SANT'ANNA A GENOVA. IL CONVENTO E LA CHIESA

A cura di Irene Scovero

 

La Chiesa di Sant'Anna e la figura di Santa Teresa d’Avila

La presenza dei Carmelitani a Genova

L’ordine Carmelitano è un ordine religioso cattolico, sorto in origine sul Monte Carmelo in Palestina da cui ha preso il nome. La Bibbia racconta che il profeta Elia raccolse una comunità di uomini sul monte Carmelo[1] ed operò in difesa della fede. In loco crebbero ben presto comunità monastiche cristiane e i crociati, quando vi giunsero nell’XI secolo, vi trovarono già dei religiosi insediati che si ritenevano i successori del profeta Elia. La presenza di una chiesetta dedicata alla Vergine Maria è attestata a partire dalla seconda metà del XII secolo, e gli eremiti presero quindi il nome di Fratelli di Santa Maria del Monte Carmelo. Fin da subito, quindi, il Carmelo ha si è legato tanto ad Elia quanto alla figura della Vergine. Nel corso del XIII secolo, a causa delle incursioni dei Saraceni, i frati dovettero abbandonare l’Oriente per stabilirsi in Europa, dove l’ordine, in seguito a una grande diffusione, venne confermato da Papa Innocenzo IV per dividersi, nel Cinquecento, in un ramo calzato e in uno scalzo, divenuto poi indipendente. L’origine di quest’ultimo (Carmelitani Scalzi) va individuata nella riforma del monastero femminile di San Giuseppe (1562), voluta da Teresa d’Avila ed estesa successivamente anche al ramo maschile per opera di Giovanni della Croce. Gli Scalzi ottennero, infine, la completa autonomia dall’ordine di antica osservanza nel 1593.

 

Il convento di Sant'Anna a Genova

Due anni dopo la morte della santa, nel 1584, padre Nicolò Doria fondò a Genova il convento di Sant’Anna. Tale convento, il più antico di fondazione maschile fuori dalla Spagna, costituisce la base per la diffusione dell’ordine a Roma.

La storia del Convento di Sant’Anna si intreccia con quella della potente famiglia dei Doria di Genova già dal 1528, anno in cui l’ammiraglio Andrea Doria firmò un patto che inseriva Genova nell’orbita della corona di Spagna. Furono questi rapporti commerciali a portare in Spagna anche Nicolò Doria il quale, nel 1577, arrivò a vestire l’abito carmelitano, avendo la fortuna di essere guidato da Teresa d’Avila in persona.

Prima di morire, la santa aveva ricamato con le sue mani un velo da calice che avrebbe recato in dono alla prima fondazione dei Carmelitani Scalzi al di fuori dalla Spagna. Nicolò portò il velo in terra natia assieme a una lettera autografa della santa, ed entrambe le preziose testimonianze sono ancora oggi conservate presso il Convento di Sant’Anna. Il legame privilegiato che unisce l’Ordine alla famiglia Doria è tra l’altro ribadito dalla presenza di due dipinti conservati all’interno del convento stesso: un Sant’Andrea e un Martirio di Sant’Orsola, entrambi di Domenico Fiasella e veri e propri omaggi figurativi agli omonimi membri della famiglia.

L’edificio, con annesso convento e farmacia, sorge nell’omonima piazzetta nel quartiere di Castelletto, su di un colle digradante verso il mare accessibile anche dall’antica funicolare che dal centro della città porta sulle alture di Genova.

La morfologia della chiesa è assai semplice: a navata unica, presenta un profondo presbiterio e un’abside piatta. Originariamente coperta da capriate lignee, durante la prima metà del XVII secolo assunse la conformazione attuale, con l’apertura delle sei cappelle laterali e la realizzazione di una nuova copertura a botte. Esternamente, invece, la chiesa di Sant'Anna conserva tuttora l’aspetto originario: una facciata a capanna (Fig. 1) priva di decorazioni se non si conta il bassorilievo scolpito con una Sacra Famiglia (Fig. 2) al di sopra dell’unico portale.

Dalla seconda metà del Seicento, vicino alla chiesa è presente anche una farmacia-erboristeria, censita dal Comune di Genova come bottega storica. Essa custodisce gli arredi originali dell’epoca, alcuni pregiati strumenti antichi e pezzi di vasellame. Per i prodotti, realizzati ancora tramite i processi e le metodologie dell’antica tradizione erboristica, vengono sfruttate le erbe officinali del giardino attiguo al complesso.

Fig. 1-2: facciata della Chiesa di Sant’Anna. La chiesa conserva esteriormente l’aspetto originario della costruzione cinque-seicentesca. Attualmente priva di decorazioni, sopra il portale è presente un bassorilievo marmoreo del XVI secolo raffigurante una Sacra Famiglia dove il personaggio cardine è sant’Anna, titolare della chiesa. L’edificio si affaccia su una piazza con sagrato acciottolato, circondata da alti platani.

 

Iconografia di Santa Teresa d'Avila 

Teresa nacque nel 1515 ad Avila, in Spagna, da un’antica e nobile famiglia. All’età di vent’anni entrò nel convento carmelitano della sua città natale. Nel giro di pochi anni divenne una delle figure più importanti della riforma cattolica, scrivendo diversi testi, poesie, preghiere ed elaborando un personale ideale di riforma dell’ordine del Carmelo.

Dichiarata beata nel 1614 da papa Gregorio XV, Teresa istituì la casa delle monache e frati Carmelitani Scalzi, fondando diversi monasteri in terra natia. Gli scritti di Teresa, dal chiaro indirizzo didattico, sono tra i più significativi della cultura della chiesa cattolica. Nella sua autobiografia, scritta dopo il 1567 sotto la direzione del suo confessore, Pedro Ibanez, ritroviamo la chiave di lettura dell’iconografia che la riguarda. I pittori e gli scultori non hanno mai narrano la sua vita, preferendo altresì dare forma alle sue visioni. Nessuna di queste parve tanto importante all’ordine del Carmelo quanto quella che Teresa ebbe nel momento in cui meditava sulla riforma dell’ordine. Nel giorno dell’Assunta del 1561 Teresa, nella chiesa dei Domenicani, fu colta da improvvisa estasi:

“Mi pareva, di essere vestita di un manto di un candore abbagliante. Dapprima non sapevo chi me lo poneva addosso, ma presto vidi alla mia destra la santissima Vergine Maria, e alla sinistra San Giuseppe, mio protettore e mio padre, che mi ricoprivano del manto; nello stesso tempo mi si fece capire che ero stata purgata dai miei peccati. La madre di Dio prendendomi le mani, mi disse che il progetto che avevo di realizzare un nuovo convento si sarebbe realizzato; suo figlio aveva promesso di assistermi e come pegno della sua promessa mi dava la sua collana d’oro, da cui pendeva una croce molto preziosa”.

Poco tempo dopo la visione Teresa ricevette una lettera dal papa, che la autorizzava a fondare un convento; nel 1562 venne istituito il monastero di San Giuseppe d’Avila, caso assai raro di fondazione da parte di una donna.

La visione del mantello e della collana cominciò ad essere rappresentata in tutte le chiese dell’ordine. Anche a Genova, L’apparato iconografico generale della chiesa è legata all’immagine di santa Teresa e ai personaggi a lei legati.

 

Fig. 3

Incoronazione di Santa Teresa (fig.3) in Sant'Anna: la scena, una rappresentazione di Cristo che incorona Teresa, è attribuita al pittore genovese Castellino Castello (1579-1649) il quale tentò di dare forma visiva alle parole della santa:

“Prima di entrare in monastero mi ero fermata in chiesa per fare orazione, ed essendo quasi in rapimento vidi Gesù che pareva mi accogliesse con grande amore e mi mettesse in capo una corona, ringraziandomi di quello che avevo fatto per la madre sua”

Fig. 4

Santa Teresa come Dottore della Chiesa (fig.4) : la statua, che raffigura la santa come dottore della chiesa, venne realizzata nel 1837 da Giovanni Battista Garaventa in una nicchia a stucco sul lato sinistro della navata.

Teresa è presentata come dottore della chiesa, con la penna in mano e il libro aperto. La pagina aperta del libro reca l’iscrizione latina Aut pati aut mori (“o soffrire o morire”), frase ricorrente nella tradizione iconografica della santa e comparsa per la prima volta sul nastro avvolto nel dardo infuocato del Serafino nel dipinto della volta. Tali parole si riferiscono all’episodio in cui Teresa, temendo che le cure per la salute del corpo la distogliessero da quelle dello spirito, venne rassicurata da Cristo circa l’importanza della sua vita. Teresa scrisse molto: il Castello interiore, suo capolavoro, è unanimemente considerato uno dei più grandi libri di teologia mistica di tutti i tempi.

Matrimonio mistico di Santa Teresa: la scena, dipinta da un autore anonimo del XVIII secolo e collocata al di sopra della seconda nicchia a sinistra, fa riferimento a una delle visioni della santa risalenti al periodo che va dal 1562 al 1572, momento in cui le visioni si intensificarono a tal punto che il suo rapporto intimo con Cristo giunse al grado più profondo del matrimonio spirituale. Nello specifico, l’episodio rappresentato si riferisce alla visione del 15 novembre 1572, giorno in cui Gesù porse a Teresa un chiodo come anello nuziale, simbolo di unione mistica nella sofferenza.

Chiesa di Sant'Anna: la Transverberazione (o Estasi di Santa Teresa): questa scena, di un anonimo settecentesco, si trova anch’essa sopralasecondanicchiadellatodestro.

Il termine transverberazione deriva dal verbo latino transverberare (“trapassare”) e viene utilizzato in riferimento alla visione più famosa – nonché la più citata – occorsa alla santa in vita. Le visioni soprannaturali di Teresa iniziarono circa vent’anni dopo il suo ingresso nel convento delle Carmelitane e continuarono per il resto della sua vita tramite una pratica assidua della preghiera. La prima delle transverberazioni risale al 1559; in seguito, Teresa visse numerose altre volte questa esperienza mistica. Queste le parole della santa:

“Quel Cherubino teneva in mano un lungo dardo d’oro sulla cui punta di ferro sembrava avere un pò di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, cacciandomelo dentro fino alle viscere, che poi mi sembrava strappar fuori quando ritirava il dardo, lasciandomi avvolta in una fornace di amore. Lo spasimo della ferita era così vivo che mi faceva uscire bei gemiti di cui ho parlato più sopra, ma insieme pure tanto dolce da impedirmi di desiderarne la fine di cercare altro diversivo fuori che in Dio.”

In questa tela viene rappresentato il momento cruciale dell’episodio narrato, l’angelo con il dardo dalla punta infuocata appena estratto dal cuore di Teresa che viene sorretta da angeli. La ferita, di cui si dice che il cuore della santa portasse la cicatrice, era oggetto di conversazione fra i monasteri del Carmelo. Difatti, le monache chiesero al papa il permesso di celebrare una festa in onore della transverberazione della santa. Papa Benedetto XIII la concesse nel 1726 ed è probabile che la decisione pontificia abbia contribuito ulteriormente alla diffusione di questa scena miracolosa.

 

 

 

Note

1 Deriva da Karmel, che in ebraico, vuole dire il giardino fiorito di Dio e così probabilmente appariva questo Monte a chi vi giungeva dal deserto o dal mare.

 

Bibliografia

Giuseppe Piacenza, Chiesa di San’Anna, edizioni libero di scrivere, 2008

Lauro Magnani, a cura di, Chiesa di San’Anna, guide di Genova, Sagep Editrice, 1979 Paola Motta, a cura di, Chiese di Genova, Sagep editrice, 1986

 

Sitografia

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GENOVA RAZIONALISTA - PARTE II

A cura di Irene Scovero

 

Nel precedente articolo si è cominciato a trattare una parte degli esempi di razionalismo architettonico presenti in città, e in questo si proseguirà nel descrivere questo lato di Genova Razionalista.

