LA CHIESA DEI SANTI LUCA E MARTINA AL FORO

A cura di Maria Anna Chiatti

La chiesa dei Santi Luca e Martina è la sede dell’Accademia Nazionale di San Luca, insieme al Palazzo Carpegna. Si trova in un punto fortemente suggestivo del centro di Roma, di fronte all’arco trionfale di Settimio Severo, ai piedi del Campidoglio (fig. 1). L’edificio sacro fu costruito ex novo sul sito del titolo primitivo di Santa Martina, concesso nel 1588 da papa Sisto V all' (ancora) Università dei Pittori di San Luca: il passaggio ufficiale da Universitas ad Accademia avvenne infatti nel 1593, con la simbolica fondazione ad opera di Federico Zuccari (1540 - 1609) dell’«Accademia de i Pittori e Scultori di Roma», della quale divenne il primo principe. Soltanto durante il principato di Pietro da Cortona (1596 - 1669), dopo il 1634, gli Architetti entrarono a far parte dell’Accademia al pari di Pittori e Scultori.

Fig. 1

Sebbene la chiesa fosse stata oggetto di lavori e progetti di adattamento e parziale ricostruzione fin dall’ultimo decennio del Cinquecento, redatti probabilmente da Francesco da Volterra (1535 - 1594) e da Ottaviano Mascherino (1536 - 1606), il suo integrale rifacimento fu avviato solo nel 1635, grazie al rinvenimento delle reliquie di Santa Martina e all’interessamento del principe dell'Accademia, Pietro da Cortona, che ne progettò l’attuale veste architettonica. I lavori, più volte interrotti, possono considerarsi conclusi entro il 1679; tra il secolo XVIII e il XIX veniva compiuta la sistemazione degli altari e la decorazione interna. In seguito ai lavori per l’apertura, nel 1932, di via dell’Impero, la chiesa rimase unica superstite degli edifici che insistevano sul medesimo isolato e, su progetto di Gustavo Giovannoni (1873 - 1947) ne vennero ridefiniti i fronti laterale a nord e absidale. La demolizione della sede accademica, addossata e contigua alla chiesa, sancì il definitivo distacco dell’Accademia dall'edificio religioso che l’aveva ospitata per oltre tre secoli.

L’accesso alla chiesa avviene tramite l’articolata facciata principale, che fino alle recenti sistemazioni tardo novecentesche costituiva il fondale di via della Consolazione.

San Luca, la chiesa superiore

Maestro della pittura - si ricordi il meraviglioso esempio del Trionfo della Divina Provvidenza a Palazzo Barberini - anche sul piano della progettazione architettonica Pietro da Cortona sviluppò una interpretazione dello spazio del tutto personale. Pur partendo dalla costante e libera riproposizione degli ordini classici, egli attinse anche alle esperienze bramantesche e palladiane, modellando plasticamente i propri edifici in modo scenografico. Sin dai suoi esordi in campo architettonico, mostrò infatti la capacità di unire la tradizione classica e rinascimentale, manipolandole con una sensibilità scenografica in parte riconducibile alla lezione del manierismo fiorentino, in parte allo studio dell’architettura romano - ellenistica.

Tutto ciò è evidente nella chiesa presa oggi in considerazione, che resta uno dei primi e più completi esempi del Barocco romano. Come già detto, la costruzione sorge ai piedi del Campidoglio, tra il Foro di Cesare e l’antica Curia, in luogo della chiesetta medievale di Santa Martina.

Pietro da Cortona cominciò con la ricostruzione (a proprie spese) della cripta, dopo aver ottenuto da papa Urbano VIII il privilegio di potervi erigere la propria cappella funeraria; d’altro canto aveva già disegnato un progetto completo per la chiesa, e la pianta originariamente prescelta fu quella circolare, in omaggio alla tipologia del martýrion. Tuttavia, dopo il ritrovamento delle ossa di Santa Martina, nel corso degli scavi della cripta nell'ottobre 1634, l'importanza dell'impresa aumentò considerevolmente e l’architetto cortonese preferì optare per una pianta a croce greca (fig. 2), nella quale è evidente il ritorno agli schemi del rinascimento toscano anche se - ed è qui che risiede la genialità del progetto - egli ne reinventò completamente la distribuzione degli spazi: il braccio longitudinale della croce è leggermente più lungo di quello trasversale, sebbene entrambi terminino con absidi semiellittiche, le cui morbide curve annullano la percezione di qualsiasi asimmetria dimensionale.

Fig. 2

Le pareti interne si snodano lungo il perimetro della croce con un suggestivo alternarsi di rientranze e aggetti scanditi dall'ininterrotto succedersi di colonne, nicchie e paraste ,culminante nell'addensarsi di un complesso sistema di colonne e pilastri ionici binati (figg. 3 - 6), agli angoli d’incrocio dei due bracci. In questo modo la presenza degli spigoli viene di fatto annullata e la sensazione che ne deriva è quella di uno spazio avvolgente che, modellandosi in modo quasi scultoreo, grazie anche all'assoluta prevalenza del colore bianco, suggerisce il senso di uno scenografico colonnato circolare.

Santa Martina, la chiesa inferiore

La chiesa inferiore, riccamente decorata da marmi policromi, è dedicata alla santa martire Martina, della quale sono custodite le reliquie nell'altare maggiore posto al centro della cripta (fig. 7): di forma rettangolare, questa è coperta da una cupola schiacciata a lacunari (fig. 8) sostenuta da colonne angolari. Due cappelle di tipo catacombale si aprono ai lati della cappella centrale, e altre strutture analoghe trovano posto sullo stesso livello inferiore (fig. 9).

Fig. 7

Per disposizione testamentaria di Pietro da Cortona, l’amministrazione della chiesa inferiore di Santa Martina venne affidata dopo la sua morte al Conservatorio di Sant'Eufemia, che ne è attualmente proprietario.

La facciata della chiesa dei Santi Luca e Martina

La stessa logica di modellazione delle strutture murarie attraverso lo spregiudicato impiego dell’ordine architettonico si riscontra anche negli esterni e, in modo spettacolare soprattutto nella facciata, rivolta a Sud (fig. 10). Questa, a spiccato sviluppo verticale, è suddivisa in due livelli da una massiccia trabeazione aggettante, che svolge anche la funzione decorativa di marcapiano. La superficie della muratura, a differenza di ciò che avviene in corrispondenza delle altre tre absidi, le quali esternamente presentano pareti piane e squadrate, risulta qui convessa. In questo modo la forma interna trova un immediato riflesso anche all'esterno, dove l’articolato alternarsi di semi-colonne e paraste a coppie con capitelli ionici quasi anticipa al visitatore le soluzioni che potrà trovare all'interno.

Fig. 10

L’andamento curvilineo della facciata arginato ai lati da coppie di pilastri sporgenti prosegue l’audace sperimentazione di forme, avviata da Pietro nella perduta Villa del Pigneto dei marchesi Sacchetti. Di fatto questa è la prima facciata decisamente barocca, nata parallelamente alle prime ricerche di Francesco Borromini (1599 - 1667) sul medesimo tema (la facciata dell'Oratorio di San Filippo Neri risale più o meno agli stessi anni). La magnificenza con cui sono state trattate le superfici, fortemente strutturate in un plastico succedersi di colonne incassate e pilastri aggettanti, riecheggia la lezione di Michelangelo senza però escludere accentuazioni decorative e imprevisti accostamenti di linee curve e spezzate che si fanno particolarmente apprezzare nelle capricciose invenzioni sia per l’interno (fig. 11) che per l’esterno della cupola a pianta circolare, la cui fantasiosa tipologia deriva dalla sovrapposizione di due ipotesi costruttive apparentemente opposte: da un lato la calotta a lacunari del Pantheon, dall'altro la struttura con costolonature rilevate di San Pietro. L’effetto decorativo che ne consegue è di straordinario impatto, in quanto il complicato arabesco di cassettoni ottagonali e nervature, valorizzato in toto dagli otto finestroni luciferi del tamburo, conferisce all'intradosso un profuso senso di spazialità dilatata, del tutto assimilabile agli effetti pittorici di sfondamento prospettico dei quali Pietro da Cortona era maestro.

