A cura di Irene Scovero
La chiesa di San Bartolomeo degli Armeni
La chiesa dov’è conservata l’icona con il Santo Volto di Gesù (Fig.1) è San Bartolomeo degli Armeni a Genova, così chiamata perché fondata da alcuni monaci armeni nel 1308.
Lo stile originario presentava probabilmente una pianta centrale con cupola e due cappelle laterali nella testata, di gusto tipicamente armeno. Di tale struttura è rimasta solo la zona absidale con la cupola e la cappella di sinistra, poiché le altre parti della chiesa sono andate distrutte alla fine del XIX secolo, quando venne costruito il palazzo che ora la chiude da due lati (Fig.2-3).
Sita in Circonvallazione a monte, la chiesa di San Bartolomeo risulta di difficile riconoscimento proprio perché inserita nella facciata di un palazzo ottocentesco. Tale struttura più moderna, a ridosso dell’antica chiesa quasi come un contrafforte, fu realizzata dai Padri Barnabiti nel 1883. L’impostazione architettonica di San Bartolomeo risale alla fine del XVI secolo, quando fu notevolmente trasformata e venne realizzata anche la Cappella del Santo Volto contenente la reliquia oggetto di studio.
Il Santo Volto di Edessa
All’interno della chiesa si trovano tele di notevole valore attribuite dapprima a Domenico Piola e ora a Gregorio de Ferrari, busti marmorei e un trittico del XIV secolo di Turino Vanni; ma l’opera che desta più clamore è sicuramente il Mandylion[1] o Santo Volto di Genova, secondo la tradizione il più antico ritratto di Gesù.
Del Santo Volto si è sempre parlato nel mondo cristiano, soprattutto in quello orientale: tuttavia la sua importanza si è affermata intorno all’VIII secolo durante l’iconoclastia, quando alcuni imperatori bizantini (in particolare Leone III), tentarono di distruggere le immagini sacre con il pretesto di purificare il culto cristiano. I difensori delle immagini, definiti iconoduli, presentarono come principale argomento storico l’esistenza di un Santo Volto,[2] immagine considerata acheropita, ossia creata dalla mano divina senza l’intervento dell’uomo.
La leggenda[3] che ricorda l’origine divina di questa icona è quella riferita al re Abgar e databile al I secolo d.C.: la tradizione racconta che durante la vita di Gesù il re di Edessa Abgar, venuto a conoscenza delle doti taumaturgiche del Messia, mandò una lettera al Cristo per essere visitato e guarito dalla lebbra. Gesù, non potendo andare di persona, rispose alla missiva facendo recapitare un fazzoletto sul quale si era asciugato il volto dal sudore, lasciandovi impresse le sue fattezze. A seguito della guarigione del re Abgar, questi si convertì al cristianesimo e l’immagine, nei secoli successivi, venne utilizzata come conferma della legittimità del culto delle immagini. L’icona sacra è ricordata anche nel Concilio di Nicea del 787 d.C., che stabili e decretò la validità del culto delle sacre immagini sul presupposto “storico” del Santo Volto di Edessa, e sulla base dogmatica della verità dell’incarnazione; per cui Dio in Gesù si è reso visibile perché si è fatto uomo, e quindi soggetto a rappresentazione.
L’immagine oggetto di studio è un’opera di grande interesse storico artistico, ma la sua presenza è anche indicativa per la cultura figurativa locale e sottolinea il valore fondamentale dell’importazione di oggetti d’arte di alta qualità nella città. Considerata la vera immagine del Santo Volto di Edessa, l’icona nel 1362 fu portata a Genova da Costantinopoli da Leonardo Montaldo, e da questo donata al Convento di San Bartolomeo degli Armeni intorno al 1384[4]. La tradizione vuole che l’icona sia stata donata al capitano genovese (che poi diventò doge), dall’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo. Dal XIV secolo il Santo Volto di Edessa è custodito a Genova; solo per una breve parentesi, nel 1507, l’icona fu portata in Francia perché rubata da Luigi XII, ma grazie all’intervento di ambasciatori, ricchi mercanti e banchieri genovesi fu riportata in città.
Iconografia del Santo Volto o Mandylion
Grazie alle tecniche di indagine recenti si è constatato che l’immagine è una tempera ad uovo su lino.[5] I credenti ritengono che possa trattarsi del lino di cui parla la tradizione, dove Gesù impresse la figura del suo volto. Il tessuto è collocato su una tavoletta in cedro dipinta con croce di tipo fiorito di colore rosso, inserito a sua volta in un altro supporto ligneo sul quale è stato introdotto l’ornato in filigrana. Il preziosissimo ornato in oro e argento fu realizzato a Costantinopoli e presenta dieci formelle a sbalzo[6] in cui è rappresentata l’origine del Santo Volto fino all’arrivo a Costantinopoli. Le scene sbalzate, ravvivate da policromia e smalti a niello, rappresentano i momenti salienti dell’origine della sacra effige, ciascuna riportante una didascalia in greco. Sopra il volto del Cristo i due dischetti clipeati realizzati a niello[7], recano in greco il monogramma di Gesù Cristo IC XC e sotto i clipei, a fianco del volto, in perpendicolare, sono presenti due tabelline con caratteri in smalto azzurro che riportano la scritta in greco Il Santo Lino. Il volto è ulteriormente evidenziato da tre placche con intreccio a racemi eseguite a cesello[8], che formano il segno della croce.
