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A cura di Rossella Di Lascio

Michele Ricciardi: un’introduzione

Michele Ricciardi è un artista originario di Penta, frazione di Fisciano (Sa), la cui attività si è svolta prevalentemente in Irpinia e nel Salernitano dal 1694 al 1753 circa; di lui restano numerose opere tra tele, affreschi e tavolati dipinti, che testimoniano la diffusione delle maniere tardobarocca e rococò anche nei territori di provincia.

Per questo motivo, la storica dell’arte Tiziana Mancini lo ha definito una “figura provinciale”[1], ma non un isolato, in quanto sempre attento a cogliere le novità di quanto maturava nella vicina Napoli per poi introdurle e rielaborarle nelle sue opere.

Il pittore sigla le sue opere con il monogramma “AMRP”, seguito dalla data di esecuzione. Le consonanti sono state  decifrate come “Michael Ricciardi pingebat”, mentre per la vocale “A” inizialmente si è pensato all’abbreviazione del nome proprio “Angelo”, ma, in seguito alla consultazione di alcuni inventari delle opere d’arte di chiese, conventi e monasteri soppressi, ordinati dal R.D. del 30 Aprile 1807, si è invece scoperto che si tratta dell’abbreviazione di “Abate”, che allude al privilegio di una rendita ecclesiastica che gli era stata concessa e di cui si compiaceva, testimonianza questa, di quanto fosse apprezzato dalla committenza religiosa, soprattutto francescana, della sua provincia.

Monogramma del pittore

Se, in vita, il Ricciardi ha goduto di consensi ed apprezzamenti da parte della committenza sia laica che ecclesiastica, non gli è però stata corrisposta un’uguale fama da morto. Di lui, infatti, non ci è pervenuta nessuna notizia documentaria, rimanendo sconosciuto alla critica del Settecento, dell’Ottocento e per gran parte del Novecento. Il primo studio critico su di lui viene eseguito negli anni Settanta da Maria Teresa Penta, con il suo saggio “Un pittore poco noto del Settecento napoletano: Angelo Michele Ricciardi”, ed è stato quello prevalentemente seguito e confermato dai successivi contributi che lo hanno poi ampliato e perfezionato.

Principali caratteristiche della pittura e delle opere di Michele Ricciardi

Quando Michele Ricciardi comincia a dipingere, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, le principali personalità che dominano l’ambiente artistico napoletano sono Luca Giordano e Francesco Solimena. Nella sua produzione giovanile il pittore presenta un’adesione iniziale ai modi di Francesco Solimena, che si contraddistinguono per la materia cromatica compatta che definisce plasticamente le figure, per la loro impostazione monumentale, la luminosità diffusa delle composizioni, la resa dei pesanti panneggi il cui spessore è rilevato dai contrasti chiaroscurali e la vastità degli spazi evocata da imponenti strutture architettoniche e che il Ricciardi ha avuto la possibilità di conoscere sia attraverso le opere napoletane sia attraverso quelle prodotte e presenti nei territori dove lui opera, come Solofra, Nocera Inferiore e Salerno.

Un primo cambiamento dello stile del Ricciardi si avverte intorno al 1705 – 1709, quando comincia a spostare il suo interesse verso un gruppo di pittori come Giacomo Del Po, Domenico Antonio Vaccaro, Filippo Falciatore e Francesco Peresi, dalla pittura elegante, preziosa, raffinata, anticipatrice della maniera rococò. La libertà inventiva dimostrata da questi pittori, la brillantezza della gamma cromatica, la luminosità ed ariosità delle atmosfere, la leggerezza ed eleganza delle figure traggono spunto dalla pittura genovese di fine Seicento di Gaulli, Piola, De Ferrari, Biscaino, appresa, probabilmente, durante loro brevi soggiorni di studio a Roma. A questo orientamento artistico anticlassico appartiene anche Michele Ricciardi che, essendosi formato in provincia, lontano dai condizionamenti del gusto ufficiale e convenzionale della capitale Napoli che guardava alla formula solimeniana, ha avuto la possibilità di seguire più liberamente la propria ispirazione. La nuova vena rococò del Ricciardi si manifesta nella sua vivace fantasia decorativa, negli apparati decorativi dal carattere allegro e gioioso, realizzati mediante l’intreccio di festoni fioriti e di eleganti elementi architettonici, tra i quali si muovono personaggi sacri e profani dall’aspetto aggraziato e filiforme, dalle movenze delicate e leggiadre.

Si tratta di putti alati, festanti e spensierati che spesso giocano con le insegne ecclesiastiche, che si distribuiscono tra soffici nuvole o che con il loro volo e pose ardite, roteanti, imprimono vivacità e dinamismo all’intera composizione, e figure femminili dai panneggi svolazzanti, reggenti strumenti musicali o danzanti. Il tutto è eseguito con una pennellata fluida, morbida, e con l’accostamento di colori caldi e contrastanti messi in risalto dalla luce dorata e vibrante, di derivazione filo-giordanesca, la cui conoscenza è probabilmente mediata dalla presenza della bottega di Tommaso Giaquinto, allievo di Luca Giordano, a Sant’Agata dei Goti.

