A cura di Letizia Cerrati
Fu l’insigne Iconologia di Cesare Ripa a fornire la dettagliata descrizione delle personificazioni dei Continenti, soprattutto grazie alla seconda edizione del 1603 che, essendo corredata di illustrazioni, divenne la fonte principale su cui si basarono le rappresentazioni iconografiche dei Continenti per i secoli a venire.
Le sculture del Giardino delle Statue si attengono alle caratteristiche citate dal Ripa, a cominciare dall’America, raffigurata svestita, con capelli lunghi fino alle spalle e copricapo piumato, equipaggiata di arco e faretra. Un pappagallo poggia ai suoi piedi rimandando, come animale esotico, alla fauna tipica del luogo. Oltre a quest’ultimo si scorge un arto ferocemente mozzato, che simboleggia la brutalità che si riteneva distintiva di quei popoli, presso alcuni dei quali, come ricorda la testa amputata stretta dalla chioma nella mano della figura femminile, era diffuso il cannibalismo.
Pomona accanto ad America, era la dea della frutta, come si evince dal nome derivante dal latino pomum, questa faceva parte delle divinità minori o “dei minuti”, amava trascorrere le giornate nel suo giardino, prendendosi cura degli alberi da frutto: ne sfoltiva le chiome, li dissetava annaffiandoli e si impegnava negli innesti.
Bellissima e procace, allo stesso tempo timida e riservata, preferiva le gioie della natura e della vita campestre alla compagnia maschile, che cercava ostinatamente di evitare, arrivando persino ad erigere alti muri intorno ai suoi orti col fine di sottrarsi agli sguardi invadenti degli uomini.
Fu Vertumno, sfruttando la capacità di cambiare aspetto a suo piacimento, a farla ricredere.
Dio della trasmutazione, poteva essere chiunque pur rimanendo uno solo, come dice il suo nome che tradizionalmente si collega al verbo vertere, col significato appunto di voltare.
Alcuni ritengono che fu il dio stesso a causare il cambiamento del corso del Tevere, mentre per altri il suo nome si deve alla natura di divinità agricola, responsabile del susseguirsi e del variare delle stagioni, perciò omaggiato coi frutti del primo raccolto.
Regina indiscussa del Giardino è l’Europa, vestita di splendidi abiti simboli della prosperità del continente, sfoggia una sofisticata acconciatura arricchita dalla corona, reca in una mano un grappolo d’uva rappresentante l’abbondanza, mentre il modellino del tempio, rimando alla religione cristiana, avrebbe dovuto trovarsi nell’altra.
Le fa compagnia Flora, col capo cinto da una ghirlanda-corona di boccioli, dea della Primavera, del risveglio brioso dopo la mestizia invernale, della fioritura, allegoria dell’eterna giovinezza, foriera di gioia e floridezza. La dea elargisce generosamente agli uomini i prodotti della natura, tra cui l’uva, il grano, i fiori ed il miele.
Sul lato opposto troneggia Fauno, divinità silvestre, protettore dei campi, favoriva il raccolto e la fertilità del bestiame, da cui Inuus (ineo, penetrare, entrare in), uno dei tanti nomi con cui era conosciuto; come Lupercus vegliava inoltre sui pastori e sugli armenti.
Per metà uomo e per metà caprone, è scolpito come un uomo anziano, rude e segnato dagli anni, con un’espressione afflitta sul volto barbuto e provvisto di corna, con i capelli scarmigliati e le orecchie a punta. Le suddette caratteristiche fisiche sono attribuite anche al personaggio mitologico greco Pan.
Alcuni studiosi ritengono che l’appellativo latino derivi dal verbo faveo (essere propizio, favorire), altri che provenga dal verbo fari (parlare), da cui ha origine la parola fatum (destino).
Quest’ultima teoria rimanda al suo ruolo di divinità profetica, in quanto ciò che egli presagiva puntualmente si avverava; gli uomini, infatti, temevano ma supplicavano di ricevere i suoi oracoli.
L’epiteto Incubus fa riferimento al diletto che egli traeva nel tormentare gli uomini con terribili visioni oniriche.
Il terzo quarto di cerchio è occupato dall’Africa, effigiata seminuda, coperta soltanto da un lungo mantello panneggiato che corre dalla testa, si posa sulla spalla ed è trattenuto sul basso ventre dalla mano destra. Un sole fitto di raggi le fa da corona, una cornucopia, simbolo di fertilità, spunta dalla mano sinistra, mentre ai suoi piedi si scorgono alcuni aspidi.
È accompagnata dai due poli maschile e femminile connessi con le tematiche venatorie e campestri, Diana e Silvano.
Entrambi sono scortati dai fedeli segugi, accucciati al lato dei rispettivi busti.
Diana nella mitologia latina fu presto identificata con la greca Artemide. Dea amante della caccia, protettrice della natura selvaggia[1], presiedeva al ciclo della fertilità femminile, vegliava pertanto sulle partorienti e sulle puerpere, sui bambini e sugli animali da latte.
Depositaria della verginità, chiese al padre alcuni doni, tra i quali la verginità eterna.
Puniva senza pietà coloro che tentavano di attentare alla sua castità (celebre è il mito di Diana e Atteone).
