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A cura di Francesco Surfaro

Realizzato a Venezia su disegno di Filippo Juvarra tra la fine del regno di Vittorio Amedeo II e il principio di quello di Carlo Emanuele II, il Bucintoro dei Savoia, protagonista assoluto degli sfarzosi ricevimenti reali organizzati sulle acque del fiume Po, costituisce l’unico esemplare sopravvissuto di unità da parata veneziana del Settecento. A seguito di una lunga e delicata opera di restauro nell’autunno del 2012 la “Barca Sublime” è stata restituita alla pubblica fruizione ed esposta presso la monumentale Scuderia juvarriana della Reggia di Venaria Reale.

Matteo Calderoni ed Egidio Gioel su disegno di Filippo Juvarra – “Bucintoro del Re di Sardegna”, 1730-31, legno intagliato, scolpito, dorato a foglia e dipinto. Venaria Reale, Reggia di Venaria Reale – concesso in comodato dal Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama, a Torino. Fonte: piemonteitalia.eu.

Il Bucintoro dei Savoia: la Storia

Agostino Masucci – Ritratto del Cavalier Filippo Juvarra, 1735-36, olio su tela. Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Tra i mesi di gennaio e febbraio del 1729 il Primo Architetto di Casa Savoia Filippo Juvarra si trovava a Venezia. Le ragioni per le quali si era recato alla volta della Serenissima possono essere ricercate in alcuni suoi disegni contenuti in un album facente parte della collezione privata dei Duchi del Devonshire conservato a Chatsworth, in Gran Bretagna. Sebbene il taccuino riporti la data del 1730 i singoli folia devono essere retrodatati all’anno precedente. In alcuni di essi è ritratto l’Arsenale di Venezia, luogo deputato alla fabbricazione di navi per la Repubblica o, su previa concessione del Senato cittadino, per i sovrani delle corti europee. Il re di Sardegna Vittorio Amedeo II aveva infatti richiesto al proprio architetto di corte il progetto di un grande bucintoro per la navigazione delle acque del Po in occasioni di rappresentanza, la cui effettiva commissione sarebbe stata formalizzata soltanto nell’agosto successivo. Il Messinese doveva essersi quindi recato in Laguna già dall’inverno precedente, prima di partire alla volta di Brescia, con l’intento di studiare il piano iconografico per la regia imbarcazione: lo testimonia un disegno con figure allegoriche che allude al potere del sovrano esercitato sulle acque, contenuto all’interno del succitato album di Chatsworth House. Gli ingentissimi costi per la realizzazione del prezioso manufatto – oltre 34.000 lire di Piemonte, corrispondenti a circa 5.000.000 di euro odierni – furono opportunamente estinti attraverso la Gabella del Tabacco. Mediante questo sotterfugio le varie operazioni poterono svolgersi nella più assoluta discrezione e si rese possibile occultare il vero ammontare della spesa. Si trattò di una mossa discutibile, certo, ma non inefficace: prima della sensazionale scoperta negli anni ’10 del Duemila degli atti di commissione, dei conti e delle ricevute di pagamento celati tra i fondi economici del tabacco nell’Archivio di Stato di Torino ad opera degli studiosi Alessandra Castellani Torta e Giorgio Marinello, l’unico documento noto relativo al Bucintoro del re di Sardegna era un estimo redatto a consegna avvenuta (e quindi ex post) per conto di Sua Maestà Carlo Emanuele III dal cavalier Juvarra nel 1732, riportante una somma nettamente inferiore – 21.500 L. P.te – rispetto a quella realmente versata a favore dell’impresa.

Giovanni Antonio Canal detto “Il Canaletto” – “Il ponte dell’Arsenale di Venezia”, 1730-31, olio su tela. Woburn Abbey, Collezione Privata.

