IL COMPLESSO RELIGIOSO DI BONARIA A CAGLIARI

A cura di Ilenia Giglio

 

 

Introduzione del complesso di Bonaria

Il complesso religioso di Bonaria si trova a Cagliari, situato in cima al colle che sovrasta l’omonimo quartiere, uno dei più antichi della città, e il mare adiacente, rendendosi facilmente individuabile da diverse posizioni. Le origini e la sua storia costruttiva sono piuttosto travagliate e hanno trovato conclusione solamente in tempi recenti, esso difatti comprende vari corpi di epoche differenti: il santuario, la basilica, il museo e gli attigui spazi del parco e del cimitero monumentale.

 

La nascita del santuario di Bonaria e la leggenda sul suo simulacro

Per ripercorrere la storia del complesso di Bonaria è necessario partire dal XIV secolo, epoca in cui ebbe inizio il dominio Aragonese in Sardegna. Nel 1324 gli Aragonesi assediarono la città di Cagliari, tentando di sottrarla al potere pisano. Essi si stanziarono sul colle che prese il nome di “Bon aire” e qui costruirono una cittadella fortificata in cui ovviamente non poté mancare un luogo di culto, ossia una piccola chiesetta dedicata alla SS trinità e Santa Maria che nel 1337 venne donata da Alfonso IV all’ordine della Mercede. I frati mercedari vi si stabilirono costituendo un convento e risistemando la chiesetta che risulta essere il primo esempio di architettura catalano-aragonese nell’isola. Costituita da un’unica navata presenta una semplice facciata a capanna con ampio rosone centrale, internamente venne ideata una volta ogivale e furono realizzate delle cappelle voltate a crociera sui due lati: tre sul lato sinistro e quattro sul destro. Sul fondo dell’ambiente la zona presbiteriale risulta rialzata rispetto al piano di calpestio e termina con un’abside poligonale in cui si trova l’altare maggiore.

La sua trasformazione in santuario è legata a una leggenda che narra un episodio avvenuto nel 1370: un veliero partito dalla Spagna che navigava verso l’Italia fu colto da una violenta tempesta che costrinse l’equipaggio a gettare in mare il carico della nave al fine di alleggerirla, nel tentativo di riuscire a salvarsi. Compresa nel carico vi era una pesante cassa in legno su cui era posto lo stemma dei frati mercedari. Quando essa toccò le acque esse si placarono così come la tempesta e l’equipaggio si accorse con stupore che nonostante il grande peso essa continuasse a galleggiare. Tentarono dunque di recuperarla ma invano, la cassa continuò a sfuggire alla loro presa allontanandosi sempre più in direzione della Sardegna.

La mattina seguente venne ritrovata arenata nella spiaggia ai piedi del colle di Bonaria, molti tentarono di spostarla ma nessuno ci riuscì, fino all’arrivo dei frati mercedari che la sollevarono con estrema facilità e la portarono all’interno della chiesetta. Una volta aperta venne ritrovata al suo interno una statua lignea della Madonna con il bambino che venne collocata sull’altare maggiore.

 

Modifiche e ampliamenti del ‘700

Quando si sparse la voce del prodigioso arrivo, la Madonna e il piccolo santuario divennero meta di pellegrinaggi che aumentarono sempre più in seguito al racconto di alcuni miracoli avvenuti al cospetto del simulacro della Vergine. Il santuario in poco tempo divenne stracolmo di ex voto e ormai troppo angusto per poter ospitare un flusso di pellegrini tanto importante. Per tale motivo si decise dunque di costruire una chiesa più grande collegata all’antico santuario, per rendere possibile ciò si dovettero abbattere le quattro cappelle posizionate a destra per creare un’arcata che mettesse in comunicazione i due ambienti. La prima pietra venne posta nel 1704, sempre per volere dei frati mercedari ma la sua costruzione si protrasse a lungo nel corso dei decenni: già una prima interruzione si ebbe tre anni dopo con lo scoppio della guerra di successione al trono spagnolo che terminò nel 1720. All’epoca la Sardegna passò sotto il dominio dei Savoia con Vittorio Amedeo II che affidò la prosecuzione dei lavori della nuova chiesa all’architetto Giuseppe Viana. Tuttavia I progressi procedettero molto a rilento e furono nuovamente bloccati durante gli eventi rivoluzionari di fine 1700.

