanente della raccolta era tanto vasta da poter costituire da sola un museo. Nel 1883 i principi Corsini donarono allo Stato Italiano l’intera collezione Barberini Corsini e lo storico Palazzo in via della Lungara, comprese la biblioteca e la collezione di disegni.

Non si pensò subito alla fondazione di una Galleria Nazionale, giacché questa enorme raccolta di beni non era dissimile dalle altre collezioni fidecommessarie romane già impostate come quadrerie accessibili al pubblico; tuttavia questa donazione ingentissima rappresentò un precedente per il passaggio allo Stato di questo tipo di ricchezze.

Per Decreto Regio il 20 giugno 1895 nasceva la Galleria Nazionale, denominata Regia Galleria d’Arte Antica e Gabinetto delle Stampe, con sede in Palazzo Corsini; i due Istituti avrebbero avuto amministrazione autonoma a partire dal 1941.

Nel prossimo articolo si continueranno a trattare le vicende che hanno portato alla definizione dell’assetto attuale delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma.

 

Note

[1] M. Di Monte, Figure del potere. I Barberini collezionisti di cultura, traduzione italiana, leggermente rivista, del saggio Ikonographien der Macht. Die Barberini als Sammler, in Wege des Barock. Die Nationalgalerien Barberini Corsini in Rom, a c. di O. Westheider, M. Philipp, München-London-NewYork, 2019, pp. 34-43. [URL: https://www.academia.edu/41040218/Figure_del_potere_I_Barberini_collezionisti_di_cultura].

[2] P. Bourdieu, Forme di Capitale [1985],  trad. in italiano a c. di M. Santoro, Roma 2015, pp. 87 e segg.

[3] Parte degli atti processuali, con le deposizioni e le accuse di illecite alienazioni operate dalla principessa Barberini, si può leggere in Questione sul diritto al maggiorasco istituito da Urbano VIII, fra il Sig. Principe D. Maffeo Barberini Colonna di Sciarra e il Sig. Principe D. Carlo Barberini e Sig. D. Francesco Barberini, in «Cause italiane, civili, criminali e commerciali», I, Pistoia 1843, pp. 9-314.

 

Bibliografia

Antinori A., Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, pp. 140 – 145.

Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, Palazzo Barberini, Palombi Editori, Roma 2001.

Di Monte M., Figure del potere. I Barberini collezionisti di cultura, traduzione italiana, leggermente rivista, del saggio Ikonographien der Macht. Die Barberini als Sammler, in Wege des Barock. Die Nationalgalerien Barberini Corsini in Rom, a c. di O. Westheider, M. Philipp, München-London-NewYork, 2019, pp. 34-43. [URL:https://www.academia.edu/41040218/Figure_del_potere_I_Barberini_collezionisti_di_cultura].

Di Monte M., Settecento elegante, illuminismo selvaggio. La decorazione degli appartamenti della principessa Cornelia Costanza a Palazzo Barberini, intervento al convegno internazionale "Imatges del poder a la Barcelona del Set-cents. Relacions i influències en el context mediterrani", Palau Moja, Barcellona, 28-29/04/2015.

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998.

Settis S., Il museo cancellato, «LaRepubblica», 6 maggio 2005 [URL: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/05/06/il-museo-cancellato.html].

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 25/11/20).


L’APPARTAMENTO DI CORNELIA COSTANZA

A cura di Maria Anna Chiatti

Introduzione

Dopo aver delineato la storia della fabbrica di palazzo Barberini e descritto le meravigliose scale e i grandi soffitti affrescati nel pieno periodo del Barocco Romano, si procederà in questo articolo a raccontare le bellezze dell’appartamento di Cornelia Costanza Barberini (1716 - 1797), decorato in stile rococò, al secondo piano. L’aggiornamento del programma decorativo di questi spazi avvenne per suo volere quando, ultima erede diretta della casa, fu concessa in sposa a Giulio Cesare Colonna di Sciarra (1702 - 1787) all'età di dodici anni nel 1728 (fig. 1).

Fig. 1 - Prospero Ballerini ? (attivo alla fine del XVIII sec.), Ritratto di Cornelia Costanza Barberini e Giulio Cesare Colonna, 1770, olio su tela. Credits: https://www.instagram.com/barberinicorsini/?hl=it.

L'appartamento di Cornelia Costanza Barberini e Giulio Cesare Colonna di Sciarra

Il volto settecentesco di Palazzo Barberini è senza dubbio meno noto di quello barocco, pur tuttavia non meno interessante. Questo aspetto è infatti molto suggestivo per almeno due ragioni: la prima è che mette in evidenza una storia complessa (e a volte non del tutto coerente) del gusto dei committenti, e la seconda è che concede all’osservatore il privilegio di intuire i piani su cui si muove la sensibilità estetica nel XVIII secolo[1]. Tale sensibilità ha guidato le propensioni di gusto della principessa Cornelia Costanza e di suo marito nell’attività di ridecorazione dei loro appartamenti privati nell’ala sud del secondo piano del palazzo; il riallestimento, avvenuto tra il 1760 e il 1770, ha dato luogo al bijou che si può ammirare ancora oggi, dopo la campagna di restauro conclusa qualche anno fa (fig. 2).

Fig. 2 - Pianta dell’appartamento settecentesco. Credits: https://www.academia.edu.

