4.5
(18)
A cura di Alice Oggiano

CENNI STORICI SUL CENTRO URBANO

In provincia di Oristano, nella Sardegna centro-settentrionale, è situato il comune di Santa Giusta. Il centro si erge su un’ampia e fertile zona della piana campidanese, essendo posto tra il grande ed omonimo stagno a Ovest e ad Est con il Pauli Minori. Il sito dell’attuale comune era ben noto agli uomini sin dall’età nuragica, per divenir successivamente città fenicio- punica con l’appellativo di Othoca. Sviluppatosi ancora di più in età romana, durante l’Alto Medioevo il centro fu parte dei possedimenti del giudicato d’Arborea, divenendo a partire dall’XI secolo sede diocesana. Con la caduta dell’ultimo giudicato sardo, nel 1410 entrò a far parte del marchesato di Oristano. A causa di una serie di gravose vicende, che videro il flusso continuo di razzie ed incursioni ai danni del centro, nel 1477 venne sottratto dall’influenza del marchese Leonardo D’Alagon divenendo parte del demanio regio.

Con la privazione all’inizio del 1500 della diocesi, Santa Giusta subì un notevole tracollo demografico, e la caduta del centro parve inarrestabile. Il paese si strinse allora attorno alla cattedrale romanica, sempre più dipendente da Oristano. Nel 1767, nonostante il malcontento popolare dilagasse, fu restaurato e concesso ai Nurra il marchesato d’Arcais. Motivo di protesta fu per gli abitanti l’infeudamento cui si videro costretti sottostare, condizione ignota durante la fase di diretta dipendenza regia. Nel corso del 1800, e fino alla fine dei diritti feudali in Sardegna (1838), il marchesato passò nelle mani dei Flores. Inglobato nella provincia di Oristano nel 1821, subirà un’inversione di rotta quando entrerà a far parte della provincia di Cagliari nel 1859. Incluso nuovamente all’interno della giurisdizione oristanese nel 1927, otterrà la propria autonomia nel 1947, per essere nuovamente accorpato quando nel 1974 verrà istituita la provincia di Oristano.

LA BASILICA DI SANTA GIUSTA

La fortuna legata alla basilica di Santa Giusta travalica l’ambito strettamente isolano, rivelando un’elaborazione della forma del tutto personale rispetto ai dettami del tardo romanico sardo per la presenza di influssi ad esso estranei, inserendosi in un più ampio quadro artistico non solo italiano, ma europeo. La datazione cronologica è ricavabile tramite fonti indirette ed un confronto con la documentazione relativa alla basilica di S. Saturno a Cagliari, quest’ultima consacrata intorno al 1119. Nell’atto viene menzionata la presenza di un episcopo proveniente da Santa Giusta, palesando perciò già all’epoca l’esistenza di una sede vescovile all’interno della villa. Gli elementi che tuttavia restituiscono una visione più nitida della basilica derivano da un confronto con la primaziale pisana alla quale lavorò l’equipe buschetiana, consacrata nel 1118. È del tutto probabile che in seguito all’edificazione della cattedrale pisana le maestranze si fossero recate in Sardegna attorno al 1120, e la presenza di stilemi del tutto sovrapponibili a quelli di Santa Maria Assunta hanno dato vigore alla tesi sovraesposta. Le maestranze toscane sono individuabili non solo nella basilica di Santa Giusta, ma anche a S. Pietro di Torralba: infatti, grazie all’epigrafe di ultimazione dei lavori posta sulla facciata di S.Pietro- ascrivibile al 1144 – siamo in grado di individuare un termine ad quem per Santa Giusta, ossia attorno al 1130. Sul confronto tecnico-stilistico tra la primaziale pisana e Santa Giusta, porremo attenzione a breve. Ora è importante evidenziare come il centro, noto per il rinvenimento di reperti archeologici d’epoca punica-romana, abbia indotto gli studiosi ad attribuire il carattere cimiteriale all’area posta a sud dell’abitato e ad estendere tale ipotesi alla cattedrale stessa. Supposizioni che trovano conferma in recenti scavi archeologici e nell’esistenza della cripta, unicum nel panorama isolano. Venne postulata inoltre l’esistenza di un martyrium preesistente alla basilica romanica, riconducibile al culto delle sante e vergini Justa, Justina ed Eneidina.

