LA STREET ART A SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio

 

 

Introduzione alla Street Art

 

La street art, le cui origini non sono ben chiare ma di certo risalgono agli anni ’70 del Novecento nelle periferie di New York, è letteralmente l’arte di strada, opera di artisti che non usano più i mezzi tradizionali della pittura, quali pennelli, tela e tavolozza, ma bombolette spray, colori acrilici, stencil da applicare su grandi superfici.

Inizialmente considerata quasi illegale, oggi è riconosciuta come una forma di espressione dell’arte contemporanea che si manifesta esclusivamente nei luoghi pubblici, urbani o periferici (muri, pareti di edifici, parcheggi, pilastri, vagoni dei treni o della metropolitana) di cui diventano parte integrante, conferendo loro una nuova identità ed investendoli di un nuovo significato.

Una sorta di “fotografia istantanea” da regalare ad una comunità, in maniera continuata e gratuita, poiché cambiano i luoghi dell’arte: non più musei o gallerie, ma la strada stessa ed il pubblico è costituito da tutti i passanti che, inevitabilmente, diventano fruitori di  opere capaci di colpire e di coinvolgere per le loro dimensioni grandiose, la vivacità cromatica e le tematiche trattate, riguardanti l’attualità (come la tutela dell’ambiente, dei diritti civili, la pace, la lotta alle discriminazioni) o riprese dal mondo dei più giovani (fumetti, anime, videogiochi).

I luoghi in cui sono realizzati i murales spesso diventano vere e proprie mete turistiche: intere aree che tradizionalmente sono lontane dai circuiti ufficiali perché zone periferiche, interi quartieri ai quali viene offerta, attraverso un'arte nuova e a noi contemporanea, una possibilità di riscatto.

Spesso si tratta di antichi quartieri popolari che col tempo sono diventati luoghi poco sicuri e non zone di passeggio o di interesse turistico, ma zone da evitare e che grazie

all’arte di strada, nel corso degli ultimi decenni, sono divenuti veri e propri musei all'aria aperta. E nelle principali città campane di certo non mancano.

Napoli e Salerno si distinguono per il ricco muralismo urbano che ha arricchito il loro volto di città metropolitane, con personaggi contemporanei o che hanno partecipato alla storia culturale della città.

A Salerno nel rione delle “Fornelle”, che ha dato i natali ad Alfonso Gatto, il progetto “Muri d'autore”, realizzato proprio in omaggio al poeta, ha ridato nuova luce ad un luogo estremamente lontano dai circuiti turistici della città; così come a Napoli, dove i quartieri popolari del Rione Sanità, i quartieri spagnoli, quelli di San Giovanni a Teduccio e Ponticelli oggi sono noti in tutto il mondo grazie all’opera di giovani artisti che, partendo dai graffiti realizzati in maniera quasi illegale con bombolette spray sui vagoni dei binari dismessi della metropolitana, spesso da autodidatta, oggi realizzano opere note a tutta l'arte contemporanea.

La street art, oggi apprezzata e ricercata, è arricchimento per interi quartieri e stazioni metropolitane; è la rappresentazione più veloce e più realistica del mondo a noi contemporaneo; si è rivelata supporto imprescindibile per il recupero di quartieri difficili, consentendo loro di aprire le porte ad un turismo che difficilmente avrebbero potuto vivere.

 

Introduzione curata da Ornella Amato e Rossella Di Lascio

 

 

Le “Fornelle”

Il Rione Fornelle è uno dei più antichi insediamenti di Salerno, compreso tra le vie Portacatena, Fusandola e Tasso, e il cui fulcro è costituito da “Piazza Matteo d’Aiello” con la sua caratteristica fontana detta delle “Fornelle”.

Fonte: https://www.salernodavedere.it/a-salerno-il-quartiere-fornelle-era-la-casa-degli-amalfitani/.

 

Fontana delle Fornelle

La fontana, di autore ignoto e databile tra il XVII ed il XVIII secolo, prende lo stesso nome del quartiere in cui sorge. Si tratta di una semplice vasca di forma ovale recante ai lati due brocche in ferro finemente lavorate disposte su basi quadrate e da cui fuoriescono gli zampilli d’acqua. Al centro della fontana è presente una piccola statua religiosa raffigurante Gesù Cristo, posta dagli abitanti del quartiere come espressione della loro devozione.

Il quartiere nasce tra la fine del VIII e gli inizi del IX secolo in seguito all’ampliamento della città voluto dal principe longobardo Grimoaldo III (787 - 806) e divenuto poi “colonia amalfitana” quando il principe longobardo Sicardo (832 - 839) vi deportò un nucleo di amalfitani per rafforzare le attività commerciali di Salerno. Secondo alcune fonti, infatti, il nome deriverebbe dal termine formas, a indicare la presenza di piccoli forni utilizzati dagli abitanti locali per la cottura delle ceramiche. E ancora, il quartiere era originariamente noto con le antiche espressioni di Locus Veterensium o Vicus Sancte Trophimene, ossia “il quartiere degli amalfitani o di Santa Trofimena”, poiché l’insediamento degli amalfitani in zona era ed è tuttora testimoniato da due chiese. La prima è la Chiesa di Santa Trofimena, di cui si hanno notizie a partire dall’839 d.C e che, secondo la leggenda, fu edificata appositamente per custodire per una notte le reliquie della Santa, prima del loro trasferimento a Minori, di cui è la patrona; la seconda è la chiesa di S. Andrea de Lavina, protettore di Amalfi. Entrambe risalgono al periodo alto - medievale.

 

Il poeta Alfonso Gatto

Le Fornelle è anche il quartiere che ha dato i natali ad Alfonso Gatto, importante poeta ermetico e intellettuale del Novecento (fu scrittore, pittore, critico d’arte, critico letterario e docente), nato a Salerno il 17 luglio del 1909 da una famiglia di marinai e di piccoli armatori di origini calabresi. Sul muro di quella che fu la sua casa, in vicolo delle Galesse, è conservata una targa commemorativa a lui dedicata.

Targa commemorativa dedicata ad Alfonso Gatto.

Gatto è noto come il “poeta con la valigia” perché, dopo aver compiuto i primi studi a Salerno, lasciò la città alla ricerca di un futuro e opportunità lavorative e formative altrove, viaggiando sia in Italia (Napoli, Roma, Milano, Firenze, Venezia, Trieste, Bologna, la Sicilia, la Sardegna) che all’estero. Tuttavia, la città natia restò sempre nel suo cuore, tanto da dedicarle numerosi e celebri versi, tra cui:

Salerno, rima d’inverno,
o dolcissimo inverno.
Salerno, rima d’eterno.

Morì l’8 marzo del 1976 a Capalbio, in provincia di Grosseto, a causa di un incidente automobilistico, e le sue spoglie riposano presso il Cimitero Monumentale di Salerno. Il suo amico Eugenio Montale gli dedicò il commiato funebre inciso sulla sua tomba: “Ad Alfonso Gatto per cui vita e poesie furono un’unica testimonianza d’amore”.

 

Il Progetto “Muri d’Autore”

 

A partire dal 2014, allo scopo di omaggiare Alfonso Gatto, è stato avviato il progetto “Muri d’Autore”, nato da un un’idea della Fondazione “Alfonso Gatto” diretta da Filippo Trotta, nipote del poeta, e coordinato dal poeta Valeriano Forte e dall’artista Pino Roscigno, in arte Greenpino.

Il progetto persegue una duplice finalità: innanzitutto, sottolineare il legame tra il poeta e il suo quartiere natale, fondato su di uno stretto intreccio tra Street Art (opere di grandi dimensioni eseguite sui muri delle abitazioni, degli edifici e degli spazi pubblici da artisti di fama nazionale ed internazionale, come Greenpino, Alice Pasquini, Carlos Atoche, Ratzo …) e poesia. Le opere sono infatti ispirate e accompagnate dai versi poetici e letterari di Alfonso Gatto e di molti altri autori del secolo scorso o contemporanei, legati al territorio campano e non, come Massimo Troisi, Pino Daniele, Eduardo de Filippo, Totò, Salvatore Quasimodo, Edoardo Sanguineti, Alda Merini, Giuseppe Ungaretti, Dylan Thomas, Paul Eluard, Nazim Hikmet... . In secondo luogo, si tratta di un strumento di “rigenerazione urbana”, la cui funzione è quella di essere mezzo di riscoperta e di riqualificazione di un quartiere cittadino un tempo etichettato come pericoloso, sporco e malfamato, e che ci racconta la sua quotidianità, ci parla dei suoi figli, in una chiave di lettura moderna, impiegando un linguaggio diretto ed immediato.

A tal proposito, una delle opere più emblematiche, è il murales di Davide Ratzo intitolato “Le donne delle Fornelle”, volti familiari e sorridenti che è possibile incontrare tra i vicoli del quartiere, di cui costituiscono l’anima, e che trasmette la veracità e la forza di queste donne.

 

È possibile aggirarsi tra i palazzi, i vicoli, le scalinate, i cortili delle Fornelle, in una sorta di curiosa caccia al tesoro che consente di scoprire e di vivere con occhi nuovi e diversi questi luoghi, i cui muri diventano supporti su cui dipingere e fogli su cui scrivere versi, una sorta di atelier artistico in continua espansione e luogo di sperimentazione a cielo aperto, di cui lo spettatore diventa parte integrante. Colpiscono certamente la brillantezza dei colori e la forza visiva delle immagini e delle scritte che diventano elementi decorativi a loro volta.

 

Può anche capitare che un semplice e stretto vicolo di passaggio assuma particolare fascino e suggestione, poiché si viene accolti dalla figura di un bellissimo e giovane angelo biondo e riccioluto, come Nel vicolo dell’angelo eseguito da Mauro Trotta, oppure che attraversando un’arcata si rimanga piacevolmente stupiti dalle immagini coloratissime, fantastiche e naif del Piccolo Principe, care ai più piccoli.

 

L’Estasi di Dafne, di Davide Brioschi (in arte Eremita), è una grande figura femminile dal profilo elegante e sensuale che campeggia sulla parete di un palazzo e di cui è visibile la parte interna del corpo, simile a degli ingranaggi mescolati a elementi naturali, quali fiori e foglie. Si tratta di una reinterpretazione del mito di Apollo e Dafne legato al concetto di cambiamento, di trasformazione, che allude a ciò che è avvenuto nel quartiere grazie a questo progetto di rigenerazione urbana.

 

Il tema della metamorfosi si ritrova anche in un altro murales raffigurante un variopinto camaleonte che risale lungo il muro di un edificio.

La grande e classicheggiante testa dell’Apollo ritrovato, di Carlos Atoche, si intreccia con la storia della città, in quanto rimanda all’eccezionale ritrovamento di una testa bronzea di Apollo ripescata nelle acque del Golfo di Salerno il 2 dicembre del 1930 da un gruppo di pescatori, oggi conservata al Museo Archeologico Provinciale e simbolo del museo stesso.

 

Il legame con il mare e le attività marittime e di pesca, proprie della città di Salerno e della famiglia di Gatto, si ritrovano in una serie di murales che mostrano un gigantesco Nettuno di colore azzurro e dalla folta chioma agitata dal vento che ricorda le onde del mare e che ha di fronte a sé una malinconica sirena posta di spalle, affacciata ad una finestra su un paesaggio marino notturno con accanto  un gattino, oppure in un grande polipo che si staglia su uno sfondo che richiama le forme e la vivacità cromatica delle piastrelle ceramiche tipiche della tradizione locale.

 

 

Sebbene il cuore della Street Art salernitana si trovi nelle Fornelle, in realtà la prima opera dedicata ad Alfonso Gatto è stata realizzata sulla Scalinata dei Mutilati, che collega Via Velia e Piazza Principe Amedeo. Qui ha operato la romana Alice Pasquini, una delle artiste di maggiore rilievo nel mondo della Street Art, oltre che illustratrice e scenografa. L’artista ha saputo cogliere l’anima viaggiatrice di Gatto raffigurandolo con la sua inconfondibile sigaretta tra le mani ed il porto alle sue spalle, luogo di arrivi e di partenze, di valigie e di viaggi verso luoghi lontani.