Nel secolo successivo inoltre subì dei rimaneggiamenti anche il santuario: venne innalzata una facciata bicromia in stile neogotico in cui fu inserito il portale trecentesco dell’ormai distrutta chiesa di S. Francesco in Stampace.

I lavori della chiesa maggiore ripresero solo nel 1910, conferendo le forme di ciò che ancora oggi è possibile ammirare nonostante alcuni rimaneggiamenti e restauri degli anni successivi. Essa si presenta in stile neoclassico: la pianta a croce latina è trinavata con ampio transetto e cupola ottagonale all’incrocio dei bracci.

 

La facciata in bianco calcare è divisa in due registri: quello inferiore scandito da coppie di lesene che incorniciano i tre portali e quello superiore, diviso da una cornice marcapiano con iscrizione è costituito da un attico dove tra colonnine classicheggianti è inserita la loggia delle benedizioni, sopra di essa nel timpano venne posto lo stemma dei frati mercedari.

 

Il suo luminoso interno prende luce da una serie di finestre aperte al di sopra del matroneo e risulta scandito da quattro ampie arcate a tutto sesto poggianti su colonne binate in calcare bianco con capitelli elaborati che separano le navate. La navata centrale è voltata a botte mentre le laterali sono coperte da quattro cupolette. Nelle navate laterali inoltre si aprono quattro cappelle a sinistra e altre tre a destra in cui sono raffigurate immagini della Madonna: La Madonna del Rosario, la Madonna Immacolata, la Madonna Ausiliatrice, la Madonna Assunta, la Madonna di Fatima e il Santissimo Sacramento di Antonio Mura, la Madonna della Mercede di Gina Baldracchini e la Sacra Famiglia di Giuseppe Aprea, tutte dipinte tra il 1950 e il 1960

 

L’ampio transetto invece ospita la statua della Madonna del combattente di Francesco Ciusa, anch’esso presenta altre due cappelle per braccio: una dedicata al santissimo sacramento e l’altra alla Madonna della Vittoria o dei Caduti, ornata da un altare marmoreo in stile barocco.Nella zona presbiteriale l’altare maggiore è sormontato da un baldacchino composto da quattro colonne di marmo verde decorate in bronzo dorato e volute in marmo bianco, esso inquadra la grande tela centrale di Antonio Corriga.

 

 

I restauri contemporanei

La chiesa maggiore, pochi decenni dopo essere stata insignita del titolo di basilica minore per mano di Papa Pio XI, subì grossi danni per via dei bombardamenti della seconda guerra mondiale: nel 1943 venne distrutta la cupola, parte di una navata e gli stucchi e affreschi che la decoravano.

Con la pace ritrovata si attuarono le restaurazioni della basilica e degli spazi circostanti per mano dell’architetto Gina Baldracchini. Nel corso dei lavori il santuario venne riportato alle sue forme architettoniche originali attraverso l’eliminazione delle sovrastrutture gotiche, inoltre si decise di risistemare anche il suo interno rimuovendo l’enorme quantità di ex voto per cui si dovette trovare nuova sistemazione. Con tale finalità nel 1968 si decise di aprire un museo ancora oggi visitabile e composto da tre sale: nella prima sono conservati alcuni reperti archeologici rinvenuti sul colle di Bonaria, la seconda ospita un inestimabile raccolta di centocinquanta antichi modellini navali, ancore e le mummie di alcuni membri di famiglie nobiliari del ‘700, la terza e ultima stanza è quella dedicata al tesoro della basilica in cui vennero trasferiti tutti gli ex voto e gli arredi sacri, tra cui alcune offerte volute dai sovrani.

Ai restauri di questi anni si devono anche le risistemazioni delle aree circostanti: la scalinata e il piazzale adiacente, in cui sono state sistemate due state bronzee dello scultore Franco D’aspro che rappresentano una nave in balia dei venti e la Vergine di Bonaria, e infine il parco di Bonaria e il cimitero monumentale.

 

Il parco, una piccola zona verde nel cuore della città è molto suggestivo poiché coniuga la bellezza dei panorami all’interesse archeologico dato che al suo interno vi sono ancora testimonianze risalenti al periodo punico, quando il colle ospitava una necropoli. Il cimitero ottocentesco in cui non si praticano più sepolture dal 1968 si presenta invece come un museo a cielo aperto, in cui sono spesso organizzate visite guidate volte alla conoscenza delle memorie e del grande patrimonio che esso rappresenta per la varietà degli stili delle preziose sculture.