Fig. 11

 

Bibliografia

Cricco G., Di Teodoro F. P., Itinerario nell’arte, Vol. 2, Zanichelli, Bologna 2004

 

Sitografia

Sito web dell’Accademia di San Luca al link: https://www.accademiasanluca.eu/it/accademia/sede/la_chiesa_dei_santi_luca_e_martina

Sito web del Dizionario Biografico degli Italiani, voce Pietro Berrettini, al link: http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-berrettini_%28Dizionario-Biografico%29/


I RESTAURI ALLA LOGGIA DI PSICHE

A cura di Federica Comito

Introduzione

Gli affreschi di Amore e Psiche che oggi vediamo sono il risultato di una serie di restauri avvenuti nel tempo, che hanno modificato l’originale causando delle perdite irreparabili. In un percorso a ritroso analizzeremo tutto il percorso dell’opera, dalla sua ideazione a oggi, individuando eventuali interventi e manomissioni grazie allo studio dei materiali. Nel 1990 l’Istituto Centrale per il Restauro coordinato da R. Varoli Piazza procede al controllo degli affreschi della Loggia. Dopo aver indagato le problematiche strutturali, si è posta particolare attenzione ai restauri alla loggia di Psiche di Giovan Pietro Bellori e Carlo Maratti del 1693-94, eccezionali per l’innovazione concettuale e per la tecnica di intervento. È in questo momento storico che ci si pose il problema di quanto fosse lecito intervenire su un’opera così notevole, anche se lo scopo era di ripararne i danni. A guidare tale intervento il criterio, straordinariamente moderno, di utilizzare materiali reversibili affinché, come affermò Maratti “se qualcuno più degno di me di associare il suo pennello a quello di Raffaello, verrà un giorno, possa cancellare la mia opera e sostituirvi la sua”. In questo senso Bellori e Maratti precorrono l’odierna filosofia del restauro, inteso come rispetto della materia dell’opera d’arte.

Come avviene un restauro?

Il restauro contemporaneo si caratterizza per l’utilizzo di tecniche analitiche applicate alla chimica, fisica e biologia che permettono di non alterare l’integrità dell’opera e sono utilissime per lo studio diagnostico permettendo un’accurata indagine preliminare e un successivo prelievo di materiale per analisi più specifiche e approfondite. Tra queste, la tecnica fotografica; la riflettografia infrarossa; l’indagine radiografica; le tecniche spettrofotometriche. Il campionamento deve essere il più rispettoso possibile dell’integrità fisica dell’opera, limitato nel numero e nelle dimensioni dei prelievi. Lo studio di un campione richiede sofisticate metodologie analitiche, basate sull'impiego di tecniche strumentali altamente sensibili e selettive (tecniche microscopiche: microscopia ottica, mineralogico-petrografica, elettronica a scansione; microanalisi a raggi X; spettroscopia infrarossa; tecniche cromatografiche). Le successive tipologie di intervento sull'opera sono molteplici: la pulitura, la disinfestazione, la stuccatura e l’incollaggio, la foderatura dei dipinti su tela, il consolidamento, le reintegrazioni di dipinti, la stesura di protettivi.

Fig. 1 - Loggia di Psiche nel 1972, prima del restauro di Rosalia Varoli Piazza.

I restauri alla loggia di Psiche del 1990

Le campagne di indagine nella loggia iniziano nel 1989-90 e sono state esclusivamente di osservazione diretta al fine di individuare la tecnica di esecuzione e di stabilire lo stato di conservazione dei dipinti, i problemi connessi con il restauro marattesco e quali fossero gli interventi successivi. La fase esecutiva si è svolta tra il 1990 e il ‘97. Di rilievo l’indagine di quei frammenti superstiti dell’azzurro di Raffaello e di quello usato da Maratti per rifare i cieli che si erano anneriti e la loro rimozione successiva ad opera di un restauro avvenuto nel 1930, che volendo eliminare per sempre quello che veniva considerato l’azzurro di Maratti, aveva asportato anche quello sottostante di Raffaello. Al termine delle operazioni di pulitura e assestamento, ci si è concentrati sull'aspetto estetico. La loggia appariva totalmente sbilanciata per l‘asportazione violenta dell’azzurro che lasciava in vista il celeste di preparazione o addirittura l’intonaco e per la presenza di grandi lesioni sul testo figurativo.

Fig. 2 - Volta e arco, particolare delle lesioni.

L’attenzione degli studiosi si è concentrata sul percorso progettuale della decorazione: si iniziava dagli schizzi per la definizione della prima idea, seguiva lo studio di singole parti della composizione, con la definizione successiva di un primo disegno particolareggiato dell’insieme, si proseguiva poi con lo studio analitico e dettagliato di tutte le parti; infine si realizzava il modello definitivo in scala ridotta. A questa fase di studio seguiva la fase operativa del cantiere, cioè la realizzazione del cartone principale con dimensioni rapportabili alla superficie muraria da dipingere. Poi si ricavava un “cartone secondario” che, sezionato, permetteva il trasferimento del disegno sull'intonaco ancora umido, come previsto dalla tecnica dell’affresco (così chiamata perché si esegue su un intonaco appena steso e non ancora asciutto).

I moderni restauri alla loggia di Psiche hanno permesso di delineare una possibile organizzazione del cantiere dove operarono Raffaello e la sua bottega. Il ponteggio utilizzato, probabilmente posto alla stessa altezza di quello cinquecentesco, ha consentito di osservare la volta dalla stessa angolazione visiva dei pittori, apprezzandone così ogni dettaglio tecnico. In particolare si è posta l’attenzione sulle varie tipologie di tratteggio, distinti in tratteggi cosiddetti “liquidi”, ovvero quelli effettuati a pennello, e quelli a “secco” realizzati a sanguigna o grafite. Questi ultimi, riferibili ad un intervento di restauro, sono segni rapidi e poco precisi orientati a conferire maggiore incisività alle ombre. Su quelli a pennello, trovandosi principalmente su porzioni di volto, si è preferito non effettuare prelievi di campioni da analizzare, preferendo attendere tecnologie più avanzate. Il loro aspetto e colore, chiaramente estraneo e di sovrapposizione alla policromia degli incarnati, conferma che sono successivi alla stesura pittorica che presenta già una modulazione cromatica e tonale di chiari e di scuri. Invece, alcuni dei tratteggi dallo stile più libero potrebbero essere attribuiti ad uno o due artisti della bottega di Raffaello che avevano il compito di realizzare dei ritocchi in una sorta di revisione finale della decorazione. Sembrerebbe che questo compito, unito alla realizzazione di particolari decorativi, spettasse a Giovanni da Udine insieme alla stesura dell’azzurrite sui fondi.

Fig. 3 - pennacchio di Venere e Giove, particolare del volto di Venere. – Vela con Amore con bidente, particolare del volto del putto con bidente.

Il restauro di Maratti

Nel maggio 1693 hanno inizio i restauri alla loggia di Psiche a opera di Carlo Maratti, che si pone come il primo restauratore moderno in pieno rispetto della materia. Grazie alle indagini svolte negli anni ‘90 è possibile affermare che quello del Seicento fu un intervento scrupoloso e attento, in cui ogni fase pratica era preceduta da un’attenta valutazione. Gli affreschi di Raffaello coprono la parte centrale della volta, i dieci pennacchi e le quattordici vele, tutto il resto è posteriore. Bellori riferisce che i due o tre palmi inferiori dei pennacchi non erano dipinti, ponendo Maratti di fronte ad un problema di armonizzazione visiva. La sua integrazione delle parti mancanti è un’abile imitazione delle ghirlande e delle nubi dipinte da Giovanni da Udine; nonostante questo è evidente la discontinuità con l’originale che dimostra come Raffaello abbia realmente lasciato incompiuta la pittura, ma facendo intuire come intendesse completarla.

