IL BUCINTORO DEI SAVOIA

A cura di Francesco Surfaro

Realizzato a Venezia su disegno di Filippo Juvarra tra la fine del regno di Vittorio Amedeo II e il principio di quello di Carlo Emanuele II, il Bucintoro dei Savoia, protagonista assoluto degli sfarzosi ricevimenti reali organizzati sulle acque del fiume Po, costituisce l'unico esemplare sopravvissuto di unità da parata veneziana del Settecento. A seguito di una lunga e delicata opera di restauro nell'autunno del 2012 la "Barca Sublime" è stata restituita alla pubblica fruizione ed esposta presso la monumentale Scuderia juvarriana della Reggia di Venaria Reale.

Matteo Calderoni ed Egidio Gioel su disegno di Filippo Juvarra - "Bucintoro del Re di Sardegna", 1730-31, legno intagliato, scolpito, dorato a foglia e dipinto. Venaria Reale, Reggia di Venaria Reale - concesso in comodato dal Museo Civico d'Arte Antica di Palazzo Madama, a Torino. Fonte: piemonteitalia.eu.

Il Bucintoro dei Savoia: la Storia

Agostino Masucci - Ritratto del Cavalier Filippo Juvarra, 1735-36, olio su tela. Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Tra i mesi di gennaio e febbraio del 1729 il Primo Architetto di Casa Savoia Filippo Juvarra si trovava a Venezia. Le ragioni per le quali si era recato alla volta della Serenissima possono essere ricercate in alcuni suoi disegni contenuti in un album facente parte della collezione privata dei Duchi del Devonshire conservato a Chatsworth, in Gran Bretagna. Sebbene il taccuino riporti la data del 1730 i singoli folia devono essere retrodatati all'anno precedente. In alcuni di essi è ritratto l'Arsenale di Venezia, luogo deputato alla fabbricazione di navi per la Repubblica o, su previa concessione del Senato cittadino, per i sovrani delle corti europee. Il re di Sardegna Vittorio Amedeo II aveva infatti richiesto al proprio architetto di corte il progetto di un grande bucintoro per la navigazione delle acque del Po in occasioni di rappresentanza, la cui effettiva commissione sarebbe stata formalizzata soltanto nell'agosto successivo. Il Messinese doveva essersi quindi recato in Laguna già dall'inverno precedente, prima di partire alla volta di Brescia, con l'intento di studiare il piano iconografico per la regia imbarcazione: lo testimonia un disegno con figure allegoriche che allude al potere del sovrano esercitato sulle acque, contenuto all'interno del succitato album di Chatsworth House. Gli ingentissimi costi per la realizzazione del prezioso manufatto - oltre 34.000 lire di Piemonte, corrispondenti a circa 5.000.000 di euro odierni - furono opportunamente estinti attraverso la Gabella del Tabacco. Mediante questo sotterfugio le varie operazioni poterono svolgersi nella più assoluta discrezione e si rese possibile occultare il vero ammontare della spesa. Si trattò di una mossa discutibile, certo, ma non inefficace: prima della sensazionale scoperta negli anni '10 del Duemila degli atti di commissione, dei conti e delle ricevute di pagamento celati tra i fondi economici del tabacco nell'Archivio di Stato di Torino ad opera degli studiosi Alessandra Castellani Torta e Giorgio Marinello, l'unico documento noto relativo al Bucintoro del re di Sardegna era un estimo redatto a consegna avvenuta (e quindi ex post) per conto di Sua Maestà Carlo Emanuele III dal cavalier Juvarra nel 1732, riportante una somma nettamente inferiore - 21.500 L. P.te - rispetto a quella realmente versata a favore dell'impresa.

Giovanni Antonio Canal detto "Il Canaletto" - "Il ponte dell'Arsenale di Venezia", 1730-31, olio su tela. Woburn Abbey, Collezione Privata.

Il fatto che Juvarra abbia tratteggiato qualche disegno a china dell'Arsenale di Venezia non implica assolutamente che il Bucintoro vi sia stato fabbricato; tale circostanza, difatti, è da escludere a priori per tutta una serie di motivazioni. Anzitutto l'Arsenale ovviava quasi unicamente alle richieste statali, pertanto tutti coloro che avessero manifestato il desiderio di farsi costruire un'imbarcazione in terra veneziana avrebbero potuto rivolgersi ai cantieri navali privati, i cosiddetti "squeri", purché fossero in possesso di un unico prerequisito: la cittadinanza veneta. Ad ogni squero faceva capo un Proto Fabbricatore, la cui principale mansione era quella di coordinare le maestranze ed assicurarsi che il lavoro venisse "condotto ad ultima perfezione", pena la revoca della commissione o, peggio, il mancato pagamento della stessa dopo un ingente impiego di forza-lavoro e materie prime. Per un qualunque altro regnante europeo non sarebbe stata un'impresa così insormontabile richiedere l'esecuzione di una nave in Arsenale, ma lo stesso non poteva dirsi per i Savoia che, dal 1670 - quando erano ancora in possesso della sola titolatura ducale - avevano troncato ogni relazione diplomatica con la Repubblica. Le motivazioni fondanti di un tale reciproco astio vanno ricercate nella del tutto arbitraria assunzione del titolo Regio di Cipro e Gerusalemme da parte del duca Vittorio Amedeo I nel dicembre del 1632 (sia la strategica isola del Mediterraneo orientale che la Città Santa erano state, in tempi e circostanze differenti, sotto l'ingerenza veneziana). Al vecchio contenzioso si sommava la più recente elevazione del Ducato Sabaudo a Regno di Sicilia nel 1713 con la Pace di Utrecht, permutato in seguito col Regno di Sardegna mediante la ratifica del Trattato di Londra del 1718 (la presa di possesso avvenne solo nel 1720, ci vollero due anni per liberare l'isola dalle truppe ispaniche occupanti). Il possesso della Sicilia prima e della Sardegna poi conferiva ai Savoia uno sbocco commerciale diretto sul Mediterraneo e li rendeva una minaccia ulteriore per Venezia, secolare dominatrice del Mare Nostrum assieme a Pisa, Genova e Amalfi. Mai il Senato veneziano avrebbe dato il proprio assenso all'edificazione presso la darsena cittadina di un bucintoro sul tiemo [1] del quale dominava maestoso l'emblema di un regno che si rifiutava categoricamente di riconoscere.

Padre Ceccati: il regista della commissione

Alla luce di queste considerazioni la "Barca Sublime" non può che essere stata fabbricata all'interno di uno squero. Resta tuttavia ancora un nodo da sciogliere: se soltanto un suddito della Serenissima Repubblica di Venezia poteva farsi realizzare un'imbarcazione all'interno di un cantiere navale privato, in che modo Vittorio Amedeo riuscì, nella più totale segretezza, a richiedere ed ottenere la costruzione di un'unità da parata di dimensioni monumentali? Per la buona riuscita di questa impresa il sovrano poté contare sull'appoggio di un cittadino veneto che, a ragione, si era guadagnato la sua fiducia. Questi era il padre agostiniano Cristoforo Maria Ceccati del monastero di Santa Margherita a Treviso. I documenti rinvenuti nell'Archivio di Stato di Torino testimoniano il versamento di ingenti somme in suo favore.

Nel 1729 l'agostiniano ricevette - come acconto - 7 di 10 annualità, ciascuna delle quali ammontava a 5.000 L. P.te, le tre restanti gli sarebbero state consegnate al momento dell'arrivo del bucintoro a Torino come pagamento ufficiale dell'imbarcazione. Ceccati si era ben meritato una simile ricompensa: a proprio rischio e pericolo aveva infatti rivelato ai Piemontesi le tecniche segrete di coltivazione e di lavorazione del tabacco in uso nell'area veneta. Se a Venezia si fosse venuta a sapere una cosa del genere le conseguenze per il religioso sarebbero state molto serie, per questo le notevoli retribuzioni percepite erano state prudentemente giustificate con il commercio di tessuti pregiati che questi esercitava per procura di suo fratello Bonaventura, residente in San Francesco. Suo malgrado Ceccati non ricevette mai le 15.000 L.P.te dovute sebbene avesse assolto a tutti i propri obblighi, né vide mai l'opera compiuta. Nell'agosto del 1731, mentre la Peota Reale stava ancora risalendo contro corrente il Po trainata da cavalli, padre Cristoforo, che nel frattempo aveva trovato ricovero a Milano presso la casa professa del proprio ordine, esalò l'ultimo respiro. Alla notizia dell'improvvisa e inaspettata dipartita sorse tra i possibili beneficiari degli immensi lasciti del defunto una contesa. Qualora fosse stato provato che quello posseduto dal Ceccati era denaro personale sarebbe stato il Convento di Santa Margherita a mettere le mani sulla fortuna dell'estinto. Se, al contrario, si fosse trattato del ricavato proveniente dalla redditizia attività familiare sarebbe stato Bonaventura Ceccati l'unico erede. La già citata stima juvarriana riportante costi spudoratamente ribassati era stata stilata al fine di creare un conto fittizio volto a dirimere la delicata questione finanziaria in favore del fratello dell'agostiniano.

È del tutto errato pensare che il ruolo giocato da fra' Cristoforo all'interno della vicenda sia stato solo quello di mero prestanome. Al contrario, fu proprio il Ceccati - coadiuvato da Juvarra - l'effettivo regista della prestigiosa (tanto quanto onerosa) commessa. Quelle che Vittorio Amedeo II gli aveva affidato erano mansioni certamente non di scarso peso, complicate ulteriormente dal fatto che i finanziamenti da Torino nel migliore dei casi tardavano ad arrivare e, nel peggiore, non venivano spediti del tutto. Pertanto più di una volta il religioso si trovò nella condizione di dover attingere al proprio patrimonio personale o richiedere prestiti a banchieri e patrizi veneziani per far fronte alle spese legate alla fabbrica del bucintoro. Addirittura, al fine di reperire i fondi utili al viaggio di consegna, si vide costretto a chiedere liquidità anche ad un confratello milanese, padre Gandolfo.

L'opera venne realizzata in seno allo squero di Zuanne, proto-fabbricatore di un cantiere navale in rio dei Mendicanti. Zuanne incaricò lo «squerariol di Buran» Antonio di costruire il corpo dell'imbarcazione, pagò i mastri calafatami dell'Arsenale affinché sovrintendessero alle operazioni di impermeabilizzazione dello scafo ligneo e padron Bortolo perché si occupasse del "lancio all'acqua". Presso questo cantiere non fu affatto difficile radunare il capitale umano utile al completamento del bucintoro, che difatti venne fastosamente ornato con raffinate pitture a grisaglia, elaborati intrecci decorativi a rilievo, emblemi e sculture dorate di dimensioni maggiori del naturale da un'équipe composta da alcuni dei migliori artigiani, pittori e scultori attivi nella Serenissima. Padre Francesco Gandolfi, confratello di Ceccati, si occupò di monitorare giornalmente l'avanzamento dei lavori. Fra' Cristoforo avrebbe voluto affidare la messa in opera del corredo scultoreo ad Antonio Corradini - lo scultore che, nel 1729, per conto del Senato Veneziano, aveva curato gli strepitosi ornati del perduto Bucintoro Dogale - ma dovette rinunciare all'idea in quanto, nel frattempo, l'artista era stato convocato a Vienna dall'imperatore Carlo VI d'Asburgo.

L'agostiniano non si perse d'animo e scelse tra la folta schiera dei possibili candidati Matteo Calderoni - colui che aveva collaborato con il Corradini nell'esecuzione del bucintoro di Alvise III Mocenigo - come capomastro addetto all'intaglio, ed Egidio Gioel, il maestro d'ascia autore della ribolla del timone avente le fattezze di un drago. La nave lusoria fu ultimata in circa 16-17 mesi, tra il maggio e il giugno del 1731. Il risultato era a dir poco strabiliante. Con i suoi 16 metri di lunghezza per altrettanti 2,50 di altezza la peota regale ostentava fragorosamente con una rara esuberanza decorativa (normalmente il tiemo delle unità da parata non veniva ornato con pitture, perché l'umidità le avrebbe compromesse) la propria natura di lussuosa reggia fluviale, ulteriormente confermata dalla presenza di due

«cadreghe alla dolfina» - ovvero di troni regali di modeste dimensioni - all'interno della cabina.

Matteo Calderoni ed Egidio Gioel su disegno di Filippo Juvarra - "Bucintoro del Re dei Sardegna", 1730-31, legno intagliato, scolpito, dorato a foglia e dipinto. Venaria Reale, Reggia di Venaria Reale - concesso in comodato dal Museo Civico d'Arte Antica di Palazzo Madama, a Torino. Fonte: http://www.lavenaria.it/.

L'abdicazione di Vittorio Amedeo

Martin Van Meytens - Ritratto di S.A.R. Vittorio Amedeo II di Savoia, 1728, olio su tela. Venaria Reale, Reggia di Venaria Reale - concesso in comodato dal Palazzo della Giunta Regionale del Piemonte. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Nei mesi intercorsi tra la partenza di padre Ceccati per Venezia nel novembre del 1729 e l'arrivo del convoglio con le varie componenti del Regio Bucintoro il 2 settembre 1731 molte cose erano profondamente mutate alla corte di Torino. Vittorio Amedeo II, contro ogni aspettativa, aveva deciso di abdicare in favore del figlio Carlo Emanuele e di ritirarsi a Chambéry. Tale scelta era stata dettata da precise contingenze di natura politica e non - come ufficialmente indicato - da infermità fisiche legate all'età avanzata del sovrano.