Piazza Dante

Parallelamente alla costruzione di Piazza della Vittoria si completò negli stessi anni la definizione di un’altra piazza importante per Genova razionalista, PIAZZA DANTE, dove sempre Piacentini firmò uno dei due grattacieli presenti. Anche la sistemazione di questa parte del centro cittadino fu ispirata alla politica autocelebrativa del regime. I lavori vennero iniziati nel 1934 e conclusi nel 1940 comportando la demolizione del quartiere antico che comprendeva le aree di Morcento e del Ponticello. Questa operazione di modernizzazione imposta dal regime portò allo sventramento di zone antiche della città che, a conflitto ultimato, si protrasse anche in altre zone di Genova. Marcello Piacentini, nominato consulente per il piano regolatore, ridusse a due il numero dei grattacieli che erano stati inizialmente pensati dalla Soprintendenza per la piazza e divenne il responsabile di tutto il complessivo piano urbanistico dell’area. Egli ricevette, da parte dell’ingegnere Angelo Invernizzi, l’incarico per il progetto del Grattacielo Sud (Fig.4) che doveva fronteggiare quello Nord (Fig.5) di Giuseppe Rosso[6], inferiore di altezza rispetto al primo e dall’evidente matrice futurista. Entrambi gli edifici condividono l’approccio modernista e una visione attenta dei grattacieli di New York. I due grattacieli sono raccordati tra loro dalla monumentale Galleria Colombo di Tommaso Badano e Giulio Zappa. Successivamente anche Carlo Daneri venne influenzato dagli edifici americani, tanto da progettare, sempre per Piazza Dante, un grattacielo con struttura in acciaio che riprendeva i motivi tipici dell’Art Decò statunitense. Il grattacielo del Piacentini è tutt’ora, dopo il Pirellone di Milano, il secondo edificio più alto in Italia. Il basamento del grattacielo presentava un porticato e la facciata, dalla chiara impronta razionalista, rimarca il suo carattere monumentale nell’alternarsi di strisce bicolori bianche e rosse, con decorazioni a rilievo di Guido Galletti raffiguranti Colombo e il Balilla. Contribuiscono, inoltre, a dare un senso di unità alla piazza anche edifici come il Palazzo INA di Cipriani e Palazzo Gaslini di Zuccarelli, realizzati tra 1938-39, collocati sull’altro lato.

Genova razionalista: il Navigatore e la Casa del Mutilato

La monumentalità degli edifici e delle opere scultoree che adornano palazzi e completano le piazze della città rispecchiano i principi autocelebrativi di propaganda del regime fascista che tentò di riaffermare, attraverso lo spirito classico, la discendenza da un passato glorioso. Con funzione di asse focale, centrale di fronte al mare, nell’area appena riqualificata della Foce, venne realizzato il Navigatore (Fig.6). La scultura, realizzata da Antonio Maria Morera[7] per l’arrivo del Duce a Genova (1938), rappresenta e incarna lo spirito nazionale. Inizialmente in gesso ma terminata in marmo di Carrara in seguito all’inaugurazione ufficiale di Mussolini (1940) l’opera raffigura un marinaio incorniciato da un semicerchio sul quale è inciso il motto Vivere non necesse, navigare necesse est, massima che Plutarco fa dire a Pompeo nel momento in cui doveva convincere i suoi uomini ad affrontare la tempesta. Morera aveva progettato la figura dell’uomo completamente nudo, ma a causa della morale “puritana” dell’epoca decise di dotarlo di una cintura che gli coprisse il sesso.

Fig. 6.

Il modello prescelto fu l’atleta genovese Nicolò Tronci, campione italiano di ginnastica che aveva partecipato alle olimpiadi di Berlino del 1936. Lo scultore realizzò un monumento pienamente rispondente alle istanze del regime. Oggi il navigatore appare depurato dai simboli fascisti che lo ornavano e non è più presente il basamento originale, dove era inciso il monito Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro.

Un’altro tema caro alla propaganda fascista è la commemorazione della vittoria che trova riscontro nella Casa del mutilato (Fig.7) di Eugenio Fuselli (1937-38). Il tema della morte in guerra era uno dei temi ricorrenti nella propaganda del regime e trova piena identificazione con il mito dell’eroe, incarnato nell’icona del Milite Ignoto, simbolica personificazione del sacrificio collettivo. C’è da ricordare che nel conflitto bellico, circa 500 mila uomini tornarono menomati e fra questi quasi quarantamila furono mutilati. Un sacrificio di massa che rese necessaria la creazione di un apparato architettonico e scultoreo a memoria di un numero così alto di vittime. In tutta Italia sorsero dunque le Case del Mutilato. Questi edifici, tra gli anni Venti e i primi anni Quaranta, vennero costruiti sull’intero territorio nazionale e rappresentano un unicum nell’architettura italiana del Novecento. Quasi tutte le Case del Mutilato possiedono apparati architettonici, pittorici e scultorei di grande interesse, ma difficili da gestire e da conservare. Questi edifici erano – e in alcuni casi lo sono tuttora – le sedi di uffici e luoghi di incontro di assemblee nelle quali i soci ricordavano il sacrificio e l’eroismo patriottico.

Un elemento particolare, poi, accomunava le Case del Mutilato; per precisa volontà delle stesse associazioni, infatti, gli artisti che prestavano la propria opera nella costruzione (indifferentemente architetti, ingegneri, pittori o scultori) dovevano essere stati feriti in guerra ed essere iscritti all’ANMIG[8]. La Casa del Mutilato nella Genova Razionalista (Fig. 7) di Fuselli, già collaboratore di Piacentini nella realizzazione della Casa Madre dei Mutilati (Roma, 1937; inaugurata da Mussolini l’anno successivo) si trova in corso Aurelio Saffi, subito dopo il Palazzo della Giustizia, dirimpetto a Piazza della Vittoria. L’attuale edificio presenta due volumi distinti, per destinazione e per decorazione. Il corpo principale a strisce orizzontali in marmo bianco e nero ospita gli uffici, mentre quello arretrato, in pietra bianca di finale, ospita il salone delle adunate.

Fig. 7.

Sulla prima ala dell’edificio, al di sopra della statua della Vittoria di Guido Galletti che sorveglia l’ingresso principale, campeggia la frase il sacrificio è un privilegio di cui bisogna essere degni. Davanti al cortile della Casa del Mutilato, a perenne ricordo degli invalidi della Prima Guerra Mondiale, è presente il Monumento al Fante (Fig.8) di Eugenio Barone, già autore di numerose opere all’interno del cimitero di Staglieno e del gruppo dei Mille a Genova Quarto. L’opera, in bronzo, rappresenta tre figure poste su un basamento di pietra: un fante, stretto da una donna magra ed anziana, ed un soldato che, alzando il braccio mutilo di mano, sembra indicare il destino di sofferenza che ha davanti. La scritta più famosa e visibile sulla facciata dell’edificio recita la Guerra è la lezione della storia che i popoli non ricordano mai abbastanza.

Fig. 8.

 

Note

[6] Giuseppe Rosso fu redattore della rivista Stile Futurista dove nel 1935 fu pubblicato un articolo con il progetto del suo edificio in Piazza Dante.

[7] ANTONIO MARIA MORERA (Casale Monferrato 1888 - Genova 1864) La sua produzione si colloca nel pieno del razionalismo degli anni Trenta. Si forma all’Accademia Albertina di Torino e negli anni venti quando di trasferisce definitivamente a Genova, intensificherà l’attività plastica scultorea prendendo a modello le figure michelangiolesche e rodiniane. Tra le opere di grande rilievo a Genova si ricorda la serie dei monumenti ai Caduti, fra cui quello della Caserma A.Doria del 1922 e quello eretto a Ge-Rivarolo nel 1926.

[8] ANMIG (Associazione Nazionale Mutilati Invalidi di Guerra): Fondazione realizzata con lo scopo di non disperdere il patrimonio architettonico-culturale e gli ideali, i valori e le testimonianze di cui i mutilati ed invalidi di guerra sono portatori. Nata con lo scopo di onorare i mutilati, gli invalidi e le loro famiglie, l’ANMIG promuove lo stato democratico, svolge ricerche storiche e organizza convegni e seminari su tutto il territorio nazionale ed estero con l’intento di far conoscere la storia e il sacrificio sofferto dai mutilati e dagli invalidi di guerra italiani.

 

Bibliografia

Matteo Fochessati, Gianni Franzone (a cura di), Genova moderna percorsi tra il Levante e il centro città, Genova, Sagep, 2014.

Fabrizio Bottini, Dalla periferia al centro: idee per la città e la city, in Giorgio Ciucci, Giorgio Muratore (a cura di), Storia dell’architettura italiana - il primo Novecento, Milano, Electa, 2004, pp. 346 - 371.

Franco Sborgi (a cura di), La scultura a Genova e in Liguria, Il Novecento, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1989.

Matteo Fochessati, Gianni Franzone (a cura di), La memoria della guerra, Antonio G.Santagata e la pittura murale del Novecento, Genova, Sagep, 2019.

Silvia Barisione, Ville in Riviera tra eclettismo e razionalismo, Genova, Sagep, 2015.

 

Sitogragia

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GENOVA RAZIONALISTA

A cura di Irene Scovero

Genova razionalista: tra architettura e scultura

Piazza Rossetti e Piazza della Vittoria

Grazie al suo sviluppo urbanistico, anche il volto moderno di Genova, come quello della maggior parte delle grandi città italiane, è frutto della coesistenza di stili architettonici diversi tra i quali va menzionato il Razionalismo che, nelle molteplici opere architettoniche e scultoree realizzate negli anni Venti e Trenta, ha conferito alla città una struttura moderna influenzando i cambiamenti stilistici di alcuni quartieri[1], dando vita ad una Genova razionalista.

Con la “Grande Genova” voluta da Mussolini si crearono le condizioni favorevoli per il rinnovamento urbano di una Genova razionalista. Con la copertura dell’ultimo tratto del torrente Bisagno, nell’area tra il centro storico e il levante genovese, si crearono buone condizioni per dar vita ad un progetto monumentale di rivalutazione di un’area nuova e fortemente rappresentativa (1932). Statue e monumenti come Il Navigatore, o aree come Piazza della Vittoria e Piazza Rossetti alla Foce, si collocano all’interno di quei progetti di edilizia fascista (nonché di riqualificazione di specifiche aree cittadine) coordinati da importanti architetti dell’epoca. Fu proprio la copertura del Bisagno[2], negli anni Trenta, a richiedere l’apertura di un’ampia direttrice a mare e l’assegnazione di nuovi spazi edificabili nei dintorni. L’immagine monumentale, ma allo stesso tempo modernista, con la quale la città intendeva qualificarsi, attraverso quest’imponente intervento urbanistico, influenzò in larga misura le scelte progettuali degli edifici di rappresentanza e dei complessi residenziali sorti in seguito al nuovo piano regolatore dell’area. Tra i nuovi edifici, nell’attuale zona fieristica della Foce, sorse ad esempio Ristorante San Pietro, realizzato su progetto di Mario Labò tra il 1935 e il 1938. L’architetto Genovese era collaboratore della rivista “Casabella” e aderì negli anni Trenta al MIAR[3].

La nuova rete stradale via mare, Corso Italia, creata agli inizi del secolo aveva conferito alla zona della Foce un rinnovato pregio con l’edificazione di un quartiere residenziale. Fu soprattutto con PIAZZA ROSSETTI (Fig.1) che l’intera area assunse l’assetto definitivo grazie al lavoro dell’architetto Carlo Daneri[4] col sostegno di Marcello Piacentini. Il complesso Genova-Foce sorse in seguito ad un concorso bandito dal Comune nel 1934 nel quale Daneri arrivò secondo, ma, proprio grazie all’intervento di Piacentini, venne scelto per l’attuazione del progetto. Quest’ultimo prevedeva una piazza quadrangolare circondata su tre lati da un portico continuo su cui si levano gli 8 edifici che ancora oggi si affacciano sul mare e sono arricchiti da un ampio giardino pubblico centrale. I lavori iniziarono nel 1936, si interruppero per la guerra e, una volta ripresi, si conclusero nel 1958. L’intero complesso residenziale, sin dalle prime edificazioni, fu celebrato in riviste come “Architettura” e “Casabella” poiché si trattava di un complesso intervento di architettura residenziale per il quale Daneri, prendendo spunto dal complesso di Le Corbusier a Marsiglia, rimodernava e creva un lotto residenziale rimarcando al contempo l’idea di unità abitativa. Questo schema concettuale, cui si ispirò anche nelle palazzine del Lido di Albaro in Corso Italia (1952-55), caratterizzò gran parte della sua attività architettonica. Luigi Carlo Daneri viene ricordato a Genova anche per altri cantieri architettonici tra cui il quartiere Bernabò Brea, il complesso di Mura degli Angeli, il quartiere Forte Quezzi denominato Biscione e il Monoblocco San Martino.