 

Altri restauri si resero necessari negli ultimi decenni del ‘900 per porre rimedio al decadimento delle strutture causato dall’umidità e dall’aria salmastra, essi restituirono alla città di Cagliari il gioiello che questo complesso mariano rappresenta da secoli.

 

 

 

Informazioni utili

È possibile visitare il santuario e la basilica dal lunedì alla domenica dalle 7:00 alle 11:30 e dalle 16:30 alle 19:30. Il museo segue l’orario continuato con ingresso libero. Per il parco e il cimitero monumentale: https://www.comune.cagliari.it/portale/page/it/parco_di_bonaria_nuovi_orari_di_apertura_al_pubblico_sino_al_28_febbraio_2021?contentId=NVT47276

 

 

 

 

 

Bibliografia

Pietro Leo e Padre Giuseppe Malchionna, Il Santuario e la Basilica di N.S. Di Bonaria. Società Poligrafica Sarda, Cagliari 1970.

Il santuario di N.S. di Bonaria restaurato, Cagliari, Società Poligrafica Sarda, 1960.

  1. Naitza, Architettura dal tardo ‘600 al classicismo purista. Nuoro, Illisso, 1992.

 

Sitografia

https://bonaria.eu/

https://www.sardegnacultura.it/j/v/258?s=18269&v=2&c=2488&t=1


LA CHIESA DI SAN MICHELE A CAGLIARI

A cura di Ilenia Giglio

 

San Michele a Cagliari

 

La chiesa di San Michele a Cagliari, facente parte del complesso monumentale comprendente anche l’ex residenza gesuitica, sorge nel suggestivo quartiere di Stampace. La sua costruzione è collegata alla presenza gesuitica in Sardegna e ancora oggi rimane la principale testimonianza di arte barocca nell’isola. La compagnia di Gesù, già presente in Sardegna nella città di Sassari, giunse a Cagliari nel 1564 per costruirvi una comunità, stabilendosi nell’attuale chiesa di Santa croce in castello. Negli anni direttamente successivi si decise di ampliare il noviziato: ciò fu reso possibile dalla bolla pontificia di Gregorio XIII, grazie a cui poterono iniziare i lavori in via Monti, antico nome di via Ospedale, sul sito della chiesa dei santi Michele e Egidio. Visto il grande numero di novizi gli spazi si rivelarono ben presto insufficienti e si rese necessario un ampliamento del noviziato, una grossa spesa a cui i gesuiti non poterono far fronte. Tuttavia nel 1795 mons. Giovanni Sanna vescovo di ampurias decise di indirizzare una grossa donazione alla compagnia che poté così riprendere i lavori adattando il noviziato alle proprie esigenze.

 

La costruzione della chiesa

Sempre grazie a un’altra donazione si deve la nascita della bellissima chiesa di San Michele, la cui costruzione venne avviata diversi decenni dopo rispetto al noviziato. Infatti il cantiere venne aperto solo nel 1674, quando il giurista Francesco Angelo Dessi lasciò alla compagnia una copiosa eredità che permise, non solo di ristrutturare il complesso gesuitico, ma appunto anche di annettervi una nuova chiesa. Il progetto, che doveva seguire gli stretti parametri edilizi gesuitici, venne affidato al lombardo Francesco Lagomaggiore e prese forma negli ultimi anni del 1600 quando venne inaugurata, sebbene fossero ancora da completare i lavori della facciata e della sagrestia, conclusi intorno agli anni ’20 del secolo successivo. Nel 1738 la chiesa venne poi consacrata a San Michele Arcangelo dal vescovo di Usellus e Terralba, mons. Antonio Carcassona.

La chiesa di San Michele fu una delle poche chiese a superare senza troppe peripezie la prima soppressione della compagnia voluta da Papa Clemente XIV nel 1773, difatti qui si concentrarono moltissimi ex gesuiti sardi e grazie a loro si salvò il patrimonio artistico della chiesa, eccezion fatta degli arredi liturgici distribuiti in altre chiese dell’isola.