L'anziano abdicatario, noto voltagabbana, aveva nuovamente cambiato schieramento aprendo un dialogo con Francia e Spagna a discapito stavolta dell'imperatore Carlo VI d'Asburgo. Perfettamente conscio del fatto che questo avrebbe messo a repentaglio i delicati equilibri politici faticosamente intessuti dal neonato Regno di Sardegna, Vittorio Amedeo aveva ritenuto opportuno uscire di scena in maniera repentina prima ancora di vedere portate a compimento le opere commissionate a Juvarra: la Chiesa di Sant'Uberto alla Venaria, la Real Basilica di Superga, la Palazzina di Caccia a Stupinigi e, non in ultimo, il Regio Bucintoro. Prima di lasciare il trono si era premurato di chiedere al principe Eugenio di Savoia di fare da intermediario alla corte viennese a beneficio di suo figlio, il quale non poteva in alcun modo essere responsabile delle machiavelliche scelte politiche paterne. Per il nuovo re di Sardegna, all'epoca trentenne, era meglio non farsi nemici potenti prima ancora di ricevere dalle mani dell'arcivescovo la corona sul capo.

Maria Giovanna Clementi - Ritratto di S.A.R. Carlo Emanuele III con gli abiti dell'incoronazione, 1730 circa, olio su tela. Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d'Arte Antica. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Sebbene avesse scelto inappellabilmente di ritirarsi a vita privata e di allontanarsi il più possibile dalla capitale "la Volpe Savoiarda" non aveva affatto perso interesse per gli affari statali, pertanto volle essere costantemente informato sull'operato del proprio successore a Torino. Non passò molto tempo prima che, tra padre e figlio, si inasprissero i rapporti personali a causa di forti divergenze in materia di questioni governative. A Vittorio Amedeo non piacquero per nulla le modalità con cui Carlo Emanuele III stava gestendo i rapporti con Roma, ove il neoeletto pontefice Clemente XIII aveva manifestato la volontà di mettere mano ad alcune clausole del Concordato Amedeano del 1727, con il quale erano stati regolati i rapporti tra la Chiesa e i Savoia, sancendo una netta dicotomia tra i poteri temporale e religioso nonché l'autonomia del regno da ogni ingerenza papale. La rottura tra il sovrano regnante e il sovrano emerito avvenne nel mese di agosto del 1731, a seguito di una visita informale in Savoia di Carlo Emanuele III. Ad una settimana di distanza da quel burrascoso colloquio il re abdicatario decise di fare ritorno in Piemonte e di stabilirsi nel Castello di Moncalieri. Fu un passo falso. Alla corte di Torino si iniziò a vociferare che Vittorio Amedeo II avesse ordito un complotto per deporre il figlio e riprendere le redini del potere. Carlo Emanuele III, consigliato dal conte d'Ormea, fece arrestare il padre con l'accusa di alto tradimento. Il primo re della dinastia sabauda venne così rinchiuso nel Castello di Rivoli, dove le sue condizioni di salute precipitarono a tal segno da condurlo alla morte, avvenuta il 31 ottobre 1732.

Il tempismo dell'arrivo della "burchiella" [2] contenente le varie componenti del Bucintoro non poteva essere peggiore. Mentre l'imbarcazione sfilava difronte al Santuario della Madonna del Pilone, nei pressi del porto fluviale di Torino, dirigendosi verso la darsena allestita accanto alla facciata del Castello del Valentino, la corte veniva sconvolta da una crisi dinastica che sarebbe terminata nel più drammatico dei modi. Ad un anno di distanza da questi infelici accadimenti, il Re di Sardegna, per celebrare il primo anno di regno, l'8 settembre del 1732 solcò le acque del Po a bordo del Bucintoro affiancato dalla seconda moglie, Polissena d'Assia-Reinhfels-Rotenburg (all'epoca incinta dello sfortunato Emanuele Filiberto, duca d'Aosta, destinato a morire ancor prima di compiere il terzo anno di età), mostrandosi trionfante nei confronti dei sudditi che si accalcavano sulle sponde del fiume attirati da un evento così fuori dall'ordinario. Sua Maestà dimostrava così di aver interiorizzato alla perfezione il concetto cui alludeva uno dei motti latini più cari alla dinastia, "OPPORTUNE", ossia l'arte della dissimulazione. Da quella data la nave lusoria entrò a pieno titolo nella vita di corte, divenendo protagonista di tutte le più importanti cerimonie dinastiche, come le nozze tra Carlo Emanuele IV e Maria Clotilde di Borbone (1775), il sontuoso matrimonio di Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena (1842) e gli sponsali del principe Amedeo, duca d’Aosta, e Maria Dal Pozzo della Cisterna (1867).

Nel 1869 Vittorio Emanuele II, primo re dell'Italia unita, decise di donare la preziosa unità da parata alla Città di Torino, destinandola al Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama.

Lì è rimasta fino al 2000, anno in cui è stata trasferita ad Aramengo d'Asti nei locali del Laboratorio Nicola Restauri. 11 anni dopo, in settembre, è stata portata al Centro Conservazione e Restauro "La Venaria Reale" per essere sottoposta a delicati interventi di ripristino. Una volta terminate le lunghe e complesse operazioni di restauro, nell'autunno del 2012 il Bucintoro dei Re di Sardegna è stato concesso in comodato dal Museo Civico d'Arte Antica di Torino alla Reggia di Venaria Reale ed esposto accanto alle carrozze regali presso la Scuderia Juvarriana con una strepitosa scenografia audiovisiva curata dal regista Davide Livermore con musiche di Antonio Vivaldi.

 

Note

[1] termine veneziano con il quale veniva indicato il baldacchino tipico delle navi da parata dogali.

[2] imbarcazione a fondo piatto utilizzata per il trasporto delle merci.

 

Bibliografia

"La Barca Sublime. Palcoscenico regale sull'acqua" a cura di Elisabetta Ballaira, Silvia Ghisotti Angela Griseri. Silvana Editoriale, settembre 2012.

"La Peota dei Savoia", a cura di Giovanni Panella. Nautica, febbraio 2013.

 

Sitografia

http://www.lavenaria.it/it/mostre/barca-sublime

https://www.treccani.it/enciclopedia/vittorio-amedeo-ii-di-savoia_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-emanuele-iii-di-savoia-re-di-sardegna_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/polissena-giovanna-cristina-d-assia-rheinfels-regina-di-sardegna_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/filippo-juvarra_%28Dizionario-Biografico%29/


VASARI A BOSCO MARENGO PARTE III

A cura di Francesco Surfaro

Introduzione

In questa terza ed ultima parte dedicata alle opere eseguite tra il 1566 e il 1569 da Giorgio Vasari su commissione di papa Pio V per la chiesa di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo (AL) verranno approfondite le due tavole maggiori che ornavano il recto e il verso dello smembrato altare maggiore e si affronteranno le problematiche legate all'attribuzione degli scomparti minori.

Giorgio Vasari e Jacopo Zucchi: Particolare de "Il Martirio di San Pietro da Verona", 1569, olio su tavola di pioppo. Bosco Marengo, Museo Vasariano.

Santa Croce a Bosco Marengo nelle opinioni del tempo

Agli occhi dei contemporanei del Vasari il fatto che l'artista avesse eseguito le pitture boschesi per l'altare maggiore di Santa Croce e Ognissanti “tutte in legniame, lavorate a olio” (Ricordanze, ed.1927-28) poteva apparire come una sorta di arcaismo. D'altra parte la scelta di un supporto ormai considerato antiquato e desueto, sempre meno utilizzato in favore della tela, era perfettamente in linea con la richiesta papale di una «macchina grandissima quasi a guisa d'arco trionfale» non troppo dissimile, sia per l'impostazione generale che per il programma iconografico impregnato di retorica tipologica, ad un polittico medievale. Queste peculiarità dall'intenso sapore revivalistico costituiscono un riflesso piuttosto nitido delle politiche intransigenti e rigidamente conservatrici adottate dal fanatico pontefice committente, Pio V Ghislieri, indefesso fidei defensor contro ogni possibile attacco all'ortodossia cattolica, protestante o turco che fosse.

In una lettera spedita da Roma il 14 marzo del 1567 all'amico Vincenzo Borghini Vasari ammetteva candidamente che, una volta tornato in patria, all'interno della propria bottega fiorentina avrebbe dato «da fare per tutti, massime per Francesco», riferendosi in maniera esplicita a Francesco Morandini, anche noto come "Il Poppi", uno dei suoi allievi più talentuosi. Questa circostanza non stupisce affatto: l'Aretino all'epoca aveva raggiunto l'apice della notorietà e, in quello che sarebbe stato l'ultimo convulso decennio della propria lunga e gloriosa carriera (passò difatti a miglior vita nel 1574), era gravato da tutta una serie di incarichi estremamente onerosi, pertanto, mai avrebbe avuto modo di portare a compimento da solo un'impresa tanto ambiziosa[1].

Le ipotesi attributive delle tavole dell'altare maggiore di Santa Croce a Bosco Marengo

Motivati dall'ammissione dello stesso Vasari gli studiosi hanno elaborato, sulla base di evidenze stilistiche e tecniche, diverse ipotesi attributive per ciascuna delle tavole che, prima dello smantellamento settecentesco, ornavano la macchina d'altare di Bosco. La critica è concorde nel sostenere la piena autografia vasariana del Giudizio Universale (unico fra tutti i pannelli a riportare la firma dell'Aretino e la data del 1568), delle coppie di Santi Domenicani e dell'ovale con un Santo Vescovo di Tatton Park. La stessa cosa non si può certo asserire per il Martirio di San Pietro da Verona, ove è pressoché certo un contributo di Jacopo Zucchi. Vengono ricondotti allo stesso Zucchi, al già citato Morandini e a Giovanni Battista Naldini gli scomparti della predella e le quattro tavolette con scene di miracoli operati dai santi Domenico di Guzmán, Antonino da Firenze, Tommaso d'Aquino e Vincenzo Ferrer. Alla mano del Poppi si accostano le formelle del Sacrificio di Caino e Abele, della Pasqua Ebraica (dove pare si sia autoritratto nelle vesti di un personaggio che si volta verso l'osservatore) e dell'Ultima Cena (quest'ultima è praticamente sovrapponibile ad un olio su tavola del medesimo soggetto considerato autografo del Vasari che si custodisce presso il Convento della Santissima Annunziata a Figline Valdarno); a Zucchi vengono attribuite le tavolette raffiguranti l'Incontro tra Abramo e Melchisedec, la Caduta della Manna e San Domenico che resuscita Napoleone Orsini; al pennello di Naldini si riconducono invece il Sacrificio di Isacco, San Vincenzo che resuscita un morto, la Visione di San Tommaso e l'Elemosina di Sant'Antonino.

 

Il Giudizio Universale dell'altare maggiore di Santa Croce a Bosco Marengo

Giorgio Vasari: "Il Giudizio Universale", 1568, olio su tavola di pioppo. Bosco Marengo, Complesso Monumentale di Santa Croce e Ognissanti - abside della chiesa. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

A seguito dello smembramento dell'altare maggiore, il Giudizio Universale - originariamente collocato sulla faccia anteriore della monumentale macchina liturgica - fu posizionato, tra la fine del primo e il principio del secondo decennio del XVIII secolo, nell'emiciclo absidale, al di sopra del pregiato coro ligneo dei frati domenicani eseguito nel triennio 1567-1569 da Giovanni Gargiolli e Giovanni Angelo Marini detto "il Siciliano". In quell'occasione l'opera venne dotata di una sontuosa cornice tardobarocca in legno e stucco dorati a foglia percorsa da un elaborato intreccio di racemi acantacei, realizzata appositamente, fra il 1712 e il 1713, dai maestri intagliatori Pietro Girolamo Chiara e Giovanni Santo.

La descrizione

Per agevolare la lettura del dipinto è possibile frazionare idealmente l'affollata composizione in tre registri. In alto il Cristo Giudice, trasfigurato entro un alone luminoso giallognolo, siede su un trono di nubi plumbee circondato da una corona di Santi. Con un imperioso cenno della mano destra decreta la Fine dei Tempi e chiama al cospetto della sua Maestà divina i salvati, mentre, con uno sguardo colmo di ira accompagnato da un gesto di ripulsa della mano sinistra, ordina a Michele, Capo delle Milizie Celesti, di respingere i dannati nel Fuoco Eterno. Fiancheggiano il Giudice divino i Quattro Evangelisti, San Pietro e la Vergine Maria. Più in basso, al centro della fascia mediana, un'androgina figura angelica dal volto raffaellesco sorregge la Croce affiancata lateralmente da due simmetrici angeli tubicini, il primo dei quali ha già terminato di scandire le opere di bene e le malefatte compiute dai risorti elencate all'interno del Libro della Vita che, difatti, giace chiuso ai suoi piedi. L'altra creatura celeste, di contro, mostra un volume rilegato sulle pagine del quale si legge: “A.D. MDLXVIII/ PIVS V PONT./MAX. FIERI/ FECIT/ GEORGIVS/ VASARIVS/ ARETINVS/PINXIT”. All'estrema sinistra e all'estrema destra trovano posto due coppie di putti svolazzanti che ostentano i simboli della Passione di Cristo, ovvero la colonna della flagellazione, la lancia di Longino, una spugna issata all'estremità di una canna, la corona di spine, un flagello e i tre chiodi della crocifissione.