In effetti queste sale arredate in stile tardo-rococò (a ben guardare con qualche anticipazione neoclassica[2]), all’epoca della loro realizzazione, dovevano rappresentare l’ostentazione di una modernità di pensiero e di posizione in fatto di soluzioni artistiche, in netta contrapposizione con il dichiarato stile barocco del piano inferiore. Questa impronta così marcata è probabilmente da ricondurre al fatto insolito che Cornelia Costanza poteva disporre del patrimonio di famiglia in prima persona, ed è possibile che desiderasse lasciare un segno della propria gestione; a questo aspetto va aggiunto anche che la situazione finanziaria della famiglia Barberini non era certamente quella del secolo precedente, e con un intervento così radicale la principessa e il suo consorte Colonna veicolarono sicuramente un nuovo messaggio di benessere e potere.

La decorazione dell’appartamento di Cornelia Costanza Barberini

Esattamente come al piano nobile, gli spazi dell’appartamento di Cornelia Costanza Barberini sono divisi secondo un criterio funzionale: le sale di rappresentanza (di cui ancora oggi possiamo ammirare le sfolgoranti decorazioni e gli arredi), e le stanze riservate ad una frequentazione privata, dal tono più sobrio.

L’accesso all’appartamento avviene dalla scala ovale; dopo aver attraversato alcuni ambienti (non particolarmente significativi in termini di decorazione) si raggiunge il salottino piranesiano: una piccola stanza con le pareti decorate in stile neoclassico, in cui sono inseriti numerosi ritratti di membri della famiglia Barberini su tela riportata, accompagnati da mobili d’epoca. Proprio qui si trovano anche i ritratti di cui a fig. 1, e l’assetto della sala è databile alla seconda metà del ‘700.

Ritornando verso il piccolo atrio d’ingresso e proseguendo in direzione opposta, si attraversa un ampio corridoio; sulla destra si trova una cappellina composta da due locali separati da un arco ribassato. Sulla parete di fondo sta il piccolo altare settecentesco (fig. 3).

Fig. 3 - Altare settecentesco.

Lo stesso corridoio porta alla sala più rappresentativa dell’appartamento, dove l’immagine dei committenti viene intenzionalmente celebrata. Si tratta del cosiddetto Salone delle Battaglie, o, meglio, dei Fasti Colonna, che risponde alla stessa funzione svolta dal Salone di Pietro da Cortona al piano nobile (fig. 4).

L’ambiente è ampio e luminoso, coperto con volta a specchio ribassata, su cui è dipinta ad affresco una figura femminile, forse allegoria dell’Aria. In ciascuna lunetta sopra ogni parete sono rappresentate altre quattro figure allegoriche: Africa, Asia, America, e Europa. Decora le pareti una serie di tredici tele riportate (databili al secondo Settecento) con episodi rilevanti della storia della famiglia Colonna. Le tele, in vario formato, celebrano idealmente l’unione delle famiglie Colonna e Barberini, ma sul piano figurativo e tematico spiccano di gran lunga le gesta dei primi.

Sulla parete d’ingresso è raffigurata la beata Margherita Colonna con la città di Palestrina sullo sfondo, eseguito dal pittore viterbese Domenico Corvi (1721 - 1803) alla metà del ‘700; seguono da destra: il cardinal Pietro Colonna che fonda l’ospedale e la chiesa di S. Giacomo in Augusta; i Colonnesi che riprendono il ponte Molle agli Orsini. Nella strombatura della finestra è una veduta di una strada di città (forse Via del Corso) e fra le due finestre si vedono la Vergine appare al cardinal Pietro Colonna durante un naufragio e resa di una città ad un comandante di casa Colonna. Nello spazio a sinistra della finestra sta la tela con Giulio Cesare Colonna a cavallo e sulla parete sinistra quella con Pio V che nomina Giulio Cesare Colonna principe di Palestrina, opera quest’ultima di Niccolò Ricciolini (1687 - 1772). Sulla stessa parete seguono Clemente VII si rifugia in Castel S. Angelo, difeso da Stefano Colonna; il cardinal Giuseppe Colonna è fatto prigioniero dai Turchi, di Niccolò Ricciolini, siglato N.R. e datato in basso, al centro, 1764. Infine, nuovamente sulla parete d’ingresso Santa Margherita Colonna scaccia i demoni; benedizione delle regole e costituzioni francescane; Urbano VIII nomina Francesco Colonna principe di Carbognano, tutti di Domenico Corvi, eseguiti nel 1764. In questa sala la decorazione si estende anche alle piattabande e alle strombature delle finestre, dove stanno dei tondi incorniciati da volute, con al centro figure allegoriche.

Le porte hanno specchiature mistilinee decorate con paesaggi e sono coronate da sovraporte con scene di mare, tutte databili, come l’intera decorazione di questa stanza, al sec. XVIII.

Fig. 4 - Salone dei Fasti Colonna.

Da qui si accede ad una stanza completamente decorata nei toni dell’azzurro. Al centro del soffitto campeggia un medaglione con un putto e un leone. La parete di fondo è rivestita di legno, con preziose specchiature e cornici rococò. Al centro, racchiuso in quello che sembra un armadio a due battenti, si cela un piccolo altare ceruleo, come una perla nell’ostrica, fiancheggiato da due porte (fig. 5).

Fig. 5

Questa stanza conduce ad un ambiente di analoga intenzione, decorato in prevalenza nella tonalità del verde: la volta è ornata di nuovo da un medaglione con puttino.