Fig. 1.

Tra i nuovi progetti urbani per una Genova razionalista, PIAZZA DELLA VITTORIA (Fig.2), considerata la più grande piazza della città, è così denominata per celebrare la fine della Prima Guerra Mondiale. La piazza fu progettata da Marcello Piacentini[5] tra il 1922 e il1938 insieme alla collaborazione di artisti locali e fu creata in modo da formare una pianta rettangolare con al centro il Monumento ai Caduti eretto negli anni ‘30 in onore delle vittime della Grande Guerra. L’architetto romano realizzò la piazza pensandola come un gioco prospettico dove, intorno allo spazio quadrangolare, trovarono spazio eleganti edifici in marmo travertino, l’arco della Vittoria al centro e di fronte la scalinata del Milite Ignoto, meglio conosciuta come scalinata delle Caravelle per l’immagine floreale che riprende le tre navi di Colombo. In basso alla scenografica scalinata, sullo sfondo della piazza, il Liceo Andrea Doria e il Palazzo della Questura. Prima della sistemazione in stile razionalista questo spazio, a lato del torrente Bisagno, era un’area pianeggiante e verde dove si tenevano manifestazioni e giochi. Al centro della Piazza, circondato da imponenti edifici, spicca l’Arco della Vittoria (Fig.3) o Arco ai Caduti, un imponente arco di trionfo inaugurato il 31 maggio del 1931. Vincitore del concorso per la realizzazione di un monumento celebrativo nella piazza, Marcello Piacentini, insieme allo scultore Arturo Dazzi, realizzò un monumento commemorativo e trionfale pienamente in accordo con il volto di una Genova razionalista. Tra immagini simboliche della città di Genova si trovano anche statue dello scultore Giovanni Prini raffiguranti le Vittorie e le allegorie del Dazzi che ricordano i caduti della Grande Guerra. Nel fregio dello stesso scultore sono rappresentati i corpi dell’esercito italiano tra cui alpini, mitraglieri, l’aviazione e la marina e sono rievocate le battaglie dell’Isonzo e del Piave.

 

Note

[1] RAZIONALISMO è un linguaggio architettonico diffuso in Europa e Stati Uniti a partire dagli anni venti del Novecento e coinvolge personaggi come Le Corbusier, Alvar Aalto, Frank Lloyd Wright, Giuseppe Terragni. Non si tratta di un progetto unitario, ma i monumenti sono caratterizzati da forme essenziali senza orpelli decorativi, più aderenti alle reali necessità sociali ed economiche del paese che mirano a soluzioni architettoniche più razionali tentando di eliminare ogni parte emotiva ed estetica per una forma pura. Il movimento in Italia ha assunto la sua forma più vitale nel Gruppo 7 e nel MIAR. Nel 1926, un gruppo formato da sette architetti tra cui Terragni, Figini e Pollini formarono il Gruppo 7 che aderirà al MIAR- movimento italiano architettura razionale- nel 1928.

[2] La delibera dell’amministrazione comunale risale al 1919

[3] Movimento italiano per l’architettura razionale

[4] Luigi Carlo Daneri (Borgo Fornari, 1900 - Genova, 1972) architetto genovese, fu interprete dell’evoluzione architettonica della seconda metà del Novecento aderendo ad un sobrio razionalismo internazionale. Le sue opere si caratterizzano per una grande nitidezza volumetrica e inventiva funzionale. Fu attivo soprattutto nel capoluogo ligure.

[5] Marcello Piacentini (Roma,1881-1960) architetto romano, fu il principale interprete dell’architettura italiana del primo trentennio del Novecento. Architetto, professore e urbanista, aggiornato sulle esperienze internazionali, viaggiò soprattutto nell’Europa del Nord per assimilare i nuovi etimi del moderno, abbandonando l’eclettismo ottocentesco. Rivoluzionò il volto della Roma degli anni ‘10 e ‘20 e successivamente, grazie ai numerosi concorsi pubblici, anche quello di tante altre città in Italia cercando di coniugare le nuove costruzioni architettoniche con la cultura del luogo. La sua figura, nel tempo, è stata assimilata a quello di massimo interprete dell’arte di regime. Proprio per i suoi legami con il fascismo fu molto criticato e le sue opere messe in discussione. Negli ultimi tempi, la sua figura di grande urbanista e architetto è stata rivalutata e il giudizio pessimo in cui veniva ricordato come uomo e architetto è ormai sorpassato.

 

Bibliografia

Matteo Fochessati, Gianni Franzone (a cura di), Genova moderna percorsi tra il Levante e il centro città, Genova, Sagep, 2014.

Fabrizio Bottini, Dalla periferia al centro: idee per la città e la city, in Giorgio Ciucci, Giorgio Muratore (a cura di), Storia dell’architettura italiana - il primo Novecento, Milano, Electa, 2004, pp. 346 - 371.

Franco Sborgi (a cura di), La scultura a Genova e in Liguria, Il Novecento, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1989.

Matteo Fochessati, Gianni Franzone (a cura di), La memoria della guerra, Antonio G.Santagata e la pittura murale del Novecento, Genova, Sagep, 2019.

Silvia Barisione, Ville in Riviera tra eclettismo e razionalismo, Genova, Sagep, 2015.

 

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L’ADORAZIONE DEI MAGI: UN PRESEPE DI STRADA

A cura di Irene Scovero

Maestranze lombarde a Genova

Camminando con la testa alta nei vicoli di Genova, in via degli Orefici[1] 47r, è possibile ammirare un bassorilievo, datato 1457 ed opera dei maestri Antelami[2], che hanno lasciato, in città, numerose testimonianze della loro arte. Si tratta di un’opera d’arte usata come sovrapporta di un negozio di coltelleria, (Fig. 1) attribuita a Giovanni Gagini il quale, in un atto notarile del 1457, viene definito “magister Antelami et intaliator marmoriorum”. In uno spazio ristretto questo maestro è riuscito a rappresentare con grande realismo l’Adorazione dei Magi: un presepe di strada, tra la gente, per la gente. In epoca tardomedievale era assai comune vedere, nelle parti alte delle vie, rilievi religiosi e profani che abbellivano strade e palazzi della città antica.

Fig.1

La famiglia Gagini, così come gran parte degli artisti che lavoravano il marmo e la pietra a Genova, proveniva dalla regione del Comasco e del Canton Ticino. In città, questi architetti, scultori e lapicidi rivestirono un ruolo fondamentale per quanto riguarda le opere di scultura a Genova tra il Quattrocento e i primi del Cinquecento. La presenza di maestranze lombarde, che pure si diffusero in gran parte d’Italia, a Genova, dal secondo decennio del XV secolo, divenne una realtà bene assodata e definita sia nelle commissioni private sia in quelle pubbliche. Fu l’Alizeri[3] il primo a parlare non di singole personalità di spicco a Genova, ma di maestranze originarie dei laghi lombardi. Non è solo la vicinanza geografica ad accumunare Liguria e Lombardia, interessate anche dagli stessi fatti artistici e storici. Durante quasi tutto il XV secolo Genova e i territori ad essa sottoposta si trovavano infatti sotto l’influenza milanese, prima dei Visconti e poi degli Sforza. La risonanza della famiglia Gagini a Genova nella seconda metà del Quattrocento si deve in primo luogo alla Cappella del Battista, nella Cattedrale di San Lorenzo, considerata una delle prime opere rinascimentali in città e realizzata nel 1448 da Domenico Gagini, di ritorno da un’esperienza fiorentina, insieme al nipote Elia di Jacopo.

L'Adorazione dei Magi

L’Adorazione dei Magi manifesta la bravura di questi maestri nel creare apparati scultorei come parte integrante dell’architettura che li ospita. Un’impostazione scenica che risente ancora di influssi tardo gotici. L'intera rappresentazione è impostata su più piani di rappresentazione dove nello stesso spazio scultoreo sono presenti più scene contemporaneamente. Le figure umane, assieme alle architetture e al paesaggio, sono inserite in uno spazio non ancora omogeneo nel suo complesso; nonostante ciò, i rilievi restano comunque contrassegnati dal completo dominio della figura umana, inserita su uno sfondo dove anche animali e paesaggio trovano la giusta collocazione tramite una rappresentazione realistica. Il gruppo con la Sacra Famiglia (Fig. 2) è rappresentato a sinistra sotto una capanna da cui si affacciano il bue e l’asinello; appena fuori dalla piccola capanna, le figure di San Giuseppe, seduto, e di Maria, che porge il bambino ad uno dei Magi che si prostra innanzi ad esso. Dietro la Vergine, le Pie donne; al loro fianco, gli altri due Magi in piedi con in mano i doni per il Redentore. Uno di essi indica, con il braccio teso verso sinistra, la stella cometa, che, secondo il Vangelo di Matteo, guidò i tre re d’Oriente nella visita al Bambino appena nato. Sopra questo gruppo di figure l’Angelo annuncia la nascita del futuro Messia a due pastori; uno di essi è in ascolto mentre l’altro, un suonatore di cornamusa accucciato, ha ai suoi piedi un cane appisolato, noncurante del gregge di pecore, il cui realismo del manto è sorprendente.

Fig. 2

Nella parte alta, al centro de l'Adorazione dei Magi, un taglialegna incede verso destra su di uno sfondo boschivo con uno sperone di roccia che separa la parte bassa da quella alta della scena. Tra questo personaggio e il gruppo di cavalieri sulla destra, un corteo di cavalieri procede, con ritmo regolare, dall’alto verso il centro inferiore della scena, separata da pareti di roccia decorate con elementi floreali e intarsiata per creare profondi effetti chiaroscurali. Sulla destra (Fig. 3) cavalieri e cavalli, le cui criniere e gualdrappe sono rappresentate con realismo e ricchezza di dettagli. Il linguaggio, diretto e semplice, mischia la scena centrale, impregnata di religiosità, a uno spaccato di vita quotidiana, ben reso dai gesti realistici dei pastori, dei cavalieri e dell’intero corteo. Sui lati corti della scena è infine presente una decorazione a losanghe allungate, avvolte a spirale e terminanti con un fiocco (probabile ricordo del saio francescano) che non trova riscontro in altre decorazioni di sovrapporte. La cornice del rilievo trova invece corrispondenza con il mondo medievale nei motivi vegetali che si collegano ai profili fitomorfi di derivazione gotica. A Genova sono presenti altri due presepi che presentano un’iconografia molto simile, anch’essi di pari interesse e bellezza come quello in via degli Orefici. Un bassorilievo in ardesia oggi è conservato nella sovrapporta all’interno del palazzo della Meridiana e un’altro si trova in vico Carmagnola ed è un rilievo realizzato su pietra di promontorio.

Fig. 3

 

Note

[1] Il nome della via deriva dall’attività svolta dalle botteghe che operavano in questa zona.

[2] Per magistri Antelami si identificano scultori ed architetti operanti a Genova appartenenti alla corporazione medievale delle arti murarie di cui non si hanno notizie prime del 1439. “Antelamus” è il toponimo che designa una vallata del bacino del lago di Como. Attivi anche in altre regioni d’Italia, solo a Genova, città incline, per incrementare il proprio sviluppo, a favorire processi migratori, il loro arrivo portò alla formazione di una corporazione e la menzione dei magistri Antelami ricorre negli atti notarili genovesi dal 1157.

