IL CASTELLO DI MUSSOMELI
A cura di Antonina Quartararo
La storia: fascino architettonico e misteriose leggende
Il Castello di Mussomeli, o Castello Manfredonico Chiaramontano di Mussomeli, per la sua straordinaria tecnica costruttiva è considerato uno dei capolavori dell’architettura militare medievale siciliana. La fortezza si erge maestosa quasi a 2 km dal centro abitato, incastonata in un’imponente rupe in pietra calcarea alta 78 metri domina l’intera vallata sottostante (Fig.1). Il castello è stato costruito tra la fine del XII e l’inizio del XIV secolo sulle preesistenti rovine di un casale arabo durante la dominazione della famiglia D’Auria. La sua incredibile fama ha origine con Manfredi III di Chiaramonte, che ne prese possesso grazie al privilegio concesso dal Re Federico nella seconda metà del XIV secolo. Le opere murarie sono disposte a quote differenti e seguono la struttura naturale della roccia. Dotato di un solo ingresso e reso inaccessibile, assunse il nome di Castello Manfredonico Chiaramontano svolgendo sia il ruolo di presidio militare autonomo che quello residenziale (Fig. 2 -3). Si presume che per la sua distanza dalla città di Mussomeli, un tempo chiamata “Manfreda”, il castello non ebbe mai mansioni difensive dell’abitato. Fortemente scosceso a nord-est e a picco a sud-ovest, vi è solo un accesso sul lato nord (Fig.4) costituito da una stradina scavata nella roccia che attraversava un profondo fossato (poi richiuso) superabile grazie al ponte levatoio che caratterizzava l’impianto difensivo dei castelli dell’epoca. Nel 1374 il preesistente maniero diventò di proprietà di Manfredi III Chiaramonte, essendo egli il primo di Quattro Vicari che all’epoca governavano la Sicilia in vece della Regina Maria d’Aragona, nipote di Pietro IV, ancora bambina. La famiglia di Manfredi, di origine normanna, discendeva da Carlo Magno. Manfredi insieme a Francesco Ventimiglia conte di Geraci, Guglielmo di Peralta e Artale d'Alagona nominati “i Quattro Vicari” dovevano reggere lo Stato in nome della regina Maria. Iniziò così uno dei periodi più convulsi della storia della Sicilia, quello dei “Martini” (il Vecchio e il Giovane). In questo arco di tempo, frequenti furono le lotte baronali e le contese per il potere, tanto da ritenere necessaria la costruzione in Sicilia di luoghi fortificati. Nel 1391, morto Manfredi, i beni di famiglia ed il castello furono affidati al cugino Andrea Chiaromonte che continuò ad esercitare sull'Isola la stessa influenza politica del predecessore e a lottare contro gli Aragonesi. Il 10 luglio 1391 all’interno del castello si tenne una riunione dei baroni siciliani nella sala del trono, che da questo evento prese il nome la “Sala dei Baroni”; in questa stanza i baroni promisero ad Andrea Chiaromonte di schierarsi contro la venuta in Sicilia dell’aragonese Re Martino il Giovane e della Regina Maria. In realtà, il patto non fu mantenuto, ritenendo più conveniente obbedire al nuovo Re Martino anziché ai quattro vicari che da anni davano vita a feroci guerre intestine. I baroni Ventimiglia, Peralta e d’Alagona tradirono Chiaramonte, scossi da rivalità personali e da conflitti tra vecchie e nuove famiglie, trattando segretamente con gli Aragonesi per ottenere tutti i privilegi possibili in cambio del loro appoggio.
Nel marzo del 1392, Martino il Giovane, la moglie e il padre sbarcarono a Trapani e ricevettero subito l'ossequio servile della nobiltà. Solo Andrea Chiaramonte si rifiutò di rendere omaggio agli usurpatori del Regno, e con un’armata giunse a Palermo rifugiandosi all’interno del suo palazzo, lo Steri, dove, assediato, fu costretto alla resa. Dopo la sconfitta, la regina Maria, dinanzi alla quale Andrea Chiaramonte era stato condotto a rendere omaggio, finse di perdonarlo nel maldestro tentativo di rendere pubblica la sua magnanimità nei confronti di un ribelle. Fu un falso perdono perché dopo due giorni Andrea fu fatto prigioniero e decapitato in piazza Marina a Palermo, proprio davanti il suo palazzo, vanto della sua potente famiglia, che da quel momento iniziò il suo inarrestabile declino. I beni di Chiaramonte furono confiscati e distribuiti, e il castello di Mussomeli venne assegnato a Guglielmo Raimondo Moncada. Qualche anno dopo il castello passò ai Conti di Prades, che lo vendettero poi a Giovanni Castellar di Valenza per il prezzo di 890 once: questi lo completò nella forma in cui appare oggi. Reintegrato nel demanio, nel 1451 il castello venne riacquistato insieme al paese di Mussomeli da Giovanni di Parapertusa, nipote del Castellar e signore di Favara, Tripi e Sambuca, che lo rivendette poco dopo a Federico Ventimiglia; da questi nel 1467 lo ricomprò Pietro Campo, genero del Parapertusa, insieme con Mussomeli frattanto divenuta baronia. Infine nel 1549 Cesare Lanza, signore di Trabia, acquistò la terra e il castello di Mussomeli, elevando la terra a contea. Nel XVII secolo il castello fu adibito a carcere, rimanendo proprietà della famiglia Lanza di Trabia fino al XX secolo. Dopo un importante restauro avvenuto nel 1911 a cura dell’architetto Ernesto Arnò divenne di proprietà pubblica. Nel 2019 è stato ultimato un altro importante restauro con un investimento di 2,2 milioni euro.
Il castello di Mussomeli: gli interni
Attraversato il primo portale ad arco acuto ricavato all’interno della cinta muraria merlata, si vedono i resti dell’antica scuderia, ampio corpo allungato trapezoidale, coperto con volta a botte ogivale. Proseguendo il percorso in salita, si giunge alla seconda cinta muraria, nella quale si apre la porta d’accesso al castello (Fig.5-6), anch’essa ogivale, dove sono ancora visibili in sommità e ai lati gli stemmi signorili. Su di essi sono raffigurati un giglio, un castello con tre torri e un’aquila con le ali spiegate. Le tre torri rappresentano la famiglia Castellar, mentre l’aquila è da ricollegare agli Aragonesi. Varcata la soglia si trova un ampio cortile eptagonale (Fig.7-8) sui quali lati si affacciano gli ambienti residenziali del castello, la cappella e i resti del maschio. Da un piccolo vestibolo si accede attraverso un portale ogivale modanato alla cosiddetta “Sala dei Baroni” (Fig.9), ampio vano rettangolare di cui rimangono due bifore da cui è possibile ammirare un bellissimo panorama a strapiombo sulla vallata (Fig.10).
Interessanti sono la “Camera del camino” e la "Camera da letto" del conte, a doppia volta a crociera (Fig.11). Da ricordare ancora l'armeria, la cosiddetta "camera della morte", con insidiose botole, la "stanza delle tre donne" e il carcere feudale.
La stanza delle tre donne è avvolta da una leggenda popolare: un re in procinto di partire per la guerra chiuse in questa stanza tre donne della propria famiglia. Dopo averle imprigionate si mise in cammino, pensando di averle lasciate in un luogo sicuro. La guerra però durò più di quanto lui credeva e al suo ritorno trovò le tre donne morte, che tenevano addentate le pianelle per gli stimoli atroci della fame. Un'altra versione di questa storia è che le donne vennero rinchiuse e fatte morire di fame per la loro infedeltà.
Accanto alla “Sala dei Baroni”, un vano di pianta triangolare immette in una successione di ambienti coperti a volte a crociera costolonate, e nei quali si aprono delle bifore; attraverso scalette interne si accede ai vani di servizio sottostanti. Uscendo nel cortile interno sono visibili, ad una quota superiore, i resti di una costruzione a pianta rettangolare con muri spessi 2 metri circa, comunemente definita “maschio”. L’ultimo corpo di fabbrica affacciato sulla corte interna è la cappella (Fig.12), caratterizzata da un elegante portale in pietra, ogivale, analogo a quello che immette nella Sala dei Baroni’. La cappella dedicata prima a San Giorgio, protettore dei Chiaramonte, custodisce la statua della Madonna della Catena collocatavi nel 1521, a cui i carcerati si rivolgevano per implorare la grazia. Internamente la cappella, di pianta rettangolare, è decorata da due crociere costolonate, poggianti su semi pilastri poligonali, analoghi ai precedenti, sormontati da capitelli con fogliame; profonde feritoie si affacciano sulla vallata circostante.
Per il suo aspetto misterioso, il castello di Mussomeli è diventato ambientazione di leggende e storie incredibili. Si ricordano le tre donne murate vive, la tragica vicenda che portò alla morte la nobildonna Laura Lanza, conosciuta meglio con l’epiteto di Baronessa di Carini, effettivamente avvenuta e documentata in un atto del 1563 conservato nella chiesa parrocchiale di Mussomeli; proprio all’interno del castello di Mussomeli il padre della baronessa, Cesare Lanza, si rifugiò divorato dai rimorsi per espiare la propria colpa. Infine si menziona la storia del presunto fantasma dello spagnolo don Guiscardo de la Portes, cavaliere al servizio del re Martino I di Sicilia, morto durante un combattimento contro il ribelle Andrea Chiaramonte.
Il castello di Mussomeli è uno dei castelli medievali italiani tra i più suggestivi e meglio conservati: fa parte della “Società Internazionale dei Castelli” e nel 1982 è stato raffigurato su un francobollo della cosiddetta serie “Castelli d’Italia” (Fig.13). Inoltre è stato anche set per numerosi videoclip, pubblicità e film tra cui quello dedicato alla Baronessa di Carini del 2007 con protagonisti gli attori Vittoria Puccini e Luca Argentero.
Bibliografia:
Calà G., Ricerche storiche su Mussomeli, Caltanissetta 1995.