 

I temi del porto, del viaggio e della valigia sono ripresi in un altro murales del centro storico che mostra una giovane ragazza seduta sulla sua valigia nei pressi di una banchina, in attesa, probabilmente, della partenza e della scoperta di nuovi luoghi.

 

Attualmente è stato siglato un Protocollo d’Intesa tra il Comune di Salerno, la Fondazione Alfonso Gatto e Scabec SpA (società in house della Regione Campania per la valorizzazione del patrimonio culturale regionale) finalizzato alla nascita dell’Istituto di Poesia Contemporanea, che sarà costituito da un archivio di manoscritti permanente, da un fondo dedicato alle opere edite e da un fondo dedicato a materiali inediti della Poesia Contemporanea del Sud, con particolare riferimento alla Campania.

 

Per le fotografie inerenti alla street art e alla targa commemorativa di Alfonso Gatto si ringrazia Valerio Chianetta

 

 

Sitografia

http://arcansalerno.com

www.artplace.io

Bellino F., Poesia e street art riqualificano il rione Fornelle di Salerno in www.internazionale.it

www.casadellapoesia.org

https://cultura.comune.salerno.it

La street art di Salerno per Alfonso Gatto: un percorso tra arte e poesia in https://tiviaggiolitalia.it

Luciani A., Street Art a Salerno: la Fornelle da leggere in www.itinerarieluoghi.it

https://salernocapitale.wordpress.com

Street Art a Salerno, Muri d’Autore: i murales e i graffiti in www.livesalerno.com


LA CHIESA DEL SANTISSIMO CROCIFISSO A SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio

 

 

La chiesa del Santissimo Crocifisso di Salerno è ubicata all’inizio di Via Mercanti, tra la fine del moderno corso cittadino e l’inizio del centro storico.

Non si hanno notizie certe della chiesa fino a circa il XIII secolo, tuttavia, secondo la tradizione, sarebbe stata fondata in epoca longobarda da un nipote dell’Imperatore Costantino. La sua denominazione originaria era chiesa di Santa Maria della Pietà Portanova”, in quanto annessa al monastero femminile “delle Clarisse di Santa Maria de Pietate” e per la sua vicinanza all’originaria porta della città, chiamata, appunto, Portanova. Successivamente associata al monastero di San Benedetto, fu ridedicata al SS. Crocifisso nel 1879, quando ospitò per un periodo un crocifisso ligneo del XIII sec. legato alla leggenda del mago e alchimista salernitano Pietro Barliario, oggi custodito nel Museo Diocesano cittadino.

 

La leggenda del crocifisso miracoloso

Secondo la leggenda, Pietro Barliario sin dalla gioventù nutrì una grande passione per le arti magiche e la medicina. Grazie a un patto con il diavolo divenne un potente stregone, capace di compiere opere straordinarie, come la costruzione, in una sola notte di tempesta e con l’aiuto dei demoni, dell’acquedotto medioevale della città, tuttora esistente. Un giorno i suoi due amati nipoti, Fortunato e Secondino, rimasti soli nel suo laboratorio, mentre giocavano rimasero uccisi da sostanze velenose o per lo spavento legato alle immagini o alle formule di un libro di magia. Barliario, sopraffatto dal rimorso e dalla disperazione, chiese perdono al crocifisso presente sull’altare della chiesa di San Benedetto, il quale, dopo tre giorni e tre notti di preghiera, chinò miracolosamente il capo in segno di perdono verso il mago. Da questo episodio, che attirò in città tantissimi pellegrini e curiosi, nacque la cosiddetta Fiera del Crocifisso”, che ancora oggi si svolge durante i quattro venerdì di Quaresima.

Il crocifisso, nonostante sia stato visibilmente danneggiato da un incendio nell’Ottocento, presenta ancora un viso fortemente espressivo e severo e due grandi occhi, profondi e penetranti, che sembrano fissare lo spettatore.

 

 

Gli spazi esterni della chiesa

 

La chiesa si affaccia su una piazzetta ricavata dalla demolizione di caseggiati fatiscenti alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, periodo a cui risale anche la facciata in stile barocco, poi rifatta dopo la terribile alluvione del 1956. Oggi è presente una semplice e moderna facciata, con tetto a spiovente, scandita ritmicamente in alto da sette monofore e da un oculo centrale, e con tre portali d’ingresso che corrispondono alla suddivisione interna in tre navate. Sulla destra svetta il campanile quadrangolare percorso verticalmente da strette finestre e alleggerito in alto da dieci monofore in corrispondenza della cella campanaria. All’esterno, la parete lungo via Mercanti mostra ancora alcune tracce dell’edificio originario, quali un portale in pietra, che costituiva un antico accesso laterale alla chiesa, e una bifora in stucco, oggi entrambi murati. La bifora è divisa in due scomparti da un architrave: la parte superiore risente di una chiara influenza arabeggiante, sia per la forma ogivale che per il motivo decorativo finemente traforato, caratterizzato da un’alternanza di croci e stelle a otto punte. Nell’ordine inferiore, invece, la bifora è divisa in due da una colonnina centrale, mentre altre due colonnine laterali sorreggono l’ogiva, delimitata da una fascia su cui sono parzialmente visibili sette scudi, stemmi di famiglie nobiliari. Attualmente si distingue solo l’insegna a sinistra, a bande orizzontali bianche e rosse, appartenente alla famiglia Carafa.

 

Gli spazi interni della chiesa

La chiesa presenta internamente una pianta basilicale, con tre navate e tre absidi semicircolari. Le navate sono divise da due file di arcate a tutto sesto sorrette da sei colonne e capitelli di spoglio, provenienti da edifici di epoca romana, come la prima colonna a sinistra che presenta una decorazione in rilievo a spirale. La navata centrale, più alta, è illuminata da monofore e coperta da capriate lignee, mentre quelle laterali sono coperte da volte a crociera.

 

 

L’abside centrale è decorata con un mosaico moderno risalente al 1961, opera di maestranze ravennati, che riproduce l’affresco originario della Crocifissione situato nella cripta.

Nell’abside destra, al di sotto dell’altare, sono presenti affreschi tardomanieristi del XVI-XVII secolo, raffiguranti i Santi martiri Paolina Vergine, Clemente e Cassiano che recano con sé la palma, simbolo di martirio, e che circondano la teca che custodisce le loro reliquie.

 

La cripta

Dalla navata destra, tramite una piccola scala, si accede alla cripta, riferibile a una chiesa anteriore all’anno Mille e su cui sono state innalzate le fondamenta dell’attuale. Scoperta solo in epoca recente, negli anni ’50 del ‘900, ha una planimetria, anche se di dimensione ridotte, che ricalca quella della chiesa superiore, con tre navate separate da due archi con volte a crociera sorretti da pilastri che inglobano colonne romane di spoglio, chiuse da absidi semicircolari.

Nell’abside centrale è collocato un altare in travertino che riproduce quello originale ma giunto a noi frammentario.

 

Gli affreschi

Sulla parete occidentale, di fronte all’abside centrale, si staglia il grande affresco raffigurante la Crocifissione, databile tra il XIII e XIV secolo, che costituisce un interessante esempio Cristo Patiens, contrariamente al Cristo Triumphans del Barliario. In epoca romanica si afferma l’uso delle tavole dipinte aventi per soggetto principale il tema della Crocifissione, con la figura centrale di Cristo nell’atto del supremo sacrificio, alle cui estremità, orizzontali o verticali, sono raffigurati alcuni personaggi, come la madre Maria e l’apostolo ed evangelista Giovanni, o storie della vita di Gesù. Una prima tipologia di croce dipinta che si afferma è quella del Christus triumphans, secondo l’iconografia bizantina giunta in Occidente attraverso gli avori carolingi. Cristo è rappresentato trionfante, vincitore sulla morte, con il corpo eretto, privo dei segni della passione, e con gli occhi aperti, una figura solenne e maestosa che ne evidenzia la natura divina. Tra la fine del XII secolo e gli inizi successivo, si afferma, invece, la tipologia del Christus patiens. L’affresco della cripta è delimitato in alto da una grande cornice dipinta, in basso da un panneggio stilizzato a grosse fasce oblique. Il fulcro della composizione è costituita dall’immagine centrale di Cristo che divide simmetricamente la scena in due parti. Egli è rappresentato con la testa reclinata, gli occhi chiusi, il corpo abbandonato nella sofferenza e nella morte, una figura profondamente umanizzata e più vicina alla sensibilità e al coinvolgimento emotivo dei fedeli e che meglio permette di comprendere il Suo amore e il Suo sacrificio estremo per l’umanità. Sulla sinistra è presente il gruppo delle pie donne, dai volti addolorati, che sorreggono la Vergine accasciata e con le braccia protese verso il Figlio, mentre sulla destra, l’immagine deteriorata di S. Giovanni è affiancata da due figure maschili, probabilmente Giovanni d’Arimatea e Nicodemo, secondo i Vangeli. È presente un tentativo di resa prospettica della composizione attraverso le dimensioni minori di alcuni personaggi dipinti, a voler indicare la sovrapposizione di piani diversi su cui si articola la scena. Ai lati della croce sono ritratti i soldati, come Longino che trafigge il costato di Cristo, mentre nella parte superiore sono presenti quattro angeli, due in adorazione e due che raccolgono nelle coppe il sangue di Cristo che fuoriesce dalle mani e dal costato.

 

Nell’abside di destra un altro affresco raffigura un trittico di Santi inquadrati in archi a tutto sesto e separati da eleganti colonnine tortili: San Sisto Papa al centro, riconoscibile per l’abito e i paramenti liturgici, San Lorenzo a sinistra e un altro Santo pellegrino a destra. In entrambi gli affreschi sono purtroppo eventi le tracce di umidità e dominano le tonalità dei colori rossi, bianchi, gialli, bruni, che risaltano sui fondali scuri.

 

 

Bibliografia

Adorno P. e Mastrangelo A., Arte correnti e artisti, Casa editrice G. D’Anna 1998

 

Sitografia

La leggenda di Pietro Barlario, mago salernitano in www.irno24.it

www.lifeinsalerno.com

www.livesalerno.com

Mago Barliario a Salerno e la sua incredibile storia in www.salernodavedere.it


IL MUSEO “CITTÀ CREATIVA” DI OGLIARA

A cura di Rossella Di Lascio

 

“A Rufoli di Salerno esiste un paese

dove c’è molta buona argilla

che trasformata in terracotta

assume due caratteristiche invidiabili:

assume il colore incarnato di bambina

e il suono dolce e timbrico di campana.

In questo paese vi sono molte fornaci

che nel passato hanno dato lavoro alle

persone del luogo e fornito mattonelle

ai ceramisti di Vietri Sul Mare

che le hanno decorate con grazia

per adornare le chiese e le case.

Questo paese ha riscoperto la sua

vocazione a far ceramica e a

trasformare l’argilla in oggetti benedetti.

E’ importante in un progetto di

riqualificazione urbanistico e ambientale

riattivare tutte le fornaci e costruirne

altre nuove per artisti, vasai, piattai

che attratti dall’armonia

di esistenza felice potrebbero

scegliere questo luogo fertile per

viverci e lavorare”.

