IL CASTELLO-FORTEZZA DI CORIGLIANO D’OTRANTO

A cura di Letizia Cerrati

 

 

 

Tra il Cinquecento e il Settecento i castelli imponenti, gli eleganti palazzi baronali, le sontuose dimore cittadine e le ville extraurbane rappresentavano lo status symbol degli aristocratici.

Le architetture fastose costituivano infatti l’occasione per i nobili proprietari, marchesi, conti o baroni, di trasmettere al mondo esterno il rilievo del ruolo di primo piano da essi ricoperto nella società.

Nel Regno di Napoli, perciò anche nel Salento, durante il periodo barocco molte fortezze persero la loro finalità difensiva trasformandosi in confortevoli dimore attraverso mirati interventi di ristrutturazione che si concentravano perlopiù sulle facciate, sui balconi e sulle finestre, sull’involucro della costruzione per farla breve.

Gli ambienti esterni erano, naturalmente, i primi a catturare l’attenzione degli osservatori, diventando motivo di orgoglio e occasione di ostentazione di potere e ricchezza per i padroni.

Il Castello di Corigliano d’Otranto nella sua forma attuale costituisce un perfetto esempio della conversione da fortilizio a dimora nobiliare.

Nonostante l’incrostazione spiccatamente barocca, il Castello, a pianta quadrata e munito di fossati e torrioni circolari, conserva l’anima di una fortezza militare, memore della strenua vittoriosa resistenza contro l’assedio dei Turchi nel 1480.

Fu la famiglia di Francesco I de’ Monti, che spiccò durante la resistenza all’assalto turco, a ristrutturare ed ampliare la struttura a partire dal 1505, lavori che furono poi portati a termine dal marchese Giovan Battista nel 1534.

I torrioni, corredati di iscrizioni e sculture, sono da ascrivere a questa ristrutturazione: su ognuno di essi campeggia un bassorilievo di un santo e lo stemma dei de’ Monti con le Virtù Cardinali, rispettivamente sui torrioni posti a nord-ovest e a sud-est spiccano due santi eremiti, Sant’Antonio abate con la Temperanza e S. Giovanni Battista con la Giustizia, mentre due santi guerrieri sono sui torrioni a sud-ovest e a nord-est: San Giorgio con la Prudenza e San Michele Arcangelo con la Fortezza.

Nel Seicento poi, affreschi con le Virtù Cardinali riempiranno la volta dell’ambiente interno principale del Castello situato al piano nobile.

Lo spirito barocco che permea l’edificio si deve invece alla famiglia dei Trane ed alla straordinaria perizia tecnica dell’architetto Francesco Manuli, nativo di Corigliano, da molti ritenuto il responsabile della riprogettazione.

Luigi Trane acquistò il Caastello dall’ultimo discendente dei de’ Monti, che venne poi ereditato dal figlio Francesco nel 1658, che divenne duca nel 1664, la cui statua domina la facciata, in posizione centrale, racchiusa in una nicchia strombata, internamente decorata con piccole stelle e inquadrata da una trabeazione a greca; il committente è abbigliato come un cavaliere gerosolimitano, con posa sicura e sguardo altero è reso immortale nella pietra.

 

Il prospetto è datato 1662 come testimonia il cartiglio posto sotto la nicchia centrale, che fa riferimento a Francesco Trane “dominus status Coriolani” e rimanda al significato espresso dalle due statue nelle nicchie laterali adiacenti a quella del committente, sono Giustizia e Carità, attributi distintivi del duca, che lo scortano e sembrano fargli da guida, ispirando le sue gesta e impregnando il suo spirito.

“PONDERAT HEC CULPAS HEC HEXIBET EBERA NATIS / HIC ASTREA MICANS HINC PELICANUS AMANS” [Questa giudica i misfatti, l’altra porge le mammelle ai figlioletti; da un lato la splendente Astrea, dall’altro l’amorevole Pellicano].

Il corpo centrale della facciata, su di un piano avanzato rispetto alle ali laterali, è corredato di una balaustra fitta di decorazioni, in cui sono stipati piccoli putti, intricati fiori e piante pietrificati, animaletti e misteriose maschere espressive. In questa folla di personaggi campeggia l’arme della famiglia, rappresentato da un drago munito d’ali, che punta una stella a sei raggi e stringe tra gli artigli un toro afferrato dalle corna. Sotto di esso una singolare testa urlante con lunghi capelli riccioluti, emette un silenzioso ed agghiacciante grido; con fronte corrugata e atteggiata in una smorfia quasi inorridita sembra quasi chiedere aiuto ai passanti. La balaustra è sorretta da una serie di mensole figurate, anch’esse raffiguranti bizzarri soggetti mitici, tra cui colpisce un’inquietante figura femminile bicefala.

 

Un corteo di personaggi illustri e figure allegoriche accompagna il committente, popolando i due lati della facciata. Su ogni lato è un’alternanza di cinque nicchie e quattro finestre, queste ultime sovrastate da busti circondati da ghirlande di alloro. A destra protagonisti sono grandi conquistatori della storia: Tamerlano, tiranno spietato e sprezzante, Giorgio Castriota Scanderbergh, valoroso paladino dell’indipendenza albanese contro le invasioni ottomane, il celebre Cristoforo Colombo e Cangrande della Scala, grande condottiero ed esponente della dinastia scaligera e, per ultimo, un Suonatore di cetra.

Un memorialista del Settecento sosteneva che le epigrafi in latino al di sopra delle finestre si riferissero alle statue allegoriche, escludendo quindi il riferimento, da altri studiosi sostenuto, ai busti.

Le suddette iscrizioni molto probabilmente furono ideate dall’intellettuale autoctono Andrea Peschiulli, che alcuni studiosi ritengono essere anche l’artefice dell’intero programma iconografico del prospetto del Castello.

“SAEVUS HIC INSONTES TORTOR PROCUL ESTE SCELESTIS” [Qui è lo spietato torturatore degli innocenti, state lontani o scellerati] è attinente alla statua del Castigo, benché appaia lampante il riferimento a Tamerlano ed alle sue imprese; “NOSCITE VOS IPSOS VIVITE MISSE PARI” [Conoscete voi stessi, vivete di conseguenza] è collegata alla Misura del Tempo e dello Spazio.

“SIC IACIT UT QUOCUMQUE VELIT LEVIS ADVOLET ASTA” [La scagli in modo che ovunque voglia la lancia s’involi veloce] fa riferimento all’Ingegno; “SUSTULIT ALCIDES MUNDUM, NUNC AETHERA SCANDIT” [Ercole sostenne il Mondo, ora ascende ai cieli] rimanda invece alla figura della Tolleranza.

A sinistra campeggiano grandi condottieri, per la maggior parte vissuti tra il XV e il XVI secolo: Consalvo de Cordoba, prima un hidalgo e successivamente Gran Capitano, Jacopo Capece Galeota, il marchese di Pescara Ferdinando d’Avalos e Antonio de Leva, nobile capitano spagnolo.

Le fonti che ispirarono la scelta dei personaggi potrebbero essere per i busti gli Elogia virorum bellica virtute illustrium di Paolo Giovio, da cui sarebbe però assente la biografia di Jacopo Capece Galeota, mentre per quanto riguarda le statue allegoriche esse potrebbero derivare dalla popolare Iconologia di Cesare Ripa.