Nella parte inferiore dell'opera l'arcangelo Michele - che ricalca perfettamente nella torsione del busto e nella posizione delle braccia l'atteggiamento assunto dal Cristo nella fascia superiore della composizione - in veste di esecutore della Giustizia Divina sguaina la spada per separare gli eletti dai reprobi. Se i primi vengono calorosamente accolti dagli angeli con abbracci e baci e guidati verso il Paradiso, ove ascendono in volo privi del peso dei peccati, i secondi, nudi, atterriti nell'animo e deformati nelle fattezze, vengono torturati e trascinati da orrendi demoni palesemente  presi in prestito dai repertori figurativi medievali, i quali, afferrandoli di peso, li  scaraventano presso la porta dell'Inferno, rappresentata - secondo un'iconografia molto cara agli artisti dell'Età di Mezzo - come le grosse fauci di un essere mostruoso dalle zanne sporgenti, aguzze e ricurve. Alle spalle dell'arcangelo si scorge fra la schiera degli eletti l'austero profilo di Pio V, riconoscibile per la tonsura, il naso aquilino, la lunga barba canuta e l'ermellino papale. Né nello studio preparatorio conservato al Cabinet des Dessins del Louvre né nella bozza della Fondazione Ratjen di Vaduz è possibile rintracciare il ritratto del pontefice, da ciò si evince che questo omaggio al committente - effigiato non a caso accanto al santo di cui, in religione, portava il nome - sia stato aggiunto dall'artista soltanto in corso d'opera per ovvie motivazioni encomiastiche.

Analisi dell'opera

Dovendo affrontare un tema come quello del Giudizio Finale Vasari non poteva sottrarsi dal confronto con tutta la sterminata tradizione iconografica di origine medievale ormai divenuta canonica, così come non poteva evitare di volgere il proprio sguardo all'illustre precedente michelangiolesco della Sistina. Osservando in maniera analitica questa complessa composizione pittorica è possibile rintracciare i modelli e le suggestioni che dovettero ispirare l'Aretino nel realizzarla.

Nella drammatica postura del Cristo con lo sguardo abbassato, il volto quasi di profilo, il braccio destro alzato in un potente gesto d'imperio e l'atletico torace vulnerabile lasciato scoperto da una sottile veste si riconosce un palese debito nei confronti dell'apollineo Cristo Giudice effigiato da Michelangelo nella Cappella Sistina. Anche il contrapposto che caratterizza la posa della Vergine alla destra del Figlio (quindi alla sinistra di chi guarda) ricorda molto da vicino quello della più dimessa Madonna del Giudizio michelangiolesco. È poi interessante notare come l'Evangelista collocato all'estrema destra del registro superiore sia una libera riproposizione in pittura del Mosè di San Pietro in Vincoli visto dal fianco destro. La figura muliebre di spalle in primo piano a sinistra è un'evidente citazione raffaellesca tratta dalla Trasfigurazione dei Musei Vaticani. Accanto al profilo di Pio V l'ovale ruotato di tre quarti di una mantellata (terziaria domenicana) con lo sguardo assorto verso l'alto sembra riprendere i volti della Santa Caterina d'Alessandria, oggi alla National Gallery di Londra, e della Galatea di Villa Farnesina, dipinte da Raffaello rispettivamente intorno al 1507 e nel 1512. Notevoli sono inoltre i punti di contatto ravvisabili fra il Giudizio Universale di Bosco e il pannello centrale del Trittico del Giudizio Finale, opera di Beato Angelico, conservato attualmente presso la Gemäldegalerie di Berlino[2].

Fra' Giovanni da Fiesole detto "Beato Angelico": Trittico del Giudizio Universale, 1435-36, tempera e foglia oro su tavola. Berlino, Gemäldegalerie.

Sia il Giudizio Finale dell'Angelico che quello del Vasari possono essere idealmente suddivisi in tre fasce:

  • la prima col Cristo Giudice affiancato dalla Vergine, da San Pietro, dagli Evangelisti e da alcuni membri della corte celeste;
  • la seconda con l'angelo crocifero al centro e gli angeli tubicini ai lati;
  • la terza con l'arcangelo Michele che suddivide i defunti appena resuscitati fra eletti e reprobi.

Nelle due tavole le gestualità del Cristo Giudice sono praticamente le stesse, così come identico è pure l'ordine in cui sono disposti i personaggi attorno al Redentore. In entrambe le opere i giusti vengono abbracciati con letizia dagli angeli e condotti verso il Paradiso, mentre i dannati, visibilmente disperati, vengono trascinati a suon di arpionate da orride creature demoniache nella "bocca" dell'Inferno. Non mancano inoltre scene truculente in cui i risorti, una volta appreso d'esser stati destinati alla dannazione eterna, si abbandonano ad atti di autolesionismo.

Giorgio Vasari: "Il Giudizio Universale" (particolare della figura muliebre collocata all'estrema sinistra del registro inferiore), 1568, olio su tavola. Bosco Marengo, Complesso Monumentale di Santa Croce e Ognissanti - abside della chiesa.

 

Il Martirio di San Pietro da Verona

Giorgio Vasari e Jacopo Zucchi: "Il Martirio di San Pietro da Verona", 1569, olio su tavola di pioppo. Bosco Marengo, Museo Vasariano. Fonte: Sito ufficiale del Museo Vasariano.

Ubicata anticamente sul verso della Macchina Vasariana, ossia la parte rivolta verso il coro dove i frati si riunivano in momenti di raccoglimento e di preghiera, la tavola raffigurante il Martirio di San Pietro da Verona, dopo lo smembramento dell'altare per cui fu concepita, venne posizionata al di sotto del finestrone che illumina il braccio destro del transetto, accanto al cenotafio di Pio V. Nell'ottobre del 2011, con l'allestimento del Museo Vasariano di Bosco Marengo nei locali della Sacrestia e della Sala Capitolare del convento attiguo alla chiesa di Santa Croce e Ognissanti, l'opera è stata inserita all'interno di un percorso espositivo accanto agli scomparti minori superstiti del perduto polittico. Fra tutte le componenti sopravvissute della "macchina grandissima" è l'unica a conservare l'originale cornice dorata intagliata dal Gargiolli sulla quale si imposta una sagoma lignea dipinta a marmorino, che costituisce il solo frammento esistente della parte architettonica dell'altare disegnato da Vasari. Perfettamente speculare a quella del Giudizio Universale, la composizione del Martirio di San Pietro è divisibile in due sezioni principali inframmezzate da una fascia centrale. Nella parte superiore, su una spessa coltre di nubi, è rappresentato san Domenico di Guzmán inginocchiato difronte alla Madonna col Bambino in gloria, ammantata d'azzurro e scortata da tre puttini. In basso, proiettata su un paesaggio boschivo di ascendenza nordica, si svolge la concitata scena dell'aggressione al frate domenicano Pietro da Verona (particolarmente somigliante ad una tavola del medesimo soggetto dipinta sempre dal Vasari oggi custodita al Kunsthistorisches Museum di Vienna), il quale soccombe sotto i colpi mortiferi sferrati dal carnefice cataro. Poco prima di spirare il santo fa in tempo a scrivere per terra con il sangue che stilla abbondantemente dal suo cranio divelto le prime tre parole del Credo Niceno-Costantinopolitano: "CREDO IN UNUM DEUM". Al centro della pala la presenza dei tre putti in volo recanti fra le mani corone e palme del martirio suggerisce in maniera sottile un parallelismo tra il sacrificio salvifico di Cristo sulla Croce e l'assassinio di San Pietro, barbaramente ucciso perché aveva contrastato con forza l'eresia dualista svolgendo la carica di inquisitore, conferitagli da papa Gregorio XII nel 1251. I santi Domenico e Pietro, degni exempla di strenui difensori delle verità di fede contro ogni eterodossia, incarnavano appieno lo spirito del nuovo Cattolicesimo post-tridentino; proprio per questo motivo Ghislieri, committente e ideatore del piano iconografico della Macchina Vasariana nonché membro dell'Ordine dei Frati Predicatori, volle riservare alle loro figure un ruolo centrale. Il Martirio di San Pietro di Verona si configura dunque come una sorta di manifesto politico della Chiesa nell'Età della Controriforma, in cui i Domenicani, responsabili della Santa Inquisizione, vengono individuati come uno strumento efficace per arginare la minaccia protestante.

Note

[1] A Firenze, per Cosimo I de' Medici, stava affrescando, con la preziosa collaborazione del proprio éntourage, il ciclo pittorico del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. Al contempo, in veste di architetto, stava concretizzando il grandioso progetto ducale di renovatio urbis comprendente l'adattamento della Basilica di Santa Maria Novella e di altri grandi luoghi di culto fiorentini alle nuove esigenze liturgiche stabilite dal Concilio di Trento e la Fabbrica degli Uffizi. Mentre ancora cercava di districarsi fra le commissioni cosimiane e pontificie Vasari stava curando l'edizione giuntina de "Le Vite de' più Eccellenti Pittori, Scultori et Architettori. Da Cimabue insino a' giorni nostri.", data alle stampe nel 1568. Merita inoltre di essere ricordato il ruolo diplomatico non certo secondario svolto dall'Aretino tra Firenze e Roma negli anni 1566-1569 per estorcere a papa Ghislieri la nomina a Granduca di Toscana di Cosimo I, suo principale protettore. Fu proprio dalle mani di Pio V che, il 4 marzo del 1569, de' Medici ricevette, grazie anche al contributo vasariano, la corona granducale nel corso di una solennissima cerimonia tenutasi all'interno della prestigiosa cornice della Cappella Sistina, ai piedi degli affreschi partoriti dal «divinissimo ingegno» di Michelangelo Buonarroti.

[2] Dipinto tra il 1435 e il 1436 forse per il cardinale Juan de Casanova, il trittico, documentato per la prima volta nel 1572 nell'inventario delle collezioni di papa Pio V Ghislieri, era originariamente un'unica tavola di forma rettangolare che fu poi smembrata in una non meglio conosciuta epoca successiva.

 

Bibliografia

MARIO EPIFANI: Ancora Vasari a Bosco Marengo. La "Macchina grandissima" per l'altare maggiore", 2011, tratto da: http://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/23/9977 _CAREDDU.pdf

GIORGIO ETTORE CAREDDU: Vasari a Bosco Marengo. Indagini diagnostiche e problematiche di restauro, tratto da: Giorgio Vasari tra parola e immagine, Aracne Editrice, 2013

FULVIO CERVINI, CARLENRICA SPANTIGATI: Santa Croce di Bosco Marengo, Cassa di Risparmio di Alessandria, 2002

CLAUDIA CONFORTI: Giorgio Vasari al servizio di Pio V: affermazione artistica o ostaggio diplomatico?

https://www.academia.edu/40350887/Due_lavori_del_Vasari_nel_complesso_monumentale_di_Santa_Croce_in_Bosco_Marengo

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-vasari_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia- del-Pensiero:-Storia-e-Politica%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/pio-v-papa-santo/

https://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-da-verona-santo_%28Dizionario-Biografico%29/

https://archiviodigitalefec.dlci.interno.it/fec/fotografie/detail/IT-FEC-FT0001-021631/bosco-marengo-al-santa-croce-e-ognissanti-giorgio-vasari-giudizio-universale-pala-d-altare-1568-pietro-girolamo-chiara-e-giovanni.html

http://archiviovasari.beniculturali.it/index.php/autobiografia-di-giorgio-vasari/

https://www.treccani.it/enciclopedia/complesso-monumentale-di-santa-croce-e-ognissan%ED%AF%80%ED%B6%9F-di-bosco-marengoh%ED%AF%80%ED%B6%

www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-vasari/

https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-gargiolli_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/angelo-marini_%28Dizionario-Biografico%29/


LE OPERE DI VASARI A BOSCO MARENGO PARTE II

A cura di Francesco Surfaro

Introduzione

In questa seconda parte dedicata alle opere realizzate, tra 1566 e 1569, da Giorgio Vasari su commissione di papa Pio V Ghislieri per la chiesa conventuale di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo (AL) verranno arontate le problematiche legate alla genesi e alle ipotesi ricostruttive del perduto altare maggiore vasariano.

Giorgio Vasari: una nuova commissione per Santa Croce

Il 25 febbraio del 1567 Giorgio Vasari si recò alla volta della Città Eterna per sottoporre all'intransigente giudizio del papa regnante, Pio V Ghislieri, l'opera che quest'ultimo gli aveva commissionato all'inizio dell'estate precedente per una delle cappelle laterali dell'edificanda chiesa conventuale dei Padri Domenicani di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo: l'Adorazione dei Magi. Evidentemente soddisfatto del superbo lavoro eseguito il pontefice, approfittando della presenza del suo artista ufficiale nell'Urbe, gli richiese l'elaborazione di un progetto molto più articolato e ambizioso rispetto al precedente, stavolta non per una cappella laterale, ma per l'altare maggiore della medesima chiesa boschese il quale, con ogni probabilità, doveva essere stato meditato già da diverso tempo. È noto infatti che, già dal 1562, Ghislieri - all'epoca ancora porporato - aveva in mente di far innalzare un complesso monastico nel proprio borgo natio, pensato in origine non come una sorta di "cattedrale nel deserto" (sorge infatti fuori le mura civiche), quale poi rimase effettivamente al momento della sua dipartita, ma come il cuore pulsante di un nucleo cittadino di nuova fondazione che avrebbe dovuto inglobare i centri di Bosco e della non lontana Frugarolo.