(Ugo Marano)

 

 

Introduzione

Il Museo “Città Creativa” nasce nel 1996 da un’idea degli assessori comunali Pasquale Persico e Carlo Cuomo come progetto di rilancio economico, sociale e culturale dell’antica tradizione artigianale del “cotto di Rufoli”, risalente al Medioevo. Il Museo, suddiviso in tre sale ed inaugurato l’8 marzo del 1997, ha sede in alcuni vecchi magazzini di proprietà del Comune di Rufoli di Ogliara, frazione collinare di Salerno di antica tradizione ceramica. Come testimoniano i reperti archeologici rinvenuti nell’area nord-est di Salerno, nelle frazioni di Fratte, Brignano, Ogliara, erano presenti cave d’argilla che favorirono, oltre lo stanziamento di un antico centro preromano a Fratte, anche produzioni ceramiche sin dal VI sec. a.C. L’estrazione e la lavorazione dell’argilla, di facile reperibilità e di notevole malleabilità, ha da sempre rappresentato una consolidata attività del territorio, per secoli alla base dell’edilizia locale, diventando la principale risorsa di un circuito economico essenzialmente agricolo. Ciò ha favorito la nascita, nel circondario di Rufoli, di un gran numero di fornaci, inizialmente specializzate nella produzione di oggetti di uso quotidiano (tegole, mattonelle, utensili e vasellame) e, dal XVI sec., in creazioni più elevate per qualità ed estetica. Purtroppo, nel tempo, l’artigianato della ceramica ha subito un progressivo processo di svuotamento e di esaurimento dell’inventiva, sopraffatto dallo sviluppo tecnologico, dai ritmi industriali sempre più veloci e in contrasto con i tempi lenti e sacrali dell’artigianato, dall’avvento dei laterizi, materiali edilizi più economici, che hanno sostituito i tradizionali mattoni in cotto. L’intento del Museo “Città Creativa” è reagire a questa crisi, innescando un’inversione di tendenza, per riappropriarsi dell’identità culturale e produttiva del sito, caratterizzata dalla presenza di antiche fornaci medievali. Il fine è quello di riscoprire Rufoli quale antica “terra-madre” da cui i vasai campani attingevano la materia prima per lavorarla e trasformarla in manufatto, incoraggiando così lo sviluppo della ceramica contemporanea. Il nome stesso pone il museo al confine tra la tradizione (Museo) e le esigenze espressive della contemporaneità (Città Creativa): da un lato, si presenta come un centro di documentazione, di esposizione e di valorizzazione della ceramica del territorio salernitano; dall’altro, come spazio di ricerca e di sperimentazione, dinamico ed innovativo, che ospita mostre temporanee, installazioni, concorsi, convegni incentrati sull’artigianato ceramico favorendo il dialogo e l’incontro tra gli operatori del settore, promuove il coinvolgimento della popolazione locale mediante una serie di iniziative e attività didattiche ed educative (corsi di ceramica, manifestazioni come “La scuola adotta un monumento”, visite guidate alle antiche fornaci a fascine) che consentono di avvicinare soprattutto le nuove generazioni alle antiche tradizioni della propria terra. Tra le iniziative, vi è quella promossa dall’associazione culturale “Humus” fin dal Maggio del 2001 e oggi giunta alla sua ventesima edizione, ossia “Piccoli e Grandi Artisti della Ceramica”. È questo un concorso rivolto a tutte le scuole di Salerno e provincia impegnate nella creazione di manufatti in ceramica, successivamente esposti al Museo e premiati, consentendo l’incontro tra le opere, il pubblico e il territorio e rendendo condivisa l’esperienza dell’arte.

 

Manifesto concorso “Piccoli e grandi artisti della ceramica”

 

Il ripristino delle vecchie fornaci si deve all’azienda di Carmine De Martino e dei suoi figli, presso cui le fornaci sono ubicate, l’unica a portare ancora avanti gli arcaici rituali della cottura a fuoco, altrove scomparsa. Nel 1979, le fornaci di Rufoli erano tutte chiuse da tempo e in stato di abbandono. Carmine De Martino, conoscendo i mercati e i luoghi dove il cotto veniva richiesto, propose la trasformazione della propria azienda, che non si sarebbe più limitata a vendere soltanto la materia prima, l’argilla, bensì mattonelle. Poco tempo dopo, fu acquistata la fornace attuale. Nasceva, così, una nuova impresa artigiana che, ancora oggi, opera nel mercato del cotto di qualità, specializzata nella produzione di mattonelle in cui si coniugano forme moderne e colori che riflettono le caratteristiche naturali dell’argilla e della cottura. I De Martino hanno il merito di preservare e trasmettere la conoscenza e l’uso di materiali e di tecniche tradizionali che altrimenti andrebbero persi, dimenticati. A loro va anche il merito di salvaguardare il valore culturale del rapporto con la materia e del lavoro manuale, come si evince dalla figura “superstite” dello scalpellino che rifinisce ogni mattonella a mano, in una dimensione artigianale ormai sempre più rara, sostituita dalla produzione meccanica e seriale.  L’azienda favorisce anche l’incontro tra la produzione locale e la creatività degli artisti che si recano a Rufoli, mettendo a loro disposizione un capannone, un locale/laboratorio indipendente contiguo alla fornace, in cui possono lavorare e trarre nuovi e continui stimoli dal contatto diretto con l’argilla locale, i luoghi, le persone. Il laboratorio svolge importanti lavori di intervento e di rilancio della città, non solo in termini di restauro, ma di creazione di nuove proposte per rinnovati spazi urbani. Infatti, partecipa ai processi di cambiamento, di costruzione della nuova identità della città, contribuisce a ridisegnarne la fisionomia e cerca di farsi interprete delle sue esigenze.

 

 

 

Bibliografia

Brochure “Museo Città Creativa”, maggio 2001, “Prima Edizione Piccoli e Grandi Artisti della Ceramica”, (a cura di) Associazione Humus.

Capriglione J., I musei della provincia di Salerno, Plectica Editrice s.a.s, Cava dei Tirreni 2002.

Marano U., Ipotesi teorica per un Museo della Ceramica Madre delle Arti, in Persico P., Identità e sviluppo: cronaca e metodologia di un cambiamento: Salerno e la città futura, Rufoli e la fontana felice, Pietro Laveglia Editore, Salerno 1997.

Mari M. R., Ragone E., Salvatore A., La ceramica artistica salernitana: proposte di innovazione e sviluppo, in CeramicArte. Convegno “CeramicArte: conoscenze e strumenti per l’innovazione nel comparto della ceramica artistica” (Salerno, 31 maggio - 1˚giugno 2001), Fondazione Salernitana Sichelgaita, Lancusi 2001.

Persico P., Identità e sviluppo: cronaca e metodologia di un cambiamento: Salerno e la città futura, Rufoli e la fontana felice, Pietro Laveglia Editore, Salerno 1997.

Progetto "Museo Città Creativa di Rufoli", Comune di Salerno Settore Affari Generali, Salerno 1996.

Regione Campania, Settore Musei e Biblioteche, La Storia Viva della Campania. Viaggio nei musei d'interesse regionale, supplemento a La Voce delle Voci, fascicolo 2, luglio/agosto 2009, Edizioni Comunica.

Taddeo G., Il museo città creativa, in Pagine Salernitane (Mensile di informazione e cultura di Salerno e Provincia), anno I, numero 9, novembre - dicembre 2004, Arti Grafiche Sud, Salerno.

Taddeo G., Da Rufoli Terra del Fuoco. Arte ed Imprenditoria, in Bollettino della Soprintendenza per i BAPPSAE di Salerno e Avellino, Paparo Edizioni, Napoli 2005.

Zuliani S., Effetto Museo. Arte, critica, educazione, Bruno Mondadori, Milano 2009.

 

Sitografia

Su YouTube è presente un breve video che illustra il lavoro alle fornaci

“La terracotta della Fornace De Martino, eccellenza fatta a mano”


LA CHIESA DI SAN GIORGIO A SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio

 

Introduzione

Nella chiesa di San Giorgio a Salerno domina l’impronta artistica di Angelo e Francesco Solimena. Qui ad Angelo viene assegnato uno dei suoi più importanti incarichi, risalente alla seconda metà del XVII sec.: con l’aiuto dei suoi collaboratori esegue gli affreschi delle Storie e i miracoli di San Benedetto, suddivisi in cinque pannelli, nella volta della navata e sulla controfacciata, figure allegoriche di Virtù  e coppie di Sante tra le finestre, la Passione di Cristo nel coro, il Paradiso nella cupola, gli Evangelisti nei pennacchi, Santi, Angeli musicanti e Putti nelle cappelle e le tele della Crocifissione e di San Benedetto alle testate del transetto. Allievo di Francesco Guarino, pittore di stampo naturalista, nelle sue opere recupera i valori di concretezza e tangibilità della passata tradizione naturalistica, che si evincono dalla dettagliata descrizione dei particolari e delle ambientazioni, dalle molteplici espressioni del volto, delle pose e della gestualità delle figure, dalla resa attenta dei corpi.

Il vero capolavoro di Angelo Solimena è La Visione dei Santi in Gloria del Paradiso o Paradiso Salernitano affrescato nella cupola della chiesa di San Giorgio, che si ispira a quello del parmense Lanfranco nella Cappella del Tesoro del Duomo di San Gennaro a Napoli del 1641.

In quest’opera, che risente maggiormente dell’influenza del figlio Francesco, emerge una nuova concezione illusionistica dello spazio, tipica dell’arte barocca. La cupola è concepita come una struttura dinamica in cui si muovono masse ruotanti di Santi, adagiati su soffici nuvole e dai gesti e dagli sguardi rivolti verso l’alto, culminanti, con un moto concentrico, nella figura centrale di Dio Padre. Il senso di dilatazione dello spazio sconfinato dei cieli è dato anche del diradarsi della densità delle nubi e dai contorni delle figure che, a mano a mano che ci si dirige verso l’alto, sembrano svanire, sfaldarsi nella luce intensa e diffusa, dalle vesti fluttuanti dei personaggi, dalle figure scorciate, dalla vivacità dei colori e dal complessivo dinamismo scenico. È un’opera capace di stimolare l’immaginazione e l’emotività del fruitore, che diventa attore e spettatore allo stesso tempo.

 

La Visione dei Santi in Gloria del Paradiso o Paradiso Salernitano nella chiesa di San Giorgio

Nella Cappella a sinistra della chiesa di San Giorgio a Salerno è invece presente uno dei primi cicli pittorici di Francesco Solimena, commissionatogli intorno al 1675 e dedicato alle vicende delle Sante Tecla, Susanna ed Archelaa. Purtroppo, a causa dell’umidità di cui è permeata la cappella, gli affreschi sono stati molto danneggiati, alcuni scomparsi ed altri difficilmente leggibili. Gli episodi principali raffigurano Le Sante condotte al martirio, l’apparizione di una delle tre Sante a suor Agneta e il loro Martirio.

Con questi affreschi il giovane Francesco comincia a distaccarsi dal tardomanierismo del padre Angelo per rivolgersi al nuovo stile barocco, guardando con interesse alla produzione pittorica di Mattia Preti, Pietro da Cortona, Lanfranco e Luca Giordano, ai quali si ispira  per le grandi composizioni ariose, scenografiche e dinamiche. Tuttavia, un certo interesse per le osservazioni naturalistiche del padre Angelo continua a riscontrarsi nella descrizione accurata di elementi paesaggistici e di architetture classiche, nella resa dei cavalli, delle muscolature dei carnefici, nelle descrizioni delle armi e dell’abbigliamento dei soldati, così come colpiscono la compostezza e la dignità delle Sante e delle composizioni nel loro complesso, seppur nei momenti estremi della condotta al martirio e del martirio stesso. Tuttavia, intorno al 1690, si assiste ad un cambiamento dello stile del Solimena che  Bernardo De Dominici, nelle sue Vite de pittori, scultori ed architetti napoletani, ha definito una “total variazione”, consistente nella precisione del disegno, nella bellezza e maestà nella resa dei panneggi, nella tenerezza del colore, nella grazia dei volti, nella nobiltà degli atteggiamenti e delle azioni, nella grandiosità delle composizioni, suscitando stupore ed ammirazione in chiunque osservi le sue opere. Il Solimena rivendica una pittura più razionale, meditata nella scelta dei colori e nella resa dei personaggi, dove la luce non contribuisce più allo sfaldamento delle forme, come avviene nel Giordano, e a creare drammaticità, ma viene calibrata con le tonalità scure, in modo da restituire sodezza plastica alle figure, giungendo alla resa di un “perfettissimo chiaroscuro”.

Egli torna a composizioni vaste alla chiarezza e concretezza formale, ad immagini sacre e profane di solenne monumentalità e compostezza classica.

La formula da lui elaborata, definita “solimenismo” e consistente nella fusione di rigore formale e compositivo con istanze di naturalezza ed intensità espressiva, avrà largo seguito.