Il fatto che Juvarra abbia tratteggiato qualche disegno a china dell’Arsenale di Venezia non implica assolutamente che il Bucintoro vi sia stato fabbricato; tale circostanza, difatti, è da escludere a priori per tutta una serie di motivazioni. Anzitutto l’Arsenale ovviava quasi unicamente alle richieste statali, pertanto tutti coloro che avessero manifestato il desiderio di farsi costruire un’imbarcazione in terra veneziana avrebbero potuto rivolgersi ai cantieri navali privati, i cosiddetti “squeri”, purché fossero in possesso di un unico prerequisito: la cittadinanza veneta. Ad ogni squero faceva capo un Proto Fabbricatore, la cui principale mansione era quella di coordinare le maestranze ed assicurarsi che il lavoro venisse “condotto ad ultima perfezione”, pena la revoca della commissione o, peggio, il mancato pagamento della stessa dopo un ingente impiego di forza-lavoro e materie prime. Per un qualunque altro regnante europeo non sarebbe stata un’impresa così insormontabile richiedere l’esecuzione di una nave in Arsenale, ma lo stesso non poteva dirsi per i Savoia che, dal 1670 – quando erano ancora in possesso della sola titolatura ducale – avevano troncato ogni relazione diplomatica con la Repubblica. Le motivazioni fondanti di un tale reciproco astio vanno ricercate nella del tutto arbitraria assunzione del titolo Regio di Cipro e Gerusalemme da parte del duca Vittorio Amedeo I nel dicembre del 1632 (sia la strategica isola del Mediterraneo orientale che la Città Santa erano state, in tempi e circostanze differenti, sotto l’ingerenza veneziana). Al vecchio contenzioso si sommava la più recente elevazione del Ducato Sabaudo a Regno di Sicilia nel 1713 con la Pace di Utrecht, permutato in seguito col Regno di Sardegna mediante la ratifica del Trattato di Londra del 1718 (la presa di possesso avvenne solo nel 1720, ci vollero due anni per liberare l’isola dalle truppe ispaniche occupanti). Il possesso della Sicilia prima e della Sardegna poi conferiva ai Savoia uno sbocco commerciale diretto sul Mediterraneo e li rendeva una minaccia ulteriore per Venezia, secolare dominatrice del Mare Nostrum assieme a Pisa, Genova e Amalfi. Mai il Senato veneziano avrebbe dato il proprio assenso all’edificazione presso la darsena cittadina di un bucintoro sul tiemo [1] del quale dominava maestoso l’emblema di un regno che si rifiutava categoricamente di riconoscere.

Padre Ceccati: il regista della commissione

Alla luce di queste considerazioni la “Barca Sublime” non può che essere stata fabbricata all’interno di uno squero. Resta tuttavia ancora un nodo da sciogliere: se soltanto un suddito della Serenissima Repubblica di Venezia poteva farsi realizzare un’imbarcazione all’interno di un cantiere navale privato, in che modo Vittorio Amedeo riuscì, nella più totale segretezza, a richiedere ed ottenere la costruzione di un’unità da parata di dimensioni monumentali? Per la buona riuscita di questa impresa il sovrano poté contare sull’appoggio di un cittadino veneto che, a ragione, si era guadagnato la sua fiducia. Questi era il padre agostiniano Cristoforo Maria Ceccati del monastero di Santa Margherita a Treviso. I documenti rinvenuti nell’Archivio di Stato di Torino testimoniano il versamento di ingenti somme in suo favore.