Fig. 4 - pennacchio con Amore e le tre Grazie, particolare della differenza pittorico sotto il piede della dea.

Il problema degli azzurri nei restauri alla loggia di Psiche

Il pesante intervento di rimozione degli azzurri operato durante il restauro del 1930, ha reso arduo lo studio dei cieli della Loggia di Psiche e di quelli sovrapposti nei secoli successivi. L’azzurro chiaro che costituisce lo sfondo su cui si stagliano le figure e i festoni vegetali è semplicemente la preparazione che Raffaello stese prima della finitura a secco in azzurrite, che doveva essere caratterizzata da una tonalità molto più intensa. Tale stesura preparatoria è stata eseguita a fresco a smalto (un pigmento a base di vetro colorato al cobalto), applicato su un sottile strato bianco ottenuto con calce e polvere di marmo posto a diretto contatto con l’intonaco con l’evidente funzionalità di costituire una base riflettente, che rendesse più luminosa la tonalità finale ottenuta attraverso le varie stesure di azzurro. Della finitura a secco in azzurrite, che ricopriva integralmente la preparazione a smalto, rimangono purtroppo solo i frammenti scampati alla violenta raschiatura degli anni ‘30. Si tratta di frammenti conservatisi al di sotto dello stucco che ricopriva le 850 grappe metalliche a forma di T o L lunghe dai 9 ai 13 cm applicate da Maratti e quindi in queste zone il pigmento è rimasto protetto dagli agenti esterni e si è conservato indenne da qualsiasi sostanza estranea.

Fig. 5 - Banchetto nuziale, particolare delle grappe metalliche inserite da Maratti nelle zone di maggiore distacco.

La finitura a secco in azzurrite è servita inoltre nel caso di alcuni ripensamenti, per correggere quei dettagli che l’artista voleva modificare, andando a coprire porzioni già realizzate.

Le analisi effettuate su prelievo e le selezioni stratigrafiche della finitura dei cieli della Loggia di Psiche hanno evidenziato che si trattava di un’azzurrite di origine naturale, di tono intenso, applicata a secco utilizzando la colla come legante. Il problema centrale relativo alle alterazioni degli azzurri della Loggia riguarda il fenomeno di annerimento dell’azzurrite. Tracce di azzurrite annerita sono presenti lungo i bordi dei festoni vegetali di Giovanni da Udine. È difficile identificare con certezza il fattore di degrado che ne ha causato l’annerimento: è possibile pensare a una pulitura aggressiva effettuata con sostanze chimiche, oppure a fonti di calore accese al di sotto della Loggia, come per esempio i grandi bracieri utilizzati per il riscaldamento dell’ambiente.

Fig. 8 - Pennacchio di Amore con le Tre Grazie, particolare della parte sovrastante l’ala destra di Amore dove è presente una consistente porzione di azzurrite originale interessata dal fenomeno dell’annerimento.

L’equivoco

Stando alle fonti storiche, Maratti effettuò una ridipintura dei fondi basandosi su quelle parti originali di azzurrite che non erano alterate. Il suo intervento fu soggetto a polemiche e giudizi negativi per secoli, relativi anche al cattivo stato di conservazione che mostravano gli affreschi. Tra il 1915 e il 1930 si giunse all'infausta decisione di liberare i fondi allo scopo di recuperare quello che si presumeva fosse l’azzurro di Raffaello coperto dall'operato di Maratti. L’intervento di rimozione, effettuato in maniera del tutto irrispettosa delle tecniche originali e dei precedenti interventi di restauro, si basò su un grosso equivoco: l’azzurro da rimuovere non era stato applicato da Maratti, ma risaliva all'Ottocento, come è risultato dall'esame chimico. Dalle tracce rinvenute nel corso dell’intervento diretto da Varoli Piazza è stato possibile evincere che Maratti effettuò la ripresa dei fondi originali utilizzando dello smalto, volendosi avvicinare il più possibile allo sfondo di Raffaello senza sconvolgerlo.

I problemi di stabilità e le indagini

Le indagini svolte dall’ICR dal 1994 sulla struttura architettonica della villa hanno confermato che le cause dei dissesti debbano essere imputate a fattori climatici e idrologici, ai difetti costruttivi e alla pericolosa vicinanza del Tevere. La novità, importantissima, che gli studi di stabilità hanno messo in luce è che sono ancora presenti movimenti strutturali nell'intera costruzione. È stato compiuto uno studio geognostico e geotecnico al fine di indagare le caratteristiche del suolo, e dai risultati è apparso evidente che potrebbe esserci nel tempo un peggioramento delle condizioni statiche della villa con la conseguente distruzione dei dipinti murali. Tra le probabili cause troviamo: la costruzione dei muraglioni del Tevere, la costruzione delle strade e le conseguenti vibrazioni provocate dal traffico incessante. Particolare attenzione è stata posta alla Loggia di Psiche che risultava particolarmente compromessa per la presenza di gravi lesioni trasversali alla volta, dalle quali derivano una serie di lesioni minori con andamento longitudinale alla volta. Grazie all'ultimo intervento di restauro sono state ristabilite la coesione e l’adesione del film pittorico, l’adesione delle dorature e degli strati preparatori, il distacco e la riadesione dei frammenti; la pulitura e i ritocchi (incarnati, festoni vegetali, bordi degli arazzi, sottarchi), la rimozione di stuccature e oggetti metallici non idonei, il trattamento delle grappe metalliche e, infine, è avvenuta la reintegrazione pittorica con acquerelli.

Conclusione

Tramite i restauri alla loggia di Psiche coordinati da Varoli-Piazza è stato dimostrato che Maratti, alla fine del Seicento, si preoccupò di proteggere gli affreschi eliminando le cause di deterioramento ambientale ed effettuando un restauro di tipo conservativo, una novità per il periodo. Inoltre è stato possibile smentire categoricamente tutte le accuse rivolte al rovinoso intervento marattesco, dimostrando che si trattasse di un restauro molto più tardo. È stato evidenziato invece un comportamento rispettoso dal punto di vista metodologico per l’organizzazione del lavoro, e dal punto di vista tecnico per la scelta dei materiali impiegati, molto più rispettoso di restauri più recenti.

 

BIBLIOGRAFIA

Shearman, Studi su Raffaello.

Varoli-Piazza, Raffaello, La Loggia di Amore e Psiche alla Farnesina.

Bellori, descrizione delle immagini dipinte di Raffaello d’Urbino.

Enciclopedia Treccani.


LA LOGGIA DI PSICHE ALLA FARNESINA

A cura di Federica Comito

Villa Farnesina: la loggia di Amore e Psiche

La Loggia di Psiche si trova all'interno di Villa Farnesina e prende il nome dal ciclo di affreschi di Raffaello e bottega che la decora, ovvero il mito di Amore e Psiche. Era l’ingresso principale della villa, ma l’apertura venne chiusa con delle vetrate nel 1659 nel corso di alcuni restauri per proteggere gli affreschi e la pittura a trompe-l’oeil (Ingannare l’occhio/illusione del reale) nelle lunette. Il tema degli affreschi doveva celebrare le nozze di Agostino Chigi avvenute nel 1519 con Francesca Ordeaschi, infatti le peripezie di Psiche ripercorrono la medesima travagliata scalata sociale della Ordeaschi che da cortigiana si elevò al rango di moglie legittima del banchiere.