Tali soluzioni si evidenziano maggiormente nella tela raffigurante San Michele che sconfigge gli angeli ribelli, nella chiesa di San Giorgio. L’Arcangelo Michele si contraddistingue per alcuni suoi tipici attributi iconografici, quali l’armatura e la spada, poiché nelle Sacre Scritture è identificato come l’angelo guerriero di Dio (Giuda 9) a capo dell’esercito celeste (Ap. 12:7), in perenne lotta contro il male. Il dipinto mostra San Michele nel momento in cui ha sconfitto gli angeli ribelli, rovinosamente precipitati verso il basso. La sua figura è posta in risalto, sia perché si staglia su di uno sfondo dorato e circondato da festosi putti alati che per l’armatura scintillante che indossa e lo svolazzante mantello di un rosso intenso che lo avvolge. Colpiscono la bellezza e la delicatezza di tratti del volto dell’Arcangelo e la serenità dello sguardo, consapevole di aver portato a termine la sua missione divina, ed il vigore dei corpi e della muscolatura dettagliatamente definiti degli angeli ribelli, dovuti alla resa di un sapiente chiaroscuro.

San Michele sconfigge gli angeli ribelli (olio su tela, 1690 - 1695).

Alle spalle dell’altare maggiore, la chiesa di San Giorgio continua nella vasta sagrestia, coperta con volta a botte, decorata da elementi in stucco e affrescata da Michele Ricciardi con

La Vergine che dà la pianeta a Sant’Idelfonso. Discendente da una potente famiglia romana a Toledo, Sant’Ildefonso, anziché dedicarsi alla carriera, preferì la vita ecclesiastica, rifugiandosi nel monastero dei Santi Cosma e Damiano, vicino Toledo, e consacrandosi alla preghiera, agli studi e alla composizione di testi. La sua devozione a Maria fu tale che si narra che il 15 Agosto del 660 la Vergine gli apparve nel presbiterio della cattedrale e gli consegnò una preziosa pianeta. Per questo motivo, il suo nome è sempre legato a quello della Vergine ed è sempre raffigurato accanto a Lei. Nell’affresco, Sant’Ildefonso è inginocchiato in basso a sinistra nell’atto di ricevere dalla Vergine una pianeta finemente decorata che appare leggera e che quasi scivola via, come priva di consistenza materica. In primo piano a destra si dispone, invece, l’Eresia, raffigurata come una vecchia dall’aspetto miserabile e dalle carni dilaniate, secondo i dettami dell’ “Iconologia” di Cesare Ripa. In alto la Vergine, alle cui spalle si colloca un devoto San Benedetto in atteggiamento orante (la cui presenza serve forse a ricordare le origini benedettine del monastero), è assisa su di una sorta di trono fatto di nuvole soffici e impalpabili, da cui si affacciano dei vivaci e giocosi putti. In un piano arretrato si inseriscono, intravedendosi, due anziani spettatori affascinati ed increduli allo stesso tempo dinnanzi all’apparizione celeste della Vergine. Il segno si presenta fluido, morbido, nella resa delle figure, mentre la luce calda e dorata accentua i contrasti cromatici: spiccano il nero dell’abito del Santo, il manto azzurro della Vergine e il rosa cangiante del panno che copre le nudità dell’Eresia. La presenza del tendaggio verde scostato in alto a sinistra conferisce un tono teatrale alla rappresentazione che, più che alla visione di un evento sacro, miracoloso, introduce ad una sorta di spettacolo di corte. Sono presenti elementi tipici delle rappresentazioni mariane del Ricciardi, quali l’impianto piramidale della Sacra conversazione con i Santi ai piedi della Madonna, l’aspetto giovanile ed aggraziato di Maria, colta in atteggiamenti di estrema umiltà ed affabilità nel dialogare con i Santi in adorazione, ricorrendo ad un intenso scambio di sguardi, e l’ambientazione di impronta classicheggiante (sullo sfondo a sinistra si nota una colonna dall’alto basamento).

Sant’Ildefonso riceve la pianeta dalla Vergine (affresco, 1706 - 08 circa).

 

Bibliografia

Bologna F., Francesco Solimena, Napoli 1958

Braca A., La pittura del Sei - Settecento nell’Agro Nocerino Sarnese: il Seicento, in Architettura ed opere d’arte nella Valle del Sarno, Salerno 2005

Mancini T., Michele Ricciardi. Vita e opere di un pittore campano del Settecento, Napoli 2003

Spinosa N., Spazio infinito e decorazione barocca, in Storia dell’Arte Italiana, 6/I, Torino 1981

Spinosa N., Pittura napoletana del Settecento dal Barocco al Rococò, Napoli 1986

 

Sitografia

www.ambientesa.beniculturali.it


SAN GIORGIO A SALERNO - PRIMA PARTE

A cura di Rossella di Lascio

Introduzione: storia del complesso monastico di San Giorgio a Salerno

San Giorgio, a cui appartiene l’omonima chiesa, è uno dei più antichi complessi monastici della città di Salerno, di epoca longobarda, la cui influenza culturale si ravvisa anche dalla scelta della dedicazione alla figura di un Santo guerriero.

Le prime notizie certe risalgono ad un diploma dell’819 in cui si menziona  una “cella Sancti Georgi infra salernitanam civitatem”, dipendente dal Monastero Benedettino di San Vincenzo al Volturno. Si tratta, in origine, di un semplice insediamento di piccole dimensioni, successivamente ampliatosi in una vera e propria struttura monastica, passando, nel 1163, alla dipendenza dell’Arcivescovo di Salerno. Diventato monastero femminile nel 1309, accoglie le fanciulle delle famiglie facoltose della città destinate alla vita monastica. Negli ultimi decenni del XVI secolo, con il Breve di Papa Sisto V, i monasteri femminili della città vengono unificati secondo l’Ordine di appartenenza e a San Giorgio confluiscono tutte le monache benedettine di Santa Sofia, San Michele e Santa Maria Maddalena. Nel 1590 il maestro fabbricatore Giovan Bernardino Iovane avvia i lavori di ammodernamento del complesso, intitolato a San Giorgio e al Santo Spirito, completati nel 1674, che hanno conferito l’impronta tipicamente barocca alla chiesa. Non molti anni dopo, a causa di gravi problemi di dissesto dell’intera struttura, si rendono necessari nuovi lavori di consolidamento ed ampliamento, il cui progetto è affidato nel 1711 all’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice.  Il monastero è soppresso agli inizi dell’800 in seguito ai decreti napoleonici, mentre la sua chiusura definitiva avviene dopo l’Unità d’Italia, nel 1866.

Resta solo la chiesa, affidata alla municipalità nel 1869, mentre le strutture monastiche vengono adibite a caserme della Guardia di Finanza a nord e dell’Arma dei Carabinieri a sud. La chiesa è stata ceduta alla Confraternita del Purgatorio nel 1874 e poi passata ai Padri Domenicani nel 1960.

San Giorgio a Salerno: gli esterni

L’ingresso della chiesa passa quasi inosservato, poiché semplice e lineare, posto tra i portali che ospitano le due caserme. Al centro si apre un portone incorniciato da un portale di marmo disadorno, mentre sulle due pareti laterali si dispongono due sottili pannelli rettangolari decorati da delicati ed eleganti fregi in stucco, motivi che si ritrovano anche sullo stesso portone. Nella parte superiore, in un riquadro rettangolare sempre in stucco e decorato con motivi vegetali, è posto un tondo circondato da una sorta di ghirlanda di fiori e foglie intrecciati in cui è raffigurata la classica immagine di San Giorgio come cavaliere nell’atto di uccidere il drago, che nel Medioevo incarna il simbolo della lotta del bene contro il male.

L’atrio

Dal portale esterno si accede ad un vestibolo rettangolare, diviso in due parti da un arco a tutto sesto poggiante su due possenti pilastri.

Un primo atrio, di gusto neoclassico, è coperto con volta a botte, sulla cui destra si apre una cappella. Qui è ancora visibile un portale di marmo, oggi murato, che permetteva di accedere ad un locale, probabilmente il parlatorio delle monache.

Il secondo atrio è coperto da una volta a crociera con decorazioni in stucco.

Sulla parete sinistra si apre una finestra semicircolare sotto la quale vi è una nicchia che custodisce tre statue lignee a mezzo busto raffiguranti le Sante Tecla, Susanna e Archelaa, realizzate dallo scultore Nicola Fumo di Baronissi su commissione delle monache di San Giorgio nel 1687. Ai piedi delle statue sono esposte ai fedeli le ossa delle tre Sante, raccolte in un ossario di cristallo.

Secondo la tradizione, le tre Sante furono martirizzate durante le persecuzioni di Diocleziano. Prima sottoposte a torture e supplizi vari a Salerno, per volere di Leonzio, proconsole della Campania, furono poi uccise a colpi di spada vicino Nola nel 293 d.C. In seguito ad una rivelazione divina ricevuta da una suora del monastero su dove si trovassero le loro reliquie, da Nola furono traslate a San Giorgio a Salerno. Un tempo le tre statue erano portate in processione nel giorno dedicato a San Matteo, patrono della città, e perciò note come “le sorelle di San Matteo”.

Il portale

Alla chiesa vera e propria si accede da un portale in pietra di epoca rinascimentale, commissionato dalla badessa Lucrezia Santomagno, che colpisce per i suoi raffinati battenti in legno di un intenso colore verde oliva ed i fregi dorati.

 

Gli interni di San Giorgio a Salerno 

La chiesa presenta una navata unica a croce latina coperta da una volta a botte completamente affrescata, munita di quattro cappelle laterali. All’incrocio tra la navata ed il transetto rettangolare, su cui si aprono altre due cappelle, si innalza la cupola, anch’essa affrescata, mentre dietro l’altare maggiore si trova l’attuale sacrestia coperta con volta a botte ed impreziosita da elementi decorativi in stucco, che sostituisce il coro, chiuso nel 1702.

L’interno costituisce il vero cuore barocco e la vera sorpresa della chiesa, capace di suscitare profondo stupore ed ammirazione nello spettatore, dovuto alla straordinaria ricchezza, sfarzosità e luminosità dei suoi numerosi ornamenti in marmi policromi pregiati, pietre preziose, fastosi stucchi dorati, capitelli corinzi e cornici finemente lavorati. E ancora, la chiesa custodisce affreschi e dipinti su tela a tema sacro, opere di grandi pittori del XVII e XVIII sec., come Andrea Sabatini, Giacinto De Populi, Angelo e Francesco Solimena, Giovanni Battista Lama, Paolo De Matteis, Michele Ricciardi.

Particolare di un altare scolpito.

Le quattro cappelle laterali ospitano altari scolpiti in marmi policromi con motivi vegetali a foglie e rami, ricorrenti anche lungo le pareti.

In particolare, nella cappella alla destra dell’altare maggiore è collocato un raffinato pulpito seicentesco in legno minuziosamente intagliato che si innalza su quattro slanciate colonnine sostenute a loro volta da quattro leoni poggianti ognuno su un piccolo ripiano rettangolare.

L’altare maggiore, attribuito ai maestri carraresi Pietro e Bartolomeo Ghetti, è realizzato con marmi policromi, impreziosito da inserti di pietre preziose e madreperle e da rilievi in marmo bianco raffiguranti teste di putti alati e San Giorgio che uccide il drago.

Decollazione di San Giorgio.

Dietro l’altare è posta la tela centrale raffigurante il momento del martirio del Santo, ossia la Decollazione di San Giorgio del XVII secolo.

La chiesa nella chiesa

Il pavimento è rivestito di piastrelle maiolicate decorate a foglie d’acanto, piccoli fiori e un motivo geometrico a micro - scacchiera bianca e nera, sotto il quale si cela un segreto custodito da secoli.

Pavimento in maioliche.

Infatti, sotto il pavimento dell’attuale edificio, si conserva l’originario nucleo longobardo, rivelato da un meccanismo che permette l’apertura di cinque botole disposte lungo la navata. Quello che si presenta agli occhi è uno spettacolo suggestivo, capace di suscitare un’emozione indescrivibile: con l’apertura del pavimento torna alla luce un pezzo di storia, del passato della città, ancora così vivido ed attuale. Si tratta di un’abside affrescata con colori come l’ocra, il nero, il rosso.