[3] Federico Alizeri fu uno storico e letterato genovese vissuto nel XIX secolo. Si occupò di descrivere la città di Genova e i suoi personaggi più importanti. Tra le sue opere più significative per la città si ricordano la Guida artistica per la città di Genova (1846) e le Notizie dei Professori del disegno in Liguria dalle origini al secolo XVI secolo (1864)

 

Bibliografia

Michela Zurla, La scultura a Genova tra il XV e XVI secolo, artisti, cantieri e committenti, Vol. 1, Tesi di Dottorato all’Università degli Studi di Trento, 2015.

AA.VV., La scultura a Genova e in Liguria, dalle origini al Cinquecento, Genova, F.lli Pagano Editore, 1988.

Luciana Müller Profumo, Le Pietre Parlanti, l’Ornamento nell’Architettura Genovese, 1450-1600, Genova, Banca Carige, 1992.

 

Sitografia

www.treccani.it


DEREDIA A GENOVA. LA SFERA TRA I DUE MONDI

A cura di Irene Scovero

La città di Genova ospita, da settembre fino a metà gennaio, una vera e propria mostra a cielo aperto. Protagoniste assolute della kermesse sono otto grandi sculture, alcune delle quali inedite, dell’artista costaricano Jorge Jimenez Deredia. L’evento vuole essere un omaggio, da parte dell’artista, al territorio che più di quarant’anni fa, quando egli aveva 22 anni, lo adottò.

Jimenez Deredia

Jorge Jimenez Martinez, in arte Jimenez Deredia, nacque nel 1954 a Heredia, in Costa Rica, dove studiò scultura presso il Conservatorio Castella. Nel 1976 si trasferisce in Italia grazie a una borsa di studio. Dopo aver conseguito il diploma all’Accademia di Carrara, dal 1980 al 1986 frequenta la Facolta di Architettura dell’Università di Firenze, città decisiva per l’assimilazione del linguaggio rinascimentale.  La sua fama lo condusse, in occasione dell’Anno Santo del 2000, a un’importante commissione per la nicchia centrale del transetto di San Pietro. Con il suo San Marcellino Champagnat, in marmo, Deredia divenne il primo artista extraeuropeo ad esporre un’opera all’interno del tempio della cristianità. La tappa successiva del cursus honorum di Deredia fu la nomina ad accademico della classe di scultura da parte dell’Accademia Fiorentina delle Arti del Disegno. Riconoscimento, questo, che seguiva una importante personale tenuta da Deredia proprio a Firenze e che era stato conferito, in passato, ad artisti del calibro di Michelangelo, Tiziano, Palladio e Tintoretto. Tre anni dopo, ancora a Roma. In quell’occasione 60 statue di Deredia vennero disseminate in vari luoghi simbolo della città eterna.

San Marcellino Champagnat, Basilica di San Pietro, 2000.

Deredia a Genova, dal 16 settembre 2020 al 10 gennaio 2021

La mostra, organizzata dal Comune di Genova, intende dare uno stimolo a un settore, come quello culturale, profondamente danneggiato dalle chiusure in seguito alle normative adottate per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19. Stimolo che, chiuse le porte dei musei, deve necessariamente partire da un concetto di esposizione che sappia coinvolgere il pubblico e pervadere gli spazi della città. Le opere di Deredia, che intendono rievocare la simbolica perfezione della sfera, generano – proprio a partire dalla loro circolarità – un un senso di sicurezza e intima affettività. È lo stesso artista, d’altronde, a spiegare come il bello e l’arte arrivino in questo modo a tutte le persone, mentre passeggiano per la città. La forte relazione che Deredia vuole instaurare con il contesto in cui va ad inserirsi è confermata dalle parole stesse dell’artista.  “L’architettura si sposa con la circolarità delle mie opere”, afferma infatti Deredia. La forma sferica e la poetica cosmica, generatrice, ad essa associata, rientra in una più ampia poetica della trasformazione dell’uomo, definito come “polvere di stelle in trasmutazione”. Da simili presupposti, la scultura si dimostra perciò come la tecnica artistica tra le più fisiche delle arti, e, simbolicamente, la più efficace tra le espressioni della molteplicità dei cambiamenti che interessano l’essere umano. Le sculture, unificate dalla ricorsività del profilo tondeggiante, rimandano all’universo femminile e all’idea di maternità. Il tema della maternità accompagna Deredia sin dai primi tempi del soggiorno italiano (seconda metà degli anni ’70). Nelle culle della statuaria marmorea rinascimentale, Carrara e Firenze, Deredia ebbe modo tanto di intraprendere un percorso di perfezionamento della lavorazione del marmo quanto di saggiarne visivamente le più alte possibilità, che in terra toscana erano state raggiunte da Michelangelo. Ancora a Firenze, Deredia coniuga la grande scultura italiana e i temi dell’umanesimo fiorentino con la cultura costaricana, facendo particolare attenzione a quelle misteriose sfere precolombiane della civiltà Boruca che vennero rinvenute in Costa Rica a partire dal 1939. La forma, ma soprattutto il significato sfuggente di tali reperti, ebbero un forte ascendente su Deredia, che seguì il filone degli studi che associava alle antiche sfere delle rappresentazioni del Sole, della luna e di alcune costellazioni.

Sfere, Museo Nacional del Costa Rica.

Le otto sculture di Deredia esposte a Genova, messe a disposizione dello spettatore all’interno di un percorso fluido e armonicamente inserito nel tessuto urbano della città, sono collocate in tre punti di particolare rilevanza. Nella zona del Porto Antico sono presenti quattro sculture. Tra Piazza de Ferrari e Piazza Matteotti, le opere esposte sono invece tre. L’ultima scultura è stata infine collocata di fronte alla stazione Brignole. L’esperienza della mostra è facilitata agli spettatori da dei pannelli espositivi (installati in corrispondenza di ogni gruppo scultoreo) che chiarificano l’obiettivo della mostra, delineano un breve profilo biografico dell’artista e offrono una mappa contenente le indicazioni sul percorso espositivo dell’intera mostra.

Piazza Matteotti e Piazza de Ferrari

In piazza Matteotti, situata al limitare del centro storico e vicina alla Cattedrale, è presente Continuacion, che si staglia davanti all’ingresso di Palazzo Ducale. Baricentro della città, nonché luogo di riconoscimento della collettività nei momenti storici di maggior rilievo, Piazza de Ferrari, con al centro la sua grande fontana in bronzo del 1936 (ampliata e modificata nel 2001 in occasione del G8 con zampilli d’acqua e, negli ultimi anni, con luci al led di diversi colori) ospita Crepuscolo ed Evolucion, due opere che si affacciano rispettivamente su Via XX, Palazzo della Borsa e sul lato destro di Palazzo Ducale, importante centro culturale della città e frequentemente sede di mostre d’arte e rassegne di natura culturale.

Stazione Brignole

In piazza Verdi, davanti alla Stazione Brignole (realizzata nel 1905) è presente il gruppo scultoreo Pareja, il cui bronzo scuro e lucido entra in forte contrasto con il granito bianco delle cornici e delle lesene della facciata decorata.

Pareja, bronzo 160x350 x160.

Porto Antico

Nell’attuale waterfront cittadino, ex zona portuale e ora centro turistico e culturale, tra i Magazzini del Cotone, l’Acquario e la fortezza di Porta Siberia sono collocate, all’interno di una cornice estremamente suggestiva, quattro sculture che entrano in dialogo sia con il porto che con i cittadini immersi nel quartiere fieristico genovese affacciato sul mare.

 

Sitografia

www.visitcostarica.it

https://www.youtube.com/watch?v=mXiDNMnGdvk

www.visitgenoa.it

http://deredia.com/it/

 

www.aadfi.it


FILIPPO PARODI A VILLA FARAGGIANA

A cura di Irene Scovero

Albissola Marina e Villa Faraggiana

Il comune di Albissola Marina, nella Riviera di Ponente in provincia di Savona, forma, insieme ad Albisola Superiore il territorio detto Albisole. La zona, abitata già in tempi preistorici, fu in epoca romana un importante centro, ricordato con il nome di Alba Docilia, stazione della strada romana tra Genua (Genova) e Vada Sabatia (Vado). Successivamente, in epoca medievale, l’intero borgo venne ceduto al Comune di Savona dalla Santa Sede, a cui era appartenuto in seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Dal XIII secolo fu sotto il controllo della Repubblica di Genova. Ricche famiglie patrizie trovarono in questo territorio un luogo adatto ad investire in possedimenti. Tra i nomi delle famiglie si ricordano i Brignole e i Rovere, casata che vide due suoi membri salire al soglio pontificio, con i nomi di Sisto IV e Giulio II. La città è famosa soprattutto per le ceramiche, la cui lavorazione policroma è molto ricercata. Gli inizi di questa attività, tipica del luogo, ancora non si conoscono: tuttavia, nel XVI secolo, gli artisti albisolesi, noti per la loro bravura, venivano spesso convocati presso alcune corti. Nel corso del Novecento Albissola marina inizia a divenire meta privilegiata per alcuni artisti e intellettuali[1] i quali lasciarono un’impronta decisa sulla vita artistica e culturale della città. Tra le splendide dimori signorili del XIII secolo, gli artisti poterono ammirare Villa Faraggiana, dimora storica appartenuta alla famiglia Durazzo. La trasformazione in casa-museo fu resa possibile grazie al lascito dell’ultimo proprietario, Alessandro Faraggiana, il quale provvide, nel 1968, all’apertura di alcune stanze al pubblico, lasciando la propria villa in eredità del Comune di Novara che ancora oggi la preserva e la rende accessibile al pubblico a “testimonianza di un’epoca e del costume di una famiglia”. In ognuno degli ambienti all’interno la connotazione storico-artistica entra in un rapporto simbiotico con l’ambiente circostante, un grande giardino con parterre all’italiana che spicca tra la macchia boschiva ligure.

Filippo Parodi

Filippo Parodi (Genova 1630 - 1702) fu da sempre considerato uno dei maggiori esponenti della scultura genovese in età barocca. Ai primordi della sua carriera artistica egli lavorò come ebanista, ma il momento decisivo nella sua formazione di scultore avvenne presso l’atelier romano di Gian Lorenzo Bernini. La permanenza romana permise a Parodi di partecipare alle decorazioni scultoree di chiese, palazzi e giardini romani. Rientrato a Genova, l’incontro con Pierre Puget, il “Bernini francese”, fu decisivo per lui e per gli sviluppi della statuaria genovese. Fu in questo periodo, infatti, che Parodi diede un enorme contributo alla diffusione degli stilemi del barocco romano in Liguria, estendendo in seguito la sua influenza anche a città come Padova e Venezia.

La specchiera e il mito di Narciso

Filippo Parodi venne chiamato dalla famiglia Durazzo per decorare il salone di ricevimento della loro dimora di villeggiatura. Nel maestoso salone Parodi dovette affrontare un tema connesso al tema dell’illusorietà, ovvero la storia di Narciso, narrata da Ovidio nel terzo libro delle Metamorfosi. Ovidio ci racconta infatti che ad un bellissimo giovane, tornato da una battuta di caccia, accadde di specchiarsi in una pozza d’acqua e di innamorarsi della propria immagine riflessa. La consapevolezza dell’impossibilità del suo amore condusse Narciso alla morte. Scrive Ovidio:

Rapito dalla dolcissima immagine vista, ama una speranza incorporea e scambia per corpo l’acqua: stupisce di se stesso e rimane immobile e impassibile come una statua scolpita nel marmo di Paro. Steso per terra, guarda il duplice astro dei propri occhi, i capelli degni di Bacco e Apollo, le guance lisce, il collo eburneo, la splendida bocca, il rossore misto al candore di neve, ammonirà tutto ciò che lo rende mirabile; senza saperlo desidera se stesso, insieme loda ed è lodato, cerca ed è cercato, brucia e appicca il fuoco. Quanti baci vuoti dà all’acqua ingannevole, quante volte immerge le braccia nell’acqua cercando il collo, e non cinge se stesso! Non sa cosa vede, ma per quello che vede arde, e lo stesso errore che ingannò gli occhi li eccita.