LA VILLA DEL CASALE DI PIAZZA ARMERINA
A cura di Antonina Quartararo
La scoperta di Villa del Casale
Le prime notizie storiche sulla bellissima villa tardo-romana di contrada Casale a Piazza Armerina (in provincia di Enna) si devono all'archeologo Gino Vinicio Gentili, che negli anni ’50 del Novecento cominciò ad indagare la zona dopo aver ricevuto varie segnalazioni da parte degli abitanti del luogo. Fin dal primo momento ci furono degli accesi dibattiti sull'identificazione del proprietario di questa meravigliosa villa costruita nell'entroterra siciliano. La sua insolita posizione all'interno dell’isola e non lungo la fascia costiera si riconnette alla situazione sociale ed economica dell’epoca: infatti, dopo una grave crisi e il conseguente spopolamento delle campagne, la Sicilia a partire dal IV secolo iniziò a godere, sotto la dominazione romana, di un periodo di prosperità grazie a nuovi insediamenti commerciali e al suo ruolo di ponte di collegamento tra la capitale dell’Impero romano e l’Africa proconsolare. I domini stanziati sull’isola cominciarono ad investire nella costruzione di confortevoli e lussuose dimore extraurbane, ed è proprio in questo periodo che si colloca la costruzione di Villa del Casale.
Secondo gli studi, la villa fu costruita in piena età costantiniana su una precedente fattoria e si daterebbe tra il 320 e il 325 circa. Le proposte di identificazione del proprietario sono diverse, come ad esempio l’attribuzione al tetrarca Massimiano dopo la sua abdicazione, o al figlio Massenzio. Un’altra tesi sostiene che il proprietario sia stato L. Aradius Valerius Proculus Popolonius, governatore della Sicilia tra il 327 e il 331 d.C., oppure Ceionus Lampadius figlio di Ceionius Philosophus, prefetto sotto Costanzo II.
L’architettura
La villa del Casale di Piazza Armerina ha un’estensione di 4000 m2 ed è possibile individuare quattro nuclei principali (Fig.1): l’ingresso monumentale a tre arcate con cortile a ferro di cavallo pavimentato con un prezioso opus sectile e con porfido (1-2), il corpo centrale, organizzato intorno ad un cortile con giardino e vasca al centro (8-39), il grande triconco, la sala adibita ai banchetti (47-55) e altri vani, infine il sontuoso complesso termale (40-46). La villa è divisa in due parti, una adibita a destinazione pubblica e l’altra a destinazione privata. Si presume che i lavori di costruzione siano durati dieci anni.
La villa del Casale, oltre alla sua struttura monumentale, è nota per i suoi grandi e splendidi mosaici.
La Villa del Casale di Piazza Armerina: i mosaici della zona pubblica
La zona pubblica, destinata all'udienza degli ospiti e dei visitatori, era la zona di rappresentanza per eccellenza. Dall'ingresso principale (1-2) si accedeva ad un grande giardino centrale decorato con un pavimento geometrico con scena di adventus su due registri. Nel registro superiore un uomo con una corona di foglie sul capo reca un candelabro sulla mano destra (Fig.2); l’uomo si trova in compagnia di due giovani con ramoscelli in mano e sembrano attendere l’arrivo di un ospite importante. Nel registro inferiore alcuni giovanetti recitano o cantano tenendo dei dittici aperti tra le mani. Non è chiaro se sia una scena religiosa o un solenne benvenuto per l’arrivo del proprietario.
Il peristilio di Villa del Casale (8), che circonda il grande giardino, è decorato con un mosaico raffigurante ghirlande d’alloro con al centro teste di felini, arieti, tori, capre, cavalli, cervi, uno struzzo e un elefante (Fig.3). Vicino alla vasca sta un piccolo vano con il Sacello dei Lari, ovvero gli dei protettori della casa (9). Opposto a questo vano vi è il corridoio della Grande Caccia (lungo 65,93 m e largo 5 m), famoso per il suo apparato musivo (Fig.4-5-6-7) che narra la cattura di bestie selvatiche che venivano sfruttate per i giochi all’interno dell’anfiteatro di Roma. Una prima scena raffigura i soldati che catturano una pantera in Mauretania con l’aiuto di una trappola. Seguono la caccia all’antilope in Bumidia e la cattura del cinghiale selvatico in Bizacena. Si noti che ogni scena è ambientata in una diversa provincia dell’Africa (fatta eccezione per la Tripolitania).
La seconda scena si svolge in un porto (è possibile si tratti di quello di Cartagine, all’epoca grande scalo occidentale) con un lussuoso edificio sullo sfondo, forse una villa marittima.
Un cavaliere sorveglia il trasporto di un pesante carico, probabilmente il servizio della posta imperiale. Altri uomini caricano sulle spalle animali legati o in enormi casse, un ufficiale frusta un prigioniero e altri trascinano su una nave antilopi e struzzi (Fig.8).
La terza scena raffigura un lembo di terra fra due mari (forse l’Italia o il porto di Ostia); dei personaggi osservano lo sbarco degli animali da due navi provenienti da est e da ovest. Si ipotizza che siano i tetrarchi, oppure Massenzio con due ufficiali. La scena, molto sintetica, è tipica dell’arte tardoantica, e dai modelli utilizzati si deduce che i mosaicisti provenissero dall'Africa settentrionale.
Dalla quarta alla settima scena del corridoio i mosaici seguono modelli diversi, forse occidentali, e si connotano per una differente resa plastica e naturalistica. La quarta scena raffigura un imbarco di animali, ambientato probabilmente in Egitto per la presenza di un dromedario, un elefante e una tigre. Nella quinta scena è descritta la cattura di alcuni rinoceronti in una palude, forse in un paesaggio nilotico, con fiorellini rossi ed edifici a pagoda. La sesta scena rappresenta la lotta tra un leone e un uomo ferito, e un uomo dall'aspetto autorevole è affiancato da due soldati che attendono insieme l’arrivo di una cassa misteriosa, contenente forse un grifone. La settima scena raffigura la cattura della tigre in India con l’aiuto di una sfera di cristallo, dall'effetto riflettente, che viene lanciata verso l’animale per distrarlo e intrappolarlo facilmente. L’ultimo episodio mostra la cattura di un grifone con un’esca umana dentro una cassa di legno. Alla fine del lungo corridoio nelle due absidi, che si presentano molto lacunose, si trovano rappresentate a mosaico due figure femminili. A nord, una donna reca in mano una lancia con accanto un leone e un leopardo, forse personificazione della Mauretania o dell’Africa (Fig.9). A sud, invece, la presenza dell’elefante, della tigre e della fenice suggeriscono che la figura femminile sia la personificazione dell’India (Fig.10).
In conclusione, le raffigurazioni di scene di caccia o cattura di animali simboleggiano il valore e il prestigio di un sovrano, mettendo in evidenza la conoscenza dei territori dell’Impero e degli animali già noti ai quei tempi sia in Occidente che in Oriente. Questi mosaici alludono ad una sorta di carta geografica, ed infatti non era raro nell'antica Roma che i governatori ricevessero una cartina geografica, di buon auspicio per l’accrescimento del proprio potere.
Villa del Casale di Piazza Armerina: i mosaici della zona privata
La zona privata della villa si estende lungo il lato settentrionale del peristilio (8). Molti sono i vani riccamente decorati: ad esempio, nel vano 16 vi sono sei coppie di personaggi sfarzosamente abbigliati e ingioiellati che rappresentano forse il ratto delle Sabine o le danze campestri in onore della dea Cerere che avvenivano durante le festività primaverili. Il vano 18 è ornato da Eroti, tema molto a cuore al proprietario della villa; gli Eroti pescatori all’interno di barche mostrano il segno “V” sulla fronte, il cui significato non è stato ancora del tutto spiegato.
È chiaro che si tratti di mosaici nordafricani. In una villa marittima, un Erote rovescia un paniere pieno di pesci mentre un altro sta per colpire un pesce con un tridente (Fig.11).
Gli Eroti pescatori sono presenti anche nei vani 51 e 52, nelle raffigurazioni del thiasos marino nella sala absidata 35 e nel frigidarium delle terme 43, dove una composizione fatta da Nereidi, Tritoni e cavalli marini decora la vasca a forma ottagonale. Nel vano 55 due Eroti portano ceste piene di grappoli ai loro compagni intenti alla pigiatura dell’uva. Il pavimento dell’ambiente 54 è interamente ricoperto da girali di tralci, grappoli, figure di Eroti con al centro un medaglione con un busto maschile, forse la personificazione dell’Autunno.
Nella sala 19 si trova il mosaico con la Piccola Caccia (Fig.12), formato da dodici scene disposte su quattro registri con cacciatori e i loro cani che inseguono una lepre, due uomini portano sulle spalle un cinghiale legato e un sacrificio alla dea Diana, rito che veniva fatto per garantire il buon esito della caccia. Altri uomini guardano alcuni volatili su un albero nell'attesa di catturarli; seguono un banchetto del dominus attorniato dai suoi attendenti in mezzo ad un bosco, la cattura di tre cervi e l’abbattimento di un cinghiale che ha ferito un uomo. Due servi nascosti dietro una roccia provano a colpire la bestia con un sasso, un altro, impaurito, si tocca la fronte. A differenza della Grande Caccia questo mosaico raffigura la vita quotidiana del dominus.
Gli appartamenti del dominus (A) e della domina (B)
L’appartamento a nord della grande aula absidata è dedicato alla domina e ai suoi bambini e ha delle dimensioni inferiori rispetto all’appartamento B del dominus. La stanza 28, che funge da anticamera, è decorata con l’episodio di Ulisse che sconfigge il gigante Polifemo porgendogli il kantharos contenente del vino (Fig.13). Comunicante a questa stanza vi è una sala absidata con un mosaico raffigurante Stagioni e ceste di frutta all’interno di tondi. Il pavimento del cubiculum 30 è ornato da tondi con elementi geometrici, stelle e Stagioni che circondano un medaglione con una coppia di amanti: per questo si è attribuita inizialmente l’ala alla sala del dominus, perché il soggetto erotico non era consono alla stanza di una donna (Fig.14).
L’appartamento del dominus (B) presenta pavimenti molto più elaborati, dove ritorna il tema degli Eroti pescatori con veduta di un porto. Segue il mito del poeta Arione che incanta le belve marine, Tritoni, Nereidi e cavalli marini con la sua arte poetica e musicale (Fig.15 -16). Nell’abside è raffigurata la testa del dio Oceano circondata da pesci diversi. Nella sala absidata 22 si trova Orfeo attorniato da diversi animali. Le scene di Arione e di Orfeo simboleggiano il dominio sulle forze brute attraverso le arti della poesia e del canto, invece le bestie alludono alle passioni umane e alla vittoria dell’uomo su queste ultime. Identico significato hanno i mosaici della Grande Caccia e della Piccola Caccia, che illustrano il trionfo dell’uomo sulle bestie grazie alla forza e all'astuzia. Nell'anticamera, ossia l’ambiente 36, si trova il mosaico di Pan dalle sembianze caprine che combatte Eros: a questa scena assistono fanciulli e giovani, forse i familiari del proprietario, e sul tavolo sono poggiate delle corone - premio per il vincitore (Fig.17). Dall'anticamera si passa al cubiculum 37, la cui pavimentazione a mosaico mostra bambini cacciatori, dei quali uno viene morso al polpaccio da un grosso topo e un altro fugge davanti a un gallo (Fig.18-19-20). Nell'anticamera 38, invece, vi è un circo di bambini che gareggiano con quattro bighe trainate da volatili ed un fanciullo attende di incoronare il vincitore con la palma che tiene in mano. Sembra essere un’allegoria delle Stagioni con un richiamo al trascorrere inesorabile del tempo (Fig.21). Il cubiculum 39 è decorato con un agone musicale in cui i fanciulli sono intenti alla recitazione e al canto e con delle fanciulle che intrecciano ghirlande di fiori e foglie (Fig.22).