 

La facciata

La chiesa risulta abbastanza singolare nel capoluogo, discostandosi dalla maggior parte degli altri edifici religiosi che seguono essenziali linee romaniche e neoclassiche. La sua struttura in tufo argilloso ripropone la forma tipica di un retablo presentandosi tripartita longitudinalmente, con un’ampia facciata ulteriormente scandita in registri orizzontali. Il primo registro presenta tre ampie arcate incorniciate da semicolonne con capitelli corinzi che immettono a un portico voltato a crociera. Al di sopra della trabeazione fittamente decorata si erige il livello intermedio che segue la tripartizione sottostante, attraverso l’uso di colonnine che accompagnano la successione di finestre perpendicolari agli ingressi. Tali finestre rettangolari sono incorniciate da cariatidi e sormontate da timpani spezzati che racchiudono tre differenti stemmi: quello centrale riferito alla compagnia di Gesù, mentre gli stemmi laterali sarebbero invece dedicati ai due benefattori, a destra mons. Sanna e a sinistra Francesco Angelo Dessi. Infine il registro superiore, caratterizzato da sobrie volute laterali presenta ancora una volta delle colonnine entro cui si apre un’edicola dove è posta la statua del patrono, sormontata da un frontone triangolare.

 

Accedendo al portico il primo elemento che cattura l’attenzione è il cosiddetto pulpito di Carlo V addossato alla parete. Pare che esso provenisse dalla chiesa dei Frati minori conventuali di S. Francesco in Stampace e il motivo della denominazione ci viene fornito da un’iscrizione latina che lo circonda e che narra come nel 1535 Carlo V, diretto a Tunisi, sbarcò prima a Cagliari e qui si fermò ad ascoltare la messa seduto proprio su questo pergamo. Il portale invece si trova sulla destra, in cima a una scalinata marmorea e risulta ruotato di novanta gradi rispetto all’orientamento della facciata.

 

La pianta e l’interno

 

Il corpo della Chiesa sorge dall’incontro tra la pianta centrale e quella longitudinale grazie a un’espediente utilizzato anche in altre chiese gesuitiche dell’isola: la pianta ottagonale ad aula unica si dirama in otto cappelle radiali, di cui due centrali notevolmente maggiori per consentire l’ampliamento a croce in mancanza del transetto. Le cappelle sono comunicanti tra loro in modo da formare un deambulatorio scandito da ampie paraste, le maggiori, riccamente decorate e affrescate, sono fornite di altare e sono dedicate a sant’Ignazio da Loyola e San Francesco Saveriosi, inoltre si aprono direttamente sulla volta della chiesa. Le altre sei, minori di dimensioni, sono invece voltate a botte e dedicate a Luigi Gonzaga, Francesco Borgia, Maria Bambina, Sacro cuore, San Juan Francisco Regis e la Vergine con il bambino. Le paraste sorreggono l’ampia trabeazione su cui si innesta la cupola tramite raccordi a vela e pennacchi dove sono raffigurati gli evangelisti. Esternamente la cupola poggia su un tamburo ottagonale su cui si aprono quattro finestre alternate ad altrettanti ottagoni ciechi, e termina in un lucernario, alla sua base invece sono stati affiancati due campanili a vela, entrambi a due luci.

 

Tuttavia ciò che davvero rimane impresso dell’interno della chiesa di San Michele è la ricchezza delle decorazioni, perfettamente aderente alla linea barocca: essa è stracolma di stucchi, affreschi e marmi. Questi ultimi sono stati ampiamente utilizzati nella zona presbiteriale dove si trova anche l’altare maggiore composto da paliotto marmoreo entro colonne tortili. Esso venne realizzato a Genova da Giuseppe Maria Massetti e poi assemblato in loco da Pietro Pozzo, ponendo al di sopra la statua lignea di San Michele risalente al 1600. Lo sfarzo del marmo venne ripreso oltre che nella pavimentazione policroma anche nel monumento funebre del Dessi.

La chiesa è composta da altri due ambienti in cui si accede tramite le ultime cappelle: l’antisacrestia e la sacrestia. In questi spazi trionfa la pittura, le pareti difatti sono interamente decorate da stucchi dorati e ampie tele, più di venti in totale, attinenti alla spiritualità.