Domìnikos Theotokòpoulos detto "El Greco": Ritratto di Pio V. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

 

Come nel caso dell'Adorazione dei Magi è Vasari stesso, nella sua autobiografia e nel suo fitto carteggio intrattenuto col tesoriere segreto e Primo Cameriere pontificio Monsignor Guglielmo Sangalletti, a fornire puntualmente informazioni precise su questa nuova onerosa commissione papale, la quale andava a sommarsi alla già insostenibile mole di impegni a cui doveva far fronte in questo periodo frenetico e convulso della sua carriera:

«[...] (Il Papa) mi ordinò che io facessi per l'altar maggiore della detta sua chiesa del Bosco, e non una tavola, come s'usa comunemente, ma una macchina grandissima quasi a guisa d'arco trionfale, con due tavole grandi, una dinanzi et una di dietro, et in pezzi minori circa trenta storie piene di molte figure che tutte sono a bonissimo termine condotte […].»

'Le Vite de' più Eccellenti Pittori, Scultori et Architettori', Autobiografia (ed.1568).

Jacopo Zucchi: Ritratto di Giorgio Vasari, 1571-74. Firenze, Galleria degli Uffizi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

In alcune missive indirizzate allo storico Vincenzo Borghini, suo caro amico, e a Francesco de' Medici, figlio di Cosimo I e futuro Granduca di Toscana, Vasari illustrò certe sue idee per la grande macchina di Santa Croce, accostando questo progetto ad analoghi altari lignei da lui realizzati in patria: l'altare dell'Eremo di Camaldoli (1540), l'altare della Badia Fiorentina (1568) e quello della Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo (1564). Dei tre menzionati soltanto l'ultimo, trasferito nella seconda metà del XIX secolo presso la Badia aretina delle Sante Flora e Lucilla, è sopravvissuto - seppur con qualche sensibile rimodulazione relativa perlopiù al basamento - alle ingiurie dei secoli.

Pio V concesse a Vasari di poter lavorare al polittico presso la propria bottega fiorentina, all'interno della quale avrebbe potuto contare sull'aiuto dei suoi più fidati allievi e collaboratori. Una volta portata a compimento la commissione, i vari scomparti sarebbero stati imbarcati da Pisa alla volta di Genova e da lì inviati a Bosco via terra. Giunto a Firenze all'inizio della primavera del 1567, Vasari si mise subito all'opera disegnando studi preparatori da inviare a Roma per ottenere un parere da Sua Santità. Di questi rimangono soltanto due, entrambi relativi alla tavola centinata raffigurante il Giudizio Universale che, in origine, campeggiava sulla faccia anteriore del polittico. Il primo si conserva a Parigi, presso il Cabinet des Dessins del Musée du Louvre, l'altro invece trova la propria collocazione alla Fondazione Ratjen di Vaduz, in Liechtenstein. La bozza parigina riveste un'importanza straordinaria in quanto, assieme ad un particolare visibile sullo sfondo di una pala collocata sull'altare della Cappella di Sant'Antonino in Santa Croce, costituisce l'unica testimonianza grafica nota in grado di restituire un'idea di come doveva presentarsi la Macchina Vasariana prima dello scellerato smantellamento settecentesco.

Giorgio Vasari (e Jacopo Zucchi?): Studio preparatorio per la macchina d'altare di Bosco Marengo, 1567, inchiostro su carta. Parigi, Musée du Louvre - Cabinet des Dessins.

 

In una lettera datata 28 giugno 1567 Monsignor Sangalletti informava Vasari che il disegno preparatorio per l'altare di Bosco, identificabile forse proprio con quello del Louvre, era arrivato a destinazione con un messo d'eccezione: Battista di Bartolomeo di Filippo Botticelli. Nativo come Vasari di Arezzo, Botticelli era, oltre che un talentuoso maestro d'ascia, anche uno dei più stimati pupilli dell'artista. Fu proprio grazie all'autore de 'Le Vite' che questi si aggiudicò, con una procedura tutt'altro che trasparente, la commissione del nuovo soffitto alla veneziana del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. Vasari avrebbe voluto fargli affidare anche la realizzazione dell'apparato ligneo della grande macchina di Bosco ma, per problemi di natura logistica, Pio V ignorò le pressioni esercitate dal proprio artista ufficiale volte a favorire in maniera alquanto spudorata il suo protetto e decise di conferire l'incarico ad una bottega di maestri legnaiuoli che si trovava già in loco, ovvero quella capeggiata dal fivizzanese Giovanni Gargiolli, attivo in quel tempo anche nel coro del Duomo di Santa Maria Assunta a Siena.

Per dare corpo all'altare più grande mai delineato dalla china vasariana Gargiolli si avvalse di alcuni aiuti per quanto concerneva la parte strettamente figurativa, fra questi emerge il nome di Giovanni Angelo Marini detto "il Siciliano", uno degli scultori operanti nel cantiere della Certosa di Pavia e alla Veneranda Fabbrica del Duomo di Santa Maria Nascente a Milano, la cui mano fu abile nel coniugare i modi tipici della Maniera centroitaliana ad un linguaggio inequivocabilmente legato al gusto degli ambienti meneghini.

Le ipotesi ricostruttive della Macchina Vasariana

Prima che, tra 1709 e 1710, nel corso dei lavori di rifacimento decisi in vista dell'imminente canonizzazione di Pio V, i domenicani ne decretassero lo smembramento e la parziale dispersione, la monumentale Macchina Vasariana di Bosco Marengo, capolavoro della carpenteria, della scultura e della pittura tardo-cinquecentesche, con i suoi 10,50 metri di altezza e 6,40 di larghezza si ergeva maestosa presso la crociera dell'ampia struttura longitudinale a croce latina, al di sotto della cupola ottagonale, in posizione leggermente avanzata rispetto all'arco trionfale.

Pur essendoci alcune discordanze fra le uniche attestazioni visive dell'opera antecedenti allo smontaggio (la proposta progettuale del Louvre e la Pala di Sant'Antonino), grazie ad un raffronto fra esse e alle notizie desumibili dagli scritti di Vasari e dalla "Istoria del convento di Santa Croce e Tutti i Santi della Terra del Bosco" (1783) di fra' Guglielmo della Valle, primo storico del complesso monastico di Bosco, è possibile avanzare delle ipotesi di ricostruzione non troppo lontane dalla realtà.

L'altare bifronte in legno di pioppo dorato a foglia, andato completamente distrutto nella sua parte architettonica, si presentava con un impianto prismatico a base rettangolare riccamente ornato con le già citate pitture su tavola dipinte da Vasari e dalla sua bottega, bassorilievi in noce, emblemi e sculture.

Giovanni Gargiolli (o bottega di): Emblema dell'Ordine Domenicano, 1567-69, legno di noce. Bosco Marengo, Museo Vasariano. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Ai lati della mensa, rialzata dal piano di calpestio mediante tre scalini, erano disposti due stemmi, uno riferito all'Ordine dei Frati Predicatori (scudo cappato di bianco e nero con una stella a sei punte, un cane pezzato che tiene una fiaccola accesa tra le fauci, un ramo di palma e uno stelo di giglio incrociati), già nel transetto sinistro, sulla porta d'accesso alla Cappella delle Reliquie ed oggi collocato presso il Museo Vasariano, e l'altro appartenente a Pio V (tre bande rosse su campo dorato), ora posizionato a mo' di fastigio sull'altare della Madonna del Rosario, nell'omonima cappella a sinistra della navata. Osservando in modo analitico lo studio preparatorio del Louvre si nota che, nella mente del progettista, entrambi gli emblemi araldici intagliati sul basamento dovevano riferirsi al pontefice committente ma, in fieri, si decise di aggiungere il blasone domenicano per omaggiare l'ordine che aveva in custodia l'intero complesso conventuale e di cui, peraltro, lo stesso Ghislieri era membro. Nel livello architettonico successivo si innestava la predella, ornata da vari scomparti raffiguranti episodi dell'Antico e del Nuovo Testamento volti ad esaltare il Mistero del Sacrificio Eucaristico, accostati fra loro secondo una retorica tipologica derivante dall'esegesi patristica che consiste nel rintracciare in episodi biblici la prefigurazione di eventi narrati nei quattro Vangeli sinottici. Riguardo il tabernacolo eucaristico che costituiva il fulcro della predella non vi è certezza su quale fosse la sua reale conformazione: nel disegno del Cabinet des Dessins appare come una struttura tripartita, costituita da un corpo centrale aggettante sovrastato da un timpano centinato e affiancato da due nicchie abitate da figurine in atteggiamento orante; volgendo invece lo sguardo alla pala d'altare del tardo Cinquecento custodita presso la Cappella di Sant'Antonino si noterà che il ciborio riproduce la forma di un tempietto a base rettangolare, sostenuto da esili colonnine binate, coronato da un timpano con sommità aperta e sovrastato da un cupolino su cui svetta un piccolo globo crociato. Su un plinto con girali di foglie acantacee inframmezzati da elementi ornamentali (forse mascheroni) poggiavano coppie di semicolonne di ordine tuscanico. Lungo la trabeazione si snodava un fregio ritmicamente scandito dal susseguirsi di triglifi e metope. Completavano la decorazione del penultimo livello architettonico quattro scomparti ovoidali raffiguranti i Dottori della Chiesa. A coronamento della Macchina era posto un attico sormontato dal Crocifisso ligneo dipinto e impreziosito da inserti dorati opera di Giovanni Angelo Marini, che attualmente domina l'altare maggiore settecentesco in marmi policromi del genovese Gaetano Quadri, e da tre o forse quattro sculture di Profeti, disperse nel corso del XIX secolo. Dalla testimonianza di fra' Guglielmo della Valle si apprende l'esistenza di due porticine laterali tramite le quali i frati, attraversando delle anguste rampe di scale interne al polittico, potevano accedere al fastigio. Il domenicano aggiunge inoltre che queste porte erano provviste di «intaglij bellissimi» riferibili a Giovanni Gargiolli ritraenti un "Noli me Tangere", conservato tuttora nel Museo Vasariano di Santa Croce, e "l'Ingresso di Cristo a Gerusalemme", oggi ubicato a Castellazzo Bormida presso la Chiesa di Santa Maria della Corte. Oltre a questi due bassorilievi in legno di noce espressamente citati da della Valle, gli studiosi ne hanno individuati altri due: uno, collocato accanto al sopracitato Noli me Tangere di Santa Croce, rappresenta Cristo e la Samaritana al pozzo, l'altro, recentemente rinvenuto a Roma nei depositi del Museo Nazionale di Palazzo Venezia, ritrae la Cena a casa di Simone il Fariseo.

Il prospetto principale del fastoso apparato liturgico mostrava, come già anticipato in precedenza, la grande tavola centinata del Giudizio Universale; sul verso trovava posto una pala uguale per forma e dimensioni alla prima raffigurante il Martirio di San Pietro da Verona; i fianchi accoglievano due tavole rettangolari con coppie di Santi Domenicani, accompagnate da quattro scomparti ritraenti episodi tratti dalle vite dei medesimi santi. Presumibilmente sul fianco sinistro dovevano essere ubicati i Santi Vincenzo Ferrer e Tommaso d'Aquino con le tavolette rappresentanti "San Vincenzo che resuscita che un morto" e "La Visione di San Tommaso", mentre sul fianco destro avrebbero potuto esserci i Santi Domenico di Guzmán e Antonino da Firenze attorniati dai riquadri con "San Domenico che resuscita di Napoleone Orsini" e "L'elemosina di Sant'Antonino".

Poco chiara rimane l'esatta disposizione sulla predella dell'altare delle formelle con episodi vetero e neotestamentari che alludono al Sacramento dell'Eucaristia. Se si sceglie di attenersi alla ricostruzione offerta dalla bozza parigina pare che, sul fronte, fossero presenti quattro scomparti. Plausibilmente questi avrebbero potuto essere: "L'incontro tra Abramo e il Sommo Sacerdote Melchisedec", "La Caduta della Manna", "L'Ultima Cena" e la "Pasqua Ebraica". A questo punto, ragionando per esclusione, il retro avrebbe dovuto accogliere "Il Sacrificio di Caino e Abele" e "Il Sacrificio di Isacco".

Ricostruzione in 3D della Macchina Vasariana basata sul disegno del Louvre, realizzata dal Laboratorio di Visione Artificiale dell'Università di Pavia con la tecnologia QuickTime VR. Fonte: linelab.eu.

Se, di contro, si prende in considerazione la veduta dell'altare sullo sfondo della pala raffigurante "Sant'Antonino che libera un'ossessa", opera di un anonimo pittore di ambito lombardo, sembra che i pannelli sul recto fossero soltanto due, verosimilmente: "l'Ultima Cena" e la "Pasqua Ebraica".

Ricostruzione in 3D della Macchina Vasariana basata sulla Pala di Sant'Antonino, realizzata dal Laboratorio di Visione Artificiale dell'Università di Pavia con la tecnologia QuickTime VR. Fonte: linelab.eu.

Dei quattro ovali con i Dottori della Chiesa e dei quattro pennacchi con i Profeti posti a completamento del vertice della macchina d'altare non si conosce la sorte, meno che per un busto di vescovo variamente identificato con Sant'Ambrogio o con San Donato, rinvenuto a Tatton Park, nella Contea del Cheshire in Inghilterra.

Giorgio Vasari: Busto di Santo Vescovo (Sant'Ambrogio o San Donato?), 1569, olio su tavola. Tatton Park, National Trust. Fonte: Wikimedia Commons. Copyright fotografico: National Trust - Tatton Park.