La Villa del Casale di Piazza Armerina: la sala dei banchetti
Nella Villa del Casale di Piazza Armerina vi è una sala la cui decorazione è di grande effetto: si tratta della sala adibita ai banchetti, ove vengono mostrate le Dodici Fatiche di Ercole, con l’eroe trionfante e gli avversari sconfitti, quasi morenti o privi di vita. Tra le scene sono presenti i cavalieri sulle cavalle antropofaghe di Diomede, il leone Nemeo, l’idra di Lerna, Gerione con tre corpi, Cerbero, la cerva di Cerinea, il toro di Maratona, il cinghiale di Erimanto, il serpente delle Esperidi, la palude degli uccelli stinfalidi. Nell’abside nord, Eracle vittorioso viene assunto fra gli dei immortali e incoronato di alloro da due figure maschili, delle quali uno dovrebbe essere Dionisio e l’altro Giove. Alla scena assistono un giovane Fauno e una divinità fluviale. La piccola soglia all’ingresso dell’abside nord presenta due famose metamorfosi: Dafne trasformata da Apollo in pianta di alloro (simbolo del valore) e Ciparisso mutato in cipresso (simbolo dell’immortalità). Nell’abside est viene mostrata la fine dei Giganti uccisi da Eracle e dalle sue frecce. Il mosaico della soglia è legato allo stesso tema: vi è sono Andromeda e Endimione, due mortali trasformati in stelle per il loro valore, mentre Eracle viene accolto tra gli dei sull’Olimpo. Nell’abside sud trova luogo la rappresentazione del mito di Licurgo, re trace ostile a Dioniso. Il re tenta di colpire la ninfa Ambrosia con l’ascia, ma le gambe di lei si trasformano in tralci che la immobilizzano. Una baccante affiancata da due seguaci di Dioniso colpisce alla spalla il re con la propria lancia. Un giovane aizza una tigre contro Licurgo mentre Dionisio vince sui suoi nemici, enfatizzato dal gesto della menade. Tutto il programma musivo allude alla punizione di coloro che osano opporsi e ribellarsi agli Dei.
Le terme
Nel primo vano delle terme di Villa del Casale di Piazza Armerina (40) è raffigurata la domina con i suoi due figli. La donna ha un’acconciatura ad elmo, indossa un ricco abito ed è affiancata da due giovinetti con lunghi capelli. All’estremità le ancelle recano una cassetta con abiti e un’altra con manici contenente forse oggetti per il bagno. L’ambiente 42 è la palestra con annesso frigidarium.: qui viene raffigurata una corsa di quadrighe nel circo di Roma. A destra i dodici carcere,s ossia dei giovani addetti alla partenza dei cavalli, il tribunal con l’organizzatore dei giochi nell’atto di dare il via alla gara agitando un drappo bianco. Le statue di dodici dei, fra cui Mercurio, Fortuna, Ercole a destra, Giove a sinistra, due aurighi che si preparano alla corsa e tre templi. A sinistra, un arco a tre fornici con ai lati tribune piene di spettatori, e un piccolo edificio davanti alle tribune identificato con quello di Venere Murcia. L’arena è separata in due parti e sulla spina si trova la “meta prima” costituita da tre colonne coniche, un edificio dal doppio portico e l’overia con le sette uova che servivano a contare i numeri di giri già effettuati, la statua della Magna Mater sul leone, sullo sfondo un obelisco egiziano (Fig.23).
La parte terminale della spina presenta una grossa lacuna, oltre la quale si scorgono le tre colonne della “meta seconda” e le statue di discoboli e vari animali. Nella parte ovest dell’arena un suonatore segna la fine della gara, accanto l’editor ludi consegna la palma della vittoria al vincitore.
Dalla palestra si passa alla sala ottagona 43, forse coperta da una cupola, individuata come frigidarium, ovvero la sala con la vasca di acqua fredda (Fig.24). Nel frigidarium si trova rappresentato il thiasos marino con Tritoni, Nereidi ed Eroti pescatori che si dispongono intorno alla vasca. Quattro sono gli spogliatoi ornati con scene di mutatio vestis, ossia di figure che si vestono o si spogliano dei loro abiti. Le due piscine servivano una a contenere l’acqua fredda e l’altra per nuotare. Il campo presenta barche disposte a cerchio con due Eroti intenti alla pesca. Il passaggio 45 è da interpretare come stanza per i massaggi annessa alla sala del bagno caldo (calidarium) e mostra una scena di palestra. La sala 46 aveva la funzione di tepidarium come attestano i tre praefurnia e l’assenza di vasche. Nel mosaico sono raffigurate scene di gare allo stadio, tra i quali è identificabile la lampadedromia, ovvero la corsa con scudo e fiaccola.
Il più sorprendente mosaico (e forse il più famoso) si trova nell'ambiente 24, dove sono raffigurate varie attività sportive con il famoso mosaico delle “fanciulle in bikini”, che raffigura dieci atlete che si cimentano nel lancio dei pesi e del disco, nel gioco della palla, nella corsa; in onore della dea del mare Teti, due di esse sono premiate con la palma e con una corona di fiori (Fig.25-26-27-28).
Si ringrazia Giuseppina Dolce per aver concesso alcune foto presenti in questo articolo.
Bibliografia
Cipriano (a cura di), Archeologia Cristiana, Palermo 2007, pp.299-339.
LA CHIESA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE AL CAPO
A cura di Antonina Quartararo
UN ESEMPIO DI BAROCCO PALERMITANO
A pochi passi dall'entrata di Porta Carini nel quartiere del Capo a Palermo, a fine Cinquecento sorgeva un convento che era stato fortemente voluto da donna Laura Barbera Ventimiglia, la quale aveva concesso il suo palazzo con l’annessa chiesetta per tale scopo. Il convento, che sarebbe dovuto essere istituito sotto la Regola Francescana, venne affidato alle monache benedettine provenienti dal monastero dell’Origlione. Negli anni a seguire il convento fu trasformato in ospedale civico e mantenne questa destinazione d’uso fino al 1932, anno in cui venne demolito per far spazio alla costruzione dell’odierno Palazzo di Giustizia. Secondo le poche notizie note, l’attuale chiesa barocca fu edificata sulla preesistente chiesetta a partire dal 1604 dall'architetto regio Orazio del Nobile sotto il viceré Marcantonio Colonna. La chiesa dell'Immacolata Concezione al Capo fu consacrata nel 1612, ma i lavori di abbellimento si protrassero fino a metà del secolo successivo. La facciata d’ingresso è tipica del periodo, infatti mostra una certa severità architettonica. È presente un portale di pietra decorato da intagli incastonato tra una coppia di paraste binate che si ripetono anche nel secondo ordine. La finestra semicircolare è sicuramente frutto di un intervento architettonico di fine Seicento, che andò a sostituire una finestra più piccola di forma rettangolare, e l’intervento è stato attribuito a Paolo Amato (Fig.1).
LA CHIESA DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE AL CAPO E I "MARMI MISCHI"
Alla semplicità della facciata è contrapposta la sfarzosa policromia dell’interno, simbolo della grandezza di Dio e della Chiesa, perfettamente in linea con i dettami del Concilio di Trento e della Controriforma, in cui l’immagine sacra assume in sé una potenzialità di didattica autonoma che doveva incitare alla conversione e alla devozione fungendo da strumento e ricettacolo. Per ottemperare a queste esigenze si diffuse in Sicilia a metà del Seicento la tecnica dei “marmi mischi” che consisteva nel decorare gli interni con delle tarsie marmoree di colori diversi. Fautrice e finanziatrice di tale opera fu la badessa Flavia Maria Aragona che rimase in carica dal 1625 al 1651.
La chiesa a navata unica è ornata da cappelle senza sfondo. La parte più antica è la zona presbiteriale, al cui progetto partecipò anche Pietro Novelli detto il “Monrealese”, al quale si deve il dipinto dell’Immacolata Concezione collocato sull'altare principale d’ispirazione vandyckiana (Fig.2).
Originariamente i muri laterali erano impreziositi da semplici stucchi, e solo dal 1685 iniziarono le opere di abbellimento sotto la direzione dell’architetto gesuita Lorenzo Ciprì e dal suo aiutante Girolamo Monti, che portarono alla realizzazione dell’addobbo marmoreo. L’iconografia dell’intera composizione presenta una fusione fra temi benedettini e gesuiti. Le sculture sono ricondotte agli artisti Giovan Battista Ferrara, Baldassarre Pampillonia e a Gerardo Scuto.
La prima cappella a destra vicina all'entrata è dedicata a Santa Rosalia patrona della città ed è inserita all'interno di un elegante altare con colonne tortili. Ai lati due mensole su cui sono collocate le statue raffiguranti San Ildefonso e San Pier Damiani (Fig.3 a-b).
Segue una rientranza della superficie muraria chiamata “porta” che inquadra una grata dove è collocata la statua marmorea della Madonna della Mercede del 1623, presunta opera di Vincenzo Guercio. Sulla nicchia superiore sovrasta la statua di San Francesco Saverio fiancheggiato da putti che reggono i suoi attributi iconografici e i simboli della Compagnia di Gesù (Fig.4 a -b).
La seconda cappella ospita San Benedetto che ordina la distruzione degli idoli, realizzato nel 1775 da Giuseppe Velasco. Ai lati della cappella sono allocate le statue di San Bemba Re e di San Sergio (Fig.5).
Il presbiterio con arco trionfale è ornato da raffinati intarsi e affiancato da doppie colonne di marmo cotognino. Sulla trabeazione sono state collocate delle statue di San Gertrude, San Mauro, San Benedetto e la sorella Santa Scolastica. Un cupolino ottagonale stuccato sormonta l’altare principale. Gli otto pannelli affrescati con gli Evangelisti e gli angeli sono ricondotti a Pietro Novelli e datati 1635 (Fig.6).