Ovidio, Metamorfosi, III, 416-432

Filippo Parodi confeziona per i Durazzo una specchiera, in legno dorato e dal forte sviluppo verticale, nella quale il mondo animale e quello vegetale si fondono armoniosamente (Fig.1). Così la descrive Lauro Magnani:

“una adesione totale dell’immagine della natura viene perseguita per rappresentare nel chiuso della stanza la finzione scenica della trasformazione nel mito di Narciso.”

Del resto, è la stessa Villa Faraggiana, dotata di un bellissimo giardino strettamente connesso al salone, ad essere ideata come un continuum spaziale tra spazi interni e ambiente esterno. L’artista concepisce l’opera come un’enorme scogliera. In basso, due cani intenti ad abbeverarsi da una fonte muovono le piccole zampe verso l’alto. La decorazione prosegue in verticale in una fantasia floreale che asseconda il profilo curvilineo dello specchio richiamando inoltre l’appena compiuta Fontana dei Quattro Fiumi a Piazza Navona. Al vertice della composizione vi è infine Narciso (Fig.2): appoggiato alla lancia utilizzata nella caccia, il giovane si sporge con il corpo verso il centro dello specchio, le cui trasparenze rimandano metaforicamente al lago descritto dal mito stesso. L’interpretazione che Parodi fa del brano ovidiano si traduce in un gioco raffinato, dove non è solo il protagonista a guardarsi riflesso, ma anche noi stessi che, specchiandoci, diventiamo coprotagonisti di questo arguto impianto scenografico e psicologico. L’atmosfera arcadica e favolistica si accompagna, quindi, al tema della vanitas terrena, tema morale sul quale lo stesso fruitore è invitato a riflettere. Il complesso apparato del Parodi va così ad inserirsi perfettamente nella cultura dell’artifizio tipica del periodo barocco, anche se l’utilizzo di apparati scenografici è documentato a Genova già dal Cinquecento. A differenza del Bernini, che nelle sue opere non perdeva mai il contatto con la realtà, enfatizzando gli aspetti più sensuali e tattili dell’esperienza scultorea, il lavoro di Parodi si fonda su un processo di astrazione del dato naturale finalizzato a donare all’opera una dimensione quasi spirituale e intangibile.

Quella di Villa Faraggiana non fu certo la prima cornice realizzata dal Parodi. Presso Palazzo Spinola, a Genova, una cornice in legno intagliato, dove il Mito di Paride inquadra il Ritratto di Maria Mancini di Ferdinand Vouet, costituisce un ulteriore incontro tra mito e suppellettile d’arredamento.

Filippo Parodi, Cornice con mito di Paride, XVII secolo, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, Genova.

Filippo Parodi: le statue delle Quattro Stagioni

All’interno del meraviglioso salone (Fig.3) quattro statue reggicandela, altro esempio di convivenza tra scultura ed arredamento, raffiguranti allegorie delle Stagioni canalizzano lo sguardo sulla specchiera. La loro collocazione, agli angoli della sala, fa convergere necessariamente lo sguardo verso la parete corta di fondo della specchiera. L’Inverno ha le sembianze di un uomo anziano che incede con passo malfermo, la mano destra allungata a cercare il calore di un braciere; l’Autunno è un uomo circondato da grappoli d’uva mentre la Primavera e l’Estate, due donne, sono rispettivamente incoronate da un serto di mirto e da spighe di grano. I basamenti delle statue simulano sporgenze rocciose le cui asperità sono rese possibili dalle incisioni a sgorbia[2], che, assieme alla doratura del legno e alla sapiente levigatura dei corpi e dei panneggi, creano forti effetti chiaroscurali. Queste monumentali statue, in legno intagliato e dorato, sono, insieme alla specchiera di Narciso, tra i più alti esempi della decorazione barocca genovese.

Fig. 3

 

Note

[1] Per citarne alcuni, si ricordano Lucio Fontana e il gruppo CoBrA.

[2] Scalpello con lama sagomata, utilizzato per eseguire intagli nel legno.

 

Bibliografia

Lauro Magnani, Il tempio di Venere. Giardino e villa nella cultura genovese, Genova, 1987

Paola Rotondi, Filippo Parodi maestro dell’intaglio, in “Bollettino d’arte”, s.4, XLIV (1959)

Ezia Gavazza, Documen: per Filippo Parodi. L'altare del Carmine e la specchiera Brignole, in “Arte Lombarda”, 58-59, 1981

La scultura a Genova e in Liguria, vol.II, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1988

 

Sitografia

www.treccani.it

www.albisolamarina.it

www.villafaraggiana.it

www.iconos.it

www.progettovidio.it

https://fondazionezeri.unibo.it/it


GIOVANNI PISANO A GENOVA

A cura di Irene Scovero

A Genova, nel Museo di Sant’Agostino, è conservata una delle opere più significative di Giovanni Pisano: il Monumento funebre di Margherita di Brabante.

Margherita[1], figlia di Giovanni I, duca di Brabante, sposò nel 1292 Enrico VII di Lussemburgo, imperatore del Sacro Romano Impero. Nel 1310, subito dopo le nozze, la coppia giunse in Italia insieme ad un esercito di circa cinquemila uomini con lo scopo di attutire le controversie comunali e le lotte tra Guelfi e Ghibellini. Con il re di Napoli Roberto d’Angiò contro, ma con gran parte degli intellettuali[2] dell’epoca entusiasta del suo operato, Enrico arrivò a Genova, città ghibellina, sicura per lui e la sua famiglia.

A Genova Margherita aveva colpito i contemporanei per la sua generosità e per la sua indole pacifica, ma, come arrivata, nemmeno due mesi dopo morì. Viene ricordata come una donna minuta, bionda e con viso fanciullesco. Le sue spoglie furono custodite nella Chiesa di San Francesco di Castelletto[3] (Fig.1) dove i frati decisero di onorarne la memoria dedicandole ogni anno quattro celebrazioni e celebrando in suo suffragio una messa al giorno. Nel 1313 fu proclamata santa dal vescovo di Genova Porchetto Spinola, che accolse le voci di popolo che ne esaltavano le splendide virtù. Successivamente Enrico, durante i suoi soggiorni a Pisa, ebbe modo di vedere il pergamo per la cattedrale del più noto e celebrato scultore dell’epoca, Giovanni Pisano. A lui l’imperatore affidò l’incarico di realizzare un monumento funebre per la sua regina.

Fig. 1 - Pietro Battista Cattaneo, Prospetto della Chiesa di san Francesco di Castelletto,1595-1600.

Giovanni Pisano[4] arrivò a Genova il 25 agosto del 1313 e ricevette dalla sagrestia della Cattedrale, per conto di Enrico VII, un pagamento di 80 fiorini per erigere la prima tomba di un sovrano mai realizzata in Italia durante il basso Medioevo. Lavorare a un monumento funerario fu per Giovanni una novità, dato che prima di allora non si era mai confrontato con la realizzazione di opere simili, per di più incontrando un committente dal livello sociale così alto. In qualche modo, l’opera che realizzò lo portò al culmine del suo percorso artistico, visto che morì solamente qualche anno dopo la realizzazione del monumento, nel 1319.

Il monumento di Margherita

Con l’avvento del cristianesimo, la salma delle persone più agiate veniva collocata in luoghi benedetti come le chiese. Fino al XIII secolo, il monumento funebre utilizzato era quello del giacente con la statua posta a coperchio del sarcofago, a significare la fiducia nella Resurrezione. Successivamente fu possibile trovare la figura del defunto con sembianze da malato e con gli occhi chiusi, a sottolineare invece il clima di sfiducia in cui versava la società dopo il XIII secolo. Dal XVI al XVIII alla figura del giacente iniziò ad affiancarsi quella dell’orante a simboleggiare l’anima del defunto, separata dal corpo che intercede per la propria salvezza.

Quello realizzato da Giovanni era un monumento che andava controcorrente rispetto alle esigenze iconografiche dell’arte funeraria dell’epoca. L’artista non rappresentò Margherita distesa sul sarcofago, ma la raffigurò seguendo l’antichissima tradizione cristiana dell’Elevatio Animae, ovvero la morte come trapasso e occasione di rinascita (Fig.2).

Nell’Elevatio, due angeli in veste di diaconi sorreggono Margherita e la aiutano nella sua ascensione in paradiso. Il gruppo, non integro, tiene per le braccia la regina, il cui volto, seppur realistico, non possiede quei tratti somatici fanciulleschi che i contemporanei le attribuivano. Giovanni realizza un volto già ultraterreno, proteso sia dal punto di vista corporeo, sia dal punto di vista spirituale al Paradiso Celeste.

Il monumento di Margherita ci è giunto incompleto perché andato in parte distrutto e in parte disperso con la demolizione della chiesa di San Francesco, dove era conservato. Nel 1821 anche il transetto destro, dove si trovava il monumento (ricollocato dopo il XVII secolo) fu demolito e i marmi venduti a privati cittadini. Ritrovato nel 1874 dallo scultore Santo Varni all’interno del giardino di villa Brignole Sale di Voltri, nel 1889, grazie al lascito della proprietaria, la duchessa di Galliera, il gruppo dell’Elevatio fu destinato alla Galleria di Palazzo Bianco, dove rimase fino al 1892. Tra il 1935 e il 1941 il gruppo fu trasferito al Museo di Sant’Agostino, dove tornò nel 1984 in seguito ad una breve parentesi a Palazzo Bianco, all’interno del quale il suo allestimento venne curato da Franco Albini e Caterina Marcenaro.

L’ipotesi di ricostruzione del monumento

A partire dalla fine dell’Ottocento, i vari frammenti del monumento funebre vennero ritrovati grazie all’intuito e allo studio di insigni studiosi come Caterina Marcenaro, Piero Torriti, lo scultore Santo Varni, Luigina Quartino e Max Seidal. Originariamente il monumento si trovava nella cappella maggiore, addossato alla parete a sinistra dell’altare; secondo altri studiosi si trovava invece dietro di esso ed era fruibile da tutti i lati poiché libero dal muro. Verso il 1600 la cappella venne ampliata e la tomba smontata; fortunatamente, però, venne scongiurata la dispersione totale dei pezzi grazie all’intervento della famiglia Doria, che conservò alcuni resti antichi ricollocando parte di essi in una struttura ad arco trionfale (di cui rimangono dei disegni conservati all’Archivio di Stato di Genova).

Oggi, escludendo il gruppo centrale dell’Elevatio, è possibile avanzare un’ipotesi di ricostruzione del complesso scultoreo, grazie al ritrovamento di alcuni frammenti ritrovati nell’ultimo secolo (Fig.3).

Fig. 3 - Ipotesi di ricostruzione.

Nonostante gli sforzi degli storici dell’arte, e basandosi sui documenti figurativi relativi al gruppo, si può presupporre come nella parte inferiore del monumento dovessero trovarsi le statue delle quattro Virtù cardinali, che sostenevano un sarcofago decorato ad altorilievo con le stesse Virtù e con una quinta figura, forse la stessa Margherita. Al di sopra del sarcofago, la figura quasi a grandezza naturale della Regina, colta nel momento del trapasso e sorretta da accoliti[5]; ancora più in alto rispetto a questo primo gruppo scultoreo, la scena dell’Elevatio vera e propria. A conclusione del monumento funebre vi era infine una statuetta, raffigurante una Madonna con Bambino (Fig.4), ora acefala e riconosciuta dalla Marcenaro nel 1962 all’interno dell’allora disallestito museo di Sant’Agostino.

Giovanni Pisano, testa della Fortezza, Genova, Museo di Sant'Agostino. Ritrovata nel 1981 nel giardino interno di Palazzetto Doria in via Garibaldi. Era montata sul corpo di un putto cinquecentesco a decorare una fontana. L’ultimo ritrovamento in ordine di tempo riguarda invece l’immagine di un dolente a cui mancano testa, spalle braccio e mano sinistri.

Fig. 6 - Giovanni Pisano, Giustizia, Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola. Negli anni Sessanta del Novecento fu individuata nel giardino di una villa privata sulle alture di Genova. Sempre in quegli anni fu trovata, in una collezione privata Svizzera, la testa della Temperanza.