Nel 1729 l’agostiniano ricevette – come acconto – 7 di 10 annualità, ciascuna delle quali ammontava a 5.000 L. P.te, le tre restanti gli sarebbero state consegnate al momento dell’arrivo del bucintoro a Torino come pagamento ufficiale dell’imbarcazione. Ceccati si era ben meritato una simile ricompensa: a proprio rischio e pericolo aveva infatti rivelato ai Piemontesi le tecniche segrete di coltivazione e di lavorazione del tabacco in uso nell’area veneta. Se a Venezia si fosse venuta a sapere una cosa del genere le conseguenze per il religioso sarebbero state molto serie, per questo le notevoli retribuzioni percepite erano state prudentemente giustificate con il commercio di tessuti pregiati che questi esercitava per procura di suo fratello Bonaventura, residente in San Francesco. Suo malgrado Ceccati non ricevette mai le 15.000 L.P.te dovute sebbene avesse assolto a tutti i propri obblighi, né vide mai l’opera compiuta. Nell’agosto del 1731, mentre la Peota Reale stava ancora risalendo contro corrente il Po trainata da cavalli, padre Cristoforo, che nel frattempo aveva trovato ricovero a Milano presso la casa professa del proprio ordine, esalò l’ultimo respiro. Alla notizia dell’improvvisa e inaspettata dipartita sorse tra i possibili beneficiari degli immensi lasciti del defunto una contesa. Qualora fosse stato provato che quello posseduto dal Ceccati era denaro personale sarebbe stato il Convento di Santa Margherita a mettere le mani sulla fortuna dell’estinto. Se, al contrario, si fosse trattato del ricavato proveniente dalla redditizia attività familiare sarebbe stato Bonaventura Ceccati l’unico erede. La già citata stima juvarriana riportante costi spudoratamente ribassati era stata stilata al fine di creare un conto fittizio volto a dirimere la delicata questione finanziaria in favore del fratello dell’agostiniano.

È del tutto errato pensare che il ruolo giocato da fra’ Cristoforo all’interno della vicenda sia stato solo quello di mero prestanome. Al contrario, fu proprio il Ceccati – coadiuvato da Juvarra – l’effettivo regista della prestigiosa (tanto quanto onerosa) commessa. Quelle che Vittorio Amedeo II gli aveva affidato erano mansioni certamente non di scarso peso, complicate ulteriormente dal fatto che i finanziamenti da Torino nel migliore dei casi tardavano ad arrivare e, nel peggiore, non venivano spediti del tutto. Pertanto più di una volta il religioso si trovò nella condizione di dover attingere al proprio patrimonio personale o richiedere prestiti a banchieri e patrizi veneziani per far fronte alle spese legate alla fabbrica del bucintoro. Addirittura, al fine di reperire i fondi utili al viaggio di consegna, si vide costretto a chiedere liquidità anche ad un confratello milanese, padre Gandolfo.

L’opera venne realizzata in seno allo squero di Zuanne, proto-fabbricatore di un cantiere navale in rio dei Mendicanti. Zuanne incaricò lo «squerariol di Buran» Antonio di costruire il corpo dell’imbarcazione, pagò i mastri calafatami dell’Arsenale affinché sovrintendessero alle operazioni di impermeabilizzazione dello scafo ligneo e padron Bortolo perché si occupasse del “lancio all’acqua”. Presso questo cantiere non fu affatto difficile radunare il capitale umano utile al completamento del bucintoro, che difatti venne fastosamente ornato con raffinate pitture a grisaglia, elaborati intrecci decorativi a rilievo, emblemi e sculture dorate di dimensioni maggiori del naturale da un’équipe composta da alcuni dei migliori artigiani, pittori e scultori attivi nella Serenissima. Padre Francesco Gandolfi, confratello di Ceccati, si occupò di monitorare giornalmente l’avanzamento dei lavori. Fra’ Cristoforo avrebbe voluto affidare la messa in opera del corredo scultoreo ad Antonio Corradini – lo scultore che, nel 1729, per conto del Senato Veneziano, aveva curato gli strepitosi ornati del perduto Bucintoro Dogale – ma dovette rinunciare all’idea in quanto, nel frattempo, l’artista era stato convocato a Vienna dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo.

L’agostiniano non si perse d’animo e scelse tra la folta schiera dei possibili candidati Matteo Calderoni – colui che aveva collaborato con il Corradini nell’esecuzione del bucintoro di Alvise III Mocenigo – come capomastro addetto all’intaglio, ed Egidio Gioel, il maestro d’ascia autore della ribolla del timone avente le fattezze di un drago. La nave lusoria fu ultimata in circa 16-17 mesi, tra il maggio e il giugno del 1731. Il risultato era a dir poco strabiliante. Con i suoi 16 metri di lunghezza per altrettanti 2,50 di altezza la peota regale ostentava fragorosamente con una rara esuberanza decorativa (normalmente il tiemo delle unità da parata non veniva ornato con pitture, perché l’umidità le avrebbe compromesse) la propria natura di lussuosa reggia fluviale, ulteriormente confermata dalla presenza di due

«cadreghe alla dolfina» – ovvero di troni regali di modeste dimensioni – all’interno della cabina.