Nell'opera di Bellori “La descrizione delle immagini dipinte da Raffaello d’Urbino nel Palazzo Vaticano e nella Farnesina alla Lungara” viene suggerito che la fonte delle scene affrescate è l’Asino d’Oro di Apuleio, anche se non si sa quale delle molte versioni in circolazione. La leggenda di Amore e Psiche, come viene narrata nell’Asino d’Oro, deve essere stata nel Rinascimento uno dei miti più amati e conosciuti. Un’altra fonte possibile sembra essere la poesia La Psyche di Niccolò da Correggio (1491), dedicata a Isabella d’Este. Le numerose versioni del mito offrono lo spunto ad altrettante varianti figurative; anche i differenti significati che si attribuiscono alla storia sono importanti per interpretare la decorazione della Loggia di Psiche.

Il mito

La storia lunga e travagliata narra della bellissima Psiche, adorata come una dea dai suoi concittadini, a tal punto da scatenare l’invidia di Venere, la dea della bellezza, che decide di inviare suo figlio Amore a scoccare una freccia per farla innamorare dell’uomo più brutto della Terra. Amore, incantato dalla bellezza di lei, si punge con una freccia innamorandosi perdutamente della fanciulla. Decide così di portarla al suo palazzo ad un’unica condizione: lei non avrebbe mai dovuto vedere il suo aspetto. Tuttavia Psiche è spinta dalla curiosità e, tentando di illuminare il volto dell’amato dormiente, fa cadere una goccia di olio bollente dalla lampada svegliando così Amore. Psiche, ormai abbandonata dal suo amante, decide di suicidarsi ma viene fermata dagli dei. Allora, sperando di placare l'ira di Venere per aver disonorato il nome del figlio, arriva al tempio della Dea consegnandosi a lei. Venere sottopone Psiche a diverse prove sempre più difficili, fino a giungere all'ultima che provocherà la caduta di Psiche in un sonno profondo. Sarà Amore a risvegliarla e, con l’aiuto di Giove, la condurrà sull'Olimpo. Dalla loro unione nascerà Voluttà.

Raffaello e la “bottega”

Non sappiamo quando Agostino Chigi commissionò il lavoro a Raffaello, ma in una lettera scritta da Leonardo del Sellaio e indirizzata a Michelangelo datata 1° gennaio 1519, ne viene annunciata l’inaugurazione; possiamo quindi ipotizzare che ci stesse lavorando da almeno due o tre anni. Vi è generale consenso sul fatto che Raffaello sia autore dell’intera invenzione formale, tuttavia partecipò in modo limitato all'esecuzione. Dati i molteplici impegni che ebbe dal 1514 in poi (continuazione delle stanze Vaticane; viene nominato capo architetto della fabbrica di San Pietro; diviene soprintendente delle antichità e scavi di Roma; esegue i cartoni per gli arazzi sistini; esegue ritratti impegnativi per Leone X e grandi tavole per Francesco I di Francia) Raffaello dovette organizzare una sua “bottega”, ovvero un gruppo di artisti che lavoravano per lui e da lui apprendevano. Ciò significa che si occupò dell’ideazione e del progetto, riuscendo ad organizzare anche il lavoro esecutivo affidato in gran parte ai suoi collaboratori. Vasari individua Giulio Romano come l’esecutore della maggior parte degli affreschi della Loggia, confermato anche dalla Dacos la quale includeva Giovan Francesco Penni. Giovanni da Udine è stato scelto da Raffaello per realizzare i festoni vegetali che costituivano un preliminare lavoro di suddivisione degli spazi destinati ad accogliere le scene figurate; solo successivamente ai festoni vegetali sono stati eseguiti gli episodi della favola di Apuleio. La preziosità delle decorazioni vegetali deriva dalla tecnica e dalla precisione nei particolari, infatti un ampio studio botanico ha dimostrato come Giovanni da Udine fosse estremamente preciso nella raffigurazione di questi elementi, così da poter oggi essere individuati come specie. In particolare è stata possibile l’individuazione di cinque specie appena giunte dall’America precisamente granturco, zucchina, il fagiolo comune e due tipi di zucche.

 La Loggia di Psiche: struttura e la decorazione

Le pareti sono scandite da lesene tripartite, sui lati brevi in due campate e sui lati lunghi in cinque. Festoni vegetali delimitano le superfici dipinte; al centro della volta due grandi arazzi dipinti con le scene del Banchetto Nuziale e Concilio degli Dei; dieci pennacchi nella fascia immediatamente sottostante agli arazzi con gli episodi del racconto; quattordici vele con amorini che portano le insegne degli dei; cinque archi che scandiscono le aperture della loggia e presentano negli intradossi una decorazione a grottesche in campo bianco con intrecci vegetali. Il grave stato di conservazione degli archi è dovuto al fatto che queste fossero le zone maggiormente esposte agli agenti atmosferici ed escluse da qualsiasi protezione per almeno 150 anni, ovvero prima che venissero aggiunte le vetrate nel 1659.

La decorazione ad affresco ha inizio sul lato breve sulla sinistra della loggia: Venere mostra ad Amore Psiche fanciulla. La sequenza prosegue poi come nei maggiori cicli di affreschi del Rinascimento, in senso orario verso il successivo pennacchio, in cui Amore indica alle tre Grazie qualche cosa in basso. I temi dei successivi quattro pennacchi sono evidenti: Venere si lamenta con le dee Cerere e Giunone; Venere vola sul carro dorato verso l’Olimpo; prega Giove; Mercurio in volo. Le due scene successive sono state lette come rappresentazione della terza prova di Psiche, Attingere l’acqua allo Stige. Infine Mercurio conduce Psiche sull’Olimpo. Quest’ultima scena dovrebbe apparire tra le due principali (Banchetto nuziale e Concilio degli Dei) in cima al soffitto, dove invece si trova lo stemma di Giulio II, amico di Agostino, che escludeva molte soluzioni artistiche per il soffitto.

Dopo L’acquisizione dell’edificio da parte dello stato nel 1927, venne inserito un pavimento marmoreo e vennero realizzati i due candelabri in marmo di Siena sormontati da coppa portalampada in alabastro, copiando un esemplare conservato nei musei Capitolini. Vennero scelti sia marmi antichi come l’Africano delle grandi fasce in corrispondenza delle paraste, che di cava moderna come il Rosé di Brignoles dei grandi riquadri. I marmi usati per i pannelli interni, sono il Verde antico della Tessaglia e il Rosso Griotte, il Giallo di Siena brecciato e il Bianco di Carrara e il Bardiglio.

L’organizzazione del cantiere

Nella realizzazione pratica degli affreschi, l’esecuzione preliminare di una griglia di base, che definiva e separava tra di loro le superfici delle scene, poteva essere stata ideata per facilitare la presenza di due pittori sul ponteggio che avrebbero potuto dipingere contemporaneamente in punti diversi della volta. La stessa conformazione architettonica della volta ad arco ribassato, che si collega quindi gradualmente alle pareti, favoriva il lavoro degli artisti, impedendo che fossero di intralcio gli uni agli altri. Questo lascerebbe sottintendere l’utilizzo di un ponteggio unico, grande quanto l’ampiezza dell’intera loggia. Un sistema organizzativo così preciso costituisce un elemento caratterizzante del cantiere, sicuramente previsto da Raffaello già della fase progettuale.

La meraviglia che questa Loggia ha sempre suscitato e la fama che ha giustamente meritato, si devono piuttosto all'invenzione straordinaria del progetto di Raffaello, che non alla sua materiale costruzione, che come è stato già detto, è in gran parte affidata ai suoi collaboratori. Raffaello esprime un nuovo concetto di utilizzo della decorazione pittorica in rapporto all'architettura facendola anzi diventare il tramite più diretto con lo spazio esterno. Giovanni da Udine aveva infatti eseguito il fogliame dei festoni di un colore verde lucente che aveva la funzione di riflettere la mobilità luminosa delle piante nel giardino su cui la loggia si apriva, ponendosi così come un impressionista ante litteram. Raffaello ha sempre avuto una spiccata sensibilità per ciò che circonda da vicino la sua opera e utilizzò la sua decorazione per creare un passaggio tra il giardino e la loggia. Il giardino diventa il teatro immaginario del girovagare della protagonista degli affreschi: Psiche. Un progetto quindi carico di nuovi insegnamenti per gli artisti anche delle generazioni future.