 

La corrispondenza epistolare tra Sangalletti e Vasari proseguì fino al 10 luglio del 1569, data indicata da lui stesso ne "Le Ricordanze" come la conclusione dei lavori relativi alla sola parte pittorica. Le tavole, tuttavia, non furono inviate a Bosco prima dell'anno seguente, in quanto era necessario attendere che Gargiolli portasse a compimento i singoli elementi lignei della struttura architettonica e che venisse ultimata la copertura della crociera. Pio V avrebbe voluto che Vasari in persona sovrintendesse all'assemblaggio della macchina d'altare, ma l'artista contravvenne al volere del pontefice non seguendo i dipinti, che vennero imbarcati a Pisa per Genova nel luglio del 1570 ed arrivarono a destinazione a settembre. Né l'autore del progetto né il committente videro mai l'opera ultimata in tutte le sue componenti.

Giorgio Vasari: "Il Giudizio Universale", 1568, olio su tavola di pioppo. Cornice settecentesca di Pietro Girolamo Chiara e Giovanni Santo (1712-13). Bosco Marengo, Complesso Monumentale di Santa Croce e Ognissanti - abside della chiesa. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

A seguito dello smembramento della «macchina grandissima» il Giudizio Universale - unico fra gli scomparti a riportare la firma di Vasari e la data del 1568 - venne arricchito da una sontuosa cornice tardo-barocca in legno dorato, opera di Pietro Girolamo Chiara e Giovanni Santo, percorsa da tralci di foglie acantacee e affiancata da quattro putti (dei quali due, collocati sulla sommità, sorreggono una ferula papale, un pastorale e lo stemma di Pio V coronato da un triregno) e collocato nell'emiciclo absidale, sopra il coro gargiolliano. La Pala del Martirio di San Pietro da Verona - eseguita da Vasari in collaborazione con Jacopo Zucchi - fu collocata nel braccio destro del transetto, accanto al Mausoleo di Pio V. Le coppie di Santi Domenicani vennero posizionate ai lati dell'arco trionfale mentre le varie formelle furono dislocate fra la chiesa e il convento. Attualmente "Il Martirio di San Pietro da Verona" e gli scomparti minori del polittico sono esposti al Museo Vasariano, allestito nell'ottobre del 2011 all'interno del Complesso Monumentale di Santa Croce e Ognissanti nei locali della Sala Capitolare e della Sacrestia.

Giorgio Vasari: "Martirio di San Pietro da Verona", 1569, olio su tavola di pioppo. Bosco Marengo, Museo Vasariano. Si noti la cornice, che è ancora quella originale eseguita dal Gargiolli. Fonte: Sito ufficiale del Museo Vasariano.

La Macchina di Vasari: commissione devozionale o manifesto politico?

Nel tardo Cinquecento l'utilizzo di tavole lignee anziché di tele come supporto per la pittura suonava già anacronistico, così come appariva ormai antiquata la commissione di un polittico invece di una singola pala d'altare. Questo intento revivalistico, espresso anche nella scelta dei temi iconografici accostati fra loro secondo uno schema assai caro alla filosofia patristica, inquadra benissimo il Magistero reazionario del papa committente che, in sostanza, si prefiggeva di rinnovare la Chiesa, fronteggiare l'avanzata ottomana ed arginare la minaccia protestante ribadendo con veemenza la tradizione e applicando strumenti di feroce repressione. La Macchina Vasariana, al pari dell'Adorazione dei Magi, costituisce un manifesto politico e dottrinale del nuovo Cattolicesimo post tridentino. Se però con il tema dell'Epifania Pio V intendeva alludere sottilmente alla supremazia del potere spirituale su quello temporale, con il programma iconografico ideato per le tavole dell'altare maggiore di Bosco questi mirava ad esaltare il dogma della Transustanziazione e la dottrina della Communio Sanctorum, i quali erano stati messi in discussione dai Riformati. Non era casuale neppure che la faccia retrostante del mastodontico apparato liturgico fosse imperniata intorno alla figura di San Pietro da Verona: il santo domenicano aveva infatti combattuto strenuamente l'eresia catara sia con l'attività di predicazione sia ricoprendo la carica di inquisitore.

 

Bibliografia

GIORGIO ETTORE CAREDDU: Vasari a Bosco Marengo. Indagini diagnostiche e problematiche di restauro, tratto da "Giorgio Vasari tra parola e immagine", Aracne editrice, 2013.

ALESSANDRO CECCHI: Battista Botticelli, "Maestro di Legname" di Vasari , 2017.

MARIA CARLA VISCONTI: La Chiesa di Santa Croce a Bosco Marengo: Problemi di tutela e scelte di restauro.

GRAZIA MARIA FACHECHI: Sculture in legno: Museo Nazionale di Palazzo Venezia, Gangemi editore.

FULVIO CERVINI, CARLENRICA SPANTIGATI: Santa Croce di Bosco Marengo, Cassa di Risparmio di Alessandria, 2002.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/pio-v-papa-santo_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-gargiolli_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/marini-angelo-detto-il-siciliano/

https://www.treccani.it/enciclopedia/complesso-monumentale-di-santa-croce-e-ognissanti-di-bosco-marengo

https://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-vasari/

http://archiviovasari.beniculturali.it/

http://www.nationaltrustcollections.org.uk/object/1298175


LE OPERE DI VASARI A BOSCO MARENGO

A cura di Francesco Surfaro
Giorgio Vasari, "Adorazione dei Magi",1566-67, olio su tavola. Bosco Marengo, Chiesa di Santa Croce e Ognissanti. Fonte: Wikimedia Commons.

Le opere che il Vasari realizzò fra il 1566 e il 1569 su commissione di papa Pio V Ghislieri per la Chiesa di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo costituiscono un vero e proprio manifesto per la nuova arte "riformata" post tridentina. In questo articolo, il primo di due pubblicazioni, verranno approfondite le dichiarazioni politiche e le strategie diplomatiche che si celano dietro alla genesi di questi due capolavori.

La Storia - Un nuovo papa sulla Cattedra di Pietro

Il 20 dicembre 1565, a quattordici giorni dalla morte di Pio IV (al secolo Giovanni Angelo Medici di Marignano), si tenne la prima seduta del conclave che avrebbe dovuto portare all'elezione di un candidato idoneo a farsi carico dell'onerosissimo compito di applicare quanto il Concilio di Trento, conclusosi appena tre anni prima, aveva stabilito. Le feste natalizie di quell'anno furono officiate con la Sede Vacante, dal momento che il quorum fu raggiunto soltanto il 7 gennaio successivo, quando, con il beneplacito del cardinale- arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, salì al soglio pontificio, assumendo il nome di Pio V, l'ultraortodosso cardinale di Santa Romana Chiesa Michele Ghislieri.

Scipione Pulzone, Ritratto di Pio V, 1566-72, olio su tela. Roma, Collezione Privata. Fonte: Wikimedia Commons.

Nato da una famiglia di modesta estrazione sociale il 17 gennaio del 1504 a Bosco (oggi Bosco Marengo), comune dell'alessandrino all'epoca appartenente ai territori del Ducato di Milano, Ghislieri (o Ghisleri) venne battezzato col nome di Antonio, che mutò in Michele quando, a soli quattordici anni, vestì l'abito domenicano. Ricevette una solidissima formazione teologica dalla forte impronta tomistica, la quale non fu accompagnata da studi in ambito giuridico e umanistico. Fanatico assertore dell'ortodossia cattolica, fu, oltre che teologo, anche un intransigente e spietato inquisitore. La fermezza e l'integrità mostrate nello svolgere le proprie mansioni (non si fece alcuno scrupolo nell'intentare processi anche ai danni di membri della Curia) facilitarono la sua ascesa ai vertici della gerarchia prima dell'Ordine dei Frati Predicatori e poi della Chiesa.

Giorgio Vasari, un ostaggio diplomatico tra Papa Ghislieri e Cosimo I

Autoritratto di Giorgio Vasari dall'Edizione Giuntina de "Le Vite", 1568.

Proprio all'indomani della sua elevazione alla Cathedra Petri, Pio V convocò l'allora cinquantacinquenne Giorgio Vasari - che stava rientrando da un viaggio in Italia centro- settentrionale intrapreso per aggiornare le proprie conoscenze sulle biografie di pittori, scultori e architetti coevi e non - e lo nominò suo artista ufficiale, concedendogli il privilegio del tutto inusitato di potersi sistemare, fra un soggiorno romano e l'altro, presso quelle stanze dell'Appartamento Papale solitamente adoperate durante i mesi invernali. Al principio dell'estate del 1566 l'Aretino ricevette la prima commissione da parte del neoletto papa: una tavola raffigurante l'Adorazione dei Magi da destinarsi alla cappella dell'Epifania presso la chiesa attigua al convento domenicano di Santa Croce e Ognissanti in Bosco Marengo, località natale del Pontefice. Il complesso non era stato ancora neppure progettato e già Ghislieri si premurava di dotarlo di preziose opere d'arte eseguite dagli artisti che gravitavano attorno alla sua corte (la bolla "Praeclarum quidem opus" con cui si disponeva l'edificazione della chiesa e del convento sarebbe stata emanata soltanto il successivo 1° agosto) anche perché desiderava che quel luogo di culto divenisse il proprio mausoleo.

In quel periodo Vasari aveva raggiunto l'apice della fama, ed era letteralmente sommerso dagli impegni. A Firenze, per il duca Cosimo I de' Medici, stava realizzando a Palazzo Vecchio dei magnifici cicli di affreschi coadiuvato dal proprio éntourage e, contemporaneamente, dando forma all'imponente progetto - voluto sempre da Cosimo - di renovatio urbis, comprendente, fra le altre cose, l'adattamento dei principali luoghi di culto fiorentini alle nuove esigenze liturgiche caldeggiate dalla Riforma Tridentina e quel cantiere che, ad oggi, può essere considerato unanimamente il suo capolavoro in ambito architettonico: la fabbrica degli Uffizi. Evidentemente non abbastanza sfiancato da questi incarichi di altissimo profilo, Vasari stava curando, di concerto con l'editore Giunti, anche una seconda edizione de "Le Vite de' più Eccellenti Pittori, Scultori et Architettori", che sarebbe stata pubblicata nel febbraio del 1568. E' legittimo, a questo punto porsi due domande: perché l'Aretino lasciò, seppur temporaneamente, i cantieri fiorentini per accettare una commissione così poco attraente come dipingere una pala d'altare per un luogo periferico e, come si vedrà in seguito, senza alcuna libertà di espressione artistica? E soprattutto, perché Cosimo permise al Romano Pontefice di sottrargli l'unico artista capace di tradurre, tramite ambiziosi progetti artistici, quel messaggio propagandistico rivolto alle corti europee atto a delineare un'immagine del Ducato di Firenze come un exemplum di potenza magnifica e magnanima  al contempo, degna addirittura della grandezza degli antichi? Ambedue le questioni sono mal poste: in primo luogo è doveroso precisare che Vasari non ebbe alcun potere decisionale, anche e soprattutto perché accettare o rifiutare quanto gli veniva richiesto non rientrava affatto tra le sue prerogative; c'è poi da aggiungere che fu lo stesso Cosimo ad inviare il suo protetto presso la sobria corte dell'austero Pio V con intenzioni squisitamente diplomatiche. Il duca, infatti, stava cercando in ogni modo possibile di ingraziarsi Sua Santità affinché questi gli concedesse la tanto agognata nomina a Granduca di Toscana. Il piano mediceo non aveva però tenuto conto di un fattore di primaria importanza: Ghislieri era tutt'altro che un gran mecenate, anzi, in un primo momento aveva più volte dato prova di essere indifferente - se non addiritura ostile - nei confronti delle Arti. Basti pensare che uno dei primissimi atti del suo pontificato fu ordinare la rimozione dal Palazzo Apostolico e dal Belvedere di quasi tutte le preziose sculture antiche appartenenti alle collezioni vaticane, le quali vennero trasferite al Campidoglio. A detta del Ghislieri «non conveniva a chi era successore di Pietro tenere simili idoli in casa». Per riuscire a persuadere il papa ad  accettare i servigi del Vasari fu necessaria l'intercessione del monsignore fiorentino filomediceo Guglielmo Sangalletti, tesoriere segreto e Primo Cameriere pontificio, il quale sfruttò il fortissimo ascendente che esercitava sul Successore di Pietro per piegarlo ai sotterfugi cosimiani.

L'Adorazione dei Magi

Bosco Marengo, Chiesa di Santa Croce e Ognissanti (interno) - la settecentesca Cappella dell'Epifania con la pala dell'Adorazione dei Magi (1566-67, olio su tavola) di Giorgio Vasari. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

"Tornato dunque a Fiorenza, e per averlomi

Sua Santità comandato, e per molte amorevolezze fattemi, gli feci, si come avea commessomi, in una tavola l ’Adorazione dei Magi, la quale come seppe essere stata da me condotta a fine, mi fece intendere che per sua contentezza e per conferirmi alcuni

suoi pensieri, io andassi con la detta tavola a Roma."