La prima cappella a sinistra è decorata con la Madonna di Libera Inferni scolpita da Vincenzo Guercio nel 1635. Affiancano la cappella le statue di Sant’Anselmo e di Sant’Umberto (Fig.7).
Sulla stessa parete trova posto il sarcofago di donna Laura Barbera Ventimiglia con l’urna retta da cariatidi alate. La seconda cappella è decorata con un Crocifisso con cornice lignea a reliquiario di colore oro attribuito a Simone da Lentini. Ai lati le statue di San Agatone e San Lotario. Nella nicchia della porta è posta la statua di Sant’Ignazio di Loyola (Fig.8).
Il coro marmoreo, sostenuto da colonne binate, fu progettato da Paolo Amato nel 1684. Nel sottocoro gli affreschi, che raffigurano Santi, simboli mariani e dello Spirito Santo traggono ispirazione dallo stile di Guglielmo Borremans. La volta è decorata con le seguenti raffigurazioni: la Vergine Immacolata che schiaccia il serpente, il Trionfo degli Ordini Religiosi e nei riquadri minori i Padri fondatori eseguiti da Olivio Sozzi (Fig.9 a-b).
Particolari e degni di menzione sono i quattro paliotti realizzati in marmo mischio con scenografie prospettiche come la Fuga in Egitto (Fig.10) e il pavimento a disegno geometrico decorato con motivi a nastro, ad onde e da intarsi di stelle e rose di venti.
Attualmente la chiesa è aperta al pubblico, però molto spesso non salta subito all'occhio in quanto la strada ove essa è situata ospita il mercato giornaliero; sovente, quindi, l'ingresso della chiesa viene fiancheggiato dalle bancarelle e dai tendoni dei venditori ambulanti, che lo coprono parzialmente pur donandogli maggior fascino.
Bibliografia
Bajamonte et al., Palermo l’arte e la storia. Il patrimonio artistico in 611 schede, Palermo 2017.
LA CASINA CINESE: UNA DIMORA PER GLI SVAGHI
A cura di Antonina Quartararo
La storia della Casina cinese: un amore a prima vista
Ferdinando IV di Borbone e la moglie Maria Carolina arrivarono a Palermo nel 1798, in fuga dalla città di Napoli, dopo 40 anni di regno, per i tumulti provocati delle truppe francesi e per trovare protezione sotto il protettorato inglese in Sicilia. Esule e lontano dalla sua residenza napoletana, per il re le battute di caccia e le sperimentazioni agricole rimanevano sempre una grande passione. Per far fronte a questo suo interesse per l’arte venatoria, il re diede l’incarico al viceré Giuseppe Riggio, principe di Aci, di acquistare i terreni situati nella cosiddetta “Piana dei Colli” sotto le pendici di Monte Pellegrino (Fig.1). All'interno di questi terreni (che corrispondono all’attuale Parco della Favorita) sorgeva un edificio ligneo dallo stile “stravagante” di proprietà dell’avvocato Benedetto Lombardo, che piacque molto al re Ferdinando IV che decise di ristrutturarlo per adibirlo a seconda residenza dopo il Palazzo reale. Per comprendere l’aspetto della preesistente casina lignea, ci rimane un importante acquerello realizzato da Pietro Martorana nel 1797, oggi conservato presso il Palazzo Reale del capoluogo siciliano (Fig.2). Da questo disegno si denota come l’originaria costruzione lignea, dagli evidenti caratteri orientali, aveva una pianta quadrata con tre elevazioni sormontati da tetti a pagoda e da ringhiere che ne ornavano il perimetro.
L’edificio attuale
Gli interventi ottocenteschi di trasformazione in residenza regale furono affidati all'architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia che si occupò anche di sistemare i giardini. L’architetto organizzò la casina a più livelli aggiungendo due terrazzi simmetrici cinti da colonnati e da un seminterrato (Fig.3). Dal 1802 la direzione dei lavori fu affidata al figlio di Marvuglia, Alessandro Emanuele, che concluderà i lavori. Partendo dall'ultimo livello dell’edificio si trova una grande terrazza coperta da un tetto a pagoda e una loggia ottagonale denominata “Sala della Specola” o “Stanza dei Venti” decorata all'interno dall'artista Rosario Silvestri. Al primo e al secondo piano vi sono delle balconate continue da cui si accede anche da due torri esterne con scale elicoidali realizzate da Giuseppe Patricolo nel 1806 (Fig.4).
Il seminterrato presenta dei portici ad archi acuti che ricordano lo stile gotico. I pronai dei prospetti nord e sud, a sei colonne di marmo, sono coronati da cornice a pagoda da cui si ricavano due piccoli terrazzi (Fig.5). Elementi tratti dallo stile Neoclassico sono le cornici di colore rosso, verde e ocra che delineano le porte e le finestre della facciata esterna. Le cancellate sono decorate con campanellini e i lampioni sono di gusto orientale (Fig.6).
Gli interni della Casina cinese
Per quanto concerne la decorazione degli interni, essa spazia tra lo stile cinese, quello turco e il gusto neoclassico (per lo stile pompeiano e le raffigurazioni di rovine). Il secondo piano adibito ad uso della regina Maria Carolina è composto da un “Salottino alla turca” (Fig.7 a-b) e dal “Salottino all’Ercolana”, di chiaro gusto neoclassico e ispirato alle scoperte archeologiche, decorato dal Silvestri (Fig.8). Un piccolo ambiente soprannominato “gabinetto delle pietre dure” aveva la funzione di studiolo ed è ornato da motivi ad intarsio (Fig.9 a-b). Sullo stesso piano è collocata la camera da letto con spogliatoio in stile neoclassico, decorata da piccoli medaglioni dove sono raffigurati i ritratti monocromi dei membri della famiglia reale ornati da didascalie dai toni amorevoli e affettuosi attribuiti al pittore napoletano Cotardi (Fig.10).
Nel piano intermedio troviamo le stanze della servitù, delle dame e dei cavalieri decorate in stile neoclassico e da figure mitologiche. Al primo piano, da cui si accede tramite le due scalinate esterne del prospetto sud, troviamo la zona di rappresentanza con il “Salone delle Udienze” (Fig.11 a, b, c, d, e) impreziosito da pannelli in seta decorati con motivi cinesi e delle scritte in varie lingue: arabo, cinese ed ebraico (le scritte non possiedono alcun significato) e il “Salottino da gioco” decorato da Velasco con scene tratte dal mondo cinese e uccelli intrecciati a motivi ornamentali. A destra dell’entrata si trova la sala da pranzo con la “tavola matematica” progettata dal Marvuglia, dotata di un dispositivo a corde con il quale faceva salire e scendere le portate dalla cucina per evitare l’intervento fisico della servitù (Fig.12 a,b,c,d). Un tavolo simile si trova nel Petit Trianon situato all'interno dei giardini della Reggia di Versailles fatto installare da Luigi XV. Le pareti della sala da pranzo sono decorate con scene di vita quotidiana cinese in un’ambientazione campestre. A sinistra dell’entrata, invece, è disposta la stanza da letto del re Ferdinando IV delimitata da un’alcova con otto colonne in marmo bianco. Il soffitto fu dipinto da Velasco e Cotardi con figure di pavoni simbolo della fertilità e con personaggi cinesi abbigliati con vesti multicolori in atto di rendere omaggio ai dignitari seduti sotto grandi pagode (Fig.13).
Nel seminterrato si trovano la camera da bagno in marmo con una grande vasca ovale incassata nel pavimento e la “Sala delle Rovine” con un tromp-l’oeil che raffigura nella volta una finta rovina avvolta dalla natura selvaggia e dall'umidità (Fig.14) attribuito a Raimondo Gioia, e la “Sala da Ballo” con due vani orchestra e ornata in stile Luigi XVI da Velasco (Fig.15). Dopo aver subito un accurato restauro la Casina cinese è stata riaperta al pubblico nel 2009.
Il gusto per le cineserie
La costruzione mostra con disinvoltura l’accostamento e la fusione di elementi esotici e orientali all'arte neoclassica, dando vita a quello stile che prende il nome di “eclettismo ottocentesco”. All'epoca la Cina non era una terra molto conosciuta, ma la sua cultura raggiunse l’Europa, in particolare la Francia e poi Napoli soprattutto attraverso l’Inghilterra, mediante l’importazione di testi, stampe, porcellane e tessuti. Di questa cultura “cinese” se ne fece un’interpretazione artistica propria ed in Sicilia questo stile ebbe molto slancio, soprattutto nella città di Palermo, dato l’avvicinamento con l’Inghilterra durante la guerra napoleonica. Ulteriori testimonianze sono: la “Sala Cinese” dipinta dai fratelli Giovanni e Salvatore Patricolo all'interno degli appartamenti del Palazzo Reale di Palermo che veniva utilizzata spesso dai regnanti come sala da tè e il “Salottino alla cinese” decorato dal pittore Giovanni Lentini con sete e dipinti con temi d’ispirazione orientale realizzato presso il Palazzo Filangeri di Mirto a metà del XIX secolo (Fig.16).
Bibliografia
Bajamonte C. et al., Palermo l’arte e la storia. Il patrimonio artistico in 611 schede, Palermo 2016.
LA CHIESA DI SANT'ANNEDDA A SALEMI
A cura di Antonina Quartararo
Un affettuoso diminutivo
La chiesa di San Clemente, comunemente conosciuta come chiesa di Sant'Annedda, sorge tra le viuzze caratteristiche del centro storico di Salemi, provincia di Trapani, ricco di chiese e stabilimenti religiosi. Prima di essere consacrata era un piccolo magazzino agricolo appartenente al marchese Giuseppe Emanuele di Torralta, il quale donò il fabbricato alla Congregazione di Sant’Anna rimasta priva della propria sede a causa della costruzione di un Conservatorio di Sant’Anna (con annessa chiesetta) fondato nel 1655 da Filippo Orlando, barone di Rampingallo che serviva ad accogliere le fanciulle rimaste orfane e povere. La Congregazione però non poté intitolare la chiesetta a Sant’Anna perché doveva essere distinta da quella già esistente del Conservatorio e la chiamarono con il vezzeggiativo di Sant’Annedda e tuttora i salemitani la conoscono con questo nome.
La chiesa di Sant'Annedda: descrizione
La chiesa di Sant’Annedda (o di San Clemente) presenta una navata di piccole dimensioni e venne riaperta al pubblico nel 1692. Il prospetto della chiesa è di semplice fattura e presenta un portale in pietra sormontato da una piccola finestrella e una trabeazione curvilinea (Fig.1). La pavimentazione all'interno è formata da quadrati di marmo di colore bianco e nero. La navata è fiancheggiata da alte finestre dalle quali penetra poca luce ed è intarsiata e arricchita da stucchi in oro.