Proviamo a immaginare l’ingresso a questa loggia aperta sul giardino, senza le vetrate che oggi vediamo e senza le finte nicchie monocrome alle pareti, eseguite solo alla fine del seicento da Carlo Maratti. Attraversando il giardino ricco di vegetazione e statue si giungeva ad una scalinata da percorrere con soggezione: si vedevano apparire lentamente gli dei che facevano capolino dai pennacchi e gli amorini che, volteggiando, venivano incontro al visitatore. Queste figure oggi, invece di avanzare verso di noi stagliandosi sul fondo azzurro intenso e luminoso di Raffaello, sfuggono risucchiate dall'azzurro chiaro della preparazione di quel cielo che non esiste più. La decorazione della loggia appariva dunque come una finestra sull'Olimpo rilucente di colori e palpitante, che esaltava il nuovo concetto di architettura di villa suburbana o viridario dell’architetto Baldassarre Peruzzi.

 

BIBLIOGRAFIA

Sherman, Studi di Raffaello.

Varoli Piazza, Raffaello la Loggia di Amore e Psiche.


TEMPIETTO SAN PIETRO IN MONTORIO

A Roma, in uno degli angoli più suggestivi della città eterna, sul colle Gianicolo, sorge il celeberrimo Tempietto di San Pietro in Montorio, chiamato anche Tempietto del Bramante. L'edificio è situato nel luogo esatto dove, secondo la tradizione, l'apostolo Pietro venne crocifisso a testa in giù.

Dietro la disarmante bellezza del Tempietto vi è Donato Bramante, la costruzione venne infatti, commissionata al grande artista ed architetto di Fermignano. Egli intorno al 1499 arrivò a Roma e qui, grazie al Papa Giulio II, riuscì ad iniziare quelle grandi imprese architettoniche che avrebbero cambiato il volto della città e dato l'avvio all'architettura del Cinquecento.

Nel 1502 il re di Spagna ordinò al Bramante la progettazione del Tempietto, il complesso monastico infatti, apparteneva ad una congregazione spagnola.

DESCRIZIONE

Il Tempietto di San Pietro in Montorio è di piccole dimensioni, sopraelevato rispetto al piano del cortile nel quale è situato. Il corpo centrale cilindrico, la cui muratura è scavata da nicchie con catino a conchiglia e scandita da paraste come proiezione delle colonne del peristilio, è delimitato da 16 colonne tuscaniche trabeate, prelevate da un monumento antico a noi ignoto. Le metope del fregio presentano decorazioni a tema liturgico che rimandano a San Pietro, al di sopra della cornice anulare corre una balconata con balaustra.

Date le piccole dimensioni dell'edificio, all'interno le paraste si dimezzano, diventando otto e si raggruppano a coppie attorno alle quattro piccole finestre lungo due assi ortogonali, lasciando maggior superficie parietale per le porte. La forma cilindrica è in qualche modo trasformata da alte e profonde nicchie, quattro delle quali ospitano piccole statue degli evangelisti. Sull'altare è collocata una statua di San Pietro di anonimo lombardo, il pavimento è a tessere marmoree policrome, nello stile cosmatesco. Tutto lo spazio è coperto con una cupola, progettata in conglomerato cementizio e posta su di un tamburo, ornata da lesene a formare un ordine sovrapposto a quello delle colonne. La costruzione è soprastante una cripta circolare il cui centro indica il luogo dove venne piantata la croce del martirio, asse ideale di tutta la costruzione. Alla cripta si accede con scale esterne realizzate nel XVII secolo mentre originariamente esisteva solo una botola.

Secondo i progetti iniziali, il tempietto avrebbe dovuto inserirsi al centro di un cortile circolare non realizzato (l'attuale è di forma quadrangolare), così da evidenziare la perfetta simmetria dell'impianto e sottolineare la centralità del tempio la cui struttura si radiava nel cortile, proiettando le 16 colonne in altre 16 a formare un portico circolare.

RIFERIMENTI AD ALTRE OPERE

Il lavoro di Bramante è un chiaro rimando all'architettura antica, è consapevolmente modellato sul tempio periptero circolare, utilizzato nell'architettura romana antica e di cui erano ben visibili degli esempi: il Tempio di Vesta nel Foro e il Tempio di Ercole Vincitore. Un altro riferimento di Bramante fu la ben più grande mole del Pantheon, a pianta circolare. In effetti la costruzione del tempietto si pone al centro della ricerca che coinvolse tutti gli architetti del Rinascimento relativa alla pianta centrale come modello per rappresentare la realtà divina ed il cosmo; questo in modo particolare per la forma circolare, espressione concettuale e visiva della "figura del mondo". L'opera architettonica di Bramante trova un parallelo anche in alcune opere pittoriche, tra cui il contemporaneo dipinto di Raffaello, "Lo sposalizio della Vergine", a conferma dell'importanza del tema del tempio circolare nella cultura del primo Cinquecento.

SIMBOLOGIA

Nell'edificio, inoltre, sono state individuate delle simbologie, in particolare nella divisione dei luoghi: la cripta, il sacello e la cupola potrebbero rappresentare nell'ordine: la Chiesa originaria delle catacombe, la Chiesa contemporanea militante e la Chiesa trionfante nella gloria. Ancora, altri elementi simbolici si denotano nei numeri: sul perimetro del tempietto vi sono 16 colonne,  numero  considerato perfetto da Vitruvio, inoltre il numero 16 è scomponibile anche in 8+8 e l'8 è un numero estremamente simbolico che significa infinito ma anche morte e resurrezione.

L'edificio e la maestria del Bramante non passarono inosservati: nel 1570 Andrea Palladio, che aveva inserito il Tempietto fra quelli antichi nel suo "I quattro libri dell'architettura", si giustificò affermando che Bramante era "stato il primo a metter in luce la buona, e bella Architettura, che dagli Antichi fin'a quel tempo era stata nascosta".

BIBLIOGRAFIA

Storia dell'arte italiana-Bertelli, Briganti, Giuliano-Electa Mondadori

Itinerario nell'arte-Giorgio Cricco-Zanichelli


VILLA FARNESINA: LA LOGGIA DI GALATEA

Fig. 1 - Loggia di Galatea. Credits: Baldassarre Peruzzi.

Introduzione: la Loggia di Galatea

La Loggia o Sala di Galatea, all’interno di Villa Farnesina, è la sintesi di tutte le ambizioni personali di Agostino Chigi, committente della villa. Il banchiere senese aveva riservato alla loggia una funzione particolare, ovvero quella di raffigurare la sua vita attraverso le immagini: non solo il tema della nascita ma anche i suoi progetti futuri. L’insieme delle pareti affrescate da diversi artisti, era arricchito da citazioni classiche che prendevano spunto dalla statuaria antica, dalle gemme e da altre tipologie di opere che facevano parte delle ricchissime collezioni che Agostino riforniva di continuo, grazie anche ai suoi traffici che si estendevano dalla Spagna all’Inghilterra all’Impero ottomano, e ammirate dai numerosi frequentatori della Villa, celebre per i banchetti e gli spettacoli teatrali.

In origine la loggia aveva arcate aperte sul giardino, poi chiuse nel 1650, da cui era prevista l’entrata e questo permetteva di avere una visuale totalmente diversa rispetto a quella attuale, che ci restituisce un effetto distorto della modanatura sul soffitto che, invece, doveva suggerire una profondità illusoria.