 

Giorgio Vasari, 'Le Vite' (ed. 1568)

 

Vasari raccontò la genesi dell'Adorazione dei Magi ne 'Le Vite', nelle 'Ricordanze' e nelle sue fitte corrispondenze epistolari. Dalle stesse parole dell'artista si apprende che Pio V volle seguire scrupolosamente, dal principio alla fine, la realizzazione della tavola, richiedendo in maniera costante informazioni su come stesse procedendo il lavoro. Il 12 luglio del 1566 il pontefice si fece inviare un disegno preparatorio - probabilmente proprio quello che oggi si conserva presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi - grossomodo non troppo diverso dalla versione finale dell'opera che, da quanto si può vedere, originariamente era stata concepita in forma centinata e non quadrangolare come ora la si ammira. Lo studio propedeutico al dipinto su tavola è accompagnato da un bozzetto per il perduto altare cinquecentesco della Cappella dell'Epifania, smembrato nel corso degli sciagurati interventi di rifacimento settecenteschi voluti dai domenicani in occasione della canonizzazione di Pio V e sostituito con una mensa e un'ancona tardobarocche in marmi policromi.

In una missiva di monsignor Sangalletti rivolta all'artista si legge che il committente, sebbene avesse accolto positivamente il progetto, lamentò la presenza di alcuni particolari eterodossi ed ordinò di correggerli, esortando il pittore a limitarsi a tradurre in immagine il racconto evangelico, coerentemente con ciò che la Controriforma aveva stabilito nel campo dell'iconografia sacra. Vasari aveva infatti ambientato la scena non in una stalla o in una grotta, ma in una struttura architettonica scenica tutt'altro che congruente con la narrazione dei testi sacri e, inoltre, aveva omesso - fra le altre cose - la presenza del bue e dell'asino. In ossequio alle disposizioni papali l'artista rimosse gli elementi paganeggianti, semplificò le architetture in modo tale da farle assomigliare ad una sorta di scuderia o ad una stalla e collocò l'asino e il bue sotto una piccola arcata buia sullo sfondo. I personaggi principali, prima ruotati verso destra, vennero raffigurati frontalmente nei medesimi atteggiamenti della bozza fiorentina.

Giorgio Vasari, Studio preparatorio per l'Adorazione dei Magi e l'altare della Cappella dell'Epifania, 1566-67, penna e inchiostro diluito su carta. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. Copyright: Pietro Baroni - Diritti riservati al Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo.

Non era affatto la prima volta che il pittore si ritrovava a dover affrontare il tema dell'Epifania. Nel 1547 aveva già eseguito un altro olio su tavola del medesimo soggetto per la Chiesa degli Olivetani di Rimini e, proprio raffrontando quest'ultima con la pala boschese, è possibile ravvisare alcune analogie nelle scelte compositive. Lo stile dell'Adorazione dei Magi di Santa Croce è compatibile con quello del coevo ciclo di pitture a fresco eseguito dal Vasari e dai suoi fedelissimi collaboratori nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio.

Giorgio Vasari, "Adorazione dei Magi", 1547-48. Rimini, Abbazia di Santa Maria Annunziata Nuova di Scolca.

Eccellente esemplificazione del virtuosismo e della sprezzante destrezza esecutiva dell'autore, la sovraffollata composizione è attraversata da un asse verticale passante per la monumentale figura della Vergine Maria che offre il figlio, come una novella Odigitria, alla venerazione degli astanti, e culminante in alto nella stella attorniata da putti in volo. Ai piedi del gruppo madre-figlio, vero fulcro dell'opera, Melchiorre e Gaspare, prostrati per terra, baciano i piedi al Cristo infante, il quale accetta con un gesto della manina la navicella aurea che, da sinistra, Baldassarre gli sta porgendo. Le sagome dei due Magi in basso disegnano due linee diagonali, le quali, convergendo verso l'alto e verso il centro, formano due triangoli (il numero 3 è una chiara allusione alla Trinità, mentre il due si riferisce alla duplice natura, umana e divina, del Redentore). Gli elaborati panneggi, già impreziositi dalla presenza di raffinati ornamenti, vengono ulteriormente arricchiti da ricercatissimi effetti luministici e cromatici, i quali rispondono perfettamente a quella "vaghezza de' colori" tipica del Manierismo post-michelangiolesco.

Giorgio Vasari: "Adorazione dei Magi", 1566-67, olio su tavola. Bosco Marengo, Chiesa di Santa Croce e Ognissanti.

Il dipinto doveva essere già stato portato a termine nel febbraio del 1567, dal momento che l'Aretino si recò proprio in quel frangente nella Città Eterna per sottoporre il proprio lavoro al giudizio del pontefice. Evidentemente Pio V rimase talmente entusiasta del risultato da richiedere, proprio in quell'occasione, non un'altra singola pala, ma una monumentale macchina lignea a più scomparti per l'altar maggiore sempre dell'aedificanda Chiesa di Santa Croce a Bosco.

Della pala dell'Adorazione dei Magi Vasari dipinse una replica di dimensioni nettamente ridotte per il Priore dello Spedale degli Innocenti, Vincenzo Borghini, suo caro amico. Questa versione, dipinta in contemporanea a quella boschese, si conserva attualmente ad Edimburgo presso la Scottish National Gallery.

 

Bibliografia

http://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/23/9977_CAREDDU.pdf

https://www.academia.edu/40350887/Due_lavori_del_Vasari_nel_complesso_monumentale_di_Santa_Croce_in_Bosco_Marengo

https://www.academia.edu/42721020/La_Chiesa_di_Santa_Croce_a_Bosco_Marengo_fra_Storia_e_Restauri

https://www.academia.edu/6411812/Giorgio_Vasari_al_servizio_di_Pio_V_affermaz ione_artistica_o_ostaggio_diplomatico

http://archiviovasari.beniculturali.it/index.php/autobiografia-di-giorgio-vasari/autobiografia-36/

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-vasari_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Storia-e-Politica%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/pio-v-papa-santo_%28Dizionario-Biografico%29/

Istituzioni di riferimento

http://www.museosantacroce.it/web/

 

Per approfondire

https://youtu.be/V2katm0G1ps

https://youtu.be/WzOhTCM3RnA


I BIAZACI DA BUSCA: IL VOLGO SULL'ALTARE

A cura di Francesco Surfaro

Riscoperti dalla critica soltanto in tempi relativamente recenti, i fratelli Tommaso e Matteo Biazaci da Busca furono artisti itineranti attivi tra la seconda metà del Quattrocento e i primissimi anni del Cinquecento in una vasta area territoriale che si estende dalla Granda fino alla zona costiera della Riviera di Ponente, portatori di un linguaggio pittorico estremamente armonioso ed equilibrato, dalla spiccata vena narrativa e carico di intenti paideutici. I loro modi, ancora tardogotici, nulla hanno a che vedere con la durezza dei modelli d'oltralpe ma, al contrario, sono caratterizzati da tenui e luminose cromie, tratti dolci e da un peculiare gusto per le coloriture legate al mondo popolare, il tutto arricchito dal preziosismo dei dettagli.

Fig. 1 - F.lli Biazaci da Busca: Sibilla Tiburtina, 1483, affresco. Albenga, Chiesa di San Bernardino.

Le notizie biografiche che si hanno a disposizione sui fratelli Tommaso e Matteo Biazaci (o Biasacci secondo il Rotondi) sono piuttosto lacunose. Di loro si sa per certo che nacquero - in date sconosciute - a Busca, un antico borgo del cuneese non lontano da Saluzzo che sorge sulle rovine di un insediamento romano, come da loro stessi scrupolosamente ricordato ogni qualvolta si palesavano come autori di un'opera firmandosi: "Thomas Biazacii de Busca et Matheus ejus frater pinxerunt" (letteralmente: lo hanno dipinto Tommaso Biazaci da Busca e suo fratello Matteo). L'esistenza di una famiglia "Biazacio" - traslitterata altrove anche come "Busaci" o "Biazacius" - nella succitata cittadina del Piemonte meridionale bagnata dal torrente Maira è suffragata per la prima volta da un atto custodito nell'archivio parrocchiale datato 1494. In esso si legge che un tale "Thoma Biazaci" (non ci sono prove sufficienti per sostenere che si tratti proprio del nostro Tommaso) svolge la funzione di testimone per la stipula di un contratto. In un altro documento riportante la data del 19 novembre 1546 viene citato un certo "Baptista Bia(z)iaci". A partire dall'ultimo decennio del XVI secolo questo cognome scomparve dai registri della parrocchia, ciò induce a pensare che la famiglia si fosse estinta.

Tommaso fra i due era il magister, ovvero il titolare di una bottega, pare anche assai fiorente, che per diversi decenni "(...) rivestì un ruolo non certo secondario in un’area vasta e complessa lungo le strade e le mulattiere fra la bassa pianura piemontese e il mare della Riviera, servendo committenze diverse ma tutt’altro che mediocri e dimostrando, nella sua operosa dinamicità, una struttura organizzativa e una attenzione ai dati culturali del tempo che le consentirono di reggere a lungo a concorrenze agguerrite e aggiornate, di varia provenienza" (Ciliento). Matteo, dal canto suo, doveva essere un assiduo collaboratore all'interno dell'éntourage familiare e, al contrario del fratello, dimostrò di essere sì abile, ma non eccellente. La sua mano si può riconoscere infatti per una certa rigidità del disegno. Nel 1956, la scoperta del codice miniato quattrocentesco degli Statuta Savilliani da parte di Mario Bressy presso l'Archivio Storico di Savigliano e l'assegnazione di alcune delle miniature a Tommaso, permise di ricostruire la prima formazione in patria di quest'ultimo nel campo della decorazione dei manoscritti. Tale ipotesi trova un ampio riscontro se si osserva attentamente un dipinto che, nel secolo scorso, fu cruciale per dare avvio agli studi volti a ricostruire l'attività dei fratelli di Busca, anche e soprattutto perché era tra le pochissime opere all'epoca note a riportare la firma di uno dei due. Si tratta di una Madonna col Bambino in trono eseguita dal solo Tommaso nel 1478, ed oggi conservata al Museo di Sant'Agostino a Genova dopo anni di permanenza nei depositi di Palazzo Bianco.

In origine, questa raffinata tavola a fondo oro doveva costituire lo scomparto centrale di un polittico destinato alla Chiesa di Santa Maria in Fontibus ad Albenga, poi smembrato e disperso. Osservando i sontuosi abiti indossati dalla Vergine e dal Bambino, i nimbi e i dettagli del trono minuziosamente descritto e finemente punzonato all'altezza della spalliera, è impossibile non notare una certa affinità con la tecnica miniaturistica. L'intera composizione denuncia le nuove suggestioni rinascimentali provenienti dall'ambito ligure e lombardo; in particolare, Giovanni Mazone e i fratelli Bonifacio e Benedetto Bembo sembrano essere delle felici fonti di ispirazione. Pur ostinandosi a mantenere un legame viscerale con la cultura tardogotica, Tommaso rifugge ogni tipo di esasperazione espressionista e permea le sue figure di "un'umiltà popolaresca" (Rotondi), una dolcezza mediterranea e una pacata compostezza sconosciute alle esperienze oltralpine.

Fig. 2 - Tommaso Biazaci da Busca, Madonna col Bambino in trono, 1478, tempera e foglia d'oro su tavola. Genova, Museo di Sant'Agostino. Copyright fotografico: Giorgio Olivero. Fonte: Comune di Busca.

A Marmora, nel 1459, Tommaso realizzò gli affreschi della parete esterna di destra della Chiesa dei Santi Giorgio e Massimo, i più antichi conosciuti a riportare la sua firma. In essi, entro riquadri trilobati, trovano posto le figure di san Gregorio, san Massimo, san Cristoforo - sovrapposto alle più antiche tracce di uno stesso san Cristoforo trecentesco di minori dimensioni e completamente picchettato - san Francesco che riceve le stimmate e, infine, all’estrema destra, un non meglio identificato santo cardinale, forse un san Bonaventura o più probabilmente un San Girolamo. Fra queste suscitano particolare interesse il san Francesco stigmatizzato sul monte della Verna e il santo cardinale, poiché palesano una cauta apertura verso gli ambienti monregalesi, liguri e nizzardi. Elementi come la resa realistica del panneggio inducono ad ipotizzare una conoscenza degli esiti artistici del nizzardo Giacomo Durandi.

Cronologicamente vicino alle pitture murali marmoresi è il ricco ciclo pittorico - firmato da Tommaso anch'esso - della chiesetta di San Pietro a Macra, figlio di una meditata scelta iconografica, la cui inomogeneità qualitativa può essere imputata ad aiuti di bottega. Sulle vele della volta a crociera conica costolonata campeggiano, fra complessi intrecci decorativi, le raffigurazioni di quattro Dottori della Chiesa. La parete orientale è ornata con alcune scene legate all'infanzia di Cristo (l'Annuncio ai Pastori, la Natività, l'Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio), su quella opposta, invece, sono narrate alcune vicende tratte dalla Legenda di san Martino (l'Incontro col povero, il Dono del mantello, la Rinuncia alle armi). Sulla parete di fondo, alle spalle di un piccolo altare in muratura, erano verosimilmente dipinti su due registri una Madonna col Bambino in trono, il beato Pietro di Lussemburgo e i santi Pietro e Paolo. Di quest'opera non rimangono che lacerti, in parte coperti da un mediocre affresco del XVIII secolo. Domina la controfacciata un'Annunciazione fra un santo vescovo e una santa martire identificabile con Agata da Catania.

Fra il 1465 e il 1467 il Magister risulta documentato a Savigliano. Lì si occupò, coadiuvato dal proprio éntourage, della decorazione della Torre Civica e degli apparati ornamentali commissionatigli in occasione della visita in città del duca Amedeo IX di Savoia detto "il Beato". Sempre in questo periodo del soggiorno saviglianese si possono collocare la vela con la Deésis (Cristo entro una mandorla mistica tra la Vergine e san Giovanni il Precursore) in San Giovanni Vecchio e una Pietà all'esterno della Chiesa di San Giuliano, quest'ultima dipinta con l'ausilio di Matteo sulla falsa riga di modelli nordici.