Le epigrafi sul lato sinistro iniziano con il riferimento all’ Ardire magnanimo e generoso: “FORTIA NON METUENS UT VILIA CONTERIT AUDAX” [La persona artita, non avendo paura, affronta le azioni eroiche al pari di quelle di poco valore], segue la Fortuna con “CUI DUX VIRTUS ERIT FUERIT COMES ISTA PERENNIS” [A chi sarà guidato dalla virtù costei gli sarà sempre compagna], alla Fierezza corrisponde l’iscrizione: “FIRMIUS EST ROBUR SI IUNCTA EST VIVIDA VIRTUS” [Più salda è la forza se è accompagnata dalla vivida virtù], infine, la Verità tuona: “TEMPORE FACTA PROMO DISCITE TERRIGENE” [Imparate uomini dalla terra, a tempo debito faccio mostra di imprese gloriose].

I motti e le iscrizioni che si susseguono sulle mura del Castello di Corigliano sono moniti, insegnamenti di sorprendente attualità, che possono nutrire gli animi degli astanti odierni e offrire loro saggi consigli a distanza di secoli dalla loro incisione sulla pietra.

 

Dopo vari cambi di destinazione d’uso, frantoio ipogeo, mulino a vapore e tabacchificio, attualmente il Castello è di proprietà del Comune ed è adibito a spazio e laboratorio creativo e culturale.

La pietra leccese anche in questa stupefacente architettura dimostra di essere il materiale più adatto a rendere vivo e parlante un edificio, a popolarlo di personaggi che sembrano respirare e muoversi grazie a dettagli oltremodo realistici, ad accogliere le diverse tonalità e temperature della luce, che su di essa cade sempre morbida e aggraziata, avvolgendola con un’atmosfera incantata.

 

 

 

Le foto all'interno dell'articolo sono state scattate dalla redattrice dell'articolo.

 

 

 

 

Bibliografia

Cazzato, Il barocco leccese, in Itinerari d’arte, a cura di M. Rossi e A. Rovetta, Bari-Roma, Laterza, 2003

Cazzato (a cura di), La “Galleria” di palazzo in Età Barocca dall’Europa al Regno di Napoli, Atti del Convegno internazionale di studi, Cavallino di Lecce nel 2015, Galatina, Mario Congedo Editore, 2018

 

Sitografia

https://ilcastellovolante.it/il-castello/la-storia/


CHIESA DEL CROCEFISSO DI GALATONE

A cura di Letizia Cerrati

 

Lo scrigno del miracolo

 

Le origini della Chiesa del Crocefisso sono radicate alle soglie del XIV secolo, quando un pittore ignoto, probabilmente un monaco proveniente dall’Oriente, dipinse un Crocefisso secondo il modello iconografico dell’Imago pietatis su di una parete nei pressi delle mura orientali della città di Galatone.

L’icona fu, da quanto rivelano le fonti, a disposizione della venerazione dei fedeli di passaggio e rivelò ben presto le sue doti miracolose.

Il potere delle immagini si fa prodigioso in questa storia, diventa addirittura salvifico durante gli anni dell’assalto dei Turchi alla Terra d’Otranto (1480-1481), si ritiene infatti che il pericolo dell’assedio turco scampato dalla città fu opera divina della sacra icona. Quest’ultima era tra l’altro collocata su una parte delle mura cittadine particolarmente malmessa, esattamente in prossimità di un varco che avrebbe potuto essere la porta d’accesso per gli assalitori.

Il miracolo impresso nella memoria collettiva, quello per cui a tutt’oggi è nota la Chiesa, in conseguenza del quale quest’ultima fu edificata, è quello della notte del 2 luglio 1261.

Soffocati dalla calura estiva, intorpiditi dall’aria ferma e appiccicosa di una notte d’estate salentina, un gruppo di persone alla ricerca di refrigerio, lo trovò nelle vicinanze dell’edicola votiva contenente l’immagine sacra. D’improvviso dall’icona si scorse un bagliore che si faceva man mano più intenso; subito dopo il prodigio si compì davanti agli occhi meravigliati degli astanti: la mano sinistra del Cristo ritratto ad affresco uscì dalla nicchia come fosse viva e reale, spostò il velo che la ricopriva e mise dietro la schiena le braccia che prima aveva incrociate davanti alla cintola. In questa posizione rimase per sempre.

Lì dove avvenne l’evento prodigioso fu realizzato subito un sacello, mentre le autorità religiose cercarono di verificare l’autenticità di quanto accaduto. Nei mesi a seguire l’umile cappellina in cui era custodita l’icona fu abbellita e successivamente ebbero inizio i lavori per la costruzione della chiesa, diretti dai maestri neretini Sansone e Pietrantonio Pugliese, col sostegno di Monsignor De Franchis.
La chiesa fu aperta ai fedeli il 3 maggio del 1623, ma non ebbe lunga vita, nel 1683 infatti un crollo improvviso ne causò la distruzione, l’icona fu, però, prontamente restaurata e per il nuovo edificio fu decisa una forma più solenne e fastosa.

I lavori furono portati avanti alacremente da illustri architetti, intagliatori e artisti fino al 1696 e la chiesa fu consacrata dal vescovo Antonio Sanfelice nel 1711.

L’intenzione di committenti e artefici era quella di allontanarsi da un concetto di edificio sacro austero ed eccessivamente severo, per creare un ambiente congeniale alla schiera di fedeli devoti che si sarebbe assiepata in preghiera davanti all’icona miracolosa. Non solo quindi un luogo ideale per il raccoglimento spirituale, ma soprattutto un posto adatto ad accogliere quell’eterno miracolo, che sarebbe diventato elemento d’identità collettiva di un intero paese.

Niente fu lasciato al caso, ogni scelta, dalla facciata alle decorazioni interne, era in funzione di un disegno complessivo, portatore di un messaggio ben preciso, di un determinato tratto emotivo, perseguendo il “principio barocco dell’arte come persuasione”.

 

I contributi di fra’ Niccolò e quelli di Giuseppe Zimbalo furono i più significativi.

Il celebre architetto impresse alla chiesa la sua inconfondibile impronta artistica, inserendo elementi tipici del suo linguaggio.

La facciata a gradoni fu realizzata con due materiali diversi a cui si deve la bicromia, pietra leccese e carparo, e si sviluppa in verticale, caratterizzata dall’uso, tipico di Zimbalo, delle paraste ribattute scanalate, di dimensione esattamente uguale alla metà della larghezza della parasta intera.

Cinque di queste marcano il primo ordine della facciata, mentre sul portale principale risalta la statua in pietra di Cristo crocefisso protetto da un piccolo baldacchino retto da due putti.

Non mancano i trionfi vegetali che mettono in evidenza punti rilevanti della facciata, si tratta di festose decorazioni effimere immortalate nella pietra che rimanderebbero alla fertilità della terra ed al tema dell’abbondanza, o forse alla caducità della vita ed alla fragilità dell’uomo.