Sul retro della tavola sono emersi frammenti incollati di stoffe persiane e arabe risalenti ai secoli precedenti al Mille: si tratta di Brandomi, cioè reliquie per contatto che avevano probabilmente avvolto il prezioso lino. Sono stati rinvenuti quattro tipi di stoffe decorate che costituiscono conferma della venerazione e delle origini antiche del Santo Volto, così da convalidare l’idea che l’icona sia il famoso volto di Gesù di Edessa di cui parla tutta l’antichità cristiana. Questi reperti sono stati distaccati dal Santo Sudario e attualmente sono conservati separatamente (Fig.4).
Agli inizi del XVII secolo la città di Genova ha donato alla chiesa di San Bartolomeo la splendida teca di argento in cui è custodita l’icona, teca che è stata ulteriormente arricchita di pietre preziose sulla cornice nel secolo successivo (Fig.5). Le pietre disposte lungo il bordo superiore della custodia sono ametiste, topazi, quarzi bruciati, rosette di diamanti e zaffiri. Il volto, come tutte le immagini acheropite antiche, presenta un naso lungo a cannula e occhi a mandorla sottolineati da una profonda arcata sopraccigliare. I capelli e la barba sono un tutt’uno e la barba termina con tre punte che, come vuole la tradizione bizantina le cui icone rimandano a significati simbolici legati alla teologia, richiamano alla trinità del Cristo.
Note
[1] Mandylion, termine dialettale proveniente dal greco che indicava un fazzoletto, nel dialetto ligure chiamato Mandillo.
[2] Tutto è da far risalire alle differenze sostanziali tra l’arte dell’impero d’Occidente e quello d’Oriente. Dopo la morte dell’imperatore Teodosio I, nel 395, la frattura che si creò tra le regioni occidentali e quelle orientali portò a differenze sostanziali nella storia dell’arte e nella rappresentazione religiosa. L’arte Occidentale proseguì con una via figurativa descrittiva e vicino alla realtà sottolineando nel volto di Gesù l’aspetto umano, mentre l’arte orientale-bizantina aderì a modelli simbolici, sottolineando nelle immagini del Redentore gli aspetti più divini. Queste differenze di rappresentazione delle immagini sacre tra i due imperi, che in seguito portarono allo scisma tra Oriente ed Occidente, causarono all’inizio dell’VIII secolo l’iconoclastia, cioè la distruzione di tutte le immagini sacre da parte dell’impero d’Oriente perché considerate opere capaci di fomentare tendenze idolatre. La disfatta dell’iconoclastia avvenne solo nell’843 con Teodora, quando venne ristabilito il culto delle immagini. Da quel momento l’arte bizantina conservò sempre uno spirito iconoclasta, e tutt’ora le icone sono sottoposte a rigide convenzioni dove i colori e la gestualità dei soggetti rappresentati sono governati da significati immutabili.
[3] La leggenda del re Abgar di Edessa, antica città della Siria, risale ai primi secoli dell’era cristiana. Ad essa accenna già il primo storico della Chiesa, Eusebio di Cesarea, prima metà del IV secolo d.C., e vari altri storici come Procopio ed Evagrio.
[4] L’icona, prima di arrivare a Genova, è a Costantinopoli, trasportata da Edessa dall’Imperatore d’Oriente e conservata nel Palazzo Imperiale (940 circa).
[5] La prima ricerca scientifica sul Santo Volto che ne conferma l’antichità e il valore religioso e storico artistico risale alla fine degli anni Sessanta del Novecento.
[6] Sbalzo: tecnica di lavorazione del metallo consistente nel battere sul lato posteriore della lastra metallica con martello e bulino in modo da ottenere figurazioni sulla parte dritta.
[7] Niello: lavoro di oreficeria che consiste nell’incidere con il bulino una lastra d’oro, d’argento o di altro metallo e nel riempire il solco così ottenuto con una pasta scura composta da’argento, rame, piombo, zolfo e borace.
[8] Cesello: piccolo strumento di ferro o acciaio a taglio smussato, utilizzato per incidere materiali.
Bibliografia
Flavio Caroli, Il Volto di Gesù. Storia di un’immagine dall’antichità all’arte contemporanea, Milano, 2008
Il Santo Sudario e la chiesa di S.Bartolomeo degli Armeni, Genova, 1988
La pittura a Genova e in Liguria, dagli inizi al Cinquecento, Genova, 1987
Simone Ferrari, Dizionario di arte e architettura. I termini, le correnti, i concetti, Milano, 2002
Victor I. Stoichita, Cieli in cornice. Mistica e pittura nel Secolo d’Oro dell’arte spagnola, Roma, 2002
Sitografia
Immagini dell’autore e tratte da www.reliquiosamente.com
Quanto ti è piaciuto l'articolo?
Fai clic su una stella per votarla!
Media dei voti: 3.9 / 5. Totale: 20
Nessun voto finora! Sii il primo a votare questo post.