La tecnica dei Biazaci raggiunse attorno agli anni 1470-1475 livelli sopraffini. Non si può far altro che constatarlo ammirando le strepitose pitture della Cappella di Sant'Orsola in fondo alla navata sinistra della Chiesa di San Giovanni a Caraglio, della prima arcata cieca posta a sinistra della navata centrale della Chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Sampeyre, della Cappella dell'Annunziata in borgata Chiot Martin a Valmala e della Cappella della Mater Admirabilis attigua al Santuario degli Angeli di Cuneo. Se i primi tre cicli risentono ancora della tarda maniera del Durandi, quelli di Chiot Martin e Cuneo sembrano già anticipare gli esiti liguri.

Seguendo l'esempio di altri colleghi conterranei, i due artisti con bottega al seguito imboccarono la via delle Alpi Marittime per dirigersi, verso il 1474, alla volta della Liguria, più precisamente ad Albenga. La città ligure era all'epoca un fecondo crocevia di nuove tendenze artistiche, una vera e propria mecca per chiunque volesse assicurarsi un committente e/o mantenersi aggiornato sulle ultime formule stilistiche e iconografiche. Alle calendae di maggio sempre del 1474, i Biazaci avevano già terminato una pala d'altare ed un primo ciclo di affreschi per l'abside della Chiesa di San Bernardino ad Albenga, oggi irrimediabilmente perduti. Appartengono forse a questo primissimo periodo del frenetico soggiorno ligure anche due problematiche figurazioni a fresco: un'Annunciazione col Padreterno e una Madonna in trono fra i santi Bernardino da Siena e Giovanni il Battista, ambedue eseguite sulla parete sud dell'Oratorio di Santa Croce a Diano Castello. A detta del Rotondi, per una carente fluidità delle linee del disegno e per la scarsa brillantezza dei colori, gli affreschi dianesi appena menzionati sarebbero da attribuirsi al solo Matteo; tuttavia, la finezza di alcuni dettagli puntuali smentisce tale affermazione, suggerendo piuttosto la presenza anche della mano del magister.

Negli anni Ottanta del Quattrocento i Biazaci firmarono, ad appena una manciata di giorni di distanza, due cicli pittorici tra i più onerosi e complessi della loro intera carriera di frescanti: quello della navata sinistra del Santuario di Nostra Signora delle Grazie a Montegrazie (datato 30 maggio 1483), e quello della parete destra della Chiesa di San Bernardino ad Albenga (datato 3 giugno 1483) dove, come già detto, avevano precedentemente affrescato l'abside maggiore. In entrambi i casi i soggetti trattati - tanto simili iconograficamente da far sospettare in alcuni punti il riutilizzo di cartoni - sono i Novissimi, ossia la Buona e Cattiva Ars Vivendi, le Virtù, la Cavalcata dei Sette Vizi Capitali, il Giudizio Universale, l'Arcangelo Michele che pesa le anime, la Gerusalemme Celeste, il Purgatorio e l'Inferno. A Montegrazie occupa un posto di rilievo la scena del Memento Mori dove, in una stanza spoglia, un uomo, al bivio fra il Diavolo tentatore che, proprio come in un fumetto ante litteram, per mezzo di un cartiglio svolazzante pronuncia le parole: "Ne timere peccatum... poteris emendare", e l'Angelo custode il quale, di contro, lo esorta a tenere una condotta virtuosa dicendo: "Fac bonum dum vivis si post mortem vivere vis", viene minacciato dai dardi dell'arco della Morte, pronta a scoccare da un momento all'altro. Con rara vivacità narrativa e sensibilità descrittiva, Tommaso e Matteo posero in essere simultaneamente (forse persino dandosi il cambio e dividendosi le giornate) due Bibliae Pauperum, sacrificando le loro tipiche eleganti soluzioni formali in favore di forme più sintetiche e monumentali, affinché il significato paideutico e soteriologico delle raffigurazioni fosse immediatamente comprensibile anche per il popolo analfabeta. Al fine di suscitare nella coscienza dell'osservatore un sentimento di autoidentificazione, i Buschesi diedero corpo a diversi tipi umani tratti dalla società dell'epoca e ne descrissero impietosamente i vizi e le virtù. La maggiore accuratezza della resa prospettica - che, va specificato, rimane ancora marcatamente intuitiva - l'ulteriore arricchimento delle consuete gamme cromatiche brillanti e l'evoluzione in senso monumentale delle composizioni tradiscono contatti con i nuovi modelli rinascimentali che andavano imponendosi negli ambienti ingauni.

Fig. 5 - Montegrazie, Santuario di Nostra Signora delle Grazie - visione d'insieme degli affreschi dei Biazaci.

Quattro anni più tardi Tommaso tornò nuovamente ad affrescare al Santuario di Montegrazie, essendogli stata affidata la decorazione dell'abside sinistra con le Storie del Battista. Del 1499 sono le pitture murali dell'abside destra della Chiesa di Santa Maria Assunta a Piani d'Imperia con le Storie di Maria tratte dai Vangeli Apocrifi.

 

Nel penultimo decennio del XV secolo i Biazaci lavorarono anche nella terra natìa, dove dipinsero le vele della Cappella di San Sebastiano con storie tratte dalla Passio del santo. Più tardi (prima metà degli anni Novanta del XV secolo) rispetto a quelli sopra citati sono i dipinti che ornano la facciata dell'Ospizio della Trinità a Valgrana, raffiguranti la Santissima Trinità secondo l'iconografia "orizzontale" (ossia con i busti delle Tre Persone – identiche nell'aspetto - che partono dallo stesso tronco) posta accanto ad una Madonna col Bambino in trono; e quelli della Cappella di Santo Stefano a Busca. Sembrano attribuibili ai due fratelli anche le pitture di Villa Elisa a Busca (già Chiesa di Santa Maria Assunta presso il Convento di Santa Maria degli Angeli). La Santa Chiara e la Santa Lucia sulla facciata della Chiesa di Santa Margherita a Casteldefino e le decorazioni delle cappelle laterali interne della medesima parrocchia, risalenti al 1504, sono le ultime opere conosciute a riportare la firma di Tommaso.

Fig. 8 - F.lli Biazaci da Busca, Santissima Trinità e Madonna col Bambino in trono, prima metà degli anni Novanta
del XV secolo. Valgrana, Ospizio della Trinità (facciata).

Le opere buschesi

Dopo aver ripercorso la biografia e ricostruito l'attività pittorica dei Biazaci, verranno adesso trattati due tra i cicli pittorici che fratelli di Busca hanno lasciato nella cittadina che ha dato loro i natali. Queste opere ornano l'interno e/o l'esterno delle cappelle di San Sebastiano e di Santo Stefano.

La Cappella di San Sebastiano

Fig. 9 - F.lli Biazaci da Busca, Santissima Trinità e Madonna col Bambino in trono, prima metà degli anni Novanta del XV secolo. Valgrana, Ospizio della Trinità (facciata).

Non lontano dal cimitero, lungo la strada che porta a Villafalletto, si trova la Cappella di San Sebastiano. Nel suo assetto attuale si possono leggere chiaramente gli interventi di rimaneggiamento che ha subito nel corso dei secoli: romanici sono l'abside interna e il lato sud, mentre il coro e il campanile risalgono al Settecento. Come già in precedenza accennato, Tommaso e Matteo Biazaci si occuparono di ornare la volta a crociera ogivale costolonata del portico - successivamente chiuso e inglobato - di questo oratorio negli anni Ottanta del Quattrocento, con episodi tratti dalla vita di san Sebastiano – martire frequentemente invocato nel Medioevo assieme a san Rocco come protettore dalle pestilenze - così come viene raccontata nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Quanto narrato si svolge tra il 303 e 310, negli anni delle feroci persecuzioni intentate dall'imperatore Diocleziano nei confronti dei Cristiani. Sulla vela collocata appena sopra l'attuale ingresso si vede Sebastiano, ufficiale della guardia pretoriana di Diocleziano e Massimiano, colto nell'atto di amministrare il sacramento del battesimo a dei catecumeni. Segue una scena in cui il santo visita in carcere i gemelli Marco e Marcellino con l'intenzione di liberarli, ma questi, desiderando subire il martirio, rifiutano di lasciare la loro cella. Nella medesima vela si vede il protagonista che, convocato da Diocleziano, viene condannato a morte. La vela principale è posta difronte all'ingresso: in essa il santo, impassibile, subisce il primo martirio ricevendo colpi di frecce. Una volta sopravvissuto al suo primo supplizio, nella vela a seguire viene nuovamente condannato a morte, questa volta per fustigazione. In quest'ultima scena la presenza divina si manifesta sotto forma di mano benedicente

circondata da un nimbo crociato. Nell'ultima raffigurazione, ambientata all'interno di un'architettura di scena, il corpo senza vita del martire viene gettato dai soldati nella Cloaca Maxima e poi recuperato da Santa Lucina, che gli darà degna sepoltura nelle catacombe. Ciascuna delle vele è scandita nella parte apicale da clipei con i Quattro Evangelisti. Di ottima fattura sono gli elaborati motivi ornamentali che incorniciano i vari episodi. Impressiona la minuzia con cui vengono descritti i particolari degli abiti, degli accessori, delle armi e delle architetture. Colpiscono inoltre le prolisse iscrizioni dei cartigli svolazzanti che, come nei fumetti, riportano le parole pronunciate in vernacolo dai vari personaggi. In tutto ciò è evidente il rimando alle sacre rappresentazioni. Appartengono agli stessi interventi decorativi le figure di santi ritrovate nei sottarchi e la Madonna col Bambino in pessimo stato di conservazione che si ammira all'esterno dell'aula cultuale.

La Cappella di Santo Stefano

Fig. 10 - Busca, Interno della Cappella di Santo Stefano con gli affreschi dei Biazaci (Prima metà degli anni Novanta del XV secolo). Fonte: Mapio.net.

Circondata da una distesa di verde lussureggiante, la Cappella di Santo Stefano trova la propria collocazione sul sentiero che conduce all'Eremo di Belmonte, in linea d'aria col Parco Francotto. Questo antichissimo luogo di culto, databile tra i secoli VI e X, sorge non lontano dal poggio su cui, in epoca romana, furono innalzati un castrum e una torre. Dopo il 1138, sulle rovine di queste architetture difensive, i Marchesi del Vasto, signori di Busca, edificarono la propria dimora - il "Castellaccio" - le cui mura di cinta giungevano fino all'oratorio preso in esame. Del complesso castrense medievale, oggi, rimane solo qualche rudere. L'interno della cappella fu affrescato da Tommaso e Matteo Biazaci nella prima metà degli anni Novanta del XV secolo. Al centro dell'arco trionfale, bordato da un'elegante fascia a torciglione, si scorge una Imago Pietatis (il Cristo morto all'interno del sepolcro con i simboli della Passione fiancheggiato dai dolenti), mentre nei riquadri laterali sono raffigurati un Angelo Nunziante ed una Vergine Annunciata. Domina il catino absidale un Cristo in gloria seduto sull'iride entro una mandorla mistica. Il Pantocrator è affiancato ai lati dal

tetramorfo, ovvero dai simboli dei Quattro Evangelisti, ciascuno dei quali recante un cartiglio con su scritto il nome e l'incipit del rispettivo Vangelo. Sullo sfondo, il brano paesaggistico prospetticamente descritto e il cielo sfumato verso la linea dell'orizzonte sono elementi inediti nella scena del Gotico Internazionale. La fascia inferiore presenta cinque riquadri, di cui quattro narrano episodi della vita del Protomartire Stefano, e uno, posto al centro, ospita una splendida Madonna orante seduta in trono col Bambino sulle ginocchia.

Nel primo episodio descritto sulla superficie absidale, una donna implora il diacono Stefano di riportare in vita il proprio figlioletto morto, il quale, ricevuta la benedizione del santo, riprende a respirare. All'accaduto assistono popolani, briganti, uomini altolocati, ognuno dei quali si palesa vestendo copricapi, abiti e accessori rispondenti alla moda rinascimentale. Degna di nota è la figura dell'uomo con la ghironda, uno strumento musicale diffuso nelle valli della Linguadoca, di cui questa costituisce una delle primissime rappresentazioni note. Nel riquadro seguente è dipinta la disputa del santo con i Giudei. Nelle altre due scene Stefano viene lapidato alla Presenza di Saulo - che, in disparte, regge i mantelli degli aguzzini - e, dopo il martirio, il suo corpo viene deposto all'interno del sepolcro da Gamaliele e Nicodemo.

Differentemente da quanto si è visto nella Cappella di San Sebastiano, ove le scritte sono tutte in volgare, qui ciascun cartiglio è iscritto in latino, all'infuori di uno soltanto, sul quale si legge l'estrema supplica del santo protomartire pronunciata al momento della lapidazione: "Padre in le tue mane recomando lo spirito mio. Padre perdona a quili che non sano che ce faceno".

Fig. 11 - F.lli Biazaci da Busca, Martirio di santo Stefano (particolare), Prima metà degli anni Novanta del XV secolo. Busca, Cappella di Santo Stefano.

Le raffigurazioni di santi interrotte dalla parete di fianco, rinvenute nel corso dell'ultimo restauro all'altezza dell'imposta dell'arco, fanno ipotizzare che il ciclo pittorico si snodasse anche lungo le pareti laterali.