Nelle nicchie inferiori vi sono statue degli Evangelisti, quelle superiori ospitano invece San Sebastiano e San Giovanni Battista. Gli apostoli Pietro e Paolo poggiano sulle volute di raccordo, mentre l’Arcangelo Michele e l’Angelo Custode sono posti sul fastigio.

Altri simboli di prosperità sono i festoni, di piccole dimensioni presenti al di sotto del finestrone centrale. Quest’ultimo è caratterizzato da una sorta di motivo a traforo, con ottagoni e quadrilobi che si alternano creando un effetto suggestivo.

 

Lo spirito barocco preannunciato dal prospetto raggiunge il culmine all’interno dell’edificio.

La chiesa ha una pianta a croce latina, con quattro cappelle laterali e un transetto non sporgente, coperto da un tamburo ottagonale con cupola, decorata con l’affresco del Ritrovamento della croce da parte di Sant’Elena.

La cupola è retta da quattro pilastri con statue dei Dottori della Chiesa, risalenti al 1714.

Notevoli sono le opere in legno intagliate da Aprile Petrachi da Melendugno, l’organo, la cantoria e il soffitto a cassettoni.

Nello sfarzo e nello splendore che permea l’intero ambiente interno della chiesa, il fedele è catturato dalla piccola icona leggendaria, questa, seppur segnata dal tempo e quindi non più totalmente visibile, è ammantata da un’aura soprannaturale, infatti, nel trionfo dell’imponente altare maggiore, su cui lo sguardo non riesce a rimanere fermo, attirato da preziose decorazioni, spicca la piccola icona con un disegno essenziale e colori tenui e smorzati. 

 

Tra le magnifiche dorature che valorizzano l’intera scultura, protetta dalle doppie colonne poste ai lati quasi fossero possenti guardiani, è la piccola icona, noncurante di tutto quello sfarzo, semplice e forse proprio per questo dotata di inestinguibile forza evocativa.

La profusione di oro e le decorazioni sontuose conferiscono alla chiesa una teatralità tipicamente barocca, ma il sentimento di partecipazione al sacrificio di Cristo emana da quell’immagine, il vero significato su cui si regge l’intero santuario è in essa custodito.

 

Guardandola intensamente si avrà l’impressione di sentire affiorare nella memoria le parole dal Vangelo di Matteo (6, 19-21): Non accumulate tesori sulla terra, […] ma accumulatevi tesori nel cielo […] Perché là dov’è il tuo tesoro, ci sarà pure il tuo cuore.

La Chiesa del Santissimo Crocefisso di Galatone è un prezioso scrigno, custodisce traccia dell’eterno miracolo che sempre si rinnova, come una lacrima miracolosa che scava nel tempo e nei cuori, ricordando che Cristo è crocifisso ogni giorno, nei secoli, in ogni uomo che è oppresso e perseguitato ingiustamente.

 

 

 

Tutte le foto sono state scattate dalla redattrice dell'articolo.

 

 

 

Bibliografia

Vincenzo Cazzato, Il barocco leccese, in M. Rossi, A. Rovetta (a cura di), Itinerari d’arte, Roma, Laterza, 2003

Vincenzo Cazzato, Costanti grammaticali e sintattiche nelle architetture di Giuseppe Zimbalo, in Annali del Barocco in Sicilia, 2017


LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE

A cura di Letizia Cerrati

 

Un prezioso tesoro nel centro storico di Maglie

 

La popolarità di Maglie è sostanzialmente recente, in tempi moderni si è infatti andata consolidando la sua immagine di cittadina tra le più importanti di tutta la realtà salentina, ricca di floride attività commerciali, vivace centro culturale, depositaria di tradizioni ed importanti espressioni artistiche.

Il celebre studioso salentino Cosimo De Giorgi  sul finire del XIX secolo descriveva la città come un piccolo paese di contadini, artigiani e commercianti, interessato successivamente da una straordinaria espansione urbana che l’aveva trasformata in una graziosa cittadina, il cui incalzante sviluppo “non trova forse riscontro con nessun altro paese o città di Terra d’Otranto”. 

Maglie diventa quindi prestigioso centro, snodo chiave dell’area sud, del territorio del Capo di Leuca, sito influente anche per la presenza delle cave situate tra Cursi e Melpignano da cui si estraeva la rinomata pietra leccese.

La chiesa di S. Maria delle Grazie, commissionata dalla confraternita della Natività, in passato nota col nome di chiesa della Congregazione, fu edificata dal 1602 e completata nel 1618.

Quando la decorazione fu portata a termine la chiesa divenne l’edificio cittadino maggiormente affine alla cifra stilistica delle architetture dell’epoca.

Situata sull’antica via S. Basilio, l’odierna via Roma, in prossimità della Colonna della Madonna delle Grazie, sembra quasi segnare l’estremità del centro storico della città. 

Due lesene incorniciano una facciata piuttosto lineare, il cui stile essenziale, lontano dalla fastosità barocca, è interrotto dal portale seicentesco che, frutto della sfrenata fantasia di Giovanni Donato Chiarello, si schiude al centro. 

Datato 1648 (come indica la data alla base del cartiglio sottostante la statua della Madonna sul portale centrale) fu scolpito dal magister statuarius che più si discosta dagli altri architetti del Barocco leccese; di questi ultimi egli fece tesoro di alcune lezioni di stile, facendo suoi specifici elementi decorativi che disseminò sapientemente nelle sue opere, caratterizzate da una composizione solenne che pure si lascia andare a forme fiabesche ed a tratti stravaganti.

Il portale, sormontato da una flessuosa statua della Madonna col Bambino verso cui si rivolgono due piccoli putti alati, è inquadrato da due colonne tortili, sulle quali si avvolgono spirali e volute che ne scandiscono il volume, queste poggiano su alti basamenti caratterizzati da profili di due volti dalle fattezze umane, che riecheggiano la maniera di Cesare Penna. 

Una semplice finestra rettangolare centinata corona il portale.

Nel 1658 furono portati a termine, dal concittadino di Chiarello Ambrogio Martinelli, i lavori di costruzione del timpano triangolare che chiude l’architettura religiosa e sovrasta il fregio continuo che corre sulle maestose lesene, al centro del quale è la testina di un angelo.

Il timpano, su cui si erge una croce, è ornato dalla testa di un putto di grandi dimensioni a cui si collegano, mediante drappi, due particolareggiati festoni vegetali; all’apice è posto invece un cartiglio che reca la data della fine dei lavori.

L’ambiente interno è a navata unica quadrangolare in cui spicca un unico grandioso altare, che riempie interamente la parete di fondo. 

 

Anche l’altare è opera del Chiarello: i suoi motivi decorativi sono spalmati su tutta la struttura, l’horror vacui trionfa e la decorazione si spinge sino a diventare parossistica.

L’elemento è svelato da due drappi laterali da cui si affacciano le coppie di colonne tortili, le cui spirali sembrano svilupparsi dai balconi miniaturizzati posti al di sopra dell’entasi, sormontate poi da timpani spezzati.

 

Puttini nudi di cui si è conservata la policromia sono abbarbicati alle decorazioni dorate che si arrampicano sulle colonne ed alleggeriscono la gravità dell’opera.