Nella parte superiore è presente un motivo geometrico a treccia, nella parte inferiore una teoria di Santi. Il meccanismo è stato realizzato negli anni ‘80 del secolo scorso, in occasione dei restauri eseguiti dopo il terremoto dell’Irpinia, ma da allora rimasto quasi del tutto inutilizzato. Il suo recupero è stato possibile in tempi recenti grazie agli studi e alle ricerche dell’archeologo salernitano Luca Gualdi[1].

 

 

Note

[1] Per vedere l’apertura delle botole ed ammirare l’abside affrescata potete collegarvi su Youtube e cercare il video

“Il segreto della Chiesa di San Giorgio, a Salerno” di VideoTeca FDS.

 

Sitografia

www.arcansalerno.com

www.beniculturali.it

www.famedisud.it

www.lifeinsalerno.com

www.livesalerno.com

www.salernodavedere.it

www.salernotoday.it

www.santiebeati.it


LA CAPPELLA DI SAN LUDOVICO A SALERNO

A cura di Rossella di Lascio

La Cappella di San Ludovico: arte gotica a Salerno

Vicende storiche dell’Archivio di Stato

Nel cuore del centro storico di Salerno, in Piazza Abate Conforti, sorge l’Archivio di Stato. L’Archivio è situato nei locali di un antico palazzo gentilizio: atti notarili testimoniano la sua appartenenza, nel XV secolo, prima alla famiglia Della Porta, che dopo essere stata accusata di reati insurrezionali subì la confisca dei propri beni da parte di Roberto Sanseverino, Principe di Salerno, e poi alla famiglia Guarna.

In epoca aragonese fu adibito a Regia Udienza, ossia una magistratura con competenze giudiziarie, amministrative e militari, mentre in epoca napoleonica divenne Tribunale di Prima istanza e della Gran Corte Criminale con funzioni, rispettivamente, in campo civile e penale, mantenendo questo ruolo sotto i Borbone e ancora dopo l’Unità del Regno d’Italia. Nel 1934, gli uffici giudiziari si trasferirono nel nuovo Palazzo di Giustizia sul corso Vittorio Emanuele e l’edificio divenne sede dell’Archivio Provinciale, poi Archivio di Stato. Durante importanti lavori di restauro che hanno interessato l’edificio agli inizi del XXI secolo, in un ambiente a pianterreno conosciuto come “ex farmacia” in quanto usato come farmacia comunale agli inizi del ‘900 e, in seguito, deposito della documentazione archivistica, è stata riscoperta quella che un tempo era una cappella gentilizia e che versava, purtroppo, in grave stato di decadenza.

Grazie a lavori di ristrutturazione, presieduti dall’architetto Giovanni Villani, la cappella è stata recuperata e riaperta nell’aprile del 2009, ed oggi si presenta come una preziosa testimonianza di arte gotica a Salerno.

 

La Cappella di San Ludovico

L’impronta tipicamente gotica della cappella si evince dalla sua architettura: una navata unica coperta da volte a crociera e arcate ogivali che conferiscono slancio alla costruzione, la presenza di eleganti colonne tortili, la suggestione profonda del cielo stellato dipinto sulle volte a crociera, un motivo ricorrente anche di altre illustri opere, come la Cappella Scrovegni di Giotto a Padova o la prima decorazione della volta della Cappella Sistina di Piermatteo d’Amelia a Roma.

Particolare della colonna tortile.

 

 

Lungo la parete destra della cappella sono state rinvenute una serie di nicchie decorate con motivi figurativi, geometrici e tracce cromatiche, alcune ancora parzialmente visibili.

Tracce cromatiche e decorative nelle nicchie.

Tracce cromatiche sono riscontrabili anche sulle colonne collocate nella parete sinistra.

Particolare di una colonna recante tracce cromatiche.

L’affresco di San Ludovico

Una delle nicchie ospita un affresco raffigurante San Ludovico d’Angiò, da cui deriva il nome della Cappella, di artista anonimo, risalente al XIV sec.

San Ludovico visse nella seconda metà del XIII secolo ed era il figlio secondogenito di Carlo II lo Zoppo e di Maria d’Ungheria. Alla morte del fratello maggiore, Carlo Martello, rinunciò al trono di Napoli e delle contee d’Angiò e di Provenza a favore del fratello minore Roberto per abbracciare la vita religiosa, aderendo all’ordine francescano. Condusse uno stile di vita improntato alle regole di povertà francescana, prodigandosi a favore dei poveri, dei malati, degli emarginati e dei carcerati. Consacrato vescovo di Tolosa nel 1296 da Bonifacio VIII, morì di tubercolosi l’anno seguente giovanissimo, a soli 23 anni, e fu proclamato Santo nel 1317 da Giovanni XXII.

San Ludovico è inserito in una sorta di edicola di chiara impronta gotica, sormontata da un timpano triangolare alle cui estremità sono collocati i gigli angioini e con l’apertura centrale di un rosone dai motivi finemente intrecciati, elemento tipico delle cattedrali gotiche francesi. Il Santo è seduto su una cattedra episcopale in posizione frontale e in atto benedicente. Indossa la mitra episcopale e la veste talare, sotto la quale si nota il semplice saio francescano, di colore marrone.

Sono evidenti i richiami alla cultura decorativa senese e alla pittura francese del Trecento per l’attenzione e la cura nella resa dei dettagli, nell’eleganza complessiva della composizione, nei tratti e nell’espressione dolci e delicati del volto del Santo, per la predilezione della componente coloristica rispetto agli elementi più propriamente figurativi.

Il culto di questo Santo francese e, dunque, la presenza di una politica filoangioina in territorio campano e salernitano, in particolare, è testimoniato anche dal trittico ligneo raffigurante La Madonna con Bambino in trono tra S. Francesco, S. Antonio da Padova, S. Bernardino da Siena e San Ludovico d’Angiò, attribuita all’anonimo “Maestro dell’Incoronazione di Eboli”. Proveniente dal monastero salernitano di Piantanova, è databile all’inizio della seconda metà del XV secolo, e custodito nella Pinacoteca Provinciale cittadina.

San Ludovico, sulla destra, si riconosce perché presenta i tipici paramenti vescovili, mitra e pastorale, e un prezioso mantello decorato con gigli angioini, sotto il quale, però, indossa il semplice saio francescano ed è scalzo, segni dei valori di povertà ed umiltà a cui egli aveva aderito, rinunciando al potere e al suo ruolo di sovrano.

Trittico ligneo, “Madonna con Bambino in trono tra S. Francesco, S. Antonio da Padova, S. Bernardino da Siena e San Ludovico d’Angiò”, Maestro dell’Incoronazione di Eboli (seconda metà del XV secolo), Pinacoteca Provinciale di Salerno.

Confronto tra l’affresco di San Ludovico e la tavola di Simone Martini

San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò, Simone Martini (1317), Tempera su tavola, Museo Nazionale di Capodimonte Napoli.

L’affresco salernitano presenta un’impostazione molto vicina ad una tavola dipinta del pittore senese Simone Martini raffigurante San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d'Angiò, commissionatagli dal sovrano nel 1317 ed oggi conservata al Museo Nazionale di Capodimonte. Quest’ultima presenta una più evidente impronta bizantina per la ieraticità della figura frontale, la severità dello sguardo, la ricchezza delle vesti e dei paramenti religiosi, lo sfondo ancora dorato che richiama una dimensione divina, trascendente, le proporzioni simboliche delle figure, diverse a seconda della loro importanza.  La figura di San Ludovico è predominante rispetto agli angeli che gli pongono la corona sul capo e al fratello Roberto che si inginocchia ai suoi piedi per essere incoronato da lui e, dunque, legittimato al potere.

Nell’opera salernitana si evince un tentativo di impostazione prospettica nella resa della struttura architettonica in cui si inserisce il Santo ed un accenno di spazialità dovuta alle aperture delle arcate che lasciano intravedere lo sfondo azzurro retrostante.

 

Stato attuale

Attualmente la cappella, dotata di accesso autonomo, è aperta al pubblico e visitabile gratuitamente durante gli orari di apertura dell’Archivio.

Ospita una piccola collezione di reperti della Seconda Guerra Mondiale e, periodicamente, interessanti mostre bibliografiche e documentarie.

 

 

 

Sitografia

www.arcansalerno.com

www.archiviodistatosalerno.beniculturali.it

Alla scoperta della Cappella di S. Ludovico dell’Archivio di Stato di Salerno

in www.asalerno.it

Magliano D., La Cappella di San Ludovico: un gioiello di arte gotica a Salerno

in www.salernonews24.com

Pecci G., Il piccolo tesoro medioevale nascosto all’Archivio di Stato

in www.lacittàdisalerno.it.


LA CHIESA DI SANTA MARIA DE LAMA

A cura di Rossella Di Lascio

 

Santa Maria de Lama: introduzione

Santa Maria de Lama è una delle più antiche chiese di Salerno, dedicata alla Madonna della Lama, datata tra la fine del X e gli inizi del XI sec., dunque di epoca longobarda. Si trova nel centro storico cittadino, lungo Via Tasso, e a cui si giunge percorrendo i cosiddetti “gradoni della lama”.

Il toponimo “lama” si riferisce alla presenza nella zona di un torrente che ancora oggi scorre davanti all’edificio, sotto il livello stradale.

Di probabile fondazione nobiliare, le prime testimonianze della sua esistenza risalgono al 1055. Nel corso del XIII sec., probabilmente a causa di un terremoto o di un’inondazione, l’edificio subisce profonde modifiche che portano alla costruzione di una nuova chiesa nella parte superiore, con la pianta rivolta ad ovest, mentre quella originaria diventa una cripta, successivamente sigillata per assumere la funzione di sepolcreto. 

La chiesa superiore: descrizione degli esterni

La chiesa superiore è stata restaurata in stile barocco nel XVII sec., perdendo quasi tutti gli affreschi e i mosaici originari. Al Seicento risale anche il campanile che affianca la facciata, la cui mole è alleggerita dall’apertura di monofore.

Quest’ultima, semplice ed essenziale, presenta, nella parte inferiore, un portale rettangolare a cui si accede mediante gradini semicircolari e, nella parte superiore, due monofore ogivali laterali e un oculo centrale.

Chiesa e Campanile di Santa Maria de Lama.

La chiesa superiore: descrizione degli interni

L’interno presenta un impianto basilicale a pianta rettangolare, sormontato da capriate lignee, divisa in tre navate da due file di colonne di spoglio romane su cui si impostano altrettanti capitelli misti.

Le colonne dovevano essere decorate con affreschi, di cui oggi restano solo alcune lievi tracce cromatiche, ad eccezione di due colonne sul lato destro, su cui è ancora possibile ammirare le due figure, un Cristo portacroce e una figura femminile che sorregge una lanterna accesa, probabilmente la Maddalena, orientativamente datati tra il XIV- metà XV sec.

Colonna raffigurante la Maddalena.

Della Maddalena spiccano i lunghi e fluenti capelli biondi e le mani dalle dita affusolate, mentre della figura di Cristo, meglio conservata, colpiscono la delicatezza dei lineamenti del suo volto, l’intensità e la pacatezza del suo sguardo e la docilità che esprime nel semplice gesto di abbracciare la sua croce.

L’eleganza complessiva delle figure e dei loro lineamenti, i colori vividi, il blu dello sfondo richiamano la pittura senese.

Colonna raffigurante Cristo portacroce.

Santa Maria de Lama. La chiesa inferiore e il primo ciclo di affreschi (X - XI sec.)

La chiesa originaria, attualmente corrispondente alla cripta, sorge sui resti di un edificio di età romana, un impianto termale datato al II sec. d. C., di cui restano ancora visibili alcune tracce di muratura in opus reticulatum e opus listatum. Presenta una pianta rettangolare divisa in due navate da tre colonne centrali e coperta da otto volte a crociera: la navata destra termina con un’abside circolare affrescata con la figura di Santo Stefano, mentre quella di sinistra con un’abside rettangolare recante tracce di affreschi con eleganti decorazioni a girali. Sul lato settentrionale, si apre uno spazio curvo che si ritiene possa essere l’abside di un primo nucleo della chiesa a pianta quadrata, orientato sull’asse N-S.