Dalle informazioni contenute sul sito ufficiale dei Musei di Genova, attualmente il gruppo dell’Elevatio non è esposto al Museo di San’Agostino, in quanto sottoposto a un intervento di restauro condotto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

 

Note

[1] Nacque il 4 ottobre 1276 dal conte Giovanni I di Brabante e dalla seconda moglie di questo, Margherita di Fiandra. Margherita andò in sposa a Enrico VII, conte di Lussemburgo e futuro imperatore; morì a Genova, dove fu sepolta, il 14 dicembre 1311.

[2] Tra cui Dante Alighieri.

[3] La chiesa di Castelletto a Genova, sorta nel XIII secolo in una zona all’epoca poco urbanizzata, è stata demolita nell’Ottocento. I resti architettonici sono visibili nell’ambito del percorso dei Musei di Strada Nuova.

[4] Giovanni Pisano: scultore e architetto (1248 ca Siena-1320) figlio di Nicola Pisano, collaborò con lui alla realizzazione del pergamo del duomo di Siena e alla fontana di Perugia. Come architetto fu chiamato a Massa Marittima nel 1287 e a Pisa fu capomastro del duomo agli inizi del 1300. Rispetto al padre risenti dell’influsso dell’arte gotica portando le sue sculture ad una espressività e dinamismo inauditi. Il grande successo riscosso da Giovanni sul finire della carriera è testimoniato da incarichi prestigiosi, conferitigli da committenti di altro rango. Si ricorda la Madonna con il Bambino per la Cappella degli Scrovegni voluta da Enrico degli Scrovegni per la sua tomba e l’opera più prestigiosa per Genova voluta da Enrico VII di Lussemburgo.

[5] Coloro che assistono il sacerdote all’altare.

 

Bibliografia

Clario di Fabio (a cura di) Giovanni Pisano, la tecnica e il genio, Genova, Museo di Sant’Agostino, 2001

Antonio Pinelli, Le ragioni della bellezza, Torino, Loescher, 2012

 

Sitografia

www.museidigenova.it

www.treccani.it


IL PARCO DELLE MURA A GENOVA

A cura di Irene Scovero

I FORTI DELLA CINTA SEICENTESCA

La bellezza di Genova consiste anche nell’estrema varietà del paesaggio all’interno del suo territorio: racchiusa tra il mare e i monti, infatti, presenta un complesso di fortificazioni sull’arco collinare che è un patrimonio storico architettonico, soggetto da anni al rilancio e alla valorizzazione. Il Parco delle Mura, con i suoi 19 km di cinta muraria, è il più lungo d’Europa e deve il suo nome alle Mura Nuove, erette nel Seicento a difesa della città e del porto. Oltre alle mura seicentesche il Parco comprende forti militari costruiti tra il Seicento e l’Ottocento e tutela specie rare di esemplari di flora e fauna paesaggistica. Nel corso del tempo i forti hanno avuto più funzioni: nei secoli furono caserma, prigione, ospedale e luogo dove avvenivano le esecuzioni, mentre nella storia più recente molti sono stati teatro di battaglie e di episodi della Resistenza.  È sicuramente la conformazione orografica del territorio che ha permesso la realizzazione delle grandi mura che salivano dalla Lanterna e avevano il suo vertice nel Forte Sperone sul monte Peralto e ridiscendeva costeggiando la vallata del Bisagno per concludersi vicino all’attuale Foce. La cinta muraria che segue i crinali delle alture di Genova copre un dislivello di oltre 500 metri e oggi la via dei forti è diventata un’attrazione per escursionisti e appassionati di storia.

 

Le Nuove Mura - 1626

La cinta seicentesca è l’ultima e la più ampia opera fortificata che abbraccia il centro città e le Vecchie Mura.[1] Il suo tracciato si riferisce ad un serie di opere provvisorie iniziate nel 1625 per difendere la città dall’avanzata dell’esercito piemontese oltre Appennino. La cinta muraria del Cinquecento era diventata inadeguata per difendere la città, in quanto seguiva fedelmente il perimetro della città permettendo al nemico di minacciare seriamente il centro abitato. Per questo il 7 dicembre 1626 venne posta la prima pietra ufficiale di quest’opera architettonica, alla cui cerimonia partecipò tutta Genova. Nel 1633 il complesso murario fu concluso grazie alla soprintendenza ai lavori di Bartolomeo Bianco, Ansaldo de Mari e Giovanni Balliani e al coordinamento del Magistrato delle Nuove Mura, organo d’ufficio creato appositamente per questi lavori. Lungo le mura difensive, nel corso del Settecento-Ottocento, furono realizzate poi molte opere militari difensive, bastioni e forti integrati nella struttura muraria.

Tale sistema fortificato, di proprietà del demanio, si basa su un insieme di sedici forti principali e ottantacinque bastioni. I forti di Genova vennero abbandonati nel XIX secolo: parzialmente restaurati e recuperati a inizio Novecento, vennero utilizzati prevalentemente come punto di appoggio per le manovre militari durante la prima e seconda guerra mondiale.

Intorno al sistema di fortificazioni, negli ultimi anni, è sorto il Parco delle Mura, quasi 900 ettari di terreno che vede la presenza di esemplari rari della fauna e flora della macchia mediterranea. I forti sono raggiungibili in macchina o con la ferrovia Genova-Casella, linea ferrata inaugurata nel 1929 e lunga oltre 24 chilometri che corre nella Val Bisagno e raggiunge la Valle Scrivia. In alternativa, dal centro città si può raggiungere il Righi, altura alle spalle della circonvallazione a monte di Genova, per mezzo della funicolare che parte da piazza della Zecca. Realizzata alla fine dell’Ottocento, copre circa 280 metri di dislivello su un tragitto di poco meno di un chilometro e mezzo, per metà in galleria.

Fortificazioni di potenziamento alle mura del Seicento

Salendo dalle alture del Righi si incontrano in ordine il Forte Castellaccio, che ingloba Torre Specola e Forte Sperone che rappresenta il vertice nord delle antiche mura, e il limite cittadino. Scendendo da Forte Sperone si incontrano i Forti Begato, Tenaglia e Crocetta che chiudono anch’essi a monte l’anfiteatro naturale che fa da corona a Genova.

Forte Castellaccio e Torre Specula

Dopo aver superato il Righi e le Mura delle Chiappe si entra in un’area che le cronache descrivono già fortificata nel Medioevo per proteggere la città dai Guelfi. Nel 1530 il forte fu completamente ristrutturato per iniziativa di Andrea Doria e nel 1630, con il termine della costruzione delle Mura Nuova, il Castellaccio (fig.1) è completamente ristrutturato. Il Genio Sardo approntò una prima caserma nel 1818-1827 e costruì la Torre Specula all’interno delle mura del Forte Castellaccio. Per tutto l’Ottocento la Torre venne utilizzata come prigione per i detenuti più pericolosi. Attualmente il Forte è in uso dall’Istituto Idrografico della Marina Militare. Il complesso, nelle sue mura perimetrali, largo quasi quattrocento metri, si conclude a nord nel sottopasso della strada militare addossata all’ osteria Du Richetto presente dal 1890 (fig.2).

Forte Sperone e Forte Begato

La locazione del Forte Sperone (fig.3-4-5-6-7) coincide con la punta più settentrionale delle Nuove Mura, sulla vetta del Peralto. Si ha notizia di un bastione già all’inizio del XIV secolo: la costruzione della struttura attuale venne iniziata dalla Repubblica di Genova, e dopo l’assedio austriaco venne proseguita dai Francesi prima e dai Piemontesi poi intorno al 1830. Durante la seconda guerra mondiale venne utilizzato come carcere e reimpiegato dalla Guardia di Finanza tra il 1958-81. Dagli anni ’90, insieme al forte Begato, è stato riutilizzato grazie a una serie di manifestazioni teatrali e spettacoli estivi, anche se attualmente è inaccessibile. Forte Begato (fig.8-9), ultimato nel 1830 dal Genio Sardo, più a ponente, si trova a un’altitudine lievemente inferiore e sovrasta il quartiere di Rivarolo. Dallo Sperone si possono raggiungere, a nord, i forti isolati Puin, Fratello Minore e Diamante, da cui si gode una vista mozzafiato.

Fig. 3

Forte Tenaglia e Crocetta

La costruzione del Forte Tenaglia (fig.10), sempre all’interno del Parco delle Mura, è localizzata su un promontorio naturale a 217 mt s.l.m che fronteggia la Val Polcevera e deve il suo nome alla particolare forma architettonica che ricorda una tenaglia. La costruzione, che comprendeva due torri e un recinto di mura rettangolari, fu completamente spianata in occasione della costruzione delle Mura Nuove. Durante la seconda guerra mondiale fu utilizzata come batteria antiaerea e nell’aprile del 1945 fu l’ultima piazzaforte a essere abbandonata dai Tedeschi. Oggi vi ha sede la cooperativa La Piuma che in particolari occasioni la apre al pubblico. Dal forte Tenaglia si scende verso il Crocetta (fig.11-12), edificato dal Genio Sardo fra il 1818-1830, previa demolizione di un preesistente convento degli Agostiniani. Localizzato a 160 metri sul livello del mare, sullo stesso crinale del forte Tenaglia, l’edificio oggi è in uno stato di completo abbandono.

Oltre alle fortificazioni presenti sulle mura seicentesche, bisogna tener conto di tutti gli altri complessi architettonici entro e fuori il Parco delle Mura che aiutano a comprendere la storia della città, e che oggi sono scenario di suggestive visite ed escursioni che valorizzano il paesaggio e le architetture fortificate della città.

 

 

Note

[1] Già in epoca romana Genova possedeva una cinta muraria realizzata a scopo difensivo. Questa fu ampliata nei secoli successivi e famosa rimane la terza cinta chiamata mura del Barbarossa 1155-59, costruita velocemente per paura di un assedio da parte dell’esercito imperiale. In ogni caso l’accrescimento di mura difensive si ebbe ogni cento-duecento anni fino alla costruzione della settima cinta definita delle Mura Nuove risalente al Seicento.

 

Bibliografia

Jacopo Baccani, Genova dei forti, Genova, 2015

Paolo Stringa, Forti di Genova, da Forte Puin a Forte Diamante, Genova,1976

Paolo Stringa, Forti di Genova, da forte Quezzi a Forte San Giuliano, Genova,1976

Paolo Stringa, Forti di Genova, dalla torre della Spucola a forte Belvedere, Genova,1976

 

Sitografia

www.museidigenova.it

www.visitgenoa.it

www.guidadigenova.it

http://studinapoleonici.altervista.org/genova-e-le-sue-difese/

http://www.liguriaforyou.com/fortificazioni-la-grande-muraglia-genova/

www.lapiumaonlus.org


IL SANTO VOLTO O MANDYLION DI GENOVA

A cura di Irene Scovero
Fig.1 - Il Santo Volto di Genova.

La chiesa di San Bartolomeo degli Armeni

La chiesa dov’è conservata l’icona con il Santo Volto di Gesù (Fig.1) è San Bartolomeo degli Armeni a Genova, così chiamata perché fondata da alcuni monaci armeni nel 1308.

Lo stile originario presentava probabilmente una pianta centrale con cupola e due cappelle laterali nella testata, di gusto tipicamente armeno. Di tale struttura è rimasta solo la zona absidale con la cupola e la cappella di sinistra, poiché le altre parti della chiesa sono andate distrutte alla fine del XIX secolo, quando venne costruito il palazzo che ora la chiude da due lati (Fig.2-3).

Sita in Circonvallazione a monte, la chiesa di San Bartolomeo risulta di difficile riconoscimento proprio perché inserita nella facciata di un palazzo ottocentesco. Tale struttura più moderna, a ridosso dell’antica chiesa quasi come un contrafforte, fu realizzata dai Padri Barnabiti nel 1883. L’impostazione architettonica di San Bartolomeo risale alla fine del XVI secolo, quando fu notevolmente trasformata e venne realizzata anche la Cappella del Santo Volto contenente la reliquia oggetto di studio.

Il Santo Volto di Edessa

All’interno della chiesa si trovano tele di notevole valore attribuite dapprima a Domenico Piola e ora a Gregorio de Ferrari, busti marmorei e un trittico del XIV secolo di Turino Vanni; ma l’opera che desta più clamore è sicuramente il Mandylion[1] o Santo Volto di Genova, secondo la tradizione il più antico ritratto di Gesù.