In posizione centrale, al di sopra delle colonne, un baldacchino che accoglie un’Incoronazione della Vergine, anch’esso stratificato di minuziose decorazioni, è sorretto da due angeli.

 

Una pala ad olio di grandi dimensioni, ascrivibile al XVII secolo, raffigurante la Madonna col Bambino, accompagnata da Sant’Antonio Abate, Sant’Antonio da Padova, San Basilio e dal committente Salvatore Droso, si staglia al centro della macchina d’altare.

Una veduta della città di Maglie, probabilmente risalente all’Ottocento, era sistemata in passato proprio sotto la figura della Madonna; i recenti restauri hanno optato per la sua rimozione.

De Giorgi definì l’opera del Chiarello “di un’architettura barocca molto trita”.

Successive sono le dodici tele con gli Apostoli appese sulle pareti laterali, risalenti al XVII secolo.

La volta è totalmente ricoperta da affreschi, opera di artista ignoto, caratterizzati da una luminosa armonia di colori che ben si accorda col bianco dell’intonaco circostante, al centro un cordone delimita i medaglioni con le figure dei quattro Evangelisti, che a loro volta sono collegati ad un ottagono dentro cui si agita un festoso corteo di putti.

 

Al di sopra dell’altare maggiore la decorazione murale ritrae l’Invocazione delle genti per la venuta del Messia con angeli musicanti, uno tra i primi splendidi esempi di iconografia musicale al tempo del Barocco.

I temi degli affreschi paiono sviluppare la contrapposizione peccato/virtù, infatti, nelle vele della controfacciata ad essere raffigurata è la Cacciata dei Progenitori dall’Eden, simbolo per eccellenza di punizione divina scaturita dalla colpa dell’uomo, mentre nell’abside la scena di Gloria in Paradiso può facilmente essere interpretata in chiave di salvezza dell’anima concessa dalla Vergine.

Un percorso di redenzione che culmina nell’abside ma che può essere letto anche procedendo in direzione inversa, ovvero uscendo dalla chiesa ed alzando lo sguardo sulla controfacciata.

Il fedele che agisce secondo virtù ed obbedisce alle leggi divine sarà accolto da uno stuolo di angeli musicanti in uno spazio celestiale scevro di rumori assordanti, attraversato soltanto dalla musica paradisiaca.

Ancora una volta ritorna il motivo del drappo, un panneggio ricco pende sul concerto degli angeli, dà l’idea di essere pesante da sostenere, di un tessuto spesso che i piccoli putti fanno fatica a sostenere, tanto che due tra quelli recanti tra le mani i girali gialli e verdi li aiutano a tenerlo sollevato con espressione concentrata. La resa finale è splendida: un sipario che si apre sulla scena sacra.

 

Nell’abside il trionfo del Paradiso, nella controfacciata Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre, ricordano al fedele che si appropinqua verso l’uscita a cosa si va incontro disobbedendo a Dio. La scena cattura il momento in cui i progenitori sono fatalmente espulsi dal giardino dell’Eden.

Il messaggero divino è l’arcangelo Michele che, secondo i vangeli apocrifi della Vita Adae et Evae, sostituiva il Creatore durante la Cacciata.

Una figura imponente, con sguardo severo, il cui gesto della mano perentorio condanna per sempre l’umanità attraverso i progenitori.

Varie specie animali circondano i protagonisti della scena, immersi in una natura lussureggiante, simbolo dell’abbondanza e del benessere imperturbabile che l’uomo si accinge a lasciare per sempre.

Anche quest’affresco è svelato dagli angioletti affaccendati ritrovati nella scena dell’abside.

 

L’organo, situato sulla cantoria dell’ingresso è opera di Nicola Mancini, un organaro di origine napoletana.

L’armadio in legno a destra della navata ospita al suo interno una regale statua della Madonna col Bambino che indossa un abito riccamente decorato in oro, tessuto dalle suore clarisse di Soleto.

 

Di impressionante realismo è il Cristo morto, opera dello Studio Stuflesser, racchiuso in una teca lignea posta sulla parete sinistra.

 

 

 

Tutte le foto presenti all'interno dell'articolo sono a cura della redattrice.

 

 

 

Bibliografia

Emilio Panarese, Mario Cazzato, Guida di Maglie, Storia Arte Centro Antico, Galatina, Congedo Editore, 2002

Vincenzo Cazzato, Simonetta Politano L’altare barocco nel Salento; da Francesco Antonio Zimbalo a Mauro Manieri, in Raffaele Casciaro, Antonio Cassiano (a cura di), Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, Roma, De Luca Editori Arte, 2008

Elsa Martinelli, Un documento di iconografia musicale barocca. Gli angeli musicanti negli affreschi di Santa Maria delle Grazie a Maglie, in AA. VV., Itinerari di ricerca storica VI-1992, Galatina, Congedo Editore, 1993

 

Sitografia

https://cartapulia.it/dettaglio?id=133460


LA MASSERIA BRUSCA, IL GIARDINO DEL TEMPO SOSPESO PT II

A cura di Letizia Cerrati

 

Fu l’insigne Iconologia di Cesare Ripa a fornire la dettagliata descrizione delle personificazioni dei Continenti, soprattutto grazie alla seconda edizione del 1603 che, essendo corredata di illustrazioni, divenne la fonte principale su cui si basarono le rappresentazioni iconografiche dei Continenti per i secoli a venire.

 

Le sculture del Giardino delle Statue si attengono alle caratteristiche citate dal Ripa, a cominciare dall’America, raffigurata svestita, con capelli lunghi fino alle spalle e copricapo piumato, equipaggiata di arco e faretra. Un pappagallo poggia ai suoi piedi rimandando, come animale esotico, alla fauna tipica del luogo. Oltre a quest’ultimo si scorge un arto ferocemente mozzato, che simboleggia la brutalità che si riteneva distintiva di quei popoli, presso alcuni dei quali, come ricorda la testa amputata stretta dalla chioma nella mano della figura femminile, era diffuso il cannibalismo.

Pomona accanto ad America, era la dea della frutta, come si evince dal nome derivante dal latino pomum, questa faceva parte delle divinità minori o “dei minuti”, amava trascorrere le giornate nel suo giardino, prendendosi cura degli alberi da frutto: ne sfoltiva le chiome, li dissetava annaffiandoli e si impegnava negli innesti.

Bellissima e procace, allo stesso tempo timida e riservata, preferiva le gioie della natura e della vita campestre alla compagnia maschile, che cercava ostinatamente di evitare, arrivando persino ad erigere alti muri intorno ai suoi orti col fine di sottrarsi agli sguardi invadenti degli uomini.

Fu Vertumno, sfruttando la capacità di cambiare aspetto a suo piacimento, a farla ricredere.

Dio della trasmutazione, poteva essere chiunque pur rimanendo uno solo, come dice il suo nome che tradizionalmente si collega al verbo vertere, col significato appunto di voltare.

Alcuni ritengono che fu il dio stesso a causare il cambiamento del corso del Tevere, mentre per altri il suo nome si deve alla natura di divinità agricola, responsabile del susseguirsi e del variare delle stagioni, perciò omaggiato coi frutti del primo raccolto.