È questo il cuore pulsante dell’intero complesso, in cui è possibile ammirare due interessanti cicli di affreschi, il primo dei quali datato tra la seconda metà del X e i primi anni dell’XI sec. Ciò significa che ci troviamo di fronte a preziosissime testimonianze di pittura longobarda, le uniche presenti in città.

Il ciclo pittorico prevedeva una teoria di Santi raffigurati in piedi, dall’impostazione frontale e dall’aspetto ieratico, inquadrati da cornici rettangolari costituite da fasce bicolori. Due figure sono meglio conservate e riconoscibili, grazie alla presenza di resti di iscrizioni che ne consentono la sicura identificazione: San Bartolomeo e Sant’Andrea.

Dettaglio dell’affresco raffigurante San Bartolomeo.

San Bartolomeo si presenta come un uomo maturo, il cui viso, di forma ovale, è incorniciato dalla barba bianca terminante a due punte e da una capigliatura riccioluta bianca. Indossa un semplice abito e un mantello di colore chiaro, ha la mano destra benedicente, in cui unisce pollice e mignolo, mentre con la sinistra, velata dal mantello, regge un elegante volume chiuso e impreziosito da una croce gemmata.

Dettaglio dell’affresco raffigurante Sant’Andrea.

Sant’Andrea è il patrono di Amalfi e ciò testimonia la presenza a Salerno di una comunità amalfitana, che si ritiene frequentasse la chiesa. Gli amalfitani furono deportati in città dai Longobardi, per volere del principe Sicardo, in modo da potenziare o avviare lo sviluppo commerciale della città.

Anche Sant’Andrea ha il volto ovale incorniciato da una capigliatura riccioluta e dalla barba a due punte, ma ha un aspetto più giovane di San Bartolomeo; la mano destra è aperta e benedicente, mentre la sinistra sorregge una sottile e preziosa croce gemmata.

I tratti, i lineamenti dei volti, la resa stessa delle figure, dei dettagli degli ornamenti, degli abiti e delle pieghe delle vesti sono resi mediante l’impiego di marcate linee scure.

Ancora oggi colpiscono i colori che, originariamente, si presentavano più intensi, e la fissità dei volti dei personaggi, di cui risaltano gli occhi grandi e rotondi. 

 

La chiesa inferiore: il secondo ciclo di affreschi (XIII - XV sec.)

Il secondo ciclo pittorico risale, invece, al XIII-XV sec. Anche qui doveva essere presente una teoria di Santi, sempre racchiusi entro cornici rettangolari bicolori.

Affresco di Santo Stefano.

Nell’abside semicircolare, che si apre lungo il muro est, si riconosce la figura di Santo Stefano, identificabile dalla scritta SCS STEPHANUS posta ai lati dell’aureola.

Dall’aspetto giovane, imberbe e dai lineamenti delicati, è seduto su di un trono, con la mano sinistra reggente un libro e la destra aperta in atteggiamento di saluto.

L’eleganza della figura è data dal raffinato abito ricamato che indossa e da un motivo di perline bianche che decora l’aureola e la cornice che lo inquadra.

Affresco di San Leonardo.

Sull’ultimo pilastro del muro sud si staglia un giovane santo imberbe, vestito da monaco e con il capo coperto dalla cocolla, recante nella mano sinistra una catena spezzata, mentre la destra è in atto benedicente. Tale figura era stata inizialmente identificata con Santa Radegonda, ma si ritiene possa trattarsi di un personaggio maschile, probabilmente San Leonardo. L’iconografia ritrae solitamente San Leonardo con l’abito nero e bianco dell’ordine benedettino e con le catene spezzate, in quanto considerato patrono dei carcerati per aver spesso intercesso in favore dei prigionieri. Inoltre, il culto per San Leonardo, a differenza di quello per Santa Radegonda, è attestato in zona dalla fondazione di un convento cistercense dedicato a San Leonardo.

In questo secondo ciclo di affreschi è possibile notare un maggiore gioco tra luci ed ombre che conferisce senso plastico alle figure, come nel caso di Santo Stefano in trono, di cui si accenna alla volumetria delle ginocchia.

 

Santa Maria de Lama: stato attuale

Allo stato attuale, purtroppo, gli affreschi sono molto danneggiati a causa dell’umidità, delle infiltrazioni d’acqua e dei cambiamenti climatici verificatisi nel corso degli anni, perciò si auspica in un intervento tempestivo di restauro e conservazione, per evitare in futuro la perdita totale di questo patrimonio.

Il complesso di Santa Maria de Lama è stato lasciato in uno stato di abbandono e di chiusura dopo il terribile terremoto del 1980. I lavori di restauro sono stati avviati dagli anni Novanta, ma è solo di recente che è tornato a nuova vita, grazie all’opera del Touring Club di Salerno che l’ha preso in gestione dal 2015, consentendone l’apertura ai visitatori e ai cittadini ogni fine settimana, dalle ore 10 alle ore 13.

Il complesso è oggi accessibile anche ai disabili, grazie ad un sistema di passerelle per i disabili motori e al progetto “Accessibilità all’arte”, messo a punto dal 2018, grazie all’opera del giovane e brillante ricercatore e matematico salernitano Michele Mele.

Impiegando tecnologie che sfruttano un particolare sistema di algoritmi, tra l’altro già sperimentati con successo in Gran Bretagna, è stato realizzato un album per ipovedenti e non vedenti, contenente immagini a rilievo di alcune delle opere più significative del complesso su speciali fogli di polimeri che riproducono le immagini tattili bidimensionali degli affreschi, affiancati da didascalie in braille.

I visitatori possono, così, sfogliare l’album, “toccare con mano” le opere, e, al contempo, ascoltare la spiegazione della guida.

Infine, la chiesa superiore ospita periodicamente giornate di studio, concerti musicali, presentazioni di libri, rievocazioni in costume, che ne fanno un polo di attrazione culturale.

 

Sitografia

La chiesa di S. Maria de Lama a cura di Paola Valitutti e Barbara Visentin

www.livesalerno.com

www.ambientesa.beniculturali.it

Speranza D., Michele, il matematico che aiuta i ciechi a vedere l’arte: “La disabilità è chance” in www.ilmattino.it

D’Amico P., Michele, il matematico ipovedente “I miei algoritmi abbattono barriere” in www.corriere.it


SAN GIOVANNI BATTISTA A VIETRI SUL MARE

A cura di Rossella Di Lascio

 

Il Duomo di Vietri sul Mare, dedicato a San Giovanni Battista, è situato nel punto più alto del centro storico della cittadina. Fondato nel X secolo come chiesa privata, fu poi ricostruito dopo essere stato distrutto dai Saraceni, e, nel corso dei secoli, è stato rimaneggiato secondo più stili, in particolare romanico, rinascimentale e barocco. 

Veduta panoramica di Vietri sul Mare e del Duomo di San Giovanni Battista.

 Gli esterni del Duomo di Vietri sul Mare

La facciata, in stile tardorinascimentale, opera del cavense Matteo Vitale, si ispira all’area toscana della scuola di Giovanni Donadio, detto “il Mormando”.

Presenta un aspetto plastico, dovuto sia al gioco di chiaroscuro creato dall’uso di pietre chiare (come il piperno della base della chiesa) e della pietra di tufo nero di Fiano (usato per i timpani, le cornici e le lesene) sia alla scansione delle superfici mediante l’impiego di lesene, sormontate da capitelli ionici nella parte inferiore e corinzi in quella superiore, di cornicioni aggettanti e dentellati che separano e delimitano le superfici e di nicchie laterali.

Nella parte inferiore si apre il grande portale centrale sormontato da timpano e inquadrato da due colonne con capitelli corinzi, mentre la parte superiore ospita una cornice centrale e quadrangolare entro cui si dispone un pannello di ceramica dalla gamma cromatica vivace, di cui spiccano soprattutto l’azzurro e il giallo intenso. Risalente al 1946, raffigura San Giovanni Battista, alle cui spalle risalta il panorama della cittadina di Vietri, di cui è patrono, e che sostituisce un rosone distrutto da una granata della Seconda Guerra Mondiale.

La facciata è completata da un timpano con al centro un bassorilievo tondeggiante che rappresenta l’Agnello, simbolo di Cristo.

Sul lato sinistro della facciata svetta l’alto campanile, di circa 36,5 m, composto da sei ordini dalle delicate tonalità cromatiche, i quattro inferiori di pianta quadrata e i due superiori di pianta esagonale, sopra i quali si imposta una piccola cupola a sesto rialzato, in maiolica, i cui colori rimandano a quelli della cupola.

La cupola.

 

Certamente l’elemento distintivo della chiesa e uno dei principali simboli di Vietri è l’imponente, luminosa e colorata cupola. Innalzata agli inizi del XVII sulla crociera del transetto, è stata poi ricoperta nel 1902 con embrici maiolicati di produzione locale, di colore verde, giallo e azzurro. Si tratta di elementi di tipica influenza araba, introdotti in Europa attraverso la conquista della Spagna, e comuni a tutta l’area del Mediterraneo. A partire dal Cinquecento, infatti, si diffonde l’uso di maioliche policrome nei rivestimenti delle cupole delle chiese, per le loro caratteristiche di brillantezza, di resistenza nel corso del tempo e di elevato valore estetico, in quanto capaci di creare un effetto di slancio verso l’alto, di leggerezza e di eleganza.

Gli interni di San Giovanni Battista

La chiesa presenta una pianta a croce latina e a una navata, un profondo transetto e cappelle laterali.

La navata, rivestita da eleganti stucchi, è scandita ritmicamente da un’alternanza di paraste e arcate a tutto sesto, entro le quali si inserisce una serie di statue sacre ed opere di pregio, ed è sormontata da una slanciata trabeazione. La parte superiore, invece, presenta una successione di finestre rettangolari inquadrate da paraste addossate alla muratura. Il pavimento, risalente agli anni ‘50 del Novecento, sostituisce il più antico pavimento ottocentesco in ceramica, ed è a quadroni di marmo bianco e nero disposti in forma romboidale.

Particolare del soffitto a cassettoni in oro zecchino.

Il soffitto a cassettoni in oro zecchino, datato al XVII secolo, è costituito da quindici cornici decorate con motivi floreali dorati su fondo azzurro che, originariamente, racchiudevano quindici quadri ad olio riguardanti i principali episodi della vita di San Giovanni Battista, purtroppo persi. Attualmente sono poste alcune copie, in attesa della realizzazione di nuove tele sulla vita del Battista.

La cantoria.

In controfacciata, è presente la cantoria con balaustra finemente lavorata, i cui colori, azzurro ed oro, e i motivi decorativi rinviano al soffitto a cassettoni.

Sull’altare maggiore, realizzato in raffinate tarsie marmoree e alle cui estremità si dispongono due candidi e teneri putti alati, si innalza il busto reliquiario di San Giovanni Battista. Alle sue spalle, la pala d’altare raffigura, in alto, la Vergine con il Bambino, immersa in una calda atmosfera dorata ed adorata dai Santi Giovanni ed Irene, avvolti da ampie vesti e panneggi, opera del pittore vietrese Pietro De Rosa del 1732. Il busto di San Giovanni, portato in processione per le vie della cittadina il 21 Giugno e il 29 Agosto di ogni anno[1], è fatto di legno ricoperto di foglie d’argento ed è datato al 1808. Di autore ignoto, è un rifacimento del primo busto della fine del Settecento, trafugato dai soldati francesi.

Nel basamento riccamente lavorato, è ricavato un piccolo oculo centrale che custodisce una reliquia del Santo.

Polittico della Madonna del latte.