Sull'unico altare esistente in fondo alla chiesa (Fig.2), posto di fronte alla porta d’ingresso troneggia un bel Crocifisso ligneo del trapanese Milanti, collocato in mezzo ad un ricco reliquiario baroccheggiante (Fig.3). I Milanti erano una famiglia di valenti scultori di Trapani, attivi nei secoli XVII e XVIII, il cui membro più noto è Giuseppe, il quale insieme al fratello Cristoforo realizzò molti gruppi statuari dei “Misteri” che il Venerdì Santo vengono portati in processione a Trapani.
Sotto l'altare principale della chiesa di Sant'Annedda sono poste le spoglie mortali ed integre del Santo Martire Clemente (Fig.4) portate lì dal salemitano P. Giuseppe Maria Mistretta, generale dell’Ordine degli Emeritani di Sant’Agostino. In quell'occasione la chiesa fu dedicata a San Clemente, ma tale dedicazione ufficiale non ebbe successo e sino ad oggi la chiesa è quasi universalmente conosciuta con il nome di Sant’Annedda. Due piccoli locali adiacenti all'altare fungono da sacrestia.
Le navate
Le pareti si presentano letteralmente tappezzate da settecentesche tele dipinte da Fra Felice da Sambuca (il cui vero nome è Gioacchino Viscosi) che rappresentano scene di vita di Maria e di Gesù. Le dodici tele non sono disposte in base all'ordine cronologico degli episodi riportati dai Vangeli, ma sono disposti in senso orario, secondo la seguente disposizione: “Lavanda dei piedi”, “Orazione all'orto”, “Flagellazione”, “Incoronazione di spine”, “Gesù cade sotto la Croce”, “Gesù inchiodato sulla Croce” (Fig.5-6), “Maria Bambina con Sant’Anna”, “Maria adolescente con San Gioacchino”, “Natività” (Fig.7), “Adorazione dei Magi”, “Fuga in Egitto”, “Sacra Famiglia con visione della Croce” (Fig.8-9).
In prossimità della porta d’ingresso si ammirano altre due tele di mirabile fattura che raffigurano, rispettivamente, “Gesù e la Samaritana” e “Gesù e il paralitico in barella”, attribuite anch'esse al Frate sambucese. Fra Felice, nato nel 1734 a Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento, a soli vent'anni entrò nel Convento Francescano di Monte S. Giuliano assumendo il nome, per l’appunto, di Fra’ Felice. Diventato famoso dopo avere dipinto i Quattro Dottori ed i Quattro Evangelisti nel Convento francescano di Palermo, fu chiamato persino a Roma per dipingere in Vaticano una serie di tele celebrative in occasione della beatificazione del confratello Bernardo da Corleone. Il frate visse anche a Salemi prima della sua morte, avvenuta a Palermo nel 1805.
La cappelletta
Sul lato sinistro, invece, si apre una piccola e suggestiva cappelletta dove sono custodite le statue del Cristo Morto (Fig.10) e della Vergine Addolorata (Fig.11) che vengono portate in processione il Venerdì Santo a Salemi. Sempre in questa cappelletta inserito all'interno di una bara di vetro è posto un dolorante “Ecce Homo” (Fig.12) considerato miracoloso, in atto di schiudere le labbra. Secondo la tradizione, l’Ecce Homo avrebbe parlato al pio e santo parroco Pietro Roello (1689-1736) che lo aveva implorato di rafforzare la sua fede divenuta vacillante e che in tale occasione rimase con la bocca socchiusa. La scultura è realizzata in cartapesta di colore nerastra.
Attualmente la chiesa di Sant'Annedda è chiusa al culto e viene riaperta soltanto durante le feste religiose più solenni del paese o durante le funzioni religiose del Venerdì Santo; queste culminano con il tradizionale pellegrinaggio dei fedeli i quali, in file ordinata, si recano per baciare i piedi o il costato del Cristo deposto dalla croce.
Bibliografia:
- Cammarata P., Il castello e le campane, Palermo 1993.
- Riggio Scaduto S., Salemi. Storia- Arte- Tradizioni, Caltanissetta 1998.
IL TEMPIO E DI SELINUNTE: IL CULTO DI HERA
L'antica colonia greca di Selinunte in Sicilia è una delle zone archeologiche tra le più importanti d’Europa per estensione ed imponenza. Selinunte venne fondata dai megaresi di Iblea tra il 627 e il 628 a.C., e il suo nome è legato a quello del fiume che scorre ad Ovest della città antica, il Selinon (oggi Modione), il quale, a sua volta, deriva dal prezzemolo selvatico (in greco, Σελινοῦς) che cresce abbondante in queste terre. Ancora visibile è la sua acropoli, la parte più alta della città costituita dalla zona residenziale, dalla zona sacra, dalla zona pubblica e da quella commerciale. La città si affaccia sul porto, aveva una propria necropoli e la chora, luogo in cui venivano amministrati i beni. Selinunte era una bellissima città marittima e di frontiera, aperta agli influssi punici, elimi, sicani. Perfettamente conservato rimane l'assetto urbanistico, realizzato tra il 409 e il 250 a.C., con la cinta muraria e numerosi templi, tra i più significativi del mondo greco per dimensioni e purezza di forme per la continuità di testimonianze scultoree. Situato all’interno dell’acropoli Selinuntina, precisamente sulla collina orientale, è il tempio E, dedicato alla dea Hera (Fig.1). Il tempio è di ordine dorico, realizzato all'incirca nella metà del VI secolo a.C. e fu rimesso in piedi nel 1959 dall’archeologa Aldina Cutroni Tusa che assemblò il tempio con pezzi di colonne di altri templi distrutti, oltre che quelli originali. Inoltre, alcune colonne furono restaurate con parti in cemento per evitare il crollo del tempio. Ben distinguibili sono le colonne originali che presentano sfumature di colore più chiare, invece le colonne in cui è stato utilizzato il cemento presentano sfumature più scure. Il tempio è un periptero esastilo (70,18 x 27,65 m) composto da sei colonne sui fronti e quindici sui lati lunghi (Fig.2-3). Il tempio fu costruito con il materiale proveniente dalle vicine Cave di Cusa, tutt’ora visitabili. Il lavoro di estrazione del materiale grezzo per le colonne era assai faticoso, infatti gli operai scavavano nella roccia circolarmente fino ad ottenere un cilindro di pietra calcarea. Veniva inserita una trave di legno bagnata che, aumentando di volume grazie all’acqua, serviva a far staccare il blocco, poi trasportato a Selinunte, dove veniva lavorato per la costruzione delle colonne dei templi. Le colonne del tempio poggiano direttamente sullo stilobate e l'interno, che un tempo che poteva essere visto soltanto dai sacerdoti, era costituito dal pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti), dalla cella e dalla statua della divinità, ormai andata perduta (Fig.4). Sulla parte alta della colonna si trovavano i triglifi (elemento di pietra decorato con tre scanalature verticali) che scandivano le metope (formella di pietra scolpita a rilievi raffiguranti le imprese di Eracle). Le metope erano decorate da figure divine o mitologiche in atteggiamento ieratico, esse furono realizzate in stile Severo, nel momento della sua massima maturità. Furono totalmente realizzate in calcarenite locale, ma per le parti nude femminili fu utilizzato il marmo. Un tempo le metope erano colorate vivacemente, purtroppo il colore è andato perso, anche se a volte è possibile riscontrare delle tracce. Tra le metope ricordiamo: Eracle in lotta con l’Amazzone, il matrimonio sacro di Zeus ed Hera, Atteone sbranato dai cani di Artemide, Atena che atterra il gigante Encelado, esse sono tutte conservate ed esposte presso il museo Archeologico Regionale Antonio Salinas di Palermo (Fig. 5). Davanti al tempio era presente un altare su cui venivano sacrificate gli animali in onore della dea. Il tempio E di Selinunte costituisce uno degli esempi più interessanti tra quelli prodotti dalla colonia megarese poiché fonde nella sua struttura elementi provenienti dalla madrepatria greca con persistenze locali, producendo un risultato notevole; del resto, la colonia fu uno dei centri più importanti dell’Isola e come tale fu molto aperta alle diverse tendenze artistiche che si diffusero tra le varie colonie.
LA CAPPELLA PALATINA DI PALERMO
“La più bella che esiste al mondo, il più stupendo gioiello religioso vagheggiato dal pensiero umano ed eseguito da mani d’artista”
-Guy de Maupassant –
Inseriti dal 2015 nella World Heritage List, la Cappella Palatina e il suo Palazzo sono Patrimonio dell’umanità. Questi edifici costituiscono il cosiddetto itinerario arabo-normanno, insieme alle cattedrali di Cefalù e di Monreale, e rappresentano un eccezionale valore universale, frutto di una felice convivenza e interazione tra diversi contesti culturali, storici, geografici e religiosi, dando vita ad unicum architettonico. Nella Cappella Palatina confluisce l’esperienza architettonica fatimita delle maestranze operanti a Palermo alla corte di Ruggero II, la sontuosità decorativa dei mosaici bizantini, la fede nel Cristianesimo dei sovrani normanni, la suggestione della cultura islamica ancora operante a Palermo. Il re Ruggero II dopo la sua incoronazione del 1130 ordinò la costruzione della Cappella del suo palazzo, ubicata al primo piano, che assunse dignità parrocchiale solo due anni dopo, come si legge in una iscrizione sotto la cupola e venne consacrata nel 1140. La Cappella nacque per sintetizzare le necessità liturgiche del rito latino e di quello greco, ne è d’altronde prova la pianta basilicale (latina) a tre navate ed il presbiterio (bizantino), sormontato da una cupola. All’interno del Palazzo Reale (o chiamato anche Palazzo dei Normanni), la Cappella Palatina ha una funzione baricentrica, oggi difficilmente leggibile dopo sono state unificate le facciate collegando il complesso gli edifici turriformi della reggia normanna. In origine, la cupoletta emisferica della Cappella doveva spiccare nel blocco stereometrico dell’edificio dove le superfici murarie erano decorate da archeggiature cieche. Oggi l’ingresso della Cappella è preceduto da una loggia con arcate a sesto acuto, decorata da mosaici ottocenteschi raffiguranti “La ribellione di Assalonne al padre David”, opera dell’aretino Santi Cardini, che sostituirono gli originali del XVI secolo. Il ciclo fu realizzato su committenza di Ferdinando III di Borbone (presente insieme alla moglie Maria Carolina nel medaglione del mosaico col Genio di Palermo incoronato)
Fig. 1) Ingresso alla Cappella Palatina con apparato musivo ottocentesco raffigurante “La ribellione di Assalonne al padre David”
Il pronao originale si può individuare nella sala rettangolare con volte a crociera antistante la Cappella, restaurata dal Valenti nei primi del ‘900. La Cappella ha le proporzioni di una cattedrale in miniatura (32 m di lunghezza x 12,40 di altezza, 18 con la cupola) ed è divisa in tre navate da colonne di riporto, separata da un grande arco trionfale, da alcuni gradini e da transenne marmoree, dalle navate. Il presbiterio, composto da una struttura cubica cupolata, ha un valore simbolico legato alle figure geometriche fondamentali del quadrato e del cerchio, presenti tanto nella religione islamica che in quella bizantina. La sacralità di tale spazio è accentuata anche da particolari attributi decorativi come le colonnine in porfido negli spigoli delle tre absidi. Tutta la superficie muraria dell’interno della Cappella è arricchita da un manto musivo che si snoda sopra i candidi lambris di marmo: un nastro ornato con palme stilizzate fa da cesura e da collegamento al percorso verso l’alto. La particolare concezione teocratica del potere dei monarchi normanni, che chiamarono maestranze bizantine direttamente dall’Oriente, viene espressa all’ingresso della Cappella, nel lato opposto al santuario: il trono normanno viene rappresentato significativamente sotto il mosaico della Consegna della Legge.