 

Regina indiscussa del Giardino è l’Europa, vestita di splendidi abiti simboli della prosperità del continente, sfoggia una sofisticata acconciatura arricchita dalla corona, reca in una mano un grappolo d’uva rappresentante l’abbondanza, mentre il modellino del tempio, rimando alla religione cristiana, avrebbe dovuto trovarsi nell’altra.

Le fa compagnia Flora, col capo cinto da una ghirlanda-corona di boccioli, dea della Primavera, del risveglio brioso dopo la mestizia invernale, della fioritura, allegoria dell’eterna giovinezza, foriera di gioia e floridezza. La dea elargisce generosamente agli uomini i prodotti della natura, tra cui l’uva, il grano, i fiori ed il miele.

Sul lato opposto troneggia Fauno, divinità silvestre, protettore dei campi, favoriva il raccolto e la fertilità del bestiame, da cui Inuus (ineo, penetrare, entrare in), uno dei tanti nomi con cui era conosciuto; come Lupercus vegliava inoltre sui pastori e sugli armenti.

Per metà uomo e per metà caprone, è scolpito come un uomo anziano, rude e segnato dagli anni, con un’espressione afflitta sul volto barbuto e provvisto di corna, con i capelli scarmigliati e le orecchie a punta. Le suddette caratteristiche fisiche sono attribuite anche al personaggio mitologico greco Pan.

Alcuni studiosi ritengono che l’appellativo latino derivi dal verbo faveo (essere propizio, favorire), altri che provenga dal verbo fari (parlare), da cui ha origine la parola fatum (destino).

Quest’ultima teoria rimanda al suo ruolo di divinità profetica, in quanto ciò che egli presagiva puntualmente si avverava; gli uomini, infatti, temevano ma supplicavano di ricevere i suoi oracoli.

L’epiteto Incubus fa riferimento al diletto che egli traeva nel tormentare gli uomini con terribili visioni oniriche.

 

Il terzo quarto di cerchio è occupato dall’Africa, effigiata seminuda, coperta soltanto da un lungo mantello panneggiato che corre dalla testa, si posa sulla spalla ed è trattenuto sul basso ventre dalla mano destra. Un sole fitto di raggi le fa da corona, una cornucopia, simbolo di fertilità, spunta dalla mano sinistra, mentre ai suoi piedi si scorgono alcuni aspidi.

È accompagnata dai due poli maschile e femminile connessi con le tematiche venatorie e campestri, Diana e Silvano.

Entrambi sono scortati dai fedeli segugi, accucciati al lato dei rispettivi busti.

Diana nella mitologia latina fu presto identificata con la greca Artemide.  Dea amante della caccia, protettrice della natura selvaggia[1], presiedeva al ciclo della fertilità femminile, vegliava pertanto sulle partorienti e sulle puerpere, sui bambini e sugli animali da latte.

Depositaria della verginità, chiese al padre alcuni doni, tra i quali la verginità eterna.

Puniva senza pietà coloro che tentavano di attentare alla sua castità (celebre è il mito di Diana e Atteone).

Vergine dall’Arco d’Argento, dea lunare, quest’attributo rappresenta la luna nuova e potrebbe essere connesso con l’influenza delle fasi lunari sulle coltivazioni; la dea esercitava infatti il suo potere anche sulla fecondità dei campi.

Venerata anche nell’aspetto di Vegliarda, si accompagnava con Ninfe, sue sacerdotesse, con le quali trascorreva le giornate nei luoghi che più amava: radure e foreste. Da queste ultime pretendeva il rispetto dell’illibatezza.

Silvano, dio dei boschi, da silva (bosco), protettore dei campi e dei pascoli, presiedeva al benessere del bestiame.

Iniziatore della pratica dell’orticoltura (plantatio), la trasmise agli uomini: per questo motivo i proprietari terrieri lo onoravano con le primizie dei loro poderi.

I signori lo veneravano nella sua triplice forma: orientalis, delimitante i confini del terreno; agrestis, operava la distinzione nel podere dell’area per il bestiame ed infine dimesticus, che distingueva l’ambiente esterno da quello intimo dell’abitazione, da quest’ultima era tassativamente escluso.

In occasione della nascita di un bambino egli era tenuto lontano dalla casa dai tre dèi minuti, in quanto ritenuto deleterio per gravide e neonati; il suo culto era inoltre proibito alle donne.

 

L’ultimo continente presente nel Giardino è l’Asia, raffigurata attenendosi alla percezione stereotipata che l’Occidente aveva di questa terra: traboccante di tesori, tessuti pregiati e spezie.

Di seta sembra tessuta l’esotica tunica riccamente ornata che indossa, impreziosita da merletti, fiocchi e da un turbante punteggiato di pietre preziose.

Allude invece alle sofisticate essenze profumate d’Oriente l’incensiere che reca nella mano sinistra.

Cerere e Bacco conversano con l’Asia; la prima, corrispondente alla Demetra greca, era la dea dei campi di grano, pertanto associata alla stagione estiva ed al pane, alimento universale, cibo fondante per l’intera umanità.

Il secondo, il greco Dioniso, era il dio inventore del vino, bevanda degli dèi, inebriante strumento di conoscenza mistica.

Due figure che incarnano dovizia e fertilità, benessere e appagamento dei sensi.

Cerere/Demetra, dal nobile animo, impersonava la produttività e l’abbondanza dei frutti della terra,

veniva celebrata come divinità che insegnò l’arte dell’agricoltura; la diffuse per mezzo di Trittolemo, inviato per il mondo con lo scopo di istruire gli uomini su come praticarla.

Sfruttando i suoi poteri, furibonda e addolorata per la scomparsa della figlia Core/Persefone, impedì alla vegetazione di crescere sulla Terra finché non raggiunse un accordo col dio dell’oltretomba che l’aveva rapita.

Il mito greco che racconta dell’unione della dea su un campo arato tre volte col Titano Giasio rievoca un rituale di fertilità praticato fino a tempi recenti nelle Penisola balcanica.

Probabilmente il Titano e la dea del grano erano soliti rinnovare il rituale apotropaico in occasione delle arature autunnali, al fine di assicurare un raccolto abbondante.

La figura di Bacco/Dioniso, dio della viziosa ebbrezza, allegoria del piacere e dell’abbandono del pudore che annebbia i sensi, è legato alla diffusione del culto della vite in Europa, in Asia e in Africa settentrionale.

Il dio viaggiava per il mondo, accompagnato da Sileno e dal suo seguito di Satiri e Menadi.

Le armi di queste ultime consistevano prevalentemente in bastoni con la punta costituita da una pigna e rivestiti d’edera rampicante, conosciuti come tirso.

La statua del Giardino reca in una mano un calice e nell’altra un grappolo carico di acini d’uva, come a voler rimarcare il ruolo di Bacco quale divinità a cui spetta il merito dell’affermazione della supremazia del vino come bevanda inebriante.

Il dio fu detto anche Dendrite (giovanetto-albero), linfa che nutre gli alberi, che fa aprire i germogli, celebrato durante la Festa di Primavera, nel periodo in cui la natura esplode di mille colori e profumi e tutta l’umanità è partecipe del suo risveglio.