Fig. 2 - Loggia di Galatea, le arcate sul giardino.

La Loggia venne affrescata da diversi artisti che si attennero ad un complesso programma iconografico che comprendeva temi astrologici sulla volta dedicata al cielo e scene mitologiche per le pareti, in particolare miti legati all’aria nelle lunette e all’acqua nella prima fascia di riquadri. Forse era prevista una fascia inferiore con riquadri dedicati ai miti di terra, mai completata. Il primo artista a decorare la loggia fu Baldassarre Peruzzi il quale, già nel 1511, aveva probabilmente terminato la volta con l’Oroscopo di Agostino. Tra la fine del 1511 e l’inizio del 1512 nella Sala operarono: Raffaello che affrescò la Galatea e Sebastiano del Piombo che affrescò il Polifemo e le lunette con storie tratte dalla Metamorfosi di Ovidio: miti di delitti e rapimenti furono i prescelti come quello di Teseo che insegue Progne e Filomena, di Aglauro ed Erse, di Dedalo e Icaro, la Caduta di Fetonte, Giunone sul carro alato, Scilla taglia i capelli a Niso, Borea rapisce Orizia, Zefiro e Flora. Solo una lunetta fu decorata dal Peruzzi con una gigantesca Testa di giovane che, secondo una leggenda, fu opera di Michelangelo Buonarroti.

Leggenda vuole che Michelangelo, estremamente curioso di vedere gli affreschi di Raffaello il quale non permetteva a nessuno di vedere il suo lavoro, travestito da venditore riuscì ad eludere la sorveglianza distraendo i custodi con della mercanzia. Entrato nel palazzo durante una pausa dei lavori, si trovò di fronte alle pareti semi-affrescate dal rivale. Non potendo resistere alla tentazione di mostrare le sue capacità, prese un pezzo di carbone e disegnò una bellissima testa di enormi dimensioni prima di fuggire via. Quando Raffaello rientrò nella Sala per riprendere il lavoro, vide il disegno e capì che solo la mano di Michelangelo poteva essere in grado di realizzare un’opera di tale maestria. Pur essendo irritato per l’intrusione, decise di non cancellarlo e ordinò che nessuno lo toccasse. Così è rimasto fino ad oggi.

Fig. 3 - Lunetta con Testa di Giovane.

La volta

Nella volta della Loggia il pittore e architetto Baldassarre Peruzzi aveva affrescato l'oroscopo di Chigi. Personificazioni mitologiche dei pianeti e dei segni zodiacali rappresentavano il tema natale del committente, con gli astri favorevoli a suggerire grandi imprese. La volta è suddivisa da una modanatura architettonica dipinta in ventisei scomparti in cui sono affrescati i miti. È raffigurata la mappa del cielo come doveva apparire il giorno della nascita di Agostino, con gli elementi astrali necessari per elaborare il suo oroscopo. All’interno di dieci pennacchi esagonali sono rappresentati i pianeti e i segni dello zodiaco, nelle quattordici vele sono personificate sdraiate le costellazioni extra-zodiacali mentre sorreggono il simbolo della costellazione che rappresentano; pennacchi e vele sono intervallati da putti a cavallo di animali fantastici a monocromo. Al centro della volta, sul soffitto, si trovano due pannelli ottagonali divisi dallo stemma dei Chigi (sostituito nella seconda metà dell’Ottocento da quello del duca di Ripalta) su sfondo azzurro: a sinistra la Fama annuncia la gloria terrena del banchiere suonando una tromba in direzione dello stemma centrale, mentre Perseo afferra la testa di Medusa e brandisce la spada; a destra la ninfa Elice su un carro, trasformata poi nella costellazione dell’Orsa Maggiore. Infatti proprio quest’ultima e quella di Perseo erano le due costellazioni che segnavano il meridiano celeste sulla città di Siena alle 21:30 del 29 novembre 1466, data e ora indicate sul documento ufficiale di nascita di Agostino Chigi (sono molto rare le indicazioni dell’ora nei documenti di Battesimo del tempo, mentre l’indicazione della mezz’ora è un caso del tutto isolato. Probabilmente il padre di Agostino aveva già intenzione di realizzare un Oroscopo). Inoltre, proprio in quel momento, la stella binaria Algol, nota proprio per rappresentare l’occhio della Gorgone Medusa all’interno della costellazione di Perseo, si trovava allo zenith (in arabo Ghul: testa del demone). Il programma iconografico dovette adattarsi alla struttura architettonica disponibile e, non avendo a disposizione dodici pennacchi, il pittore fu costretto a rappresentare due segni nello stesso esagono (Ariete e Toro; Bilancia e Scorpione). Sembra essere ancora molto controversa la scelta di rappresentare quattordici costellazioni anziché le trentasei esistenti. Una delle ipotesi più sensate tra quelle avanzate a motivare la scelta indica le costellazioni scelte come quelle che sorgono e tramontano insieme al segno della Vergine, identificato come quello in cui si trovava la Luna al momento della nascita di Agostino Chigi.

Fig. 4 - Volta affrescata con l'oroscopo di Agostino Chigi.

Il trionfo di Galatea

Raffaello decorò uno dei campi parietali con la leggiadra figura di Galatea, la bella ninfa colta mentre si allontana dal suo corteggiatore su un fantastico cocchio a forma di capasanta trainato da due delfini e guidato dal fanciullo Palemone e circondata da tritoni, amorini e nereidi. I corpi possenti dimostrano un’influenza michelangiolesca addolcita dalla naturalezza dei volti tipica di Raffaello. Situato nel registro inferiore della Loggia, il Sanzio aveva dato corpo a una delle immagini paradigma del Rinascimento, simbolo dell'amore neoplatonico e dell'ideale classico raffaellesco. L’ affresco ha forma rettangolare ed è databile al 1512 circa, probabilmente realizzato tra la fine della Stanza della Segnatura e l’inizio della Stanza di Eliodoro in Vaticano. Si trova sotto una lunetta di Sebastiano del Piombo e a fianco del Polifemo dello stesso artista. Per diverso tempo l’affresco venne considerato di mano di aiuti di Raffaello, in particolare di Giulio Romano; restauri novecenteschi hanno invece rilevano la piena autografia raffaellesca.

Fig. 5 - Raffaello, Trionfo di Galatea, affresco 1512 circa.

Polifemo

Secondo le fonti antiche, qualche mese dopo che Raffaello ebbe completato l’affresco con il Trionfo di Galatea, Sebastiano del Piombo affrescò sulla parete di fianco e in continuità iconografica con esso, la grande figura di Polifemo. Lo sgraziato innamorato di Galatea era originariamente nudo poi, per decenza, venne rivestito con un abito di un azzurro intenso che rimanda al colorismo veneziano. Polifemo è seduto sulla spiaggia, rivolge lo sguardo malinconico verso il mare a destra e regge in mano il flauto con il quale, secondo il mito, tenta di attirare Galatea della quale è innamorato. La posterità di quest’opera rispetto alla Galatea è confermata da Vasari, ma messa in dubbio in particolare dalla Tantillo Mignosi che, basandosi su una campagna di restauri degli anni ’70, mette in dubbio la datazione evidenziando un quadro autonomo privo di relazioni con la Galatea. Ci sembra infatti inverosimile che Sebastiano non venisse influenzato dalla presenza di Raffaello. Inoltre, per avvalorare la priorità di esecuzione del Polifemo rispetto alla Galatea, questo si trova nel primo riquadro sulla parete, mentre la Galatea segue a fianco. Per di più la presenza di Sebastiano a Villa Farnesina viene riconosciuta già durante la decorazione della volta (prima opera affrescata nella Sala). Alla luce di queste considerazioni, la datazione del Polifemo cadrebbe poco prima della Galatea.

Fig. 6 - Sebastiano del Piombo, Polifemo, affresco 1511-12 circa.