 

I soggetti trattati nell’antisacrestia sono i misteri dolorosi e gloriosi del rosario, dell’artista Giuseppe Deris, accompagnati dalle sei statue dei misteri della passione di Gesù Cristo dello scultore Limois, che ancora oggi vengono portate in processione. La sacrestia invece è caratterizzata da una volta a botte lunettata dove una folta schiera di putti regge i tre medaglioni affrescati raffiguranti la cacciata degli angeli ribelli ad opera di San Michele e il trionfo del nome di Gesù, opera dell’Altomonte anche conosciuto come Hoheberg, autore di molti altri affreschi della chiesa e che in questo caso si ispirò probabilmente all’affresco che il Baciccia realizzò nella volta della chiesa del Gesù di Roma. Le pareti della sacrestia sempre affrescate dell’Altomonte presentano nei lati brevi scene bibliche in cui compare l’arcangelo Michele mentre i lati lunghi ospitano otto rappresentazioni di miracoli dei santi gesuiti (in collaborazione con Domenico Colombino). La punta di diamante è probabilmente la strage degli innocenti posta sopra l’ingresso, la più grande tela sacra di Cagliari.

 

 

 

Informazioni utili

La chiesa è sita in via Ospedale, è visitabile nei giorni feriali dalle 10:30 alle 12:30 e dalle 17 alle 20:30. Nei giorni festivi invece dalle 10 alle 12 e dalle 19 alle 21.

 

 

 

 

Bibliografia

Naitza, Architettura dal tardo ‘600 al classicismo purista. Nuoro, Illisso, 1992.

Corrado Maltese, Arte in Sardegna dal V al XIII secolo, Roma, De Luca, 1962.

 

Sitografia

https://sanmichelecagliari-gesuiti.it/

https://www.sardegnacultura.it/j/v/253?v=2&c=2488&t=1&s=19254


IL LAZZARETTO DI CAGLIARI

A cura di Ilenia Giglio

 

 

Il Lazzaretto, contesto storico

Negli anni a cavallo tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna l’intera Europa fu devastata da numerose ondate epidemiche. Tra le varie pestilenze si ricorda quale maggiormente gravosa la peste, la cui diffusione soprattutto in Italia condizionò enormemente la popolazione, innanzitutto decimandola ma facendo vivere anche i superstiti nel terrore, generando quasi un clima di follia e sospetto verso il prossimo. A Venezia, dove la situazione si rivelò più grave che altrove, venne costruito il primo ospedale atto al ricovero e isolamento delle persone infette. Tale edificio sorse sull’isola di S. Lazzaro e venne edificato nel luogo esatto in cui sorgeva una chiesa dedicata a Santa Maria di Nazareth. Potrebbe essere dall’incontro delle parole Lazzaro, la cui iconografia vede il santo coperto di bubboni e piaghe come gli infetti, e Nazareth che ebbe origine il nome attribuito a questa nuova tipologia di struttura, ossia lazzaretto.

Visto l’incremento e l’incisività di tali morbi, durante il XVI e XVII secolo molte città costiere sentirono il bisogno di allinearsi all’esempio veneziano, costruendo altri luoghi di ricovero e formando così una rete Mediterranea. Tra questi centri è compresa la città di Cagliari dove il Lazzaretto sorse nel borgo di Sant’Elia, una zona periferica circondata da fortificazioni, allora disabitata e distante dal nucleo cittadino.

 

Le tradizioni orali del posto datano la sua prima edificazione in materiale deperibile al 1400, ma dai documenti conservati nell’archivio di Cagliari si evince che la prima costruzione risalirebbe al 1600; anno a cui sarebbe attribuibile anche lo stemma marmoreo del periodo Aragonese apposto in facciata, che rappresenta appunto la città di Cagliari tra i pali d’Aragona.

 

In questa prima fase il Lazzaretto contava solo di un lungo corridoio coperto e di alcuni magazzini ospitanti merci e animali, ma vista la rapidità dei contagi si presentò la necessità di ampliare la struttura che, nel corso degli anni, venne modificata anche attraverso la sovrapposizione di un piano superiore riservato alla popolazione benestante. Tali rifacimenti furono voluti dai Savoia, dei quali si ricorda soprattutto quello del 1835 poiché ad esso si deve l’impianto contemporaneo debitamente restaurato.

 

Leggi e cure adottate all’interno del Lazzaretto.