A seguire è la stanza dell’alcova (figg. 6-7), così detta per il grande baldacchino impostato sulla parete di fondo, sorretto da due colonne in marmo grigio, che crea un ambiente molto intimo e raccolto. La zona è finemente decorata con lesene a stucco e specchio dipinto a olio. Come pure ornate sono le porte che conducono ai vani laterali: si può riconoscere una Natività sul battente di destra (che immette su una scala da cui si può accedere ai locali della biblioteca) e un’Adorazione dei Magi su quello di sinistra (che conduce ad un inginocchiatoio, o “pregadio”, un piccolo ambiente affrescato probabilmente da Felice Balboni[3]), mentre le paraste ospitano le personificazioni di sei virtù.

 

La sala che segue rappresenta un unicum nella Roma di metà ‘700. Si tratta infatti di una saletta dalla funzione ancora sconosciuta (gabinetto della curiosità, stanza per la musica, boudoir?) tappezzata da quindici pannelli di seta dipinta, da cui il nome Salotto delle sete dipinte (figg. 8, 9, 10). Il soggetto riprodotto sulle sete desta particolare meraviglia: sono raffigurati episodi di vita quotidiana dei nativi americani, con fiori e uccelli variopinti. Probabilmente l’anonimo esecutore del ciclo decorativo prese spunto da qualche cronaca di viaggio nel Nuovo Mondo, di cui alcuni esemplari corredati da illustrazioni ad acquerello erano conservati nella biblioteca del Cardinal Francesco Barberini. Come che sia, il risultato è davvero straordinario perché molto precoce e per la visione del tutto positiva di popolazioni sconosciute. Durante il XVIII secolo infatti era nato il “mito del buon selvaggio”, che è stato all’origine di numerosi capolavori di letteratura (Robinson Crusoe di Dafoe e Émile di Rousseau per fare due esempi), e verosimilmente anche della decorazione di questa sala. Una ulteriore curiosità è poi rappresentata dalla presenza di specie animali non originarie del Nuovo Mondo, come le paradisee, uccelli della Nuova Zelanda.

 

Il salotto immette in una piccola galleria, un ambiente estremamente luminoso, soprattutto quando colpito dalla luce diretta del sole (figg. 11-12): la stanza sembra illuminata d’oro, grazie al riverbero di tutto l’apparato ornamentale. Le cornici di porte e finestre sono dorate, animate da motivi fitomorfi, come pure la decorazione dell’arco ribassato, mentre le specchiere riflettono tutti i giochi di luce rendendo la galleria splendente. Le pareti sono affrescate con elementi vegetali che continuano idealmente lo spazio naturale del giardino su cui affacciano le finestre della stanza.

Scendendo alcuni gradini si accede alla Sala delle marine (fig. 13), chiamata così per via delle scene di genere di ambientazione marina raffigurate sulle pareti, di autore sconosciuto. Queste pitture ad olio risalgono al XIX secolo, mentre gli affreschi con motivi floreali della volta sono settecenteschi. Una curiosità riguardo questo spazio è che era un fumoir, ossia il salotto dove i gentiluomini si ritiravano per fumare dopo i pasti così da non disturbare (o essere disturbati) dalle signore. A causa della funzione a cui era adibita la sala, le pitture erano completamente annerite, tanto che si procedette al loro restauro a partire dal 1964.

La stanza adiacente, non a caso, è la Sala da pranzo (figg. 14-15). Le pareti sono affrescate con specchiature mistilinee che imitano la decorazione a stucco, con tralci di edera che vi si sovrappongono; opere, queste, attribuite a Felice Balboni. Le angoliere che sono ben visibili nella fig. 15 fanno parte del corredo originale della stanza e sono in realtà delle coperture per i passaggi della servitù.

 

Questi appartamenti sono stati la vera casa della famiglia dalla metà del ‘700 fino al 1955, quindi anche in seguito alla vendita del palazzo allo Stato, avvenuta nel 1949. Più raccolte e meno dispersive degli spazi al piano nobile, queste stanze sono un raffinatissimo esempio di decorazione in stile rococò, e si possono ammirare oggi grazie alle visite guidate offerte dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica.

 

Si ringrazia l’Archivio Fotografico delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica per l’autorizzazione alla pubblicazione delle immagini.

 

Note

[1] Cfr M. Di Monte, Settecento elegante, illuminismo selvaggio. La decorazione degli appartamenti della principessa Cornelia Costanza a Palazzo Barberini, intervento al convegno internazionale "Imatges del poder a la Barcelona del Set-cents. Relacions i influències en el context mediterrani", Palau Moja, Barcellona, 28-29/04/2015, p. 1.

[2] Ivi, p. 2.

[3] Pittore di fiducia della principessa Cornelia Costanza, attivo tra il 1763 e il 1778.

 

Bibliografia

Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, Palazzo Barberini, Palombi Editori, Roma 2001

Di Monte, Settecento elegante, illuminismo selvaggio. La decorazione degli appartamenti della principessa Cornelia Costanza a Palazzo Barberini, intervento al convegno internazionale "Imatges del poder a la Barcelona del Set-cents. Relacions i influències en el context mediterrani", Palau Moja, Barcellona, 28-29/04/2015

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 25/10/20)


PALAZZO BARBERINI A ROMA (II PARTE)

A cura di Maria Anna Chiatti

Dopo aver delineato la storia della costruzione di Palazzo Barberini[1], ci si soffermerà ora su una selezione di capolavori di carattere decorativo e strutturale che vi sono contenuti. Queste opere sono tanto rappresentative nel panorama artistico del XVII secolo da aver contribuito a costruire il grande mito del Barocco Romano, con un conseguente forte riverbero sulla fama della famiglia Barberini.