Le scene sono raffigurate secondo toni aneddotici (descrizioni minuziose, dettagliate, che lo avvicinerebbero alla corrente dei vedutisti e dei pittori di genere,) e favolistici, sia perché le città, gli edifici o i paesaggi che fanno da sfondo alle vicende sono spesso frutto dell’immaginazione del pittore, sia per le apparizioni soprannaturali e luminose della Vergine, di Cristo, dei Santi, che si intrecciano sovente con episodi storici del passato o relativi al mondo contemporaneo del Ricciardi, mescolando sacro e profano, religiosità e mondanità, secondo un procedimento tipicamente rococò. L’ambientazione delle scene è, in genere, di impronta classicheggiante per la presenza di rovine classiche, colonnati dall’alto basamento, arcate, gradinate, pilastri architravati, tempietti semicircolari, derivanti non tanto da reminiscenze classiche di stampo solimeniano, quanto dai complessi apparati scenografici allestiti in occasione di feste civili e religiose. Tali elementi conferiscono un tono teatrale alle rappresentazioni, una teatralità che si evince anche dalla presenza frequente di tendaggi che, scostati, introducono alla scena che, più che evento sacro, miracoloso, si presenta come spettacolo di corte. Le scene sono pervase da un tono mondano e profano, dovuto agli atteggiamenti vezzosi dei Santi, intenti a mostrarsi agli spettatori, come attori che si esibiscono davanti ad una platea, colti in molteplici pose ed espressioni e sfoggianti paramenti sontuosi, mentre, nel caso delle Sante, sono presenti acconciature elaborate, nastri colorati e preziosi gioielli. Il tutto si svolge in spazi che si dilatano e quasi debordano, riallacciandosi ad un genere tipicamente barocco, quello della dilatazione illusoria dello spazio verso l’infinito, mediante l’uso di quadrature che, mostrando finte cornici a rilievo, colonnati, edicole votive, trabeazioni aggettanti, sfondamenti prospettici, danno l’impressione che lo spazio interno sia aperto e senza limiti, in una costante compenetrazione tra fantasia e realtà, artificio e natura, spazio reale e spazio infinito.

Particolarmente interessante è il modo che ha il Ricciardi di raffigurare episodi salienti della vita dei Santi e le Sacre Conversazioni, dimostrando di essere bene a conoscenza del repertorio iconografico della pittura napoletana che, proprio nella teatralità delle scene e nell’esaltazione della fede e della gestualità, trova la più piena ed efficace rappresentazione. Tali requisiti sono richiesti dalla Controriforma per la quale la pittura sacra deve avere un carattere popolare, essere cioè facilmente accessibile, chiara negli intenti morali e pedagogici e di forte impatto emotivo.

Si tratta di scene semplici e chiare che consentono un’intensa partecipazione emotiva da parte dello spettatore ed una profonda umanizzazione dei personaggi sacri. Il pittore coglie spesso i personaggi nell’intimità e nella tranquillità delle mura domestiche, caratterizzandoli con una forte carica espressiva, per sottolinearne i sentimenti o i pensieri o accentuare il pathos della rappresentazione, grazie sia al loro intenso e penetrante scambio di sguardi che, in alcuni casi, si rivolgono direttamente allo spettatore, coinvolgendolo nella Sacra Conversazione, sia all’eloquenza della gestualità, di tipo teatrale. In particolare spicca l’aspetto aggraziato e sempre giovane, quasi adolescenziale, di Maria, colta in atteggiamenti di estrema umiltà ed affabilità nel dialogare con i Santi in adorazione. Questi ultimi sono riconoscibili dalla presenza dei loro tipici attributi iconografici, come la figura ricorrente di San Filippo Neri, il cui intenso amore per Dio è simboleggiato da un cuore ardente che un putto stringe tra le mani, o San Michele Arcangelo, angelo guerriero in lotta contro il male, personificato da un serpente – dragone dalle grosse scaglie e fauci aguzze, di matrice giordanesca, che il Santo calpesta trionfante, e di cui sono messi in risalto l’armatura finemente descritta e il mantello rosso fiammeggiante.

L’artista ha eseguito numerose opere, ma, allo stato attuale, molte di esse sono andate perdute, sia per incuria, sia per il succedersi di calamità naturali, tra cui il terribile terremoto del 1980 dell’Irpinia che ha provocato la distruzione di interi tavolati, soprattutto nelle zone dell’avellinese.

 

 

Note

[1] Mancini T., Michele Ricciardi. Vita e opere di un pittore campano del Settecento, Napoli 2003

 

Bibliografia

Avino L., Michele Ricciardi: pittore del ‘700 salernitano, in Il Picentino, anno CIX, n. 3-4, Salerno 1974.

Braca A., La pittura del Sei-Settecento nell’Agro Nocerino Sarnese: il Seicento, in Architettura ed opere d’arte nella Valle del Sarno, Salerno 2005.

De Maio R., Pittura e Controriforma a Napoli, Bari 1983.

Mauro D., Aspetti culturali e religiosi della pittura di Michele Ricciardi (1672-1753), in Rassegna storica salernitana, I, Salerno 1984.

Penta M. T., Un pittore poco noto del ‘700 napoletano: Angelo Michele Ricciardi, in Studi di storia dell’arte in onore di Valerio Mariani, Napoli 1972.

Spinosa N., Spazio infinito e decorazione barocca, in Storia dell’Arte Italiana, 6/I, Torino 1981.

Spinosa N., Pittura napoletana del Settecento dal Barocco al Rococò, Napoli 1986.

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