DESCRIZIONE DELLA BASILICA DI SANTA GIUSTA

La basilica, edificata su un alto poggio, presenta una pianta longitudinale a tre navate con rapporto tra navata centrale a capriate lignee e navatelle voltate a botte di 1:1. Al di sotto della zona presbiteriale, in corrispondenza delle ultime tre campate culminanti in un’abside semicircolare, è posta la cripta, suddivisa in quattro sezioni da archi sguscianti direttamente dalla volta a crociera, poggianti su robusti pilastri a sezione circolare sormontati da capitelli corinzi finemente decorati e dentellati. All’interno vi sono tre altari, uno dei quali conserva le reliquie delle sante titolari della basilica. La presenza della cripta ha alterato la struttura architettonica della basilica provocandone un innalzamento del piano di calpestio delle navatelle, traducibile esternamente nell’impostarsi dell’intero edificio su un alto stilobate.

La basilica di Santa Giusta venne costruita con l’utilizzo della pietra arenaria proveniente dalle cave della penisola del Sinis. La facciata è tripartita da un’arcata centrale e due arcatelle laterali, di modulo pari alla metà. L’arcata centrale inquadra l’ampio portale dai piedritti marmorei monolitici di spoglio, decorati da foglie d’acanto, sui quali è posto l’architrave.

All’estremità di quest’ultimo due leoni scolpiti sono tesi ad adunghiare altrettanti cervi. Tale iconografia, resa con una plasticità straordinaria, ha svuotato di contenuto alcuni studi che vorrebbero attribuirne la realizzazione ad opera di maestranze toscane, in particolare d’area pistoiese e pisana. Siamo infatti distanti da quella schematizzazione e bidimensionalità tipica della sensibilità alto-medievale, così come è palese l’abbandono di stilemi classicheggianti desunti a Pisa da sarcofagi romani a favore di un maggiore resa naturalistica. I lineamenti del muso del felino infatti, dagli occhi allungati e fortemente incavati, rivelano un gusto tipicamente arabeggiante. È probabile perciò che lo scultore operante a Santa Giusta provenisse dalla Campania, in quel periodo fortemente intrisa della cultura islamica e di sovente a contatto con le regioni mediterranee e la Sardegna in particolare, con la quale intratteneva non pochi scambi commerciali.

L’arco di scarico, nascente da due mensole con modanatura a gola e toro, preserva la lunetta incassata, che per altro presenta una croce in trachite scura, richiamando prototipi lucchesi. D’influenza pisana, oltre ai già menzionati piedritti, arco di scarico e archeggiature, è il rombo gradonato posto sul timpano, inquadrato da due lesene che attribuiscono maggior enfasi alla tripartizione della facciata, ribadita dalla trifora sottostante scandita da colonnine marmoree. Ai lati del portone la presenza di due colonne – tra le quali una mozza – lascia alludere la possibile presenza di un portichetto posto in facciata, in accordo con le mensole sovrastanti.

Le archeggiature – scandite due a due da robuste lesene – lungo il lato nord e sud della basilica, riprendono in modo straordinario l’andamento tipico della basilica di Santa Maria Assunta. La similitudine con la primaziale è ancora più evidente prendendo in considerazione l’abside, scandita da archeggiature che impostano su semi-colonne poggianti su dadi. Ma l’elemento che rivela una persistente assonanza con la cattedrale pisana, configurandosi per altro come unicum, è il cubo-pulvino al di sopra dell’abaco, interposto tra quest’ultimo e l’arco. Ogni archeggiatura presenta una stretta ed allungata monofora, ed altre sono visibili nella scarpa absidale in corrispondenza della cripta. Ad illuminare l’abside, una monofora cruciforme riprende l’iconografia della stessa posta in facciata.

All’interno della basilica le navate sono scandite da arcate su sette colonne, per lo più di spoglio d’antiquario, così come la maggior parte dei capitelli presenti e le basi marmoree decorati secondo vari moduli stilistici. Il marmo utilizzato nell’edificazione della basilica di Santa Giusta venne prelevato per lo più dalle aree archeologiche di Tharros, Neapolis e Othoca.

Sulla navata laterale destra si aprono tre ambienti di servizio postumi rispetto alla data di edificazione della basilica, costruiti attorno al XVII secolo. Il primo di questi, allineato alla zona presbiteriale, è dedito alla Sacrestia. Qui è custodito il dipinto raffigurante le martiri titolari (Justa, Justina e Eneidina) realizzato intorno al 1600.