Fig. 2) Particolare della decorazione con Cristo sul trono affiancato dai principi degli Apostoli (Pietro e Paolo)
Anche questo spazio riservato al trono, come il presbiterio, è sopraelevato da alcuni gradini. I mosaici più antichi sono quelli della navata centrale e della cupola e risalgono al 1143.L’immagine di maggiore impatto è il Pantocratore benedicente, presente nella cupola, esattamente realizzato secondo i più classici canoni bizantini. Cristo è rappresentato a metà figura con un lieve scarto della testa e delle spalle verso sinistra; indossa una tunica rosso scuro ed un himation blu solcato da una fitta rete di crisografie. La mano destra poggiata sul petto è in posizione benedicente mentre la sinistra mostra un libro con un passo del Vangelo di Giovanni.
Fig.3) Particolare della cupoletta del catino absidale con il Cristo Pantocratore
Interessante è la ripetizione di tale elemento nel catino dell’abside centrale, dove ha un effetto comunicativo e misericordioso nei confronti di chi accede all’interno della Cappella.
Fig. 4) Catino absidale con immagine di Cristo Pantocratore
Tra i mosaici più antichi, nel Diaconicon, spicca il battesimo di Cristo, opera realizzata con una sorprendente stilizzazione delle onde. Immagini di Santi e Padri della Chiesa sono presenti nei pilastri e negli intradossi degli archi. Dalle analisi stilistiche, contemporanei alle navate laterali, decorate sotto Guglielmo I, sono narrati episodi della vita di San Pietro e di San Paolo ed in quella centrale gli eventi dell’Antico Testamento. Eccezionale è poi il soffitto ligneo, il più grande repertorio pittorico islamico che ci è pervenuto, infatti, nelle alveolature delle muqarnas.
Fig.5) Soffitto ligneo con muqarnas
si snodano raffigurazioni profane attinenti alla vita di corte: bevitori, danzatrici, musici, giocatori di scacchi, cammelli convivono con i contenuti della storia sacra dei mosaici sottostanti. Posteriore e molto restaurato è il soffitto a spiovente delle navatelle. Un ’iscrizione in latino, greco e arabo del 1142, a ricordo dell’orologio idraulico fatto costruire da Ruggero II, testimonia l’intrecciarsi di molteplici culture nella Palermo normanna (si trova nel secondo loggiato del Cortile Maqueda del Palazzo Reale di Palermo, poco prima del vestibolo della Cappella Palatina, in direzione della scala che conduce al Cortile della Fontana ed è così tradotta nella sua versione bizantina “O meraviglia nuova! Il forte Signore Ruggiero avendo avuto lo scettro da Dio, frena il corso della fluida sostanza, la cognizione distribuendo scevra di errori delle ore del tempo. Nel mese di marzo indizione quinta e di nostra salute l’anno 1142, e del suo felice regno l’anno XIII”).Sulla sinistra del presbiterio si trovava un balcone (al posto dell’odierna finestra), collegato tramite un percorso agli appartamenti reali, dal quale il re poteva assistere alla funzione religiosa. Vicino vi è il mosaico con la Madonna Odigitria. Lo splendido pavimento (1143-49) con motivi geometrici si ispira all’arte tessile.
Fig.6) Particolare della pavimentazione in mosaico
Tra gli arredi della Cappella Palatina sono da notare: l’ambone del XII sec., di forma quadrangolare in marmo e porfido arricchito da nastri musivi e sorretto da colonne decorate da un motivo a zigzag, realizzato forse nel nord Italia; i leggii sono sorretti dai simboli degli Evangelisti; il candelabro per il cero pasquale, alto circa 4 m, dove tra motivi vegetali e animali si evidenzia la figura di Cristo che benedice un uomo in vesti vescovili, forse lo stesso Ruggero. Di frequenza i re normanni si facevano rappresentare nelle sezioni tradizionalmente riservate ai santi, con i simboli dei basilei (imperatori bizantini) al fine di affermare il proprio potere. Alla base è la raffigurazione di quattro leoni che azzannano uomini; l’acquasantiera con un motivo a zigzag e leoni alla base. Anche per i capitelli, l’arte arabo-normanna si rifà a quella bizantina, introducendo un pulvino tra il capitello e l’imposta dell’arco (visibile nel Duomo di Monreale). In vicinanza dell’ambone vi è l’accesso alla cosiddetta cripta, forse la prima cappella del Palazzo Reale, composta da due vani, uno quadrato absidato con due colonne, e un’altra sala, collegata alla prima da ambulacri, che fu anche camera sepolcrale di Guglielmo I prima del trasferimento nella Cattedrale di Monreale. Questo locale ipogeico è collegato al Palazzo Reale e al suo interno si conserva un Crocifisso ligneo del XVI secolo. Al Tesoro della Cappella Palatina si accede dal pronao d’ingresso: vi si trova il Tabulario con più di trecento pergamene, alcune trilingue (arabo, greco, latino); quindici cofanetti realizzati tra X e XV secolo, di cui alcuni fatimiti in avorio con magnifiche decorazioni e iscrizioni islamiche; un sigillo mesopotamico forse portato in Sicilia dai Crociati; il Pastorale di S. Cataldo di raffinata fattura bizantina; un’urna d’argento del 1644 ideata da Pietro Novelli; reliquiari, paramenti e oggetti sacri.La Cappella Palatina fu danneggiata dal terremoto del settembre 2002 fu sottoposta a restauri, il progetto fu redatto dall’architetto Guido Meli dirigente del centro regionale per il restauro della Regione Siciliana venne finanziato dal mecenate tedesco ReinoldWurth per oltre tre milioni di euro è stato completato entro il 2008. I lavori vennero eseguiti sotto la direzione dell’architetto Mario Li Castri da un gruppo di restauratori romani tra cui Carla Tomasi, Marina Furci, Michela Gottardo e Paolo Pastorello.
IL PALAZZO DELLA ZISA A PALERMO
La Splendida
Il Palazzo della Zisa, dall’arabo al-ʿAzīza, ovvero “la splendida”, venne edificato nel 1165 come residenza di villeggiatura per volere del re normanno Guglielmo I d’Altavilla, detto “Il Malo”. Il “Sollatium” fu costruito all'interno del parco reale che si trovava al di fuori delle mura che delimitavano l’antica città di Palermo, il cosiddetto Genoardo (dall’arabo Jannat al-arḍ ovvero “paradiso della terra”). Questo parco si estendeva dall'odierna città di Altofonte fino alle mura del palazzo reale ed era ornato da splendidi padiglioni e bacini d’acqua. Nel 1166, anno in cui morì Guglielmo I, il palazzo era stato già edificato come riporta Ugo Falcando nel <<Liber de Regno Siciliae>>:“con estrema velocità, non senza ingenti spese”. Tale celerità forse era da attribuire a maestranze musulmane molto esperte e preparate, a tal punto da consentire una rapida esecuzione dei lavori. L’opera fu ultimata nel 1175 dal figlio e successore al trono Guglielmo II definito “Il Buono”. Un’epigrafe in caratteri naskhī, che si trova, tutt'oggi, nell'intradosso dell’arcata d’accesso alla Sala della Fontana, definisce il palazzo “il tesoro più bello e il più splendido tra i reami del mondo […] una casa di letizia e di splendore, il paradiso terrestre che si apre agli sguardi”.
La dominazione sveva di Federico II portò la Sicilia a distaccarsi definitivamente dall'Oriente e dal continente africano per legarsi all’Europa, con conseguente decadenza del palazzo. Con l’avvento degli Angioini e le lotte contro gli Aragonesi la Zisa fu abbandonata. Fu l’epoca chiaramontana di Manfredi ad imprimere una svolta sull'aspetto dell’edificio che nel XIV secolo assunse le connotazioni di un castello fortificato, mediante il taglio ad intervalli regolari del muretto d’attico per ricavarne una merlettatura. Per tale motivo fu mutata la sua denominazione in castello. Numerosi furono i detentori del palazzo; nel 1440 Alfonso il Magnanimo “Re delle due Sicilie”, concesse il palazzo al vescovo e grande umanista Antonio Beccadelli di Bologna. Con l’imperatore Carlo V d’Asburgo il palazzo passò nelle mani del nobile Pietro de Faraone per remunerare la fedeltà nei suoi confronti. Fino al XVII secolo l’edificio non venne sostanzialmente modificato. In seguito all'epidemia di peste che investì Palermo nel 1624, la Zisa fu adibita come deposito per la merce sospetta da sottoporre a quarantena. Significativi interventi di restauro si ebbero negli anni 1635-36, quando Giovanni de Sandoval cavaliere dell’Alcantara acquistò l’edificio e lo adattò alle proprie esigenze abitative. Fu aggiunto un altro piano con la chiusura del terrazzo e fu costruito nell'ala destra del palazzo un grande scalone che sostituì le originarie scale d’accesso. Dal 1800 fino al 1950 i Principi Notarbartolo, eredi della Casa Ducale dei Sandoval de Leon, ne fecero la propria residenza apportando diverse opere di consolidamento. Venne modificata la distribuzione degli ambienti mediante la costruzione di tramezzi, soppalchi, scalette interne e nei prospetti vennero modificate le bifore, inserendo dei finestroni. Nel 1955 il palazzo fu espropriato ed acquisito dalla Regione Sicilia. I lavori di restauro appena intrapresi vennero subito sospesi. Nel 1971, dopo anni d’incuria e di abbandono, l’ala destra dell’edificio crollò. Il restauro definitivo venne affidato al dottore G. Caronia, il quale, dopo anni di lavori, restituì alla storia uno dei monumenti più rappresentativi della Sicilia normanna. Dal 1991 il Palazzo della Zisa ospita il Museo d’arte islamica e dal 3 luglio 2015 fa parte del Patrimonio dell’Umanità (Unesco) nell'ambito dell’Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale.