Matteo Calderoni ed Egidio Gioel su disegno di Filippo Juvarra – “Bucintoro del Re dei Sardegna”, 1730-31, legno intagliato, scolpito, dorato a foglia e dipinto. Venaria Reale, Reggia di Venaria Reale – concesso in comodato dal Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama, a Torino. Fonte: http://www.lavenaria.it/.

L’abdicazione di Vittorio Amedeo

Martin Van Meytens – Ritratto di S.A.R. Vittorio Amedeo II di Savoia, 1728, olio su tela. Venaria Reale, Reggia di Venaria Reale – concesso in comodato dal Palazzo della Giunta Regionale del Piemonte. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Nei mesi intercorsi tra la partenza di padre Ceccati per Venezia nel novembre del 1729 e l’arrivo del convoglio con le varie componenti del Regio Bucintoro il 2 settembre 1731 molte cose erano profondamente mutate alla corte di Torino. Vittorio Amedeo II, contro ogni aspettativa, aveva deciso di abdicare in favore del figlio Carlo Emanuele e di ritirarsi a Chambéry. Tale scelta era stata dettata da precise contingenze di natura politica e non – come ufficialmente indicato – da infermità fisiche legate all’età avanzata del sovrano.

L’anziano abdicatario, noto voltagabbana, aveva nuovamente cambiato schieramento aprendo un dialogo con Francia e Spagna a discapito stavolta dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Perfettamente conscio del fatto che questo avrebbe messo a repentaglio i delicati equilibri politici faticosamente intessuti dal neonato Regno di Sardegna, Vittorio Amedeo aveva ritenuto opportuno uscire di scena in maniera repentina prima ancora di vedere portate a compimento le opere commissionate a Juvarra: la Chiesa di Sant’Uberto alla Venaria, la Real Basilica di Superga, la Palazzina di Caccia a Stupinigi e, non in ultimo, il Regio Bucintoro. Prima di lasciare il trono si era premurato di chiedere al principe Eugenio di Savoia di fare da intermediario alla corte viennese a beneficio di suo figlio, il quale non poteva in alcun modo essere responsabile delle machiavelliche scelte politiche paterne. Per il nuovo re di Sardegna, all’epoca trentenne, era meglio non farsi nemici potenti prima ancora di ricevere dalle mani dell’arcivescovo la corona sul capo.

Maria Giovanna Clementi – Ritratto di S.A.R. Carlo Emanuele III con gli abiti dell’incoronazione, 1730 circa, olio su tela. Torino, Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Sebbene avesse scelto inappellabilmente di ritirarsi a vita privata e di allontanarsi il più possibile dalla capitale “la Volpe Savoiarda” non aveva affatto perso interesse per gli affari statali, pertanto volle essere costantemente informato sull’operato del proprio successore a Torino. Non passò molto tempo prima che, tra padre e figlio, si inasprissero i rapporti personali a causa di forti divergenze in materia di questioni governative. A Vittorio Amedeo non piacquero per nulla le modalità con cui Carlo Emanuele III stava gestendo i rapporti con Roma, ove il neoeletto pontefice Clemente XIII aveva manifestato la volontà di mettere mano ad alcune clausole del Concordato Amedeano del 1727, con il quale erano stati regolati i rapporti tra la Chiesa e i Savoia, sancendo una netta dicotomia tra i poteri temporale e religioso nonché l’autonomia del regno da ogni ingerenza papale. La rottura tra il sovrano regnante e il sovrano emerito avvenne nel mese di agosto del 1731, a seguito di una visita informale in Savoia di Carlo Emanuele III. Ad una settimana di distanza da quel burrascoso colloquio il re abdicatario decise di fare ritorno in Piemonte e di stabilirsi nel Castello di Moncalieri. Fu un passo falso. Alla corte di Torino si iniziò a vociferare che Vittorio Amedeo II avesse ordito un complotto per deporre il figlio e riprendere le redini del potere. Carlo Emanuele III, consigliato dal conte d’Ormea, fece arrestare il padre con l’accusa di alto tradimento. Il primo re della dinastia sabauda venne così rinchiuso nel Castello di Rivoli, dove le sue condizioni di salute precipitarono a tal segno da condurlo alla morte, avvenuta il 31 ottobre 1732.