I Savoia intervennero anche attraverso l’emanazione di una serie di norme e editti atti a conservare la sanità pubblica e arginare il contagio. In questo periodo le leggi divennero talmente severe da contemplare l’uccisione di chiunque le violasse. Vennero istituiti controlli per terra e per mare: tramite ronde costiere si tentava di individuare imbarcazioni sospette che non avrebbero potuto attraccare, dovendo osservare il periodo di quarantena a bordo, venne proibita la pesca e la coltura a distanza minore di mezzo miglio dal Lazzaretto e fu posto il divieto di circolazione entro un certo perimetro. Ovviamente da quest’ultimo erano esenti coloro la cui presenza era indispensabile all’interno della struttura come il direttore, il cui accesso era però distinto per non entrare a contatto con i malati; ma anche i monaci, che garantivano la protezione spirituale celebrando i rituali nella cappella interna presente nel chiostro, visto che ancora in quest’epoca la religione aveva un peso tale da considerare la preghiera consigliata per una buona guarigione. Infine, i medici che entravano a contatto diretto con gli infetti, ragion per cui indossavano una caratteristica divisa costituita da una lunga tunica cerata terminante nei guanti, l’emblematica maschera con paraocchi in vetro, per evitare il contatto con gli occhi di possibili fluidi corporei e il becco adunco, in cui talvolta erano fatte bruciare delle erbe aromatiche che si riteneva avessero potere isolante. I medici della peste erano poi soliti fare uso di una bacchetta alla cui estremità era posta una lamina in argento a forma di croce che non aveva semplice valore simbolico, ma veniva utilizzata per scostare gli indumenti e le coperte durante le visite.

 

Svariati erano i rimedi adottati, quelli impartiti ai singoli individui si limitavano a norme alimentari mirate a contrastare la putrefazione. Venivano sconsigliati perlopiù i cibi umidi ritenuti corrompibili quali uova, latte e vegetali, che si credeva potessero veicolare il morbo. Per purificare l’aria veniva fatto largo uso del fuoco e del fumo, non solo negli ambienti interni ma anche esternamente, negli angoli delle strade, in cui veniva incendiata della paglia bagnata nel vino e nello zolfo. Nelle anguste stanzette dei ricoverati erano frequenti i suffumigi e i profumi che avvenivano sempre tramite combustione, ma in questo caso utilizzando erbe, bacche e frasche aromatiche che venivano raccolte nei pressi della struttura e adoperate anche per la produzione di unguenti.

 

Riusi e restauro contemporaneo

Tali rimedi appena citati ovviamente non portarono a un miglioramento effettivo o alla cura dei ricoverati, ma ne lenirono solamente i dolori e la difficile permanenza nella struttura, difatti dei veri miglioramenti in campo medico si ebbero solo sul finire del 1800, periodo in cui le epidemie persero incisività. Dopo alcuni casi di tubercolosi durante il primo dopoguerra e in seguito a degli episodi di scrofola, il Lazzaretto perse il suo carattere originario poiché i successivi casi di malattie vennero trattati nel reparto infettivo del nuovo ospedale della santissima trinità.

Successivamente alla seconda guerra mondiale, la struttura assunse carattere abitativo accogliendo molti nuclei familiari che si ritrovarono sfollati e che adattarono l’edificio alle loro esigenze attraverso la sovrapposizione di strutture a quelle originarie. Viste le precarie condizioni di vita di questa parte della popolazione, il comune di Cagliari decise di iniziare l’edificazione di nuove palazzine, al fine di garantire a queste persone delle condizioni di vita dignitose, dando così origine al primo nucleo abitativo del borgo di Sant’Elia. Il Lazzaretto da questo momento venne lasciato all’incuria, divenendo scenario e emblema delle problematiche che da subito iniziarono ad affliggere il nuovo quartiere, confinandolo quasi nella condizione di ghetto. Il comune decise di intervenire nuovamente per cercare di porre fine a questa situazione avviando nel 1970 un piano di restauro che tuttavia non partì per diversi anni. Solo nel 1998 con l’approvazione del progetto dell’architetto veneziano Andrea de Eccher iniziarono i lavori, che furono condotti nel pieno rispetto delle strutture originarie, attenendosi ai colori e materiali descritti nei documenti d’archivio.