Probabilmente le pareti dovevano essere decorate da altre scene tratte dalla storia della Ninfa Galatea, mai realizzate. Per questo motivo i due affreschi presenti (Galatea e Polifemo) non raffigurano gli eventi principali della storia.

Fig. 7 - Parete affrescata, confronto tra il Polifemo e La Galatea.

Ci appare chiaro che difficilmente si riuscirà a decifrare con assoluta certezza un così ricco e complesso programma iconografico che, unico nel suo genere, fu probabilmente elaborato in collaborazione con un astrologo della cerchia papale. È nota comunque la passione di Agostino Chigi per gli studi di astrologia, e sicuramente grande fama in questo campo gli derivò direttamente dalla particolarità della volta astrologica nella Loggia.

 

Bibliografia:

Manzari, La volta affrescata della Loggia di Galatea nella Villa Farnesina. Interpretazioni astrologiche da Saxl ad oggi, in “L’uomo Antico e il cosmo”, 3° convegno internazionale di Archeologia e Astronomia, Roma, 15-16 maggio 2000.

Barbieri, Gli affreschi di Sebastiano del Piombo nella Loggia della Galatea (Vasari e la “maniera difforme di Sebastiano”

Sitografia:

farnesina.wordpress.com

www.villafarnesina.it

www.lincei.it

http://www.iconos.it/le-metamorfosi-di-ovidio


LA DIMORA DEI CHIGI:VILLA FARNESINA A ROMA

A cura di Federica Comito

Villa Farnesina. La committenza.

Agostino Chigi, ricco e colto banchiere senese, intorno al 1505 commissiona all'architetto Baldassarre Peruzzi un palazzo suburbano, che potesse riflettere la ricchezza e lo sfarzo del committente. Villa Farnesina diventa così l’immagine, in termini culturali, di un uomo a cui le grandi capacità e un destino favorevole avevano riservato un ruolo di primo piano e il palazzo, con la sua immensa decorazione, contribuisce a mantenere in continuo rapporto la forma dell’architettura e la natura.

A un interno tanto innovativo quanto magistrale, corrisponde un esterno armonioso a ferro di cavallo che concretizza l’idea di continuum tra le stanze della villa e il cortile. Oltrepassato il muro di cinta ci si trovava nel giardino caratterizzato da architetture di verzura, alberi tagliati secondo le regole dell’ars topiaria e sculture disseminate ad arte.

Si tratta di uno dei maggiori esempi architettonici del Rinascimento Italiano a Roma: la sua fama deriva non solo dai materiali impiegati, ma anche dalle tonalità bronzee della decorazione a graffito che, in origine, era distesa su tutta la superficie del muro. Seguendo la testimonianza di Vasari, tale decorazione fu realizzata da Peruzzi, così come gli zoccoli delle finestre del piano superiore fiancheggiate da fauni e sovrastate da scene mitologiche.

L’alzato si articola su due piani con mezzanino e piano delle soffitte, unificato da due ordini di lesene tuscaniche, dal basamento e dai due fregi.

La villa fu affrescata da personaggi del calibro di Raffaello, Sebastiano del Piombo, il Sodoma e dallo stesso Peruzzi.

 

Villa Farnesina: il piano terra.

 

La Loggia di Galatea

Baldassarre Peruzzi nel 1511 affrescò l'oroscopo di Agostino Chigi sulla volta ripartita da finte cornici geometriche a imitazione dei soffitti in stucco, realizzate in prospettiva così da creare un effetto illusionistico.Tale opera deve aver preceduto le altre opere del Peruzzi (Saletta del Fregio e Salone delle Prospettive). Nell'inverno 1511-1512 Sebastiano del Piombo dipinse le scene mitologiche delle lunette e il Polifemo che si trova accanto alla Galatea di Raffaello (1512 ca). Gli altri riquadri della sala raffigurano invece paesaggi seicenteschi di scuola romana. Le pareti della loggia vennero ripartite da lesene con candelabri in monocromo e da un alto zoccolo dipinto in stoffa rossa drappeggiata.

 

La Loggia di Amore e Psiche

La Loggia prende il nome dalla decorazione ad affresco dipinta nel 1518 da Raffaello e bottega, i quali raffigurarono episodi della favola di Psiche ispirati all' “Asino d'oro” di Apuleio. Festoni vegetali a opera di Giovanni da Udine incorniciano le varie scene. Sulla volta gli episodi del Concilio degli Dei e del Banchetto nuziale, separate dallo stemma dei Chigi. Dieci pennacchi con scene della favola e quattordici vele con amorini raccordano la volta alle pareti scandite da lesene con 5 archi sui lati lunghi e 3 sui lati brevi.

La Stanza del Fregio

La sala è così denominata dal fregio che percorre in alto le pareti, realizzato da Peruzzi intorno al 1508 ispirandosi alle favole di Ovidio e con uno sguardo al Pollaiolo e a Mantegna nei nudi.

Primo piano

La Sala delle Prospettive

La vasta aula prende il nome dalla decorazione di Baldassarre Peruzzi che nel 1519 affrescò sulle pareti vedute prospettiche urbane e campestri trafinte colonne. Sotto il soffitto a cassettoni corre un fregio con scene mitologiche, realizzate dal Peruzzi e bottega, e sulla parete nord campeggia un grande camino con la fucina di Vulcano.

 

La Stanza delle nozze di Alessandro Magno e Roxane

Così denominata dall'affresco principale che occupa tutta la parete nord,era in origine la camera da letto di Agostino Chigi, il quale ne affidò nel 1519 la decorazione al Sodoma. Il soffitto cinquecentesco a cassettoni reca decorazioni a grottesche e soggetti mitologici.

 

In origine oltre alla villa e alle scuderie, era presente un terzo edificio: una loggia sul Tevere destinata ai banchetti collegata al giardino da una gradinata. La piccola fabbrica doveva estendersi parallelamente al fiume; probabilmente la sua forma venne riprodotta nella ricostruzione settecentesca dopo che l’originale venne distrutta nel 1531 da un’inondazione. Fu definitivamente abbattuta tra il 1884 e il 1886 per i lavori di arginatura del fiume. Nel suo suburbanum Agostino Chigi ospitò i papi Giulio II e Leone X, nonché i letterati più illustri di Roma. Una curiosità è legata ad un banchetto in particolare che il Chigi organizzò in onore di Papa Leone X: gli invitati trovarono le loro insegne incise su piatti d’oro e d’argento che venivano, a fine pasto, gettati nel Tevere. Il gesto voleva dimostrare la ricchezza del banchiere ma,in realtà, delle reti provvedevano a recuperare gli oggetti.

Dopo la morte di Agostino nel 1520, la struttura dal 1526 rimane abbandonata e, dopo aver subito le ingiurie dei Lanzichenecchi durante il sacco di Roma e le devastanti piene del Tevere, viene acquistata dai Farnese nel 1577 che sostituiscono tutti gli stemmi famigliari dei Chigi con i gigli Farnesiani. Nel 1731 la Farnesina passa ai Borbone di Napoli. Nella seconda metà dell’800 la villa fu interessata da un programma di intensi restauri che servivano a rallentare il cedimento dell’abitazione e che videro l’apertura dell’attuale ingresso. Nel 1932 la villa viene affittata al principe Chigi che fa realizzare l’impianto elettrico. L’edificio storico è oggi sede nazionale dell’Accademia del Lincei, una delle istituzioni scientifiche più antiche d’Europa che annovera tra i primi membri Galileo Galilei.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Isa Belli Barsali, Ville di Roma,1970, SISAR, Milano.

C.L.Frommel, Architettura del Rinascimento Italiano, 2009, Skira.

  1. Bruschi, Storia dell’architettura italiana - il primo Cinquecento, “Roma, le diverse maniere” F.P. Fiore, 2002, Electa, Milano.