Le scale monumentali

L’odierno accesso al palazzo avviene attraverso la grande corte occidentale, su via delle Quattro Fontane. Da qui il visitatore che desideri entrare negli spazi del museo può ammirare dapprima le sale del pianterreno, per poi salire al piano nobile servendosi del cosiddetto scalone di Bernini. Questa grande scalinata a pozzo quadrato, costruita intorno al 1630, è in effetti tradizionalmente riferita al genio di Gian Lorenzo Bernini (1598 - 1680) e rientra nella sezione progettuale dell’edificio che prevedeva l’ampliamento del palazzetto Sforza, comprato dai Barberini nel 1625, che oggi rappresenta gran parte dell’avancorpo nord della struttura.

Il progetto dello scalone doveva necessariamente tenere conto della precedente articolazione dei livelli, giacché questo sarebbe andato ad impostarsi nella porzione mediana dello stabile esistente; a partire dal pianterreno la scala doveva collegare l’ingresso principale della Cavallerizza sul cortile (distrutto per la creazione di via Barberini nel 1926) con la scalinata preesistente che portava al giardino e ai livelli superiori[2]. Bernini creò una scala perfettamente proporzionata, anche se, incredibilmente, non del tutto simmetrica per via degli spazi a disposizione. Le rampe di gradini sono sostenute da colonne binate fino al primo piano, poi da pilastri. Sulle pareti si aprono una serie di nicchie che ospitano ognuna una statua, mentre verso l’interno si vede dischiudersi sotto di sé il grande pozzo quadrato man mano che si sale, come fosse una corte interna: il vano a cielo aperto crea effetti di luce particolarmente suggestivi, molto adeguati a stupire gli ospiti del palazzo (la scala nord serviva da ingresso di rappresentanza ed era quindi più frequentata di quella posta a sud, fig. 1).

Lo schema dello scalone quadrato si discosta molto dai due tipi più diffusi nei palazzi romani del Cinquecento, a rampe parallele accostate o a chiocciola.

 

In netta contrapposizione, sia per ubicazione nella villa che per forma e stile, è la meravigliosa scala di Francesco Borromini (1599 - 1667), oggi utilizzata come uscita dal percorso espositivo del museo (fig. 2). Si tratta di una gradinata senza soluzione di continuità, che sembra arrotolarsi (o srotolarsi) come un lungo papiro per tutta l’estensione verticale di Palazzo Barberini; la pianta ovale consente una salita più agevole rispetto a quella a chiocciola, secondo un modello codificato nel XVI secolo dal Vignola (1507 - 1573), da Sebastiano Serlio (1475 - 1554) e da Andrea Palladio (1508 - 1580). In questo caso la luce entra dalla sommità aperta, ma anche dalle finestre della facciata.

La scala serve l’ala sud del palazzo, ed era riservata ad una circolazione più ristretta e privata rispetto al corrispettivo a nord, poiché portava agli appartamenti privati del cardinal Francesco, fino alla biblioteca all’ultimo piano[3]. Ogni girata si compone di dodici colonne binate in stile dorico, con capitelli decorati con piccole api (che sono il simbolo del casato). L’ecletticità dell’architetto è ben dimostrata nella realizzazione della struttura spiraliforme, che Borromini utilizzò con successo anche in altre opere.

Le volte affrescate

Al contrario degli scaloni monumentali, che sono “soltanto” due, i soffitti decorati nelle stanze della residenza sono di un numero quasi incalcolabile. Due sono gli esempi illustri su ci si soffermerà, con la speranza di suscitare in chi legge una dose di curiosità che sia il motore di una visita alla Galleria Nazionale d’Arte Antica.

I soffitti dei saloni più ampi del palazzo rappresentano due trionfi divini, e celebrano il papato di Urbano VIII: si tratta del Trionfo della Divina Sapienza, dipinto da Andrea Sacchi (1599 - 1661) tra il 1629 e il 1631 in un salone dell’ala nord, e del Trionfo della Divina Provvidenza, realizzato da Pietro da Cortona (1596 - 1669) dal 1633 al 1639 nel grande salone centrale a doppia altezza.

Per ciò che concerne la Divina Sapienza, i precedenti iconografici sono davvero scarsi, se si escludono le rappresentazioni medievali della Saggezza (raffigurata con lo scudo nella mano destra e il libro con i sette sigilli nella sinistra)[4] alle quali tuttavia Sacchi non guardò: in questo affresco (fig. 3) la personificazione della Sapienza Divina è assisa in trono, al centro della scena, circonfusa della luce di un grande sole che le splende alle spalle. Tutto intorno i suoi attributi si incarnano nei toni pastello delle figure di undici fanciulle: Nobiltà, Eternità, Soavità, Divinità, Giustizia, Forza, Beneficienza, Santità, Purezza, Perspicacia, Bellezza. Ognuna di loro reca il simbolo dell’attributo che rappresenta; dall’alto scendono due giovani alati con un leone e una lepre, emblemi dell’amore e del timor di Dio[5]. Le fanciulle rappresentano inoltre le costellazioni, pervadendo così l’opera di Sacchi di una importante valenza politica di autocelebrazione, con una funzione che si potrebbe quasi definire apotropaica[6]: tutte le virtù sono riunite nella congiuntura astrale sotto cui Urbano VIII è diventato papa, il 6 agosto 1623, con la conseguente supposizione del pontefice di incarnarle tutte.