 

Dopo un bagno di bellezza tra storia, arte e mitologia, percorrendo il viale che conduce sullo spiazzo facente fronte alla masseria, la sensazione che pervade il visitatore è quella di pienezza e di pace.

La Masseria Brusca è una piccola oasi radiosa, un luogo ameno in cui perdere piacevolmente la cognizione del tempo.

 

 

Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo

 

 

Note

[1] si ricollega in questo aspetto alla cretese “signora della selvaggina”

 

 

 

 

Bibliografia 

Vincenzo Cazzato, Il giardino di Statue della masseria Brusca a Nardò, teatro del Mondo e degli Dei, in Interventi sulla “questione meridionale”, Saggi di storia dell’arte, a cura del Centro di studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale “Giovanni Previtali”, Donzelli, Roma, 2005

Scheda Brusca Guida ADSN

Robert Graves, I miti greci, Longanesi & C., 2020

Licia Ferro e Maria Monteleone, Miti romani il racconto, Giulio Einaudi editore, Torino, 2010


LA MASSERIA BRUSCA, IL GIARDINO DEL TEMPO SOSPESO

a cura di Letizia Cerrati

 

 

 

La Masseria Brusca sorge nel territorio di Nardò, ai bordi della strada vicinale che porta dalla città alla litoranea ionica, in direzione di Torre Inserraglio, Sant’Isidoro e Porto Cesareo.

Potrebbe sfuggire allo sguardo distratto del visitatore di passaggio, protetta dall’anonimato di una piccola rientranza sul ciglio della strada.

La si raggiunge percorrendo un’ampia strada, immersa in un paesaggio rude e selvatico di terra rossa, punteggiato di orticelli, muretti a secco e pale di fichi d’india,

I panorami salentini evocano nell’immaginario collettivo una peculiare tipologia architettonica, quella della masseria.

Talune di un bianco abbacinante spiccano tra le zolle rosse di terra salentina, comprendendo al loro interno ampi cortili, fecondi terreni coltivabili, aree destinate al pascolo, che coesistono in armonia con sobrie dimore private.

La dimensione agreste della Masseria Brusca echeggia nel suo toponimo, che parrebbe derivare dall’omonima erba spontanea, nota anche come erba cavallina, anticamente utilizzata per strigliare il manto dei cavalli, da cui in seguito prese il nome la moderna spazzola con la medesima funzione.

La struttura fu costruita nel Cinquecento come abitazione rurale, costituita da una grande torre, utile anche per l’avvistamento degli invasori turchi, da stalle, fienili e aie, circondata da un alto recinto di pietre munito di paralupi[1].

A quel tempo la masseria era di proprietà della famiglia Carignani, nel 1721 passò nelle mani della famiglia Dell’Abate, in particolare del chierico Gian Vincenzo e poi del nipote Francesco Maria.

Seguendo una tendenza tipica della metà del Settecento i possidenti decisero di apportare notevoli modifiche all’edificio.

Si assistette in quel periodo ad un mutare della destinazione d’uso delle masserie: l’originaria funzione difensiva permaneva come mera reminiscenza, mentre acquisiva rilievo la volontà dei proprietari di rendere la costruzione più graziosa e confortevole.

Le masserie diventarono così luoghi di villeggiatura, connotate da caratteristiche architettoniche che le resero rifugi riposanti in cui i proprietari potevano ripararsi dal frastuono della quotidianità.

Lontani dai doveri, immersi in una rigenerante dimensione panica che coincideva con un nostalgico ritorno alle origini, alla genuina vita campestre, vi trascorrevano le loro giornate, anche se spesso soltanto per il periodo estivo, nei mesi della vendemmia o della mietitura.

Fu quindi coi Dell’Abate che la masseria acquisì note signorili, impreziosita da un sistema composito di giardini chiusi.

Nuovi ambienti vennero accorpati alla torre originaria ed il prospetto si arricchì di sette imponenti archi a tutto sesto sostenuti da pilastri, sui quali fu innalzata una vistosa loggia.

Gli archi sono tutti chiusi, ad eccezione di uno che, aperto su un lungo androne, conduce agli ambienti interni della masseria posti al piano superiore e di un altro che porta ad un cortile di servizio: corredano la facciata sette porte finestre.

Restauri e interventi di manutenzione sono sempre stati condotti nel rispetto delle caratteristiche originarie e delle peculiarità architettoniche della masseria, che conservandosi intatta si presta ad essere utilizzata come set cinematografico.

 

Il paramento murario esterno prosegue sulla sinistra con una piccola cappella palatina in onore della Madonna Immacolata, edificata nel 1736.

La facciata della cappellina è stata di recente restaurata, recuperando i tenui colori originari, che si accordano opportunamente al resto del complesso.

Le due zone, inferiore e superiore, di cui è composta sono raccordate da eleganti volute laterali; il portale è di modeste dimensioni, sobrio, ed è sovrastato da una altrettanto modesta nicchia ospitante la statua della Madonna.

Coppie di colonne libere su alti basamenti scandiscono la parte inferiore e distanziandosi dalla parete retrostante creano un delicato effetto di concavità.

Al di sopra della trabeazione, con un fregio decorato di rosette e quadriglifi, in corrispondenza delle due colonne estreme poggiano pinnacoli sferici.

Il gioco della concavità continua nella zona superiore con una trabeazione sporgente che poggia su due colonne con capitelli corinzi; il fregio è qui ornato con un motivo a piccoli festoni vegetali.

La struttura termina con un timpano triangolare fiancheggiato da un campanile a vela ruotato di 45°, rivolto nella direzione dei visitatori che accedono alla masseria, contenente una campana databile al 1636.

 

Proseguendo, all’estremità sinistra s’incontra il portale d’ingresso al Giardino delle Api che, scandito da quattro lesene e sormontato da cinque pinnacoli, ricorda nella forma una porta urbica e dà l’illusione di poter scorgere al di là il centro storico di un paesino.

È provvisto di recinto, rettangolare e diviso in quattro parti proprio come gli altri giardini della masseria, collocati sul lato opposto, ai quali si accede varcando un piccolo portale ad arco, chiuso da un cancello.

 

Il luogo che si schiude oltrepassata l’inferriata è un’anticamera incantata, un recinto circolare che funge da atrio al mandorleto, al frutteto ed al Giardino delle Statue.

Appare come una corte lussureggiante, fitta di vegetazione e rigata da qualche spiraglio di luce.

Uno dei giardini a cui si accede dall’anticamera verde è quello che contiene la torre colombaia.

Attorniata di mandorli, carichi di fiori con l’affacciarsi della primavera, ha una pianta quadrata e risale al XVI secolo.

Le torri colombaie sono strutture rurali, solitamente edificate insieme alle masserie, dall’aspetto imponente, massicce, simili a fortezze, ma nella realtà atte ad ospitare e ad allevare i piccioni, la cui carne era ritenuta una prelibatezza per palati più raffinati, nonché un’importante fonte proteica.

La torre inoltre fungeva da centro di raccolta delle deiezioni dei volatili, impiegate come concime naturale per i campi.