Il Palazzo della Zisa: esterni
La Zisa ha la forma di un parallelepipedo che misura 25 metri di altezza x 36.36 m di lunghezza e 19.60 m di larghezza, sui lati corti aggettano due corpi turriformi larghi 4 m x 2.35 m. Realizzata con muri a sacco di tufo morbido e poroso, le pareti sono formate da blocchi di pietra rettangolari con superficie piana. Nel prospetto principale troviamo tre fornici, quello centrale è il più grande ed è formato da una doppia ghiera leggermente degradante, ed accoglie su entrambi i lati una coppia di colonne. Gli altri due fornici sono di uguale grandezza, ma più piccoli rispetto a quello centrale. Le numerose aperture si presentano perfettamente allineate conferendo orizzontalità alla composizione di tutte le facciate. Originariamente queste erano delle bifore, ma nessuna finestra si presenta come allora.
Attorno alle quattro aperture del primo piano troviamo un marcapiano che delinea le finestre a differenza del secondo piano dove le aperture sono avvolte da arcate cieche. La composizione muraria del secondo piano presenta delle eccezioni: le finestre ripetono per forma, dimensione e disposizione quelle del primo piano, ma sono in totale cinque, ai lati di quella centrale vi sono due aperture più piccole rispetto al resto. Nella facciata occidentale sono visibili otto feritoie basamentali sopra sei monofore e solo le due laterali sono circoscritte da un’arcata cieca a ghiera unica. Tutta la struttura è coronata da merlature e da un parapetto racchiuso fra due cornici con fregio a palmette. Sul prospetto principale rimangono i resti di una iscrizione in caratteri cufici. Poco distante dal palazzo alla Zisa collegato da un corridoio di arcate,non più esistente, la vicina cappella, detta chiesa della SS. Trinità, ad un’unica navata e con volta a crociera.
Il Palazzo della Zisa: interni
Il Palazzo della Zisa presenta una struttura architettonica molto complessa, dominata da una rigorosa simmetria. Un asse parallelo divide l’edificio in due identiche e speculari metà che trovano riscontro nel sistema d’acqua della Sala della Fontana posta al piano terra. La sala di rappresentanza, a pianta cruciforme e sormontata da una volta a crociera, si apre ad oriente in un continuum con la natura, attraverso il corso d’acqua che dalla fontana conduce alla peschiera. La fontana ha il carattere di un trono e al suo vertice presenta un mosaico che raffigura un’aquila a volo basso, simbolo della maestà regia. L’acqua originariamente usciva al di sotto del mosaico, scivolava rifrangendosi nella lastra obliqua decorata a chevrons (zig-zag) scorreva sul pavimento entro una canaletta, inframmezzata da due piccole vasche quadrangolari, per poi confluire nel bacino esterno.
La parte superiore della fontana è decorata da una cornice intarsiata a motivi geometrici al cui interno è inserito un pannello musivo raffigurante un doppio nastro intrecciato a formare tre dischi al cui interno sono riprodotti degli arcieri affrontati che scoccano le loro frecce verso dei volatili accovacciati su un albero, mentre ai lati due pavoni con al centro una palma stilizzata. Questa fascia musiva è databile alla seconda metà del XII secolo.
Ai lati della nicchia mosaicata, nelle pareti della sala e nel sott’arco sono presenti degli affreschi molto lacunosi con figure mitologiche testimonianza delle varie trasformazioni apportate durante il Seicento.Lo spazio è ornato da colonnine poste agli angoli con capitelli decorati con fogliati e uccelli, confrontabili con alcuni capitelli del chiostro di Monreale. Peculiari sono le nicchie ai lati della sala, decorate da volte alveolate in stucco, chiamate muqarnas soluzione tipica dell’architettura musulmana. I muqarnas sono delle strutture autoportanti formate da numerosi elementi lapidei scolpiti e aggregati in modo da plasmare forme compiute. Su entrambi i lati della fontana vi sono dei corridoi da cui diramano dei vani.
Inoltre, al pianterreno troviamo il vestibolo, posto lungo l’intera facciata principale, da cui si accede all'edificio. Questo elemento fungeva da separazione e mediazione fra l’esterno e l’interno.
Il primo piano si presenta di dimensioni inferiori, in quanto buona parte della sua superficie è occupata dalla Sala della Fontana e dal vestibolo d’ingresso, che con la loro altezza raggiungono il livello del piano superiore. Le ali del piano si compongono, come quelle del pianterreno, di vani di passaggio, di servizio e di soggiorno, probabilmente questo luogo era riservato esclusivamente alle donne. Il secondo piano si configura come un entità autonoma rispetto al resto della struttura edilizia. Considerato l’appartamento reale, la distribuzione degli spazi deriva dalla casa tradizionale islamica. Originariamente al centro di questo piano vi era la sala belvedere, che era priva di soffitto e serviva a raccogliere l’acqua piovana. Infine, il terrazzo costituito da una superficie uniforme è cinto da un muretto merlato. Lungo il suo asse si innalzano cinque padiglioni, che rivestivano un carattere funzionale ma anche estetico; quelli mediani infatti erano strutture poste a copertura degli originali cortili pensili.
Il Giardino
Secondo alcune fonti letterarie il Palazzo della Zisa, sorgeva e ornava il parco reale, il cosiddetto Genoard (dall’arabo Jannat al-arḍ ovvero “paradiso della terra”) che si estendeva ad ovest fino ai territori di Monreale e Altofonte e a sud fino alla zona di Brancaccio. Il Palazzo era circondato da un giardino-paradiso, ricco di frutteti, piante ornamentali, animali esotici, bacini d’acqua e di un sistema di canalizzazioni che portavano l’acqua dalla vicina fonte Gabriele a numerose peschiere. Antistante il palazzo rimangono i resti di un piccolo bacino d’acqua a forma regolare che doveva forse ospitare un padiglione aperto sui quattro lati, accessibile da un piccolo ponte di pietra, non più esistente. Il giardino e il palazzo erano in continua simbiosi grazie al grande iwan della Sala della Fontana, dalla quale sgorgava l’acqua e attraverso dei canali finiva nella profonda peschiera svolgendo anche una funzione climatizzante. Come il palazzo, il giardino subì dei cambiamenti, i giochi d’acqua e le statue del giardino furono utilizzate nel 1402 dal re Martino I, dopo aver conquistato la Sicilia, per ristrutturare la reggia di Barcellona. Successivamente a causa di una crisi demografica, il giardino venne adibito alla coltivazione di orzo. Con Giovanni de Sandoval il giardino conservò gran parte del suo carattere lussureggiante. In seguito verrà distrutto dall'espansione della città.
La Leggenda
Due misteriose leggende si intrecciano sul Palazzo della Zisa. La tradizione popolare narra che quando sulla città di Palermo soffia un vento molto forte,ciò sia dovuto all’uscita dal palazzo dei cosiddetti “diavoletti”, che portano con sé l’aria fresca che si trova dentro il palazzo.Tale leggenda nasce, probabilmente, dalle correnti d’aria fresca generate all’interno dell’edificio, nato come residenza estiva del sovrano, da un efficace sistema di areazione. Grazie alla sua esposizione a nord-est, la brezza che si genera dal mare riesce a ventilare i diversi ambienti mediante dei fori presenti sul pavimento di ogni piano, geniali accorgimenti di architettura araba. Il palazzo, infatti, rappresenta uno degli esempi più preziosi e interessanti di architettura bio-climatica, dove tutto è refrigerato in modo naturale.Tornando ai diavoletti, tutto ha origine da un affresco dipinto sulla volta della Sala della Fontana in cui sono raffigurati alcune figure mitologiche da sempre considerate dei diavoli. Essi sono, inoltre, custodi di un inestimabile tesoro, contenente monete d’oro, nascosto nei sotterranei del palazzo.Il tesoro sarebbe arrivato a Palermo per mano di due giovani amanti, Azel Comel e El-Aziz, figlia del sultano, costretti a scappare perché il padre della ragazza, si era opposto alle loro nozze. Arrivati nel capoluogo siciliano, Azel avrebbe chiamato i migliori costruttori per erigere il palazzo con i soldi sottratti al sultano, ma quando arrivò la notizia del suicidio della madre di El-Aziz a causa della loro fuga, la ragazza si suicidò. Azel, pieno di dolore, viaggiò per il mondo con una barca, finché il mare, impietosito dalla sua sofferenza, pose fine alla sua vita.
I due amanti prima di morire fecero un incantesimo sul loro immenso tesoro, affidandone la protezione a questi temibili diavoletti. Se il tesoro verrà trovato dai cristiani porrà fine alla povertà della città di Palermo. L’unico modo per riuscire nell’impresa sarebbe quello di contare i diavoli il 25 marzo, giorno dell’Annunziata, ma è praticamente impossibile decretarne il numero esatto, sembra quasi che, di volta in volta, se ne aggiunga o scompaia qualcuno, per ostacolarne il conto e salvaguardare il tesoro.
Queste leggende hanno dato luogo a due modi di dire, in passato molto usati. Con l’espressione “E chi su, li diavoli di la Zisa?” (E chi sono, i diavoli della Zisa?) si indica una situazione in cui i conti non tornano, oppure “Oggi si sono liberati i diavoli della Zisa” è un commento al fatto che il vento è piuttosto violento.
Come afferma Giuseppe Pitrè la difficoltà di contare esattamente i diavoli della Zisa è data dal fatto che alcune delle figure sono molto piccole e altre non intere, così c’è chi li conta e chi no.