Confrontando questa ordinata e soffusa rappresentazione (ascrivibile al filone classicista del barocco) con il maestoso affresco nel salone di rappresentanza che raffigura Il trionfo della Divina Provvidenza, ci si rende immediatamente conto di trovarsi di fronte ad un codice del tutto diverso: si tratta del manifesto programmatico del nuovo linguaggio barocco.

In questa enorme composizione, Pietro da Cortona si dimostrò capace di riscrivere la tradizione della decorazione ad affresco articolata su quadri riportati, creando uno spazio aperto che sfonda illusionisticamente la parete. Questo elaboratissimo soggetto fu ideato dal poeta Francesco Bracciolini (1566-1645) per glorificare il pontefice e la sua famiglia, ed elogiato da molti letterati e intellettuali, tra i quali Girolamo Tezi (1580?- 1645) nelle Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae, pubblicato nel 1642.

Il titolo completo dell’opera in effetti è Il Trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il pontificato di Urbano VIII, e risulta facilmente intuibile il valore celebrativo sotteso dalla committenza. Per mezzo di più di cento personaggi, accompagnati da innumerevoli ronzanti api, Pietro da Cortona celebrò il potere politico e spirituale della famiglia Barberini, creando uno spazio tanto dilatato che l’occhio umano - dabbasso - non riesce a percepire completamente: si può notare il cornicione rettangolare, dipinto come se fosse scolpito nel marmo, e la divisione della volta in cinque parti. Nel riquadro centrale, su uno scranno di nuvole, siede la Provvidenza Divina con lo scettro in mano mentre la Fama incorona lo stemma Barberini. Nelle grandi fasce laterali virtù e vizi si combattono, e le prime vincono sempre sui secondi. Sui lati corti sono rappresentati Minerva che piega i giganti ed Ercole che caccia le Arpie; sui lati lunghi, invece, il Buongoverno garantisce la pace sconfiggendo la guerra, e la Teologia e la Religione allontanano dissolutezza e lascivia. La vastità dell’affresco basterebbe da sola a scatenare meraviglia nell’osservatore, che si ritrova inoltre immerso in un vortice di figure, «in una sequenza turbinosa di immagini»[7] con un ritmo frenetico.

Quest’opera, realizzata in sette anni, consacrò Pietro da Cortona come uno dei protagonisti incontrastati della pittura romana del Seicento.

Fig. 5 - Il salone di Pietro da Cortona. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

Nei prossimi articoli si tratterà della decorazione dell’appartamento settecentesco della principessa Cornelia Costanza (ultima discendente diretta dei Barberini), del mecenatismo di papa Urbano VIII e di una selezione dei capolavori conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini.

 

Note

[1] A tal proposito si veda l’articolo al link https://www.progettostoriadellarte.it/2020/09/01/palazzo-barberini-a-roma/?swcfpc=1

[2] La gradinata che si può apprezzare oggi è infatti il rifacimento di una precedente, e fu costruita tra il 1673 e 1679.

[3] La biblioteca del cardinale Francesco Barberini contava circa 40.000 volumi, ed era seconda soltanto alla Biblioteca Vaticana, della quale oggi è parte.

[4] D. Gallavotti Cavallero, Il programma iconografico per la Divina Sapienza nel Palazzo Barberini: una proposta, estratto da Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Multigrafica Editrice, Roma 1984, p. 270.

[5] Cfr. sito della GNAA al link: https://www.barberinicorsini.org/opera/allegoria-della-divina-sapienza/

[6] Lett. che allontana l’influenza maligna.

[7] C. Bertelli, G. Briganti, A. Giuliano, Storia dell’arte italiana, vol. 3, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 328.

 

Bibliografia

Antinori A., Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, pp. 140 - 145

Bertelli C., Briganti G., Giuliano A., Storia dell’arte italiana, vol. 3, Bruno Mondadori, Milano 2009

Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, Palazzo Barberini, Palombi Editori, Roma 2001

Gallavotti Cavallero D., Il programma iconografico per la Divina Sapienza nel Palazzo Barberini: una proposta, estratto da Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Multigrafica Editrice, Roma 1984, pp. 269 - 290

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998

Spagnolo M., I luoghi della cultura nella Roma di Urbano VIII, in Luzzatto S., Pedullà G. (a cura di), Atlante della Letteratura, vol. 2, Einaudi, Torino 2011, pp. 387 - 409

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 06/10/20)

Dizionario Biografico degli Italiani alla voce:

Urbano VIII, papa (http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-urbano-viii_%28Dizionario-Biografico%29/ (ultima consultazione 25/09/20)


PALAZZO BARBERINI A ROMA

A cura di Maria Anna Chiatti

Palazzo Barberini: il casato, il progetto e la fabbrica

La storia dell’intera famiglia Barberini sarebbe, come facilmente si intuisce, troppo lunga e perigliosa da affrontare in una trattazione come questa, quindi ci si limiterà a delineare soltanto le vicissitudini di alcuni personaggi, in particolare di Maffeo Barberini, ben più noto con il nome di papa Urbano VIII. Il prestigio che prima il cardinalato e poi la tiara valsero all’intero casato, sta alla base delle motivazioni che portarono alla costruzione di uno dei palazzi più belli di Roma, nel XVII secolo così come oggi.