 

Il luogo di maggior interesse dell’intera struttura è il Giardino delle Statue, che accoglie i visitatori attraverso un’alta parete concava, sulla quale si spalanca un portale ad arco, sovrastato da un fascione formato da rettangoli recanti motivi geometrici e floreali.

Al di sopra l’architrave è interrotto dall’emblema in pietra della famiglia Dell’Abate, verso cui sono rivolti due dei busti scolpiti nel fregio.

 

Una selva lussureggiante trabocca dalle aiuole: piante sempreverdi ed esotiche, canne d’India con fiori scarlatti, rigogliosi cespugli di acanto crescono nella penombra di palme torreggianti.

Con la famiglia Zuccaro, attuale proprietaria della masseria, sul finire dell’Ottocento gli alberi da frutto furono sostituiti da piante ornamentali e fu modificato l’impianto del giardino anche mediante la risistemazione dei vialetti interni.

L’assetto è quadripartito, i due passaggi principali terminano con nicchie provviste di sedute sui lati, quelle collocate a destra ed a sinistra presentano sul fastigio lo stemma dei Gorgoni (le tre rose) e quello degli Orlandi.

Un pozzo seicentesco, meccanizzato nel Novecento, si trova al congiungimento dei due viali.

 

All’interno della nicchia corrispondente all’asse principale si legge, logorato dal tempo e dall’umidità, una pittura parietale della Madonna col Bambino entro un clipeo sorretto da angeli e svelata dietro una tenda dipinta come una quinta teatrale, fermata da due coppie di colonne disegnate simulando il marmo verde.

Su queste ultime si arrampicano delle roselline, attributi della Madonna e simboli di rinascita.

La Madonna è la rosa mistica delle Litanie Lauretane, la rosa priva di spine perché esente da ogni macchia di peccato originale.

Seguendo quell’asse si può interpretare il giardino come hortus conclusus, ritrovandone alcune caratteristiche tipiche tra le quali: l’essere delimitato da quattro mura, munito di una fonte d’acqua centrale come allegoria di Cristo e fonte di vita, abbellito con piante di rose (rimando alla Verginità di Maria e al sangue di Dio) e palme (simbolo di giustizia e gloria divina).

Il recinto che delimita il giardino potrebbe rappresentare il limite tra mondo fuori e mondo entro quelle mura, con la funzione di isolare ma anche di preservare.

La parete concava munita di portale d’ingresso potrebbe invece rimandare alla soglia d’entrata dell’hortus conclus medievale: il varco, il passaggio attraverso cui si accedeva al luogo simbolo del Paradiso Terrestre.

 

Intorno al pozzo, in ogni quarto del cerchio e divise a gruppi di tre, sono posizionate, le statue dei Quattro Continenti (l’Oceania non era ancora stata scoperta) affiancate ciascuna da una divinità mitologica femminile e una maschile.

Sono le figure leggendarie scolpite ad irretire il visitatore che, accomodandosi sui sedili in pietra frapposti tra di esse, può meravigliarsi davanti alle minuziose rifiniture con cui sono stati realizzati gli attributi che li contraddistinguono.

Le figure mitologiche sono ricorrenti e non sorprende la loro presenza nel giardino, mentre inconsueta è la scelta del gruppo dei Quattro Continenti; di frequente, infatti, i committenti optavano per le personificazioni dei Quattro Elementi della natura o delle Quattro Stagioni.

Ogni continente gode della compagnia di personaggi mitologici ascritti a temi campestri o pastorali, in quanto essi ricreano un clima bucolico e si ricollegano alle attività tipicamente praticate nelle masserie.

Sembra tuttavia non esserci un legame definito o definitivo tra i Continenti e le rispettive antiche divinità.

L’Africa è accompagnata da Diana e Silvano, l’Asia da Cerere e Bacco, l’Europa da Flora e Fauno, l’America da Vertumno e Pomona.

Fu l’insigne Iconologia di Cesare Ripa a fornire la dettagliata descrizione delle personificazioni dei Continenti, soprattutto grazie alla seconda edizione del 1603 che, essendo corredata di illustrazioni, divenne la fonte principale su cui si basarono le rappresentazioni iconografiche dei Continenti per i secoli a venire.

 

 

Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

 

Note

[1] Una sorta di lunga mensola di pietra che correva per tutto il muro di cinta, con la funzione di sbarrare il passo ai predatori capaci di arrampicarsi; costituita da lastre di pietra infilate nella parete, sistemate in orizzontale una accanto all’altra.

 

 

 

Bibliografia

Vincenzo Cazzato, Il giardino di Statue della masseria Brusca a Nardò, teatro del Mondo e degli Dei, in Interventi sulla “questione meridionale”, Saggi di storia dell’arte, a cura del Centro di studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale “Giovanni Previtali”, Donzelli, Roma, 2005

Scheda Brusca Guida ADSN

Robert Graves, I miti greci, Longanesi & C., 2020

Licia Ferro e Maria Monteleone, Miti romani il racconto, Giulio Einaudi editore, Torino, 2010


LA CHIESA DI SAN DOMENICO A NARDÒ: UN RACCONTO DI PIETRA IMMORTALE

A cura di Letizia Cerrati

 

 

 

Fulgido esempio di Barocco salentino, nella sua declinazione di Barocco neretino, la Chiesa di Santa Maria de Raccomandatis a Nardò è meglio conosciuta come San Domenico.

La data di costruzione è incerta, il complesso architettonico sorge su una delle più antiche aree di fondazione domenicana sul territorio (1300 circa).

Il convento originario andò distrutto a seguito dell’assedio e dell’incendio della città nel 1384 e della ricostruzione si occuparono i vescovi Giovanni Barella (1423-34) e Ambrogio Salvio (1569-77), coadiuvati dal popolo.

L’edificio attuale è frutto della ricostruzione promossa dai frati Domenicani che lo intitolarono a Sancta Maria de Raccomandatis nel decennio successivo alla Battaglia di Lepanto.

Il contratto, risalente al 14 dicembre 1580, stipulato alla presenza del notaio Francesco Fontò, testimonia che l’incarico fu affidato dai frati Domenicani all’architetto neretino Giovanni Maria Tarantino[1].

I lavori furono ultimati nel 1586, ma il terremoto che si abbatté sulla città il 20 febbraio 1743 causò ingenti danni alla struttura, soprattutto alla parte interna, risparmiando la facciata, la parete laterale sinistra ed una parte della sagrestia.

 

La chiesa ha pianta a croce latina, a navata unica, e presenta quattro cappelle in ciascun lato e il suo architetto è il massimo esponente di quella maniera neretina che fra Cinque e Seicento si contese il primato nel panorama artistico locale con quella leccese.

Questa sottile ma significativa differenziazione tra le due maniere contemporanee è rafforzata dall’impiego di un materiale di costruzione caratteristico nell’ambiente neretino, che induce alcuni studiosi a parlare di pietra barocca neretina riferendosi al carparo, diverso dalla pietra leccese ed anche da quella di Cursi o Maglie.

La chiesa domina oggi sullo spazio della piazza principale della città, catturando l’attenzione dei passanti, stregati dalle voci degli omuncoli di pietra, osservati dall’alto dai capitelli antropo-fitomorfi, dalle maschere e dai telamoni che affollano la facciata.