Gli altri due sacelli d’epoca cinquecentesca, titolati rispettivamente al Rosario e al Santo Spirito, sono posti invece poco dopo aver varcato l’ingresso. Entrambi son degni d’un grande interesse dal punto di vista storico-artistico vista la straordinaria presenza della decorazione ad affresco applicata all’intera superficie solo nel primo ambiente.

La cappella del Rosario, nota anche come Sant’Antonio, ripropone l’effige del santo nel soffitto affrescato all’interno del clipeo a ogiva nell’iconografia tradizionale con il Bambin Gesù protetto dal braccio destro, mentre quello sinistro tiene un giglio. Il santo è stante, posto in un ambiente naturalistico che vuol riproporre il luogo presso cui si erge la basilica di Santa Giusta, con intenti chiaramente ritrattistici. La discesa del Santo Spirito è resa evidente dai putti posti al lato di Sant’Antonio e dalla colomba bianca al di sopra del capo del frate. Il restante soffitto è decorato da nastri dai toni purpurei e decorazioni dalla fitta trama dorata, conferendo maggiore sacralità alla scena illustrata. Una serie di finti panneggi affrescati dai colori terrei sono posti sui lati della cappella.

Nel lato sinistro dell’aula trova spazio un bellissimo crocifisso ligneo del XVIII, su cui è adagiato il Cristo patiens raffigurato con il solo perizonium (letteralmente, perizoma), mentre un rivolo di sangue sgorga dal pallido costato.

All’interno della ricchissima cappella, finanziata probabilmente da Domenico Casula e Chiara Deidda che qui si fecero seppellire, è presente inoltre un retablo ligneo accuratamente intagliato d’epoca settecentesca, recentemente sottoposto a restauro. La nicchia centrale a conchiglia è occupata dalla statua lignea di Sant’Antonio da Padova, mentre ai lati son rappresentati Santa Chiara, San Daniele, San Francesco e San Domenico, tutti sontuosamente decorati e riconoscibili grazie ai loro attributi tradizionali.

La cappella del Santo Spirito, nonostante sia decisamente più spoglia rispetto alla precedente, custodisce sul soffitto un grande affresco volto a rappresentare l’arcangelo Gabriele. Nonostante riversi attualmente in condizioni che poco spazio lasciano ad un’acuta analisi interpretativa, l’iconografia dell’arcangelo parrebbe esser quella relativa al momento dell’annunciazione alla Vergine. A lasciarlo presagire la presenza del giglio, simbolo di purezza ed identificabile iconograficamente con la figura di Maria. La figura del riccioluto e biondo Gabriele disposta di profilo è sinuosa, allungata, dal morbido ma lineare panneggio reso con grande maestria che ne accompagna il movimento. Posto in un finto spazio geometrico sapientemente decorato, l’arcangelo è reso maggiormente visibile grazie alla monofora posta sulla parete d’ingresso tesa ad illuminare lo spazio circostante.

Infine, dal notevole pregio artistico, il dipinto della “Salvazione dei dannati” al di sopra dell’altare posto a sinistra rispetto alla navatella. Al centro, la Madonna con Bambino è rappresentata nell’atto di ricevere l’incoronazione ed elevazione a regina da parte dei due putti posti ai lati, sui quali sovrasta la personificazione di Dio con le braccia aperte in segno d’accoglienza. Al di sotto della Madonna, due angeli versano il contenuto delle anfore ricolme d’acqua sui dannati sofferenti avvolti dalle fiamme dell’inferno, in un gesto di benevolenza. Difensore della bontà divinità, San Michele è raffigurato al lato sinistro del dipinto immortalato nell’atto di schiacciare il male, quest’ultimo tradizionalmente noto come il diavolo, che qui viene tuttavia declinato sotto forma di essere sinistro (probabilmente, un leone, animale ambivalente). Al lato sinistro il vescovo con il pastorale, guida spirituale contro la perdizione dell’anima. L’opera, dalla tecnica chiaroscurale netta, presenta toni cupi che lasciano presagire nell’animo dello spettatore un senso di irrequietezza e di mistero.

 

 

Bibliografia

Sardegna preromanica e romanica; Roberto Coroneo – Renata Serra

La grande enciclopedia della Sardegna; Francesco Floris

La grande enciclopedia della Sardegna;

 

Sitografia

Enciclopedia online dell’arte medievale; Treccani

Sito del comune di Oristano

Quanto ti è piaciuto l'articolo?

Fai clic su una stella per votarla!

Media dei voti: 4.5 / 5. Totale: 18

Nessun voto finora! Sii il primo a votare questo post.