Il Lazzaretto aprì finalmente al pubblico nel 2000 grazie alla manifestazione “monumenti aperti” e da allora si presenta come una struttura polifunzionale dalla struttura quadrangolare disposta su due livelli. Il suo centro è costituito da un suggestivo chiostro su cui si affacciano tutti gli altri ambienti e in cui è possibile osservare la coesistenza di alcune strutture originarie con quelle del restauro contemporaneo, durante il periodo estivo esso è luogo prescelto per eventi culturali quali congressi e spettacoli. Al piano terra è poi presente l’accademia d’arte, gli uffici, la biglietteria con annesso il bookshop e la sala archi, in cui vengono allestite le mostre temporanee. Al di sopra di quest’ultima si trova invece la mostra permanente, inaugurata di recente dove lo spettatore ha accesso, attraverso un percorso che coniuga storia e tecnologia, a documenti e interviste sulle origini dei lazzaretti e sulle vicende di quello di Cagliari. Gli altri lati del piano superiore sono dedicati all’ampia sala convegni, a una cucina sede del corso dell’accademia del buon gusto, alla mediateca usata per i laboratori e alla caffetteria con terrazza panoramica, che si apre sul mare e sul paesaggio circostante, permettendo di ammirare i resti delle fortificazioni del colle di sant’Ignazio. Sempre negli ultimi tempi la struttura ha aggiunto ai tanti servizi disponibili anche quello di noleggio bici, con la finalità di incrementare il turismo nel quartiere, difatti il Lazzaretto non si impegna solo nella divulgazione culturale, grazie alle svariate attività proposte, ma crede anche fortemente nella rivalutazione del borgo di Sant’Elia, non solo attraverso il coinvolgimento dei cittadini che vi risiedono ma anche tramite coloro che vengono attratti dalle numerose proposte del luogo.

 

Informazioni utili

Il Lazzaretto di Cagliari si trova nel borgo di Sant’Elia in via dei Navigatori 1. Le sue mostre sono visitabili dal martedì alla domenica dalle ore 09:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 20:00. Nella struttura è presente anche un servizio di noleggio bici che prende il nome di LazzaRentBike su cui è possibile avere maggiori informazioni accedendo all’omonimo sito.

 

 

 

Le foto n 1,3 e 4 sono state scattate dalla redattrice dell'articolo

 

 

 

 

Bibliografia

Giuseppe Dodero, I lazzaretti. Epidemie e quarantena in Sardegna, Aipsa Editore, 2001.

 

Sitografia

Lazzaretto di Cagliari (lazzarettodicagliari.it)


LA BASILICA DI SAN SATURNINO A CAGLIARI

A cura di Ilenia Giglio

 

 

Introduzione

La basilica di San Saturnino si trova nel quartiere cagliaritano di Villanova, nei pressi del cimitero monumentale e della basilica di Nostra Signora di Bonaria, area che all’epoca della sua prima edificazione risultava isolata rispetto al resto della città. Ad oggi, in seguito allo sviluppo urbano delle diverse epoche, la sua ubicazione è invece abbastanza centrale e facilmente raggiungibile da turisti e visitatori sempre più attratti da questo monumento in quanto si presenta come uno dei siti paleocristiani più antichi dell’isola e uno tra i più significativi del Mediterraneo.

Origini del culto e primo impianto della basilica

Il culto del patrono di Cagliari ebbe origine nel IV secolo, più precisamente nel 304, quando il giovane Saturnino, o Saturno a seconda delle fonti, venne decapitato pubblicamente per non aver rinnegato la fede cristiana. Le sue spoglie furono sepolte in una zona suburbana che negli anni successivi accolse sempre più sepolture fino a diventare un’area funeraria molto estesa. Al di sopra di tale necropoli venne edificato un primo edificio di culto dedicato al Santo martire, pertanto appartenente alla tipologia dei martyria, di cui è possibile trovare una prima testimonianza nella biografia di Fulgenzio, vescovo di Ruspe, che tra il 507 e il 523 si trovava in esilio in Sardegna insieme ad altri vescovi africani per volere del re vandalo Trasamondo. Questo primo impianto in stile bizantino era caratterizzato da una pianta a croce greca con quattro bracci uguali e cupola centrale. A metà ‘900 gli studiosi Corrado Maltese, Renata Serra e Raffaele Delogu avanzarono alcune teorie sulle possibili derivazioni e affinità con altri edifici di culto di aria Siriaca quali S. Babila di Antiochia-Kaussié, San Simeone di Qal’at Sim’an e anche con l’Apostoleion di Costantinopoli che tuttavia non si rivelarono risolutive per via delle numerose e periodiche distruzioni e consistenti rimaneggiamenti subiti dalla basilica nel corso dei secoli. 