Del Santo Volto si è sempre parlato nel mondo cristiano, soprattutto in quello orientale: tuttavia la sua importanza si è affermata intorno all’VIII secolo durante l’iconoclastia, quando alcuni imperatori bizantini (in particolare Leone III), tentarono di distruggere le immagini sacre con il pretesto di purificare il culto cristiano. I difensori delle immagini, definiti iconoduli, presentarono come principale argomento storico l’esistenza di un Santo Volto,[2] immagine considerata acheropita, ossia creata dalla mano divina senza l’intervento dell’uomo.

La leggenda[3] che ricorda l’origine divina di questa icona è quella riferita al re Abgar e databile al I secolo d.C.: la tradizione racconta che durante la vita di Gesù il re di Edessa Abgar, venuto a conoscenza delle doti taumaturgiche del Messia, mandò una lettera al Cristo per essere visitato e guarito dalla lebbra. Gesù, non potendo andare di persona, rispose alla missiva facendo recapitare un fazzoletto sul quale si era asciugato il volto dal sudore, lasciandovi impresse le sue fattezze. A seguito della guarigione del re Abgar, questi si convertì al cristianesimo e l’immagine, nei secoli successivi, venne utilizzata come conferma della legittimità del culto delle immagini. L’icona sacra è ricordata anche nel Concilio di Nicea del 787 d.C., che stabili e decretò la validità del culto delle sacre immagini sul presupposto “storico” del Santo Volto di Edessa, e sulla base dogmatica della verità dell’incarnazione; per cui Dio in Gesù si è reso visibile perché si è fatto uomo, e quindi soggetto a rappresentazione.

L’immagine oggetto di studio è un’opera di grande interesse storico artistico, ma la sua presenza è anche indicativa per la cultura figurativa locale e sottolinea il valore fondamentale dell’importazione di oggetti d’arte di alta qualità nella città. Considerata la vera immagine del Santo Volto di Edessa, l’icona nel 1362 fu portata a Genova da Costantinopoli da Leonardo Montaldo, e da questo donata al Convento di San Bartolomeo degli Armeni intorno al 1384[4]. La tradizione vuole che l’icona sia stata donata al capitano genovese (che poi diventò doge), dall'imperatore bizantino Giovanni V Paleologo. Dal XIV secolo il Santo Volto di Edessa è custodito a Genova; solo per una breve parentesi, nel 1507, l’icona fu portata in Francia perché rubata da Luigi XII, ma grazie all’intervento di ambasciatori, ricchi mercanti e banchieri genovesi fu riportata in città.

Iconografia del Santo Volto o Mandylion

Grazie alle tecniche di indagine recenti si è constatato che l’immagine è una tempera ad uovo su lino.[5] I credenti ritengono che possa trattarsi del lino di cui parla la tradizione, dove Gesù impresse la figura del suo volto. Il tessuto è collocato su una tavoletta in cedro dipinta con croce di tipo fiorito di colore rosso, inserito a sua volta in un altro supporto ligneo sul quale è stato introdotto l’ornato in filigrana. Il preziosissimo ornato in oro e argento fu realizzato a Costantinopoli e presenta dieci formelle a sbalzo[6] in cui è rappresentata l’origine del Santo Volto fino all'arrivo a Costantinopoli. Le scene sbalzate, ravvivate da policromia e smalti a niello, rappresentano i momenti salienti dell’origine della sacra effige, ciascuna riportante una didascalia in greco. Sopra il  volto del Cristo i due dischetti clipeati realizzati a niello[7], recano in greco il monogramma di Gesù Cristo IC XC e sotto i clipei, a fianco del volto, in perpendicolare, sono presenti due tabelline con caratteri in smalto azzurro che riportano la scritta in greco Il Santo Lino. Il volto è ulteriormente evidenziato da tre placche con intreccio a racemi eseguite a cesello[8], che formano il segno della croce.

Sul retro della tavola sono emersi frammenti incollati di stoffe persiane e arabe risalenti ai secoli precedenti al Mille: si tratta di Brandomi, cioè reliquie per contatto che avevano probabilmente avvolto il prezioso lino. Sono stati rinvenuti quattro tipi di stoffe decorate che costituiscono conferma della venerazione e delle origini antiche del Santo Volto, così da convalidare l’idea che l’icona sia il famoso volto di Gesù di Edessa di cui parla tutta l’antichità cristiana. Questi reperti sono stati distaccati dal Santo Sudario e attualmente sono conservati separatamente (Fig.4).

Fig. 4

Agli inizi del XVII secolo la città di Genova ha donato alla chiesa di San Bartolomeo la splendida teca di argento in cui è custodita l’icona, teca che è stata ulteriormente arricchita di pietre preziose sulla cornice nel secolo successivo (Fig.5). Le pietre disposte lungo il bordo superiore della custodia sono ametiste, topazi, quarzi bruciati, rosette di diamanti e zaffiri. Il volto, come tutte le immagini acheropite antiche, presenta un naso lungo a cannula e occhi a mandorla sottolineati da una profonda arcata sopraccigliare. I capelli e la barba sono un tutt’uno e la barba termina con tre punte che, come vuole la tradizione bizantina le cui icone rimandano a significati simbolici legati alla teologia, richiamano alla trinità del Cristo.

Fig. 5

 

Note

[1] Mandylion, termine dialettale proveniente dal greco che indicava un fazzoletto, nel dialetto ligure chiamato Mandillo.

[2] Tutto è da far risalire alle differenze sostanziali tra l’arte dell’impero d’Occidente e quello d’Oriente. Dopo la morte dell’imperatore Teodosio I, nel 395, la frattura che si creò tra le regioni occidentali e quelle orientali portò a differenze sostanziali nella storia dell’arte e nella rappresentazione religiosa. L’arte Occidentale proseguì con una via figurativa descrittiva e vicino alla realtà sottolineando nel volto di Gesù l’aspetto umano, mentre l’arte orientale-bizantina aderì a modelli simbolici, sottolineando nelle immagini del Redentore gli aspetti più divini. Queste differenze di rappresentazione delle immagini sacre tra i due imperi, che in seguito portarono allo scisma tra Oriente ed Occidente, causarono all’inizio dell’VIII secolo l’iconoclastia, cioè la distruzione di tutte le immagini sacre da parte dell’impero d’Oriente perché considerate opere capaci di fomentare tendenze idolatre. La disfatta dell’iconoclastia avvenne solo nell’843 con Teodora, quando venne ristabilito il culto delle immagini. Da quel momento l’arte bizantina conservò sempre uno spirito iconoclasta, e tutt’ora le icone sono sottoposte a rigide convenzioni dove i colori e la gestualità dei soggetti rappresentati sono governati da significati immutabili.

[3] La leggenda del re Abgar di Edessa, antica città della Siria, risale ai primi secoli dell’era cristiana. Ad essa accenna già il primo storico della Chiesa, Eusebio di Cesarea, prima metà del IV secolo d.C., e vari altri storici come Procopio ed Evagrio.

[4]  L’icona, prima di arrivare a Genova, è a Costantinopoli, trasportata da Edessa dall’Imperatore d’Oriente e conservata nel Palazzo Imperiale (940 circa).

[5]  La prima ricerca scientifica sul Santo Volto che ne conferma l’antichità e il valore religioso e storico artistico risale alla fine degli anni Sessanta del Novecento.

[6] Sbalzo: tecnica di lavorazione del metallo consistente nel battere sul lato posteriore della lastra metallica con martello e bulino in modo da ottenere figurazioni sulla parte dritta.

[7] Niello: lavoro di oreficeria che consiste nell’incidere con il bulino una lastra d’oro, d’argento o di altro metallo e nel riempire il solco così ottenuto con una pasta scura composta da’argento, rame, piombo, zolfo e borace.

[8] Cesello: piccolo strumento di ferro o acciaio a taglio smussato, utilizzato per incidere materiali.

 

Bibliografia

Flavio Caroli, Il Volto di Gesù. Storia di un’immagine dall’antichità all’arte contemporanea, Milano, 2008

Il Santo Sudario e la chiesa di S.Bartolomeo degli Armeni, Genova, 1988

La pittura a Genova e in Liguria, dagli inizi al Cinquecento, Genova, 1987

Simone Ferrari, Dizionario di arte e architettura. I termini, le correnti, i concetti, Milano, 2002

Victor I. Stoichita, Cieli in cornice. Mistica e pittura nel Secolo d’Oro dell’arte spagnola, Roma, 2002

 

Sitografia

Immagini dell’autore e tratte da www.reliquiosamente.com


LE BOTTEGHE STORICHE DI GENOVA

A cura di Irene Scovero

Introduzione

Le botteghe storiche di Genova sono antichissimi negozi e attività artigianali di interesse culturale che sono attive da almeno 50-70 anni. Genova e i paesi della Liguria sono ricchi di questo patrimonio storico-artistico che recentemente è stato valorizzato grazie ad iniziative culturali e percorsi di visita specifici.

La città, con la sua bellezza celata, si è sempre contraddistinta per il commercio e ha sempre conservato un patrimonio artistico-architettonico tra le vie del centro storico. Le antiche arti, così come le antiche tradizioni, sono state custodite gelosamente nel corso degli anni e attraverso le botteghe è possibile riscoprire non solo il passato di antichi mestieri ma l’anima stessa della città.

Per preservare questo immenso patrimonio locale è  stato creato un albo nei quali sono stati inseriti tutti quegli esercizi che hanno requisiti specifici definiti dal Ministero per i Beni e le Attività culturali. Elencate e valorizzate sul sito www.botteghestorichegenova.it  le botteghe inserite in elenco comprendono diversi generi commerciali come negozi di calzature, tessuti, sartorie, farmacie, drogherie, macellerie, alcune anche preservate dal FAI. Alcune di esse mantengono semplicemente intatto l’arredo originale con cui sono sorte, attrezzature o strumentazioni storiche originali e ancora funzionanti, oltre a custodire documenti e immagini che testimoniano la storia delle attività e del contesto storico ambientale.

La città ha iniziato il percorso di sensibilizzazione e destinazione turistica dopo il 1992, anno delle Celebrazioni Colombiane e dell’inaugurazione dell’Acquario e soprattutto dopo il 2004, anno di Genova Capitale Europea della Cultura. La città negli ultimi anni è riuscita a puntare su un turismo culturale non solo in Italia ma anche in Europa attraverso la valorizzazione dei suoi punti di forza come i Palazzi dei Rolli, riconosciuti nel 2006 come Patrimonio dell’Umanità, le strade ottocentesche, le realizzazioni architettoniche del Novecento e i percorsi di visita del centro storico con il suo tessuto medievale e le botteghe di antica tradizione.

Percorso tra le botteghe storiche del centro storico di Genova

Ad oggi si contano 43 botteghe riconosciute come ‘storiche’ dalla Soprintendenza, il Comune e la Camera di Commercio che si sono fatti promotori della valorizzazione di questi beni.

Si passano in rassegna alcune botteghe, scelte per categoria, a testimoniare la storia, la bellezza e le antichi tradizioni che ci fanno tornare indietro nel tempo.

GIOVANNI RIVARA FU LUIGI – 1802

In piazza San Lorenzo, sulla sinistra della Cattedrale medievale, all'angolo con via di Scurreria, è situata una delle Botteghe Storiche di Genova, ossia il negozio di tessuti Giovanni Rivara fu Luigi 1802; è un locale storico, punto di riferimento per la vendita al dettaglio di biancheria e tessuti per la casa da più di duecento anni. La famiglia, originaria di un piccolo paesino di Chiavari, inizia a dedicarsi al commercio di tessuti agli inizi dell’Ottocento negli anni in cui si diffonde la meccanizzazione nell'industria tessile.

Il locale conserva ancora gran parte dell’arredamento originale ottocentesco: scaffalature in legno, un bancone in noce massiccio formato da un unico pezzo di legno lungo più di cinque metri, lenzuola di puro lino ricamate, macramè di fiandra con nodi, antichi libri contabili originali del XIX secolo e i metri utilizzati nell’Ottocento.