Fig. 1 - Pietro da Cortona, Ritratto di Urbano VIII, 1624 – 1627 ca. Credit: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?cu

Il casato e lo stemma

Maffeo Virginio Romolo Barberini (1568 – 1644, fig. 1), quinto dei sei figli di Antonio Barberini (M. 1571) e di Camilla Barbadori (M. 1609), nacque il 5 aprile 1568 a Firenze, dove sette anni prima si erano trasferiti i suoi avi, commercianti di tessuti, oriundi di Barberino di Val d’Elsa; da questo luogo proviene anche il cognome della famiglia, che ab origine era Tafani.

Alla prematura scomparsa del padre l’educazione dei figli fu affidata a Camilla sotto la tutela del cognato Francesco Barberini (1528 - 1600), il primo laureato, sacerdote e prelato della famiglia, allora protonotario apostolico presso la Curia romana.

Maffeo svolse studi umanistici presso il Collegio fiorentino dei gesuiti e nel 1584 si trasferì a Roma su invito dello zio per frequentare il Collegio romano e perfezionare gli studi; due anni più tardi si recò all’Università di Pisa, dove si laureò il 7 aprile 1588 in utroque iure [1]. Dopo il ritorno a Roma si occupò soprattutto dell’amministrazione dei beni e degli affari dello zio impegnato nel mercato di compravendita degli uffici vacabili: Francesco comprò per il nipote numerosi e costosi uffici, grazie ai quali questi poté fare carriera all’interno della Curia pontificia. Nel 1593 lo zio rinunciò al protonotariato in favore di Maffeo, che qualche anno più tardi riuscì anche ad ottenere la carica di chierico di Camera, un promettente trampolino di lancio per raggiungere il cardinalato.

Il 28 maggio 1600 morì lo zio Francesco, lasciandolo come unico erede fiduciario.

Grazie all’enorme ricchezza ereditata, a Maffeo furono conferiti da Clemente VIII (1536 - 1605) incarichi dispendiosi ma molto prestigiosi: la nunziatura straordinaria ricevuta nel 1601 lo portò alla corte di Parigi, dove instaurò ottimi rapporti con il mondo politico e culturale francese.

La carriera del nostro ebbe poi sviluppi assai rapidi: nel settembre del 1604 fu ordinato sacerdote e ad ottobre era già arcivescovo titolare di Nazareth (seppure questa fosse una nomina sui generis, perché l’arcivescovato di Nazareth era unito a quello di Barletta e ne condivideva le esigue entrate). A novembre fu ufficialmente nominato nunzio ordinario alla corte di Francia, dove rimase per tre anni; l’11 settembre 1606 papa Paolo V (1552 - 1621) promosse Maffeo al cardinalato, e il 14 ottobre a Fontainebleau il re di Francia Enrico IV (1553 - 1610) consegnò il berretto rosso al nuovo cardinale alla presenza della corte reale.

A seguito di questa nomina i tre tafani che avevano finora popolato lo stemma della famiglia vennero sostituiti con altrettante, più nobili, api (Figg. 2-3).

 

Il Cardinal Barberini non prese più residenza nella “Casa Grande” in via dei Giubbonari perché il palazzo risultava troppo piccolo per le sue esigenze: nel 1620 la famiglia contava quarantasei persone, e gli stretti vicoli di accesso non consentivano l’agevole passaggio delle carrozze. Durante i soggiorni romani, perciò, egli usava affittare prima il palazzo Salviati in piazza del Collegio romano, poi il palazzo Madruzzo in Borgo.

Quando il 19 luglio 1623, undici giorni dopo la morte di Gregorio XV (1554 - 1623), iniziò il conclave per la nomina del nuovo pontefice, l’orizzonte si delineava incerto perché dei cinquantacinque cardinali che parteciparono al conclave, almeno quindici erano ritenuti papabili: le tre fazioni in concorrenza, numericamente equivalenti, erano formate dai rapporti di clientela che le legavano alla casa Aldobrandini o Borghese o Ludovisi, piuttosto che da appartenenze politiche filofrancesi o filospagnole. Dopo diciassette giorni di inutili scrutini, mentre il caldo estivo si faceva insopportabile e dilagava fra i conclavisti una febbre infettiva (che dopo qualche tempo ne avrebbe uccisi quaranta), finalmente si raggiunse un compromesso fra le fazioni Borghese e Ludovisi: la mattina del 6 agosto si arrivò all’elezione del Cardinal Barberini con cinquanta voti su cinquantaquattro.

Maffeo assunse il nome di Urbano VIII.

Palazzo Barberini: dal progetto alla fabbrica

L’elezione al soglio pontificio di Maffeo determinò quindi per l’intera famiglia la necessità di avere una residenza romana adeguata al nome di Sua Santità per immagine e dimensioni.

Se in un primo momento si pensò di ampliare la “Casa Grande” in via dei Giubbonari attraverso l’acquisto di edifici attigui, ben presto fu palese la necessità di costruire una dimora che fosse nuova e più rappresentativa rispetto alla casa in cui vivevano Carlo Barberini (1562 - 1630, fratello di Maffeo) e la famiglia dal loro arrivo a Roma all’inizio del secolo.