 

La basilica in età giudicale

Nel 1089 Costantino Salusio II de Lacon-Gunale, giudice di Cagliari donò la basilica, che probabilmente versava in uno stato di abbandono, ai Vittorini di Marsiglia, i quali la resero loro monastero ristrutturandola e consacrandola nel 1119, anno in cui divenne anche sede del priorato sardo. I monaci Vittorini decisero di non adottare l’impianto latino ad aula longitudinale ma di intervenire sull’edificio preesistente, conservando la pianta cruciforme e riadattandola secondo i canoni del romanico provenzale: ricostruirono i quattro bracci e mantennero la cupola centrale, di cui vennero restaurate le scuffie a mezza crociera, elementi di raccordo al tamburo le cui arcate sottostanti scaricavano su quattro massicce colonne in marmo rosso.

 

Ogni braccio era composto da tre navate, la mediana voltata a botte e scandita da sottarchi e le navatelle, che non si interrompe a o alle testate dei bracci ma continuavano sui lati e risultavano coperte a crociera, gli archi generatori delle crociere spiccavano direttamente dalle pareti mentre sulle semicolonne di sostegno si impostavano le arcate parietali. Il braccio orientale si concludeva nell’abside con paramento calcareo su cui spiccano accenni di bicromia. 

 

Le antiche strutture perimetrali a filari di conci regolari squadrati nella pietra calcarea non furono sostituite ma su di esse vennero innalzate le murature dell’XI secolo, contraddistinte dagli archetti esterni a ghiera semicircolare, da cornici, basi e capitelli scalettati e dall’abbondante reimpiego di materiali marmorei quali trabeazioni, colonne, ceppi funerari e basi che risultano omogenei in quanto probabilmente frutto dello spoglio di un unico edificio risalente all’età tardoimperiale. Questo nuovo impianto della basilica è documentato fino al ‘600, periodo a cui risalgono i disegni del manoscritto di Juan Francisco Carmona custoditi nella biblioteca universitaria di Cagliari. 

 

La basilica durante l’età moderna

Tra il XIV e XV secolo la basilica divenne proprietà dell’arcidiocesi di Cagliari ma andò incontro a un lungo periodo di scarsa attenzione verso un buon mantenimento delle sue strutture. Difatti già in questi secoli venne danneggiata più volte fino ad arrivare nel 1614 ad essere protagonista di scavi archeologici voluti dal monsignor Francisco de Esquivel che avevano come finalità la ricerca dei “corpi santi” ossia le reliquie dei martiri sepolti nella necropoli sottostante. Questi furono condotti senza alcuna metodologia e senza rigore scientifico tanto da alterare irrimediabilmente gli strati più antichi, rendendo quasi impossibile la comprensione e ricostruzione del sito originario. Sono state rinvenute sepolture di varia tipologia: a fossa, a cupa, sarcofagi interrati, piccoli edifici funerari realizzati in conci e laterizi, tutte perlopiù attribuibili all’epoca romana e tardoantica. Durante questi scavi vennero rinvenute anche le ipotetiche reliquie di San Saturnino che vennero traslate presso la cattedrale di Cagliari dove nella cripta dei martiri è stata dedicata una cappella al patrono. Alla fine del ‘600 la basilica di San Saturnino subì uno tra gli ultimi interventi in quanto venne smantellata per ricavare del materiale da reimpiegare nella ristrutturazione della cattedrale sopracitata. 

 

La basilica in epoca contemporanea 

In seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, che aggravarono ancora di più la condizione già precaria della basilica, vennero attuati dei piani per il restauro del superstite braccio orientale e per la conservazione delle sepolture e di altri elementi collocati in quello che a un primo sguardo potrebbe oggi sembrare un giardino, quasi fosse un’esedra semicircolare antistante all’edificio ma in cui è ancora possibile ammirare i resti di colonne, capitelli, basi e iscrizioni. La basilica venne finalmente riaperta al culto nel 1996 e da allora risulta forte centro di interesse oltre che per la sua storia anche grazie ad alcuni eventi culturali ospitati nei suoi spazi. Inoltre a partire da quest’anno è possibile ammirare al suo interno il crocifisso ligneo di Pinuccio Sciola, una reinterpretazione moderna dell’iconografia medievale del crocifisso gotico doloroso, appartenente alla produzione giovanile dello scultore, databile agli anni ’70.

 

 

 

Informazioni utili

La basilica è situata nei pressi della piazza San Cosimo, gli orari di apertura vanno dal lunedì al venerdì dalle 09:00 alle 16:00. Ingresso libero.

 

 

 

 

Bibliografia

Roberto Coroneo , Renata Serra. Sardegna Preromanica e Romanica, 2004

 

Sitografia

https://virtualarchaeology.sardegnacultura.it/index.php/it/