La facciata in carparo è un imponente monumento barocco, incrostato di reminiscenze di simbologia medievale e riecheggiante gli avori bizantini, soprattutto nella resa puntigliosa delle figure protagoniste. Dal 1580 vi lavorarono Giovanni Maria Tarantino, Giovanni Tommaso Riccio, Scipione de l’Abate e Scipione Bifaro.

Circa l’iconografia della facciata sono state avanzate numerose ipotesi, tra cui quella di un possibile coinvolgimento di Ambrogio Salvio, il teologo domenicano che soggiornò per un periodo a Nardò; tuttavia, questa fu costruita durante il vescovato di Cesare Bovio, che si avvaleva della collaborazione di Carlo Borromeo.

 

Gli altari barocchi sono spesso assimilabili a facciate chiesastiche in miniatura, viceversa l’impaginazione architettonica della facciata del San Domenico potrebbe evocare la struttura e la decorazione fitta e complessa di un altare barocco.

Il prospetto strutturato in due ordini sovrapposti si divide in mondo terreno e mondo celeste.

Il portale è di fattura più tarda, inquadrato da una struttura ad arco di trionfo, e si rivela immediatamente nella sua natura di inserimento posteriore rispetto al resto della facciata.

L’ordine inferiore inizia con un basamento alto, con i piedistalli delle colonne aggettanti e decorati con roselle e teste di profilo.

Sei colonne binate e scanalate, terminanti con capitelli con testine umane – con scanalature che si infittiscono ad un terzo dell’altezza, evidente grazie alla presenza di un collarino – dividono in tre parti la facciata.

Gli intercolunni ospitano teste barbute, piccoli festoni vegetali, putti nudi, seduti, capovolti o recanti vari attributi; una piccola schiera di personaggi grotteschi, foriera di uno spirito pagano, popola il prospetto, variando nell’aspetto a seconda di come cadono luci e ombre, nel fregio, invece, si scorgono altri occhi attenti: quelli dei mascheroni vegetali scolpiti.

La parte centrale, ai lati del portale è caratterizzata da motivi barocchi: volute, erme fogliate e barbute, grandi putti nudi che sostengono sulla testa canestri di frutta come fossero telamoni.

 

La zona inferiore si pone in un atteggiamento di subordinazione rispetto a quella superiore: il mondo mortale, pagano ed effimero, si inchina al mondo della Fede, della contemplazione e dell’eternità.

Nell’ordine superiore, trionfo del Regno di Dio e quindi della Redenzione, l’eccesso decorativo è abbandonato a favore di un’essenzialità dal tono sacro; le forme si alleggeriscono, perdono la pesantezza delle cose terrene ed acquisiscono la levità di quelle divine, su cui le ombre non paiono più posarsi.

L’impalpabilità che caratterizza ciò che è celeste si riflette su questa parte dell’edificio: svaniscono i significati misteriosi e si dissolve l’aura ancestrale che riveste la parte inferiore, si fanno spazio la trascendenza e la luce.

Le lesene binate e rigonfie internamente tenute insieme da un unico grande capitello sono una delle costanti grammaticali nel linguaggio architettonico di Tarantino che si ritrova in quest’opera.

Analoghe a quelle inferiori, le nicchie laterali superiori ospitano santi domenicani affiancate da lesene decorate a squamette e poggianti su una finta balaustra posta al di sotto.

Quest’ultima, di dimensione maggiore, è presente anche al di sotto del finestrone centrale, inquadrato da lesene decorate con motivi floreali.

La nicchia centrale strombata è caratterizzata da una finestrella centinata[2] ed interrompe la trabeazione di coronamento.

Sullo spigolo che unisce la facciata e la parete laterale campeggia, sostenuto dall’erma fogliato, lo stemma della città di Nardò, ora quasi completamente consunto.

L’alto basamento prosegue sulla parete laterale, imbiancata e scandita da coppie di colonne scanalate, che intrappolano tra loro un pilastro ruotato di 45°, motivo ricorrente nelle architetture di Tarantino.

Questo rapporto tra colonne e pilastro rimanda alla dialettica tra volumi nelle architetture barocche ampiamente indagata dagli studiosi e storici dell’arte Marcello Fagiolo e Vincenzo Cazzato ed alle sue possibili letture e interpretazioni come relazione neoplatonica tra corpo e anima, materia e forma, perfezione celeste e incompiutezza terrestre.

La cornice superiore è interrotta da sei piccole finestre centinate e strombate che anticamente si affacciavano sulla piccola navata.

Il campanile che svetta sull’edificio, di grande interesse artistico, è il punto da cui ebbe inizio il rinnovo della chiesa nel Cinquecento, ultimato nel 1572, in cui è possibile distinguere attualmente una porzione risalente al Quattrocento, una seconda al Cinquecento ed una terza successiva alla ricostruzione seguita al terremoto del 1743.

Lo schema dell’intero prospetto segue le leggi geometriche del quadrato, come si può facilmente notare osservandolo.

La magnifica decorazione della facciata assorbe l’attenzione dei visitatori che si perdono, frastornati e ammaliati dai racconti di pietra che si dispiegano su di essa, per poi essere catapultati nell’atmosfera solenne dell’interno dell’edificio.

 

Lo spazio interno fu ricostruito dopo il 1743 e allestito con un nuovo apparato di stucchi.

Sono nove gli altari presenti nella chiesa. L’altare maggiore originario era, però, più maestoso rispetto a quello attuale in marmi policromi risalente al 1944.

Il transetto occidentale ospita un altare in marmo dedicato alla Vergine del Rosario, con una pala, opera del pittore locale Donato Antonio d’Orlando che raffigura la Madonna con in braccio il Bambino. La Vergine, col capo leggermente chinato, pone con la mano destra il Rosario a Santa Caterina, mentre con la sinistra regge il Bambino, che porge invece il Rosario a San Domenico; dietro di loro gruppi di Santi, pontefici, martiri e sovrani.

Due angeli in alto recano fiori e i putti mantengono aperto un pesante tendone rosso.

Il convento adiacente alla chiesa fu in seguito arricchito da una scala alla napoletana a cui lavorò Adriano Preite seguendo i disegni del domenicano Alberto Manieri.

 

 

Le foto dalla 2 alla 7 sono state realizzate dall'autrice dell'articolo.

 

 

Note

[1] Lo stesso architetto conferma i suoi natali qualificandosi “Nardoniensis” (neretino).

[2] Murata probabilmente in seguito al terremoto, per garantire maggiore stabilità all’edificio.

 

 

Bibliografia

Vincenzo Cazzato, Il barocco leccese, in Itinerari d’arte, a cura di M. Rossi e A. Rovetta, Roma-Bari, Laterza, 2003

Regione Puglia, Assessorato alla Cultura E.P.I., C.S.P.C.R., Nardò, Itinerari turistico culturali, Sulla via delle capitali del barocco, Nardò, S.Maria de Recomandatis (S. Domenico)

Benedetto Vetere, Città e monastero, i segni urbani di Nardò (secc. XI – XV), Galatina, Congedo Editore, 1986

Emilio Mazzarella, Nardò Sacra, a cura di Marcello Gaballo, Galatina, Congedo Editore, 1999