Quasi tutte le proposte presentate si riferivano alla proprietà sulle pendici del Quirinale che Francesco Barberini (1597-1679, figlio di Carlo) aveva acquistato nel 1625 da Alessandro Sforza, tenendo conto dell’edificio già presente in quel sito: un lungo e stretto corpo di fabbrica a due piani, risultato di parecchi ampliamenti (l’ultimo dei quali molto recente) dell’originario casino di metà Cinquecento.

I primi progetti contemplavano tutti la tipica struttura fiorentino - romana del palazzo con corte centrale, come si può osservare in un codice dell’Archivio Barberini (Barb. Lat. 4360), o nel disegno di Carlo Maderno (1556 - 1629) conservato a Stoccolma, o ancora nella prefigurazione che compare nella pianta di Giovanni Maggi del 1625 [2]. In tutti questi esempi il casino Sforza veniva inglobato nella fabbrica come uno dei lati che circondano la corte centrale quadrata, e la scelta di mantenere la preesistenza prevalse poi anche nel progetto definitivo, avviato nel 1628: un progetto che si discostava sostanzialmente da tutte le proposte precedenti, “imponendosi come un caso di innovazione tipologica tra i più straordinari nella storia dell’architettura italiana” [3].

Il palazzo fu pensato come un volume compatto, ma sviluppato in avancorpi che ne racchiudessero sia la facciata est verso il giardino che, più profondamente, la facciata ovest verso la strada Felice (oggi via delle Quattro Fontane). Questo prospetto occidentale è una bellissima finta loggia a tre piani, e all’epoca della sua costruzione era in dialogo sia con i prospetti sul cortile e sul giardino di palazzo Farnese che con la quattrocentesca loggia delle Benedizioni a San Pietro, demolita nel 1610 [4].

Appropriato a un sito suburbano, l’impianto con avancorpi consentiva un riutilizzo semplice e meno costoso della preesistenza Sforza. Inoltre è possibile che Urbano VIII e Francesco volessero conferire alla dimora di famiglia un aspetto simile ai contemporanei palazzi francesi: anche il “Cardinal nepote” aveva infatti trascorso un periodo in Francia nel 1625, e aveva potuto ammirare edifici come lo château Blérancourt (1612-1618) e il palais du Luxembourg (dal 1615), opere recenti di Salomon de Brosse (1571 - 1626) che presentavano la corte d’onore aperta tra corpi sporgenti.

Con questa struttura Palazzo Barberini avrebbe saputo assolvere una duplice funzione di dimora di rappresentanza e villa di otium.

Fig. 4 - Vista laterale dell’ala nord. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

Quando si arrivò alla definizione della pianta, la famiglia si affidò al settantenne Maderno, l’architetto più famoso di Roma, al quale tuttavia furono date precise direttive. Il Maestro va quindi considerato autore delle linee essenziali del progetto, dell’assetto e degli ornati degli spazi conclusi finché egli era in vita, quindi l’ala nord (Fig. 4, le cui fattezze sono replicate nell’ala sud), la facciata est (Fig. 5, quella sul giardino) con il corpo centrale come arco di trionfo, e i primi due livelli della loggia a ovest (Fig. 6).

Consulente dei Barberini, sin dall’inizio dei lavori, fu Gian Lorenzo Bernini (1598 -1680); artista già affermato e pupillo di papa Maffeo, è possibile che sia stato lui a suggerire al collega Francesco Castelli (altresì noto come Borromini, 1599 - 1667) l’iconico tema dell’ovale trasverso sia per la sala verso il giardino che per la scala sud, ancora circolare in un disegno di Borromini [5].

Bernini, al quale fu affidata la direzione dei lavori dopo la morte di Maderno, completò la loggia della facciata ovest con un terzo livello, e si può individuare il suo stile anche nelle finestre a edicola ionica delle campate di collegamento tra loggia e ali, e in alcuni portali e camini delle sale interne; tuttavia in questa nuova fase della fabbrica si manifestò anche, per la prima volta in piena autonomia, il linguaggio decorativo profondamente originale di Francesco Borromini, del quale Bernini, prima di rompere con il collega alla fine del 1632, accettò i disegni per i portali minori del salone centrale e per le finestre quadrate del terzo livello della facciata occidentale (Fig. 7).

Fig. 7 - Veduta della facciata occidentale; in alto a destra la finestra quadrata di Borromini. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

L’accesso al palazzo avveniva sia da piazza Grimana (l’odierna piazza Barberini), percorrendo un viale in salita che portava all’adito nord, oppure si poteva entrare da via Felice direttamente nella corte occidentale. Quest’ultimo è anche l’ingresso odierno, cui si accede mediante la cancellata progettata dall'architetto Francesco Azzurri (1827-1901) nel 1848, realizzata poi nel 1865, con i grandi telamoni scolpiti da Adamo Tadolini (1788–1868, Fig. 8).

 

 

Dal cortile si può godere della bellissima facciata, formata da sette campate che si ripetono su tre livelli di arcate sostenute da colonne che ripropongono i tre stili classici (dal basso dorico, ionico e corinzio, Fig. 9). Tramite le arcate del pianterreno si accede al grande portico, articolato in due file di sette e cinque campate coperte a volta (Fig. 10); qui, al centro, si apre una scala che porta ai giardini, sistemati ad un livello più alto del piano terra. Questo spazio coperto consentiva ai Barberini e ai loro ospiti di accomodarsi nel palazzo scendendo dalle carrozze al riparo dalle intemperie e servendosi dello scalone a pozzo quadrato a nord (il cosiddetto Scalone di Bernini, Fig. 11), o di quello elicoidale a sud, la scala del Borromini (che era riservata ad una circolazione più privata, meno di rappresentanza, Figg. 12 e 13). Le due scale monumentali costituiscono le porzioni mediane degli avancorpi accostati all’edificio centrale, secondo un principio estetico e funzionale; la forma del palazzo risulta quindi essere una “H”, in cui l’avancorpo a nord è costituito dal palazzetto Sforza.