Vergine dall’Arco d’Argento, dea lunare, quest’attributo rappresenta la luna nuova e potrebbe essere connesso con l’influenza delle fasi lunari sulle coltivazioni; la dea esercitava infatti il suo potere anche sulla fecondità dei campi.
Venerata anche nell’aspetto di Vegliarda, si accompagnava con Ninfe, sue sacerdotesse, con le quali trascorreva le giornate nei luoghi che più amava: radure e foreste. Da queste ultime pretendeva il rispetto dell’illibatezza.
Silvano, dio dei boschi, da silva (bosco), protettore dei campi e dei pascoli, presiedeva al benessere del bestiame.
Iniziatore della pratica dell’orticoltura (plantatio), la trasmise agli uomini: per questo motivo i proprietari terrieri lo onoravano con le primizie dei loro poderi.
I signori lo veneravano nella sua triplice forma: orientalis, delimitante i confini del terreno; agrestis, operava la distinzione nel podere dell’area per il bestiame ed infine dimesticus, che distingueva l’ambiente esterno da quello intimo dell’abitazione, da quest’ultima era tassativamente escluso.
In occasione della nascita di un bambino egli era tenuto lontano dalla casa dai tre dèi minuti, in quanto ritenuto deleterio per gravide e neonati; il suo culto era inoltre proibito alle donne.
L’ultimo continente presente nel Giardino è l’Asia, raffigurata attenendosi alla percezione stereotipata che l’Occidente aveva di questa terra: traboccante di tesori, tessuti pregiati e spezie.
Di seta sembra tessuta l’esotica tunica riccamente ornata che indossa, impreziosita da merletti, fiocchi e da un turbante punteggiato di pietre preziose.
Allude invece alle sofisticate essenze profumate d’Oriente l’incensiere che reca nella mano sinistra.
Cerere e Bacco conversano con l’Asia; la prima, corrispondente alla Demetra greca, era la dea dei campi di grano, pertanto associata alla stagione estiva ed al pane, alimento universale, cibo fondante per l’intera umanità.
Il secondo, il greco Dioniso, era il dio inventore del vino, bevanda degli dèi, inebriante strumento di conoscenza mistica.
Due figure che incarnano dovizia e fertilità, benessere e appagamento dei sensi.
Cerere/Demetra, dal nobile animo, impersonava la produttività e l’abbondanza dei frutti della terra,
veniva celebrata come divinità che insegnò l’arte dell’agricoltura; la diffuse per mezzo di Trittolemo, inviato per il mondo con lo scopo di istruire gli uomini su come praticarla.
Sfruttando i suoi poteri, furibonda e addolorata per la scomparsa della figlia Core/Persefone, impedì alla vegetazione di crescere sulla Terra finché non raggiunse un accordo col dio dell’oltretomba che l’aveva rapita.
Il mito greco che racconta dell’unione della dea su un campo arato tre volte col Titano Giasio rievoca un rituale di fertilità praticato fino a tempi recenti nelle Penisola balcanica.
Probabilmente il Titano e la dea del grano erano soliti rinnovare il rituale apotropaico in occasione delle arature autunnali, al fine di assicurare un raccolto abbondante.
La figura di Bacco/Dioniso, dio della viziosa ebbrezza, allegoria del piacere e dell’abbandono del pudore che annebbia i sensi, è legato alla diffusione del culto della vite in Europa, in Asia e in Africa settentrionale.
Il dio viaggiava per il mondo, accompagnato da Sileno e dal suo seguito di Satiri e Menadi.
Le armi di queste ultime consistevano prevalentemente in bastoni con la punta costituita da una pigna e rivestiti d’edera rampicante, conosciuti come tirso.
La statua del Giardino reca in una mano un calice e nell’altra un grappolo carico di acini d’uva, come a voler rimarcare il ruolo di Bacco quale divinità a cui spetta il merito dell’affermazione della supremazia del vino come bevanda inebriante.
Il dio fu detto anche Dendrite (giovanetto-albero), linfa che nutre gli alberi, che fa aprire i germogli, celebrato durante la Festa di Primavera, nel periodo in cui la natura esplode di mille colori e profumi e tutta l’umanità è partecipe del suo risveglio.
Dopo un bagno di bellezza tra storia, arte e mitologia, percorrendo il viale che conduce sullo spiazzo facente fronte alla masseria, la sensazione che pervade il visitatore è quella di pienezza e di pace.
La Masseria Brusca è una piccola oasi radiosa, un luogo ameno in cui perdere piacevolmente la cognizione del tempo.
Le foto sono state scattate dall’autrice dell’articolo
Note
[1] si ricollega in questo aspetto alla cretese “signora della selvaggina”
Bibliografia
Vincenzo Cazzato, Il giardino di Statue della masseria Brusca a Nardò, teatro del Mondo e degli Dei, in Interventi sulla “questione meridionale”, Saggi di storia dell’arte, a cura del Centro di studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale “Giovanni Previtali”, Donzelli, Roma, 2005
Scheda Brusca Guida ADSN
Robert Graves, I miti greci, Longanesi & C., 2020
Licia Ferro e Maria Monteleone, Miti romani il racconto, Giulio Einaudi editore, Torino, 2010
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