Una delle opere più preziose presenti nella chiesa è sicuramente un polittico attribuito ad Andrea Sabatini da Salerno, risalente al XVI secolo e raffigurante “La Madonna del Latte”. Si tratta di una tempera su tavola costituita da una pala centrale e due pannelli laterali, sormontati da una cimasa e due lunette laterali, e completati da una predella nella parte inferiore. La pala centrale mostra la Madonna in trono che allatta il Bambino, mentre nei due pannelli laterali si dispongono San Giovanni Battista e Sant’Andrea, riconoscibili dai loro attributi icnografici, che, per il Battista, corrispondono ad una croce lunga ed esile e al tipico cartiglio con la scritta evangelica “Ecce Agnus Dei” (“Ecco l’Agnello di Dio”) che si ricollega alla figura dell’agnello che lo accompagna, simbolo del sacrificio di Cristo, mentre la croce ad X è lo strumento di martirio di Sant’Andrea.

Sopra i due Santi si collocano, rispettivamente, i busti di San Pietro e di San Paolo, anch’essi riconoscibili dalla loro tipica iconografia (le chiavi e la spada).

Nella cimasa è raffigurata una deposizione dalla croce, nelle due lunette l’arcangelo Gabriele annunciante e la Vergine. Nella predella sottostante spicca, al centro, il volto di Cristo impresso sul velo della Veronica, intorno al quale si distribuiscono gli Apostoli. Di notevole interesse sono lo sfondo dorato, la gamma cromatica dei blu e dei rossi, e le decorazioni architettoniche a rilievo, con lesene, capitelli corinzi e cornicioni aggettanti che incorniciano e separano i vari comparti.

Particolare dell’interno della cupola e pennacchi dipinti.

Nei pennacchi interni della cupola sono invece dipinti i quattro Evangelisti, rifatti nel 1873 dal pittore Gaetano D’Agostino.

San Giovanni Battista a Vietri sul Mare: stato attuale

La chiesa è stata riaperta con una solenne celebrazione il 24 settembre 2020, dopo circa un anno di chiusura dovuto ad un’importante opera di restauro. Si è innanzitutto provveduto all’eliminazione delle infiltrazioni d’acqua, presenti intorno alla cupola e alle finestre, alla realizzazione di un nuovo accesso alla chiesa per i disabili e di un nuovo impianto di illuminazione che mette in risalto la struttura architettonica e le opere custodite. Inoltre, gli interni sono stati ridipinti con un nuovo colore, di un giallo intenso, recuperando quello dell’ultimo restauro del ‘700, che conferisce loro una calda luminosità. I lavori, diretti dall’architetto Domenico Pergola, sono stati finanziati per il 70% dalla Conferenza Episcopale Italiana e per la restante percentuale dalla generosità della comunità vietrese.

 

Note

[1] Il 21 Giugno è il giorno della festa patronale; il 29 Agosto si commemora la decollazione del Battista.

 

Sitografia

Pagina Fb rtc Quarta Rete Cerimonia di riapertura al culto della Chiesa di San Giovanni battista di Vietri sul Mare

Duomo di Vietri sul Mare: ecco la storia di questo piccolo gioiello in www.amalfinotizie.it

Le cupole maiolicate in ilblogdelbrigantelobonero.wordpress.com

www.chieseitaliane.chiesacattolica.it

www.comune.vietri-sul-mare.sa.it

www.italiavirtualtour.it

www.viverevietri.it


MICHELE RICCIARDI E LA PITTURA ROCOCÒ

A cura di Rossella Di Lascio

Michele Ricciardi: un'introduzione

Michele Ricciardi è un artista originario di Penta, frazione di Fisciano (Sa), la cui attività si è svolta prevalentemente in Irpinia e nel Salernitano dal 1694 al 1753 circa; di lui restano numerose opere tra tele, affreschi e tavolati dipinti, che testimoniano la diffusione delle maniere tardobarocca e rococò anche nei territori di provincia.

Per questo motivo, la storica dell’arte Tiziana Mancini lo ha definito una “figura provinciale”[1], ma non un isolato, in quanto sempre attento a cogliere le novità di quanto maturava nella vicina Napoli per poi introdurle e rielaborarle nelle sue opere.

Il pittore sigla le sue opere con il monogramma “AMRP”, seguito dalla data di esecuzione. Le consonanti sono state  decifrate come “Michael Ricciardi pingebat”, mentre per la vocale “A” inizialmente si è pensato all’abbreviazione del nome proprio “Angelo”, ma, in seguito alla consultazione di alcuni inventari delle opere d’arte di chiese, conventi e monasteri soppressi, ordinati dal R.D. del 30 Aprile 1807, si è invece scoperto che si tratta dell’abbreviazione di “Abate”, che allude al privilegio di una rendita ecclesiastica che gli era stata concessa e di cui si compiaceva, testimonianza questa, di quanto fosse apprezzato dalla committenza religiosa, soprattutto francescana, della sua provincia.

Monogramma del pittore

Se, in vita, il Ricciardi ha goduto di consensi ed apprezzamenti da parte della committenza sia laica che ecclesiastica, non gli è però stata corrisposta un’uguale fama da morto. Di lui, infatti, non ci è pervenuta nessuna notizia documentaria, rimanendo sconosciuto alla critica del Settecento, dell’Ottocento e per gran parte del Novecento. Il primo studio critico su di lui viene eseguito negli anni Settanta da Maria Teresa Penta, con il suo saggio “Un pittore poco noto del Settecento napoletano: Angelo Michele Ricciardi”, ed è stato quello prevalentemente seguito e confermato dai successivi contributi che lo hanno poi ampliato e perfezionato.

Principali caratteristiche della pittura e delle opere di Michele Ricciardi

Quando Michele Ricciardi comincia a dipingere, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, le principali personalità che dominano l’ambiente artistico napoletano sono Luca Giordano e Francesco Solimena. Nella sua produzione giovanile il pittore presenta un’adesione iniziale ai modi di Francesco Solimena, che si contraddistinguono per la materia cromatica compatta che definisce plasticamente le figure, per la loro impostazione monumentale, la luminosità diffusa delle composizioni, la resa dei pesanti panneggi il cui spessore è rilevato dai contrasti chiaroscurali e la vastità degli spazi evocata da imponenti strutture architettoniche e che il Ricciardi ha avuto la possibilità di conoscere sia attraverso le opere napoletane sia attraverso quelle prodotte e presenti nei territori dove lui opera, come Solofra, Nocera Inferiore e Salerno.

Un primo cambiamento dello stile del Ricciardi si avverte intorno al 1705 - 1709, quando comincia a spostare il suo interesse verso un gruppo di pittori come Giacomo Del Po, Domenico Antonio Vaccaro, Filippo Falciatore e Francesco Peresi, dalla pittura elegante, preziosa, raffinata, anticipatrice della maniera rococò. La libertà inventiva dimostrata da questi pittori, la brillantezza della gamma cromatica, la luminosità ed ariosità delle atmosfere, la leggerezza ed eleganza delle figure traggono spunto dalla pittura genovese di fine Seicento di Gaulli, Piola, De Ferrari, Biscaino, appresa, probabilmente, durante loro brevi soggiorni di studio a Roma. A questo orientamento artistico anticlassico appartiene anche Michele Ricciardi che, essendosi formato in provincia, lontano dai condizionamenti del gusto ufficiale e convenzionale della capitale Napoli che guardava alla formula solimeniana, ha avuto la possibilità di seguire più liberamente la propria ispirazione. La nuova vena rococò del Ricciardi si manifesta nella sua vivace fantasia decorativa, negli apparati decorativi dal carattere allegro e gioioso, realizzati mediante l’intreccio di festoni fioriti e di eleganti elementi architettonici, tra i quali si muovono personaggi sacri e profani dall’aspetto aggraziato e filiforme, dalle movenze delicate e leggiadre.

Si tratta di putti alati, festanti e spensierati che spesso giocano con le insegne ecclesiastiche, che si distribuiscono tra soffici nuvole o che con il loro volo e pose ardite, roteanti, imprimono vivacità e dinamismo all’intera composizione, e figure femminili dai panneggi svolazzanti, reggenti strumenti musicali o danzanti. Il tutto è eseguito con una pennellata fluida, morbida, e con l’accostamento di colori caldi e contrastanti messi in risalto dalla luce dorata e vibrante, di derivazione filo-giordanesca, la cui conoscenza è probabilmente mediata dalla presenza della bottega di Tommaso Giaquinto, allievo di Luca Giordano, a Sant’Agata dei Goti.

Le scene sono raffigurate secondo toni aneddotici (descrizioni minuziose, dettagliate, che lo avvicinerebbero alla corrente dei vedutisti e dei pittori di genere,) e favolistici, sia perché le città, gli edifici o i paesaggi che fanno da sfondo alle vicende sono spesso frutto dell’immaginazione del pittore, sia per le apparizioni soprannaturali e luminose della Vergine, di Cristo, dei Santi, che si intrecciano sovente con episodi storici del passato o relativi al mondo contemporaneo del Ricciardi, mescolando sacro e profano, religiosità e mondanità, secondo un procedimento tipicamente rococò. L’ambientazione delle scene è, in genere, di impronta classicheggiante per la presenza di rovine classiche, colonnati dall’alto basamento, arcate, gradinate, pilastri architravati, tempietti semicircolari, derivanti non tanto da reminiscenze classiche di stampo solimeniano, quanto dai complessi apparati scenografici allestiti in occasione di feste civili e religiose. Tali elementi conferiscono un tono teatrale alle rappresentazioni, una teatralità che si evince anche dalla presenza frequente di tendaggi che, scostati, introducono alla scena che, più che evento sacro, miracoloso, si presenta come spettacolo di corte. Le scene sono pervase da un tono mondano e profano, dovuto agli atteggiamenti vezzosi dei Santi, intenti a mostrarsi agli spettatori, come attori che si esibiscono davanti ad una platea, colti in molteplici pose ed espressioni e sfoggianti paramenti sontuosi, mentre, nel caso delle Sante, sono presenti acconciature elaborate, nastri colorati e preziosi gioielli. Il tutto si svolge in spazi che si dilatano e quasi debordano, riallacciandosi ad un genere tipicamente barocco, quello della dilatazione illusoria dello spazio verso l’infinito, mediante l’uso di quadrature che, mostrando finte cornici a rilievo, colonnati, edicole votive, trabeazioni aggettanti, sfondamenti prospettici, danno l’impressione che lo spazio interno sia aperto e senza limiti, in una costante compenetrazione tra fantasia e realtà, artificio e natura, spazio reale e spazio infinito.

Particolarmente interessante è il modo che ha il Ricciardi di raffigurare episodi salienti della vita dei Santi e le Sacre Conversazioni, dimostrando di essere bene a conoscenza del repertorio iconografico della pittura napoletana che, proprio nella teatralità delle scene e nell’esaltazione della fede e della gestualità, trova la più piena ed efficace rappresentazione. Tali requisiti sono richiesti dalla Controriforma per la quale la pittura sacra deve avere un carattere popolare, essere cioè facilmente accessibile, chiara negli intenti morali e pedagogici e di forte impatto emotivo.

Si tratta di scene semplici e chiare che consentono un’intensa partecipazione emotiva da parte dello spettatore ed una profonda umanizzazione dei personaggi sacri. Il pittore coglie spesso i personaggi nell’intimità e nella tranquillità delle mura domestiche, caratterizzandoli con una forte carica espressiva, per sottolinearne i sentimenti o i pensieri o accentuare il pathos della rappresentazione, grazie sia al loro intenso e penetrante scambio di sguardi che, in alcuni casi, si rivolgono direttamente allo spettatore, coinvolgendolo nella Sacra Conversazione, sia all’eloquenza della gestualità, di tipo teatrale. In particolare spicca l’aspetto aggraziato e sempre giovane, quasi adolescenziale, di Maria, colta in atteggiamenti di estrema umiltà ed affabilità nel dialogare con i Santi in adorazione. Questi ultimi sono riconoscibili dalla presenza dei loro tipici attributi iconografici, come la figura ricorrente di San Filippo Neri, il cui intenso amore per Dio è simboleggiato da un cuore ardente che un putto stringe tra le mani, o San Michele Arcangelo, angelo guerriero in lotta contro il male, personificato da un serpente - dragone dalle grosse scaglie e fauci aguzze, di matrice giordanesca, che il Santo calpesta trionfante, e di cui sono messi in risalto l’armatura finemente descritta e il mantello rosso fiammeggiante.