Museo d’Arte Islamica
Il gioiello della Zisa ospita al suo interno un Museo d’Arte Islamica che consta di oggetti di fattura musulmana proveniente sia dalla Sicilia ma anche da diversi paesi del bacino del Mediterraneo. Nelle sale sono esposti manufatti realizzati durante il periodo della dominazione araba in Sicilia (dal IX al XI secolo), e oggetti di matrice islamica realizzati durante la dominazione normanna (dal XI al XII secolo). Tra questi pezzi si annoverano anfore, diversi utensili di uso comune e di arredo come candelieri, ciotole, bacini, mortai realizzati in ottone, oro e argento, decorati con incisioni e impreziositi da agemine (cioè fili e lamine sottili) e un’ampia collezione di “mashrabiyya” cioè paraventi lignei a grata (composti da tanti rocchetti incastrati fra di loro a formare raffinati disegni e motivi ornamentali). Questi paraventi provenienti dall’Egitto ottomano, facevano parte della collezione Jacovelli. Di degna nota è l’iscrizione lapidea cristiana datata 1149 in quattro lingue: ebraico, latino, greco-bizantino e arabo, testimonianza della multietnicità in epoca medievale della città di Palermo.
Bibliografia:
- Bellafiore G., “La Zisa di Palermo”, Flaccovio Editore 2008
- Caronia G., “La Zisa di Palermo” Storia e restauro”, Editori Laterza 1987
- Filippi L., I diavoli della Zisa, Leone Editore 2009
- Spatrisano G., “La Zisa e lo Scibene di Palermo”, Palumbo Editore 1982
- Staacke U., “Un Palazzo Normanno a Palermo “La Zisa”: La cultura musulmana negli edifici dei Re ”, Comune di Palermo 1991
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L'EX CHIESA DI SANTA MARGHERITA A SCIACCA
Una delle chiese più ricche di Sciacca
L’originaria chiesa di Santa Margherita fu fondata nel 1342 per volere dei Cavalieri Teutonici, che ne mantennero il possesso fino al 1492, anno in cui l’ordine abbandonò la Sicilia; da questo momento in poi la chiesa fu aggregata alla chiesa della Magione di Palermo, al cui Regio Abate era soggetta. Erroneamente si faceva risalire la sua costruzione ad Eleonora d’Aragona, nipote del re di Sicilia Federico III d’Aragona e moglie di Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta. Nel 1594, grazie a un ingente lascito da parte di un ricco mercante catalano, Antonio Pardo, iniziarono le opere d'ampliamento e di ristrutturazione, ed infatti, la struttura pervenutaci risale a quest'intervento espresso dalla volontà del Pardo in punto di morte. Alcune tracce della struttura originaria ,che si presenta come unico blocco, sono ancora visibili sulle mura perimetrali sul lato meridionale del complesso monumentale.
L'ex chiesa di Santa Margherita a Sciacca: descrizione
Il prospetto principale ricade su Piazza Carmine, dove si trova uno dei due portali in chiaro stile gotico-catalano, costituito da due pilastri ottagonali supportati da una triplice ghiera. In alto due finestre, un rosone e un poderoso cornicione lapideo dal quale sporgono grondaie in pietra simili a bocche di cannoni. Sul lato sinistro della Chiesa, che prospetta su via Incisa, vi è un secondo portale in marmo bianco, impreziosito dalla presenza di alcune sculture a basso rilievo, realizzato nel 1468 da Pietro de Bonitade su disegno del famosissimo scultore, di origine dalmata, Francesco Laurana. Questo portale, quasi certamente, apparteneva alla prima chiesa e fu poi adattato alla seconda. Salta agli occhi la discordanza stilistica tra l'arco inflesso del fastigio, che è gotico, e l'arco della lunetta che è rinascimentale. L'arco rinascimentale è un'aggiunta posteriore (in origine circoscriveva la lunetta l'arco inflesso) e il suo inserimento tra l'arco inflesso e l'architrave ha determinato lo spostamento dei due pilastrini e l'aggiunta di lastre di marmo tra pilastrini e stipiti del portale. Entrando all'interno della chiesa si è subito colpiti dalla sua magnificenza. Essa è a navata unica e mostra una ricca decorazione in stucco in stile barocco (angeli, putti, arabeschi, figure esoteriche, volute e medaglioni), policromata ed affrescata da Orazio Ferraro nel XVII secolo. Appartengono allo stesso autore gli affreschi con la Crocifissione e la Madonna dell’Itria in prossimità dell’altare. Sull'altare principale è posta una statua lignea di Santa Margherita datata 1544 opera del maestro Alberto Frixa (o Frigia). Una serie di medaglioni, raffiguranti episodi della Via Crucis opera di Giovanni Portaluni, ornano l'intradosso dell'Arco Trionfale. Nel transetto vi sono inoltre due quadroni con l’Adorazione dei Magi e la Nascita di Gesù dell’artista Gaspare Testone e un sarcofago con un’iscrizione latina, recante la data 1602, nel quale sono conservate le ceneri di Antonio Pardo che prima erano nella vicina chiesa di S. Gerlando.
Passando dal transetto alla navata, la decorazione in stucco si attenua, la plastica si appiattisce, le statue a tutto tondo cedono il posto a figure di minore rilievo. Qui, sulle pareti spaziose della navata, vi sono sei grandi quadri dipinti a olio del celebre pittore licatese Giovanni Portaluni con varie scene: il martirio di S. Oliva, l'Adorazione della Croce con tutto il popolo, S. Elena e Costantino, la liberazione della peste con l'intercessione della Maddalena, S. Calogero e S. Rosalia, scene della vita di S. Gerlando e il martirio di S. Barbara. Nel quadro raffigurante S. Gerlando, alla destra del Santo che distribuisce il pane ai poveri, è ritratto Antonio Pardo, il munifico benefattore della chiesa. I restanti medaglioni sono stati realizzati dal pittore saccense Michele Blasco. Alla titolare della chiesa, invece, è dedicato un altare sul lato destro in marmo scolpito a bassorilievo databile tra il 1504 e il 1512, che descrive la vita e il martirio di Santa Margherita, opera attribuita al carrarese Bartolomeo Birrittaio e al suo collaboratore Giuliano Mancino. La parte posteriore della chiesa è dominata da un maestoso organo di legno a canne decorato con sculture di santi e angeli, opera di La Grassa del 1641, posto dentro un tabernacolo ligneo. Il soffitto è ligneo a cassettoni ed è stato realizzato nel 1630 dal maestro saccense Antonio Mordino. Al centro del soffitto a cassettoni trova posto una tela di buona mano e in buono stato di conservazione, raffigurante l'Immacolata, di cui si ignora l'autore. La pavimentazione attuale è composta da maioliche smaltate bianche e nere che riprendono il modello originario trovato durante gli scavi condotti dalla Soprintendenza.Dopo anni di incuria e di totale abbandono (dal 1907 fino alla fine degli anni '80) è stata restaurata e riaperta al pubblico, anche se non più adibita alle funzioni religiose, e per un breve periodo ha ospitato mostre ed eventi vari. Dal 2017 a causa di infiltrazioni d’acqua l'ex chiesa di Santa Margherita a Sciacca è nuovamente e tristemente chiusa al pubblico.
Cappella dedicata a S. Margherita
Organo e tabernacolo ligneo con sculture di santi e angeli.
Navata e altare principale
Dettaglio altare con statua lignea di Santa Margherita dello scultore A. Frixa
Soffitto a cassettoni con tela dell’Immacolata di autore ignoto
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LA TORRE DI PORTO PALO DI MENFI
A cura di Antonina Quartararo
La torre di Porto Palo: la storia
Simbolo indiscusso dell’antico borgo marinaro di Porto Palo di Menfi (AG), oggi rinomata località balneare,è la torre anti-corsara costruita nel 1583 per volere del Viceré di Sicilia Juan de Vega durante la dominazione di Carlo V d’Asburgo. Il progetto venne affidato all'architetto e ingegnere militare Camillo Camilliani (Firenze, XVI secolo – Palermo, 1603). Egli collaborò alla realizzazione della famosa Fontana di Piazza Pretoria a Palermo e progettò la maggior parte delle torri di guardia che punteggiavano le coste siciliane sotto la dominazione spagnola. Queste torri costituivano un vero e proprio sistema militare difensivo; oltre alla funzione di avvistamento, servivano a coordinare la fanteria o la cavalleria in caso di incursioni barbaresche. I temibili pirati saraceni cacciati dall'Italia dai Normanni nell'anno Mille incutevano ancora terrore nel Cinquecento, attraccando sulle coste meridionali dell’Isola e invadendo le campagne dove facevano razzia dei raccolti, saccheggiando le case e catturando i prigionieri cristiani di cui richiedevano il riscatto. Identica funzione difensiva aveva la Torre di Porto Palo, costruita su un’altura rocciosa chiamata “Punta di Palo” da cui prese il nome.
La sua posizione sopraelevata consentiva di dominare visivamente ampie porzioni del litorale mediterraneo. La torre con base tronco piramidale di mt 10,90 e fusto a base quadrata di mt 11,50 x 11,75, si sviluppa su due livelli; costruita con mattoni di pietra, era ornata da una merlatura (si conserva una mensola che doveva sostenere i merli), ed era dotata di un’ampia terrazza dove i soldati sorvegliavano la costa, muniti di artiglieria e di un cannone di bronzo da 8 libbre. La torre era provvista, inoltre, di un focolare e di bandiere che servivano per comunicare a distanza con le altre torri limitrofe (come la Torre del Tradimento di Sciacca, la Torre di Tre Fontane, la Torre Mazara e Torre Saurello a Campobello di Mazara).
La struttura possedeva un solo accesso al piano superiore, di forma arcuata (ancora esistente), sul lato opposto al mare,da cui i soldati salivano attraverso una scala a pioli removibile. Mentre il piano superiore era adibito a magazzino d’artiglieria e di armi, al pianoterra era stata creata una cisterna dove venivano stipate le merci che arrivavano al porto. In caso di attacco diurno o notturno, la torre richiamava l’intervento di una guarnigione che pattugliava il luogo. Solitamente di giorno veniva sparato un colpo di cannone, con due fumate e l’innalzamento di bandiere; di notte venivano sparati due colpi di cannone, due botti e una terza cannonata. La torre fu protagonista di alcuni episodi di guerriglia e rimase in uso fino ai primi anni dell’Ottocento. Attualmente si conserva in buone condizioni, anche se si auspica la messa in sicurezza del terreno sottostante e una buona manutenzione all'interno e all'esterno del monumento. Ancora oggi la Torre di Porto Palo possiede una forte valenza storica e paesaggistica, e da secoli resiste all'incuria del tempo, divenendo spettatrice e icona di un turbolento passato.
Bibliografia:
- Bilello F., Terra di Memphis (Menfi e le sue origini), Palermo 1996.
- Bilello F., Storia di Porto Palo (Menfi), Palermo 1996.
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