 

 

Gli ambienti erano così distribuiti: l’ala settentrionale accoglieva gli appartamenti estivi e invernali dei membri laici della famiglia, Taddeo (nipote di Maffeo, 1603 - 1647) al pianterreno, la moglie Anna Colonna (1601 - 1658) al piano nobile, la madre Costanza Barberini in un settore del secondo piano; l’ala sud era interamente dedicata al cardinale Francesco, mentre il corpo centrale ospitava il grande salone di rappresentanza con soffitto a doppia altezza, l’anticamera agli appartamenti cardinalizi anch’essa a doppia altezza, e la sala ovale che affaccia sul giardino.

Nel 1633 al terzo piano del palazzo fu allestita la grandiosa biblioteca di Francesco (quarantamila volumi): aveva inglobato quella dello zio Maffeo e divenne famosissima e seconda solo alla Vaticana. Vi si accedeva dalla scala elicoidale, attraverso un’anticamera che ospitava sessanta busti di letterati, mentre nel salone dominava il busto di Urbano VIII scolpito da Bernini (Fig. 14). In altre stanze adiacenti furono esposte collezioni di monete, bronzetti, conchiglie, cristalli e minerali. Completava questa enorme raccolta di meraviglie il sontuoso giardino, perfettamente apprezzabile dalla biblioteca, dove si coltivavano specie rare in accordo con la passione botanica del cardinal Francesco.

Fig. 14 - Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Urbano VIII, 1632 - 1633. Credit:  https://www.instagram.com/barberinicorsini/?hl=it

I giardini

In una maniera del tutto pertinente al carattere duplice del complesso, a metà tra palazzo di città e villa suburbana, il giardino era in origine un vero e proprio parco: si estendeva dalla strada Pia (oggi via XX Settembre) fino all'odierna salita di san Nicola da Tolentino, ed era concepito come un giardino all'italiana, comprendente anche un giardino segreto, abitato da animali esotici come struzzi e cammelli. Alla fine del XVIII secolo l’assetto del parco cambiò, e per meglio conformarsi al gusto dell’epoca furono introdotti un'area di alberi ad alto fusto da giardino romantico e la cosiddetta casina di sughero, di fronte alla cordonata di collegamento del giardino con il palazzo. Nel 1814 nell'angolo tra la via Felice e la strada Pia fu costruito uno sferodromo [6] aperto al pubblico, che tale rimase fino al 1881, quando il parco di Palazzo Barberini cominciò ad essere progressivamente eroso dalle politiche urbanistiche, prima umbertina e poi fascista: il giardino, grande spazio libero nel cuore di Roma, venne risucchiato nello sviluppo urbanistico della nuova capitale, che vedeva i suoi ministeri allinearsi lungo via XX Settembre. Al parco fu risparmiata la lottizzazione totale che distrusse Villa Ludovisi, ma furono comunque sacrificate le strisce esterne verso la strada Pia, e lungo la rampa delle carrozze fu costruita nel 1875 la grande serra. Nel 1936 alle spalle della casina di sughero fu costruita la palazzina Savorgnan di Brazzà, ad opera di Gustavo Giovannoni (1873 - 1947) e Marcello Piacentini (1881 - 1960), durante i cui scavi di fondazione venne trovato un mitreo di II secolo.

Nei prossimi articoli si vedranno nel dettaglio alcuni aspetti di Palazzo Barberini come le grandi volte affrescate e le scale monumentali, ma anche il programma decorativo rococò dell’appartamento settecentesco di Cornelia Costanza Barberini, ultima erede diretta della famiglia.

 

Note

[1] Letteralmente “nell’uno e nell’altro diritto”: è un’espressione che si usava per definire i laureati in diritto civile e canonico.

[2] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p.140.

[3] Idem, cit. p. 142.

[4] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p. 142.

[5] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p. 145.

[6] Impianto sportivo per le varie specialità del gioco del pallone - da non confondersi con il calcio. Nelle nazioni dove si praticano sport sferistici, le definizioni di sferisterio cambiano, ma il significato del termine si riferisce sempre all'impianto dove si disputano partite di giochi sferistici. (Via Wikipedia)

 

Bibliografia

Antinori A., Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, pp. 140 - 145

Spagnolo M., I luoghi della cultura nella Roma di Urbano VIII, in Luzzatto S., Pedullà G. (a cura di), Atlante della Letteratura, vol. 2, Einaudi, Torino 2011, pp. 387 - 409

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 25/08/20)

Dizionario Biografico degli Italiani alle voci:

Urbano VIII, papa (http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-urbano-viii_%28Dizionario-Biografico%29/ ultima consultazione 25/08/20)

Barberini, Francesco (http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-barberini_(Dizionario-Biografico) ultima consultazione 25/08/20)

Barberini, Carlo (http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-barberini/ ultima consultazione 25/08/20)

Enciclopedia Treccani alla voce Barberini, Famiglia (http://www.treccani.it/enciclopedia/barberini_%28Enciclopedia-Italiana%29/ ultima consultazione 25/08/20)