L’artista ha eseguito numerose opere, ma, allo stato attuale, molte di esse sono andate perdute, sia per incuria, sia per il succedersi di calamità naturali, tra cui il terribile terremoto del 1980 dell’Irpinia che ha provocato la distruzione di interi tavolati, soprattutto nelle zone dell’avellinese.

 

 

Note

[1] Mancini T., Michele Ricciardi. Vita e opere di un pittore campano del Settecento, Napoli 2003

 

Bibliografia

Avino L., Michele Ricciardi: pittore del ‘700 salernitano, in Il Picentino, anno CIX, n. 3-4, Salerno 1974.

Braca A., La pittura del Sei-Settecento nell’Agro Nocerino Sarnese: il Seicento, in Architettura ed opere d’arte nella Valle del Sarno, Salerno 2005.

De Maio R., Pittura e Controriforma a Napoli, Bari 1983.

Mauro D., Aspetti culturali e religiosi della pittura di Michele Ricciardi (1672-1753), in Rassegna storica salernitana, I, Salerno 1984.

Penta M. T., Un pittore poco noto del ‘700 napoletano: Angelo Michele Ricciardi, in Studi di storia dell’arte in onore di Valerio Mariani, Napoli 1972.

Spinosa N., Spazio infinito e decorazione barocca, in Storia dell’Arte Italiana, 6/I, Torino 1981.

Spinosa N., Pittura napoletana del Settecento dal Barocco al Rococò, Napoli 1986.


IL PARADISO SALERNITANO DEL DUOMO DI SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio

Introduzione: la Cappella del Tesoro del Duomo di Salerno

Il Paradiso salernitano è l'affresco meraviglioso che decora la volta della Cappella del Tesoro, in origine detta anche delle Reliquie o Reliquiario, che si trova all’interno della Cattedrale di San Matteo a Salerno: vi si accede dalla sagrestia. Voluta dall’arcivescovo Girolamo Seripando, è stata portata a termine dal suo successore, l’arcivescovo spagnolo Gaspare Cervantes, nella metà degli anni sessanta del Cinquecento, e poi profondamente ristrutturata nel periodo intorno al 1730, come si legge dall’epigrafe in controfacciata. Nel 2015, con l’insediamento del nuovo parroco Don Michele Pecoraro, si è provveduto alla riapertura al pubblico di questo piccolo gioiello di arte sacra, per anni rimasto nascosto.

La Cappella consiste in un piccolo ambiente raccolto di soli 36 metri quadri ed ospita cinque armadi - vetrine che custodiscono preziosi oggetti liturgici in materiali pregiati, quali argento, rame dorato, cristallo di rocca, oro, databili tra il XIV e il XIX secolo, tutti donazioni di vescovi ed arcivescovi nel corso dei secoli.

Tra i reliquiari, particolare importanza rivestono il Braccio di San Matteo, realizzato nel 1330 e portato in processione durante la festa patronale, al cui interno è conservato un pezzo dell’osso del braccio di San Matteo, e il Reliquiario della Beata Vergine, contenente un capello della Madonna, in argento dorato e cristallo di rocca, eseguito su un modello di una cattedrale gotica nordica.

Al centro della Cappella è invece collocato un grande “faldastorie”, di color porpora ed oro, su cui si è inginocchiato a pregare San Giovanni Paolo II durante il suo viaggio a Salerno il 26 maggio del 1985.

Nella Cappella si possono anche ammirare le cinque statue d’argento portate in processione il 21 Settembre, festa di San Matteo, raffiguranti il patrono San Matteo (commissionato dalla municipalità salernitana per lo scampato pericolo del terremoto del 1688 e realizzato nel 1691 dall’argentiere napoletano Nicola De Aula) San Gregorio VII (Papa morto in esilio a Salerno nel 1085 e le cui spoglie sono custodite nel Duomo) e i tre Martiri Salernitani Gaio, Ante e Fortunato.

Durante l’apertura, la Cappella è sorvegliata dalla “Guardia d’Onore” costituita dagli uomini dell’ANFI, l’Associazione dei Finanzieri d’Italia, composta da finanzieri in congedo.

Il Paradiso Salernitano di Filippo Pennino

L’opera che tuttavia meglio caratterizza e contraddistingue la Cappella, come detto, è l’affresco che decora la volta raffigurante Il Paradiso Salernitano, così chiamato per i Santi presenti, tutti collegati alla storia della città, ed eseguito dal pittore beneventano Filippo Pennino.

Nonostante si tratti di un ambiente né particolarmente ampio, né luminoso, il Pennino ha creato un’opera di forte impatto visivo ed emotivo, capace di stupire e di coinvolgere lo spettatore, di comunicare un senso di dinamismo per la molteplicità delle pose e dei panneggi svolazzanti delle figure, una dolcezza legata agli sguardi, all’eleganza delle movenze, alla delicatezza dei colori, e, soprattutto, di dilatazione degli spazi, per la luminosità dorata e diffusa del cielo che si irradia dalla colomba dello Spirito Santo, dando l’impressione che il soffitto scompaia e sia possibile immergersi, assieme ai Santi, nella volta celeste. Sempre al Pennino si devono le pareti dipinte con quadrature architettoniche, costituite prevalentemente da colonne sormontate da capitelli e vasi con fiori, che abbelliscono l’ambiente e creano un ulteriore senso di ampliamento spaziale.

Filippo Pennino è un artista la cui attività pittorica si è svolta tra il 1690 e il 1754, anno della sua morte, tra Benevento, sua città natale, Salerno e l’alta Irpinia, come risulta dalle Cronache Salernitane redatte da Matteo Greco.

Il compianto professore Mario Alberto Pavone è stato il primo ad aver individuato l’esistenza di una personalità stilisticamente affine a quella del pittore Michele Ricciardi, da lui definito “ignoto seguace del Ricciardi”, successivamente identificato dal dott. Antonio Braca con Filippo Pennino.

La sua prima opera risale agli anni novanta del Seicento nella cattedrale di Benevento, come indicato dal “Registro in breve di tutte le spese fatte dall’Ecc.mo arcivescovo Orsini”, in cui sono descritti una serie di interventi da lui eseguiti nella Cattedrale, mentre la sua prima presenza nel territorio salernitano è testimoniata dal ciclo decorativo del soffitto di S. Pietro a Siepi a Cava dei Tirreni nel 1709, per poi proseguire per Nocera e a Vietri sul Mare. La sua attività a Salerno, dove si stabilirà insieme alla sua bottega, comincia nel secondo decennio del Settecento, in cui la sua opera più importante è proprio la volta della Cappella del Tesoro nella Cattedrale di San Matteo, ultimata nel 1730, come si legge dall’iscrizione posta sulla porta d’ingresso. Da un documento contenuto nel libro dei “Conti del Reliquiario”, è stata recuperata la dichiarazione sottoscritta dal Pennino il 1° febbraio 1731, riguardante il pagamento in suo favore di 60 ducati per la pittura eseguita al Reliquiario.

Secondo il Pavone, in quest’affresco il Pennino dimostra una formazione ben più ampia di quella esclusivamente meridionalistica, guardando anche alle esperienze venete per la luminosità chiara e diffusa della composizione e le carnagioni rosee dei personaggi, allontanandosi dalle rappresentazioni sanguinose e di forza drammatica del naturalismo seicentesco, di derivazione caravaggesca. Il Paradiso Salernitano privilegia l’esaltazione del patrono della città, San Matteo, affiancato dai tre protomartiri Ante, Caio e Fortunato. San Matteo è raffigurato con l’angelo, suo attributo iconografico, che sorregge il suo Vangelo, mentre i tre Santi salernitani sorreggono la palma del martirio e si dispongono attorno ad una colonna tortile che allude al loro martirio, avvenuto per decapitazione, proprio su quella colonna che, si ritiene, essere la stessa conservata nella Cripta del Duomo e su cui sono ancora visibili le tracce del sangue da loro versato.

Confronto tra Il Paradiso Salernitano e il bozzetto L’incoronazione della Vergine nella gloria del Paradiso del Barockmuseum di Salisburgo

Lo studioso ha individuato come precedente immediato di tale affresco il bozzetto del Barockmuseum di Salisburgo raffigurante L’Incoronazione della Vergine nella gloria del Paradiso, risalente alla seconda metà degli anni Venti, che celebra il pontificato di Benedetto XIII (1724 - 1730) tra una folta schiera di santi. Inizialmente attribuito al pittore austriaco Johann Jakob Zeiller, è stato poi collocato nella produzione del Pennino per evidenti affinità tra le due opere, relative sia allo svolgimento di una tematica simile sia al modo di strutturare la composizione. In entrambi i casi, nel registro superiore, le figure sono inserite ad incastro tra le nubi ed affiancate da numerosi angeli, tra i quali si distingue l’Arcangelo San Michele, riconoscibile dall’armatura e dallo scudo dorati. La zona inferiore riflette, invece, le esigenze della committenza. Il bozzetto di Salisburgo, a differenza dell'opera salernitana, celebra lo stemma degli Orsini, la figura di San Benedetto a cui si è ispirato il Pontefice nella scelta del nome, e alcuni Santi di nazionalità francese ripresi dalla “Historia Francorum” di Gregorio di Tours, e sono presenti numerosi cartigli che riportano i nomi dei vari Santi raffigurati, consentendone il facile riconoscimento. Ciò è dovuto ad una precisa esigenza devozionale voluta non solo dal Papa, ma anche dal suo stretto collaboratore Pompeo Sarnelli che, nelle “Lettere Ecclesiastiche” inviate ai pittori d’arte sacra del tempo, fornisce delle indicazioni sul modo in cui dipingere le immagini sacre, esaltando, in particolare, i riferimenti didascalici per consentire al pubblico l’identificazione dei personaggi meno noti.

Differenze stilistiche tra Filippo Pennino e Michele Ricciardi

La chiara adesione del Pennino alla maniera rococò si evince, in entrambe le opere, nella rapidità e scioltezza di esecuzione delle forme, nell’impostazione ascensionale, nel moto brulicante delle pieghe dei panni, nella sinuosità delle figure e nella vivacità cromatica evidenziata da guizzi di luce, caratteri comuni anche al Ricciardi e al quale, per lungo tempo, sono state attribuite le opere del Pennino. Tuttavia, evidenti differenze stilistiche permettono di distinguere le due personalità artistiche, in particolar modo riscontrate, negli anni novanta del secolo scorso, dal dott. Antonio Braca. Nella produzione del Pennino si nota, rispetto al Ricciardi, un mancato coinvolgimento iniziale al classicismo solimenesco perché già orientato verso le soluzioni luminose e di vivacità cromatica del Giordano, che, nella resa delle figure, delle architetture e dei paesaggi determinano la scomparsa di ogni consistenza formale, a favore di un risultato leggero e brioso. Egli non possiede la stessa capacità del Ricciardi di fondere masse di personaggi, spesso maestosi, in grandi movimenti, preferendo figure esili colte in torsioni neomanieriste. Inoltre, mentre il Ricciardi predilige colori forti contrastanti, soprattutto nei panneggi, che in tal modo risaltano sugli sfondi limpidi e chiari, il Pennino preferisce cromie calde e dorate, ancora barocche, che invece attenuano i contrasti e il tutto viene unificato da una luce calda e densa.

Particolare del Paradiso Salernitano e quadrature architettoniche dipinte.

 

 

 

Bibliografia

 

Braca A., La cappella del Tesoro, in La Cappella del Tesoro del Duomo di Salerno, Nocera Inferiore 1990

Braca A., Appunti sulla pittura barocca, in Il Barocco a Salerno, Nocera Inferiore 1998

Pavone M. A., Correnti pittoriche dal Cinque al Settecento, in Guida alla storia di Salerno, Salerno 1982

Pavone M. A., Pittori napoletani del primo Settecento. Fonti e documenti, Napoli 1997.

Pavone M. A., Il bozzetto di Salisburgo nel percorso artistico di Filippo Pennini, in Barockberichte, 16/17, 1998

 

SITOGRAFIA

www.cattedraledisalerno.it

Salerno, la Cappella del Tesoro del Duomo finalmente aperta al pubblico in www.ulisseonline.it