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IL SANTUARIO DEL SACRO SPECO DI SUBIACO

IL "NIDO DI RONDINI"

Incastonato nella roccia del Monte Taleo e a strapiombo sulla valle, nel comune di Subiaco, si trova il Santuario del Sacro Speco, luogo di culto della spiritualità benedettina. In questo luogo San Benedetto trascorse un periodo della sua vita, precisamente in una grotta. Il santuario è composto da due chiese sovrapposte, da cappelle, da volte, tutte incastonate nelle pareti irregolari della roccia.

LA CHIESA SUPERIORE

La Chiesa Superiore è stata costruita per ultima, ed è formata da campate irregolari: la prima che si incontra è più alta della seconda e sono separate l'una dall'altra da un arco, al di sopra del quale vi è l'affresco della "Crocifissione". Opera imponente, quest'ultima, il corpo del Cristo è delineato con grande accuratezza e accompagnato da dettagli, il volto di Gesù appare sereno e lo spettatore ne resta coinvolto.

Vi sono altri elementi che raccontano altri episodi: il gruppo delle Pie Donne, i ladroni, la Maddalena. La parete di destra è divisa in tre registri: nel primo sono rappresentati "Il tradimento di Giuda", la "Fuga degli Apostoli" e "La Flagellazione". Nel secondo registro sono rappresentati "Il giudizio di Pilato" e il "Viaggio al Calvario". Sono affreschi ricchi di dettagli, ad esempio ne "Il Giudizio" vediamo rappresentata una città trecentesca con mura merlate alla guelfa, terrazze e loggette. Nel terzo registro è raccontata "La Pentecoste". Allo stesso modo la parete di sinistra è divisa in tre zone, nella parte inferiore è raffigurata "L'entrata in Gerusalemme di Gesù" e le "Marie al Sepolcro", nel secondo registro si trovano "L'incontro di Cristo con la Maddalena" e "L'incredulità di Tommaso". Infine nell'ultimo spazio vi è rappresentata "L'Ascensione, tra Angeli in festa, Maria, i Discepoli e le Pie Donne".

La seconda campata è, probabilmente, il nucleo originario della costruzione, qui gli affreschi avvolgono completamente lo spettatore e sono attribuiti ai pittori della Scuola Umbro-Marchigiana. Nella parete di fondo troviamo un affresco, ormai deteriorato, che rappresenta "San Benedetto in cattedra". Nella parete a sinistra, tre affreschi: “San Benedetto tentato dal diavolo”, “San Benedetto che rotola fra le spine” e “San Benedetto che prega nella grotta”. Nella lunetta, vicino all'ingresso, si vede, a destra, “Il miracolo del veleno” e a sinistra “La guarigione del monaco indemoniato”. Attraverso dei gradini, dalla seconda campata, si accede al transetto, e quindi all'abside, che è interamente scavata nella roccia.

LA CHIESA INFERIORE

L’accesso alla Chiesa Inferiore avviene oggi dal transetto della Chiesa Superiore tramite una scala, a sinistra della quale si trova un affresco di origine bizantina, che raffigura il testo della bolla del 4 Luglio 1202, con cui il papa Innocenzo III concedeva speciali favori ai monaci residenti nello Speco. La prima campata della Chiesa Inferiore è situata vicino alla Scala Santa, posta sulla sinistra di chi si mette di fronte alla Chiesa. Nella parete di fondo sono rappresentati gli episodi de “L’offerta del pane”, “Il pane avvelenato sottratto dal corvo” e “Cristo benedicente tra angeli, con San Benedetto e Santa Scolastica”. Il primo è ambientato in una grotta, dove San Benedetto, seduto, riceve il pane avvelenato, dono del prete Fiorenzo, con grande sconcerto di Mauro e di Placido. Nella lunetta della parete dove si apre la porta del Coro è raccontato il “Miracolo del salvataggio di San Placido”. Viene descritto San Mauro, che inconsapevolmente corre sull'acqua del lago, appena San Benedetto gli fa cenno di salvare San Placido. Ne “Il Miracolo del falcetto” il lago è rappresentato come una bianca macchia rettangolare, dai bordi ondulati: a sinistra vi è il Goto che porge al santo il bastone senza falcetto, a destra San Benedetto immerge nell'acqua il bastone, al quale il falcetto miracolosamente si unisce. La seconda campata della Chiesa Inferiore si trova allo stesso livello della prima campata, all'interno di essa si trova l'accesso alla Grotta della Preghiera. Nella terza campata della Chiesa Inferiore, a sinistra, si trova una grotta nella quale è allestito permanentemente un presepio. Nella parete a destra sono dipinte le storie di San Benedetto: “Il miracolo del vaglio”, “Il viaggio verso la chiesa di Affile” “La vestizione”, “Il ritiro in orazione dentro la grotta”. Nell'ultimo episodio San Benedetto è descritto in preghiera, dentro la grotta immersa in un paesaggio realisticamente rappresentato, del quale sono con accuratezza descritti gli alberi e la campagna circostante.

LA GROTTA DELLA PREGHIERA

La Grotta di San Benedetto, chiamata anche “Grotta della Preghiera”, è il principale  punto di riferimento di tutto il sacro complesso. E’ un anfratto del monte Taleo, dove, come dice san Gregorio Magno nel II libro dei “Dialoghi”, San Benedetto si ritirò a vita eremitica per tre anni, ignoto a tutti, fuorché a Dio e al monaco Romano, che dall'orlo della roccia sovrastante, mediante una lunga corda, mandava al Santo il cibo essenziale per la sopravvivenza. In seguito al tentativo di avvelenamento da parte di Fiorenzo, parroco della chiesa di San Lorenzo, situata sulla riva sinistra dell’Aniene, San Benedetto abbandonò la grotta ed essa rimase per circa seicento anni solo luogo di preghiera. Dopo il 1193 al Sacro Speco si insediò una comunità di dodici monaci, con una propria amministrazione, guidati da un priore dipendente dall'abate di Santa Scolastica, e la roccia in cui la grotta è inserita subì adattamenti e modifiche strutturali, per agevolarne l’accesso e consentire il normale svolgimento della vita monastica. Il papa che, in quel periodo, maggiormente ebbe a cuore l’esperienza benedettina, fino a riformarla, fu Innocenzo III, che andò spesso a Subiaco e valorizzò lo Speco.

LA CAPPELLA DI SAN GREGORIO

La Cappella di San Gregorio è un piccolo ambiente absidato costolonato, e vi si accede dalla Chiesa Inferiore attraverso una scala a chiocciola. A destra della finestra si trova, in un pannello rettangolare, l’affresco che rappresenta San Francesco d’Assisi, che ha in mano una carta, nella quale si legge: PAX HUIC DOMUI. Ai suoi piedi è raffigurato un piccolo monaco, con tonaca rosso cupo, che è, forse, il committente dell’opera. L’opera è anteriore al 1224, anno in cui San Francesco ebbe le stimmate, che qua non appaiono, come non figura l’aureola, ad indicare che il santo, in quel tempo, era ancora vivo.  Un altro affresco,che è posto a sinistra della finestra, rappresenta il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, divenuto poi papa col nome di Gregorio IX, dipinto nell'atto di consacrare la cappella a San Gregorio Magno. Molti riconoscono nella figura che si trova accanto ad Ugolino lo stesso San Francesco, che avrebbe assistito a tale consacrazione. Ugolino è dipinto secondo una formula compositiva, cara al Maestro di frate Francesco, desunta da una matrice culturale bizantina: la curvatura della figura nel rispetto della cornice d’arco.

Il monastero merita di essere visitato,è un gioiello dell'architettura, uno scrigno di tesori artistici ed un luogo suggestivo.

Papa Pio II lo definì il "nido di rondini".

 

sitografia:

https://benedettini-subiaco.org/index.php/monastero-san-benedetto[/vc_column_text][/vc_column]

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