Il tempismo dell’arrivo della “burchiella” [2] contenente le varie componenti del Bucintoro non poteva essere peggiore. Mentre l’imbarcazione sfilava difronte al Santuario della Madonna del Pilone, nei pressi del porto fluviale di Torino, dirigendosi verso la darsena allestita accanto alla facciata del Castello del Valentino, la corte veniva sconvolta da una crisi dinastica che sarebbe terminata nel più drammatico dei modi. Ad un anno di distanza da questi infelici accadimenti, il Re di Sardegna, per celebrare il primo anno di regno, l’8 settembre del 1732 solcò le acque del Po a bordo del Bucintoro affiancato dalla seconda moglie, Polissena d’Assia-Reinhfels-Rotenburg (all’epoca incinta dello sfortunato Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, destinato a morire ancor prima di compiere il terzo anno di età), mostrandosi trionfante nei confronti dei sudditi che si accalcavano sulle sponde del fiume attirati da un evento così fuori dall’ordinario. Sua Maestà dimostrava così di aver interiorizzato alla perfezione il concetto cui alludeva uno dei motti latini più cari alla dinastia, “OPPORTUNE”, ossia l’arte della dissimulazione. Da quella data la nave lusoria entrò a pieno titolo nella vita di corte, divenendo protagonista di tutte le più importanti cerimonie dinastiche, come le nozze tra Carlo Emanuele IV e Maria Clotilde di Borbone (1775), il sontuoso matrimonio di Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena (1842) e gli sponsali del principe Amedeo, duca d’Aosta, e Maria Dal Pozzo della Cisterna (1867).

Nel 1869 Vittorio Emanuele II, primo re dell’Italia unita, decise di donare la preziosa unità da parata alla Città di Torino, destinandola al Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama.

Lì è rimasta fino al 2000, anno in cui è stata trasferita ad Aramengo d’Asti nei locali del Laboratorio Nicola Restauri. 11 anni dopo, in settembre, è stata portata al Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” per essere sottoposta a delicati interventi di ripristino. Una volta terminate le lunghe e complesse operazioni di restauro, nell’autunno del 2012 il Bucintoro dei Re di Sardegna è stato concesso in comodato dal Museo Civico d’Arte Antica di Torino alla Reggia di Venaria Reale ed esposto accanto alle carrozze regali presso la Scuderia Juvarriana con una strepitosa scenografia audiovisiva curata dal regista Davide Livermore con musiche di Antonio Vivaldi.

 

Note

[1] termine veneziano con il quale veniva indicato il baldacchino tipico delle navi da parata dogali.

[2] imbarcazione a fondo piatto utilizzata per il trasporto delle merci.

 

Bibliografia

“La Barca Sublime. Palcoscenico regale sull’acqua” a cura di Elisabetta Ballaira, Silvia Ghisotti Angela Griseri. Silvana Editoriale, settembre 2012.

“La Peota dei Savoia”, a cura di Giovanni Panella. Nautica, febbraio 2013.

 

Sitografia

http://www.lavenaria.it/it/mostre/barca-sublime

https://www.treccani.it/enciclopedia/vittorio-amedeo-ii-di-savoia_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-emanuele-iii-di-savoia-re-di-sardegna_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/polissena-giovanna-cristina-d-assia-rheinfels-regina-di-sardegna_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/filippo-juvarra_%28Dizionario-Biografico%29/

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