Elemento storico della ditta Rivara è un giornale di cassa datato 1847-48 che oltre a raccontare la quotidianità del negozio, ci tramanda i nomi dei clienti dell’aristocrazia genovese nel XIX secolo. Compaiono il banchiere Celesia, il marchese Gropallo di Carignano, la marchesa Serra e Agostino Adorno. Anche l’attigua cattedrale di San Lorenzo veniva rifornita di biancheria dalla ditta Rivara e tra i clienti di spicco compare anche il nome della regina Maria Cristina di Savoia, consorte di Carlo Alberto.

Sotto l’attuale gestione di Luigi Rivara, subentrato al padre nel 1986, le proposte della ditta riconfermano la fedeltà della tradizione che ne ha sancito a suo tempo il successo. Tessuti pregiati vengono utilizzati per i capi di abbigliamento, come il lino irlandese per le camicie, tessuti in lino per lenzuola, coperte di lana e cachemire, la piuma d’oca per piumini e trapunte. La bottega rifornisce alberghi e ristoranti oltre che le spose per i corredi ricamati in puro lino e tra gli oggetti d’arredo della tradizione ligure si possono acquistare i mezzari genovesi. Quest’ultimi sono in vendita sia con la tradizionale iconografia dell’Albero della Vita, sia con motivi di ispirazione più contemporanea. In occasione di speciali avvenimenti vengono prodotti mezzari ad edizione limitata. Nel 2004, anno in cui Genova fu Capitale Europea della Cultura, sono stati realizzati mezzari con panorami della città firmati dagli artisti Luzzati, Verardo e Costantini.

I mezzari genovesi

La parola mezzaro è di origine araba, deriva dal verbo mi-zar che significa coprire ed è stata assorbita dal dialetto genovese per identificare tessuti, scialli e fazzoletti di diverso materiale. Già l’etimologia del nome sottolinea come la cultura ligure, grazie ai commerci marittimi, abbia assorbito l’utilizzo di parole non locali nel proprio vocabolario.

Genova, fin dal pieno Medioevo al centro delle rotte commerciali con l’Oriente, è forse tra le prime città italiane a conoscere questo tipo di tessuti. L’enorme espansione economica della città e la fondazione di una Compagnia delle Indie Orientali, nel XVII secolo, rendono più agevole l’approvvigionamento di questi quadrati di arte tessile, non a caso i primi atelier di mezzari sorgono a Genova alla fine del Seicento, successivamente i tessuti saranno importanti anche dalla Lombardia e via mare dall'Inghilterra, Irlanda, Olanda e Belgio.

Con questo grande quadrato di stoffa di cotone le donne liguri si ammantavano già nel Duecento in modo non dissimile a quello in cui le spagnole si avvolgono nelle loro mantillas. Tale utilizzo è caduto in disuso verso la metà del XIX secolo ed attualmente è utilizzato come tendaggio o come copri letto-divano. Il mezzaro presenta sempre un motivo centrale molto decorato, solitamente l’Albero della Vita, delimitato da un bordo decorato che corre lungo i quattro lati della stoffa.

BOTTEGHE STORICHE DI GENOVA: LA BARBERIA GIACALONE DEL 1882

Questa piccola bottega, che non supera i dieci metri di superficie, si trova nel cuore del centro storico, in vico dei Caprettari incastonato in un palazzo del XVII secolo. Aperto agli inizi del Novecento da Italo Giacalone, è un piccolo gioiello in stile liberty realizzato nel 1922 dalla vetreria Bottaro, la stessa che quasi un secolo dopo ne curerà il restauro, e conserva oltre agli arredi anche le suppellettili originali dell’epoca. Il piccolo gioiello di eleganza e raffinatezza viene gestito dal figlio di Italo e dopo la sua scomparsa, e dopo un breve periodo di chiusura, viene restaurato e riaperto nel 1992 dal FAI. L’ambiente è quasi abbagliante: la luce rimbalza in un gioco di specchi tra le pareti e il soffitto colorandosi di verde smeraldo, blu cobalto e giallo oro, i colori che dominano i pannelli in cristallo che fasciano il locale. In stile d’epoca gli specchi ovali sopra i lavabo, le appliques, i lampadari centrali, i porta shampoo, le bottiglie d’acqua di colonia, alcuni rasoi e il telefono ancora funzionante del 1930.

La barberia testimonia quel particolare momento di passaggio tra il gusto liberty e l’art déco.

Il gestore, Francesco Caiffa, orgogliosissimo della sua attività, racconta a chiunque sia interessato la storia del locale, mostrando articoli di giornale e foto che lo ritraggono al lavoro. Conserva una copia del Times, con l’articolo dedicato alla celebre bottega, e foto di novelli sposi che vengono, spessissimo, a farsi ritrarre in questo piccolo negozio. Nella bottega è conservato anche il rasoio personale del duce che non mancava di passare di qua quando si trovava a Genova. Molti film e pubblicità attuali contengono scene girate nella bottega, come nel film "Le mura di Malapaga" con Jean Gabin del 1949.

TRIPPERIA CASANA - 1890

Nel cuore del centro storico, la tripperia di vico Casana vende trippa dal 1890. La bottega, una delle più caratteristiche e affascinanti fra le Botteghe Storiche di Genova, rimane della famiglia Cavagnaro per quasi cento anni, quando nel 1984 ne diventa proprietaria Gabriella Colombo che, con il marito Franco, è oggi l’anima di questa ultracentenaria bottega dove si respirano aromi e atmosfere di altri tempi. Un negozio in cui si fondono armonia, bellezza e semplicità grazie agli elementi architettonici, agli arredi e agli utensili originali di inizio Novecento. Fino ad un paio di anni fa i genovesi erano soliti sedersi sugli sgabelli e fare uno spuntino sui bei tavoli in legno col piano di marmo, originali dei primi del Novecento, ma erano soprattutto operai e portuali che, andando al lavoro, si scaldavano e nutrivano con una tazza fumante di brodo di trippa. La bottega conserva ancora gli arredi e gli utensili originali di inizio Novecento. Tra i tavoli in legno con base in marmo alla genovese e i pentoloni in rame originali degli inizi del XX secolo, è appeso al soffitto un diploma del 1903 in stile Liberty con eleganti e sinuose figure femminili che incorniciamo l’encomio. Oltre alle suppellettili si è tramandata anche la maestria della lavorazione della trippa che al cliente viene venduta insieme ai preziosi suggerimenti per assaporarla al meglio. Tra i piatti e le ricette consigliate: trippa ai ferri, fritta, al cognac, alla parmigiana, risotti e l’immancabile trippa in umido alla genovese.

FARMACIA SAN’ANNA - 1650

Sulla collina della città l’antica farmacia si trova nell'omonima piazzetta, nel quartiere di Castelletto, presso il convento della Chiesa di Sant’Anna, fondata nel 1584 da Nicolò Doria, il primo ad essere edificato dai Carmelitani Scalzi fuori dai confini della Spagna. Del meraviglioso complesso formato da giardini, chiesa, refettori e l’antica biblioteca spicca la farmacia, la cui origine si fa risalire alla metà del Seicento quando già, pochi decenni dopo la fondazione, con fra Martino di S.Antonio (1638-1721) si parla di una spezieria dei Carmelitani Scalzi. Nel corso dei secoli i registri della farmacia riportano i nomi dei clienti che si servivano dai frati e i prodotti più richiesti come la manna, sali d’Inghilterra, unguenti per la rogna, estratto di china e rosa. Tra i documenti dell’Ottocento compare il nome del medico parigino Louis Le Roy, autore de La medicina curativa, opera pubblicata a Napoli nel 1825.

Oggi l’attività dei Frati carmelitani mantiene intatta la tradizione galenica e fitoterapica coniugando le conoscenze moderne con quelle di antica tradizione. I laboratori seppur moderni elaborano ricette antiche con ingredienti esclusivamente naturali in pura tradizione monastica in un ambiente accogliente, incastonato in una boiserie in noce.

Frate Ezio, l’erborista depositario dell’antica tradizione, accoglie chi ha bisogno di cure e propone antichi rimedi naturali ottenuti dai fiori e piante coltivate con cura e passione, molte delle quali ricavate dal  giardino della farmacia che ospita un ricco roseto e un agrumeto. Un sabato mattina al mese la Farmacia propone visite guidate per un offrire un’esperienza unica tra storia, medicina e natura in un luogo ricco di storia, tradizione farmaceutica e spiritualità.

MACELLERIA NICO -1790

Nel centro storico di Genova, nel quartiere di Soziglia, è inserita questa antichissima macelleria. La corporazione dei macellai in città è una delle più antiche e risale al XII secolo, quando le attività che vendevano carni di ogni genere furono collocate in questa zona, che prese il nome di via dei Macelli. L’antica bottega è delimitata da un portale in marmo, con la vetrina incorniciata da lesene, il pavimento alla genovese e il soffitto a botte con capitelli. Il bancone del locale è in marmo bianco di Carrara decorato con sculture in altorilievo e raffigurazioni di bovini, buoi, tori, mucche. La bottega, già esistente prima dell’unità d’Italia, è testimone di questo momento storico. In questo periodo furono aggiunti al balcone in marmo bassorilievi con le teste dei protagonisti del Risorgimento italiano: Garibaldi, Mazzini, Cavour e Nino Bixio. In bassorilievo, sulla base del bancone è rappresentato Mercurio, dio dei commerci, degli scambi e del profitto. All'interno si trovano ancora attrezzi originali come rotaie e le guidovie con i ganci per appendere il bestiame.

BAR PASTICCERIA KLAINGUTI - 1828

Nel 1826 i fratelli Klainguti giungono a Genova da Pontresina, paese vicino a Saint Moritz. Specializzati nell'arte dolciaria, decidono di rilevare un negozio in Piazza Soziglia che da quel momento diventerà punto di ritrovo di personaggi famosi come Giuseppe Verdi, dove un suo biglietto autografo, con apprezzamenti rivolti alle brioches di Klainguti, è ancora visibile all'interno del locale. Restaurata nel 2000, la bottega conserva ancora il bancone, le bacheche e le vetrine originali dell’anno di inaugurazione. Il bancone della pasticceria è realizzato in legno di noce con ripiano in marmo, mentre quello del bar è in legno intarsiato risalente al 1950. La saletta interna presenta inalterata il mobilio degli anni ’20.

Il bancone gelato in una delle vetrine esterne presenta un pannello in legno intarsiato con i principali monumenti di Genova risalente alla seconda metà del Novecento. Inseriti nella boiserie avorio, verde e oro delle pareti, pannelli realizzati da Attilio Mangini nel 1988  propongono vedute fantasiose di Genova e decorano il bar pasticceria insieme agli specchi, stucchi e lampadari ricordando le atmosfere della Belle Epoque. Tra le varie delizie offerte dalla pasticceria: la torta Engadina, la torta Zena, la sacripantina e altre tante specialità.

Una piccola panoramica sulle botteghe storiche del centro di Genova, tantissime delle quali non ancora inserite nell'albo del Comune, ma che vantano tradizioni centenarie. Antiche drogherie come la Torielli  o Armanino e figli, pasticcerie, farmacie, locali inusuali dove è possibile trovare spezie e farine da tutto il mondo. Tanti i piccoli laboratori artigianali come la minuscola bottega dei presepi in via della Maddalena, Bütteghetta magica,  inaugurata nel 1830, che vende articoli per la casa, ma soprattutto statuine per il presepe.

Continua incessante il lavoro di catalogazione di questi locali storici e nel febbraio 2020 è stato creato il logo per le  ‘’Botteghe storiche, Locali di tradizione e Locali di interesse culturale’’ da affiggere fuori dai locali storici per valorizzarne il valore culturale e potenziare il tessuto commerciale storico genovese.

Logo Botteghe storiche di Genova di Roberto Carlini.

 

Bibliografia

https://smart.comune.genova.it

www.botteghestorichegenova.it

www.erboristeriadeifrati.it

www.fondoambiente.it

www.rivara1802.it

www.treccani.it