Come di consueto, anche nelle scene più atroci e ricche di pathos, le figure delineate dal pennello dei Biazaci mostrano un dolore sempre contenuto, mai urlato, al contrario di quanto si può osservare in altri brani di pittura o scultura tardogotica realizzati da artisti coevi. I graffiti in caratteri gotici osservabili alla base degli affreschi, specie sulle scene del martirio e della sepoltura del santo, testimoniano che, in passato, il piccolo edificio sacro fu oggetto di una sentita devozione da parte del popolo.

 

Bibliografia

Anna de Floriani e Stefano Manavella: Tommaso e Matteo Biazaci da Busca, Nerosubianco, 2012.

Federica Natta: L'Inferno in scena. Un palcoscenico visionario ai margini del Mediterraneo, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2013.

 

Sitografia

https://www.comune.busca.cn.it/index.php?module=site&method=section&id=186

https://www.academia.edu/8396135/Proposte_di_aggiornamento_sulla_produzione_pittorica_dei_Biazaci_e_del_giovane_Pietro_Guido

http://www.treccani.it/enciclopedia/biazaci_(Dizionario-Biografico)/

http://www.uciimtorino.it/pittura_quattrocentesca.htm

http://www.museodiffusocuneese.it/siti/dettaglio/article/busca-gli-affreschi-deifratelli-biazaci/

https://books.google.it/books?id=RpJXAwAAQBAJ&pg=PA218&dq=santuario+di+montegrazie&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwid542jwrnrAhXGlIsKHQNyBmkQ6AEwBXoECAYQAg#v=onepage&q=santuario%20di%20montegrazie&f=false

http://archeocarta.org/busca-cn-cappella-di-santo-stefano-e-ruderi-del-castellaccio/

http://archeocarta.org/busca-cn-cappella-di-san-sebastiano/

https://www.comune.busca.cn.it/index.php?module=site&method=section&id=130

https://www.academia.edu/41601491/Le_tecniche_dei_Biazaci

 

Istituzioni di riferimento

http://www.museodiffusocuneese.it/siti/dettaglio/article/busca-gli-affreschi-deifratelli-biazaci/

https://www.comune.busca.cn.it/

http://www.diocesidialbengaimperia.it/

http://www.museidigenova.it/it/content/museo-di-santagostino


VILLA DELLA REGINA A TORINO II PARTE

A cura di Francesco Surfaro

INTRODUZIONE PARTE SECONDA

Dopo aver delineato il contesto storico che ha visto l'edificazione di Villa della Regina e ricostruito le trasformazioni che essa ha subito nel corso dei secoli, in questo nuovo articolo si tratterà degli appartamenti reali e delle architetture del giardino interno rivolto verso la collina.

VILLA DELLA REGINA: L'APPARTAMENTO DEL RE

L'appartamento di Sua Maestà è suddiviso in stanze private affacciate verso la città e sale preposte all'intrattenimento che si aprono verso i giardini e la collina. A partire dal 1868, le sue favolose camere accolsero le allieve più diligenti dell'Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari e furono riconvertite in aule scolastiche.

In foto: Daniel Seiter, “Il Trionfo di Davide”, ultimo quinquennio del XVII secolo, olio su tela. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Così denominata per la presenza in antico di un tavolo da biliardo per la pratica di un gioco simile a quello delle boccette, il "trucco" per l'appunto, la Camera verso Levante detta "del Trucco" è la prima delle sale dell'appartamento regio che dà sulla collina. Al centro del soffitto campeggia un dipinto ad olio di forma ovale collocato entro una cornice in stucco bianco intitolato "Il Trionfo di Davide", opera del Primo Pittore di Sua Maestà Claudio Francesco Beaumont, riferita in passato a Daniel Seiter. La scena veterotestamentaria, costruita con un'ardita prospettiva da sottinsu e giocata sui toni drammatici del rosso, mostra il giovane Davide trionfante che, mentre viene acclamato dagli israeliti, ostenta con fierezza il suo macabro trofeo: la testa mozzata, ancora sanguinante, del gigante Golia. La scelta di questo tema è verosimilmente tutt'altro che casuale: vi si può leggere una neanche tanto velata celebrazione encomiastica di Vittorio Amedeo II il quale, nel 1706, dopo aver respinto le truppe franco-spagnole che avevano assediato Torino per centodiciassette giorni, assunse il titolo regio nel 1713 con la firma del Trattato di Utrecht. Il sovrano, secondo le interpretazioni formulate dagli studiosi, verrebbe qui paragonato al patriarca biblico, divenuto re d'Israele dopo aver sconfitto il temuto comandante dell'esercito filisteo.

In foto: Interno della Camera del Trucco - All'estrema sinistra: Étienne Allegrain (attribuito a), Veduta del Castello di Saint-Cloud, 1675-77, olio su tela. A destra: Paolo Emilio Morgari: “Ritratto di Sua Maestà Vittorio Emanuele II di Savoia, re d'Italia”, 1874, olio su tela. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Sulla parete ovest è collocata una tela ad olio di grandi dimensioni raffigurante una veduta del Castello di Saint-Cloud, residenza non lontana da Parigi dove la regina Anna Maria di Borbone-Orléans, figlia del Duca d'Orléans e nipote di Luigi XIV, era nata e cresciuta. Attribuita ad Étienne Allegrain e databile tra il 1675 e il 1677, è una replica desunta da un originale custodito a Versailles che, con molta probabilità, era parte del corredo matrimoniale della prima monarca sabauda, come dimostrato dalla rappresentazione di un corteo nuziale in primo piano assente nel prototipo. La parete est ospita i ritratti di Maurizio di Savoia, della già citata Anna Maria d'Orléans e di Vittorio Amedeo III. Sulle pareti nord e sud sono appesi, uno difronte all'altro, due quadri del 1874 di Paolo Emilio Morgari, ritraenti Vittorio
Emanuele II, primo re d'Italia, che reca in mano l'atto di cessione di Villa della Regina all'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari, e la sua consorte scomparsa anzitempo, Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena. Della mano di Giovanni Battista Crosato sono le sovrapporte e le soprafinestre decorate con scene tratte dalle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone, due delle quali sono state oggetto di furto nel 1979. Risalgono agli interventi juvarriani le consolles e le specchiere in stile rocaille, dorate a foglia ed ornate con girali di foglie d'acanto e chinoiserie.

La Regina Adelaide, Villa della Regina

ANTICAMERA VERSO LEVANTE

In foto: Anticamera verso Levante – interno.

L'Anticamera verso Levante, adibita nel Settecento a sala giochi, custodisce una nutrita raccolta di ritratti familiari e tre nature morte floreali di ambito fiammingo. Tra le personalità sabaude effigiate è possibile riconoscere Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, seconda moglie di Carlo Emanuele III, Vittorio Amedeo III e Maria Clotilde di Borbone-Francia, sposa di Carlo Emanuele IV e sorella di Luigi XVI. Primeggia fra tutti per le sue imponenti dimensioni il ritratto di Umberto I, realizzato da Costantino Sereno nel 1878. Si segnala in questa sala la presenza di una targa bronzea commemorativa, su cui è inciso il bollettino militare con cui il generale italiano Armando Diaz annunciò, nel 1918, il termine della Grande Guerra. Un tempo, al centro della volta ornata con stucchi di maestranze luganesi, era collocato un olio su tela di argomento biblico realizzato da Claudio Francesco Beaumont, "Il Sacrificio di Jefte", che oggi risulta disperso. Uniche superstiti dei trafugamenti del 1979, durante i quali furono portate via tutte le sovrapporte di questo ambiente, sono le due soprafinestre di Giovanni Battista Crosato raffiguranti burle e giochi di putti.

GABINETTO VERSO LEVANTE "ALLA CHINA"

L'inventario del 1755 descrive questo raffinatissimo cabinet come interamente rivestito da tappezzerie in taffetas chiné à la branche, tacendo sulla presenza della pregevole boiserie impreziosita da pannelli simulanti carte cinesi, realizzata - forse non per questo ambiente - da Pietro Massa in collaborazione con la sua bottega tra 1732 e 1735. Nel 1868 la boiserie venne smontata dalla sede per cui era stata concepita nei progetti juvarriani e messa in deposito al Castello di Moncalieri. Nel 1888 i vari pannelli furono inviati al Quirinale ed installati nell'appartamento destinato ad ospitare il kaiser Guglielmo II. Il soffitto presenta motivi ispirati alle porcellane cinesi e la pavimentazione si compone di pregiate tarsie lignee. L'originale rivestimento con papiers-peint delle pareti è oggi riproposto grazie a sottili teli ignifughi in garza stampata.

BIBLIOTECA DEL PIFFETTI

In foto: Pietro Piffetti, Biblioteca, 1735-40, legno di pioppo con intarsi in palissandro, ulivo, bosso, tasso, avorio, tartaruga e inserì in foglia d'oro. Roma, Palazzo del Quirinale – Presidenza della Repubblica Italiana (già a Villa della Regina). Copyright fotografico: Archivio della Presidenza della Repubblica Italiana.

Ultima stanza rivolta verso la collina, nel XVIII secolo la biblioteca detta "del Piffetti" era, a dispetto delle sue esigue dimensioni, una delle sale più sfarzose di tutto l'appartamento di Sua Maestà. Risalente agli anni 1735-40, questo fulgido esempio di ebanistica rococò venne trasferito, nel 1879, alla Presidenza del Quirinale - dove si trova tutt'oggi - per ornare una delle camere dell'appartamento della regina Margherita di Savoia, moglie di Umberto I. L'autore di questo prezioso ambiente fu Pietro Piffetti, "ebanista del re e re degli ebanisti" attivo alla corte sabauda dal 1731 all'anno della sua morte, avvenuta nel 1777. La biblioteca presenta un corpo in legno di pioppo con alta zoccolatura e scansie per contenere i libri, rivestito nella sua interezza in palissandro, ulivo, bosso e tasso. La struttura è arricchita da elaborati intarsi in avorio. Le scaffalature sono coronate da otto vasi in maiolica all'orientale e da quattro sculture lignee dorate a foglia raffiguranti le quattro stagioni. Accompagnano l'arredo fisso due piccole consolles foderate in testuggine con tarsie eburnee a trompe-l'oeil simulanti fogli e stampe. Sopra uno di questi fogli d'avorio Piffetti volle apporre la propria firma. In origine, erano parte dell'arredo anche sei sgabelli e due sputacchiere alla cinese. In loco sono rimasti soltanto lo splendido pavimento ligneo piffettiano con decorazioni floreali e gli affreschi sommitali. Sulla volta, sono riferibili a Giovanni Francesco Fariano (attivo anche a Rivoli e a Stupinigi) le grottesche blu e oro su fondo bianco avorio che emulano i motivi delle porcellane cinesi, riprese dal Piffetti sullo zoccolo della libreria e sulla fascia di raccordo fra gli scaffali e il soffitto. Il medaglione centrale vede come protagonista Atena-Minerva, dea della Sapienza nel pantheon greco-romano, colta nell'atto di scacciare i Giganti dall'Olimpo, allegoria facilmente interpretabile come il trionfo della cultura sulla violenza e sull'istinto bruto. Il capolavoro dell'ebanista torinese è rievocato sulle nude pareti della saletta grazie ad una scenografica ricostruzione virtuale voluta dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.

CAMERA DA LETTO

In foto: Camera da letto di Sua Maestà – interno. Fonte: consultaditorino.it

In affaccio sulla città, la camera da letto del re di Villa della Regina si distingue da tutte le altre sale per il suo strepitoso apparato decorativo realizzato in più fasi. Sul soffitto, la grande tela da plafond (1718-1719), posizionata al centro di un'elaborata cornice in stucco di maestranze luganesi, è opera di Claudio Francesco Beaumont ma, fino a tempi recenti, è stata impropriamente attribuita a Daniel Seiter. In essa il protagonista è Apollo che, alla guida del carro solare trainato da due cavalli bianchi, solca la volta celeste introdotto da Aurora, raffigurata mentre sparge delle rose aiutata da un putto in volo (allusione erudita al celebre verso formulare omerico "ῥοδοδάκτυλος Ἠώς", ossia "Aurora (Eos) dita di rosa"). Nella sezione inferiore, in primo piano, si trova - accanto a figure dormienti - un simpatico puttino sorpreso nell'atto di sbadigliare. Secondo uno schema molto caro ai monarchi europei, in questa composizione pittorica Vittorio Amedeo II viene accostato ad Apollo, divinità inscindibilmente legata al disco solare. Nella concezione assolutistica dell'Ancien Régime, infatti, il sovrano - al pari del Sole con i pianeti - veniva considerato il centro nevralgico dello Stato attorno a cui ruotano tutti i poteri, siano essi legislativo, esecutivo o giudiziario.

In foto: Volta della Camera da letto di Sua Maestà, pitture murali di Daniel Seiter e Claudio Francesco Beaumont, stucchi e dorature di maestranze luganesi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Le quattro specchiature laterali, dipinte ad olio sull'intonaco secco, ospitano le rappresentazioni allegoriche delle Stagioni sia dell'anno solare che della vita umana, dovute anch'esse al Beaumont, e le figure di Bacco, Cerere e dell'Allegoria dei Venti eseguite, tra 1694 e 1695, da Daniel Seiter nell'ambito di una precedente impresa pittorica. Agli angoli, entro quattro scudi dorati sostenuti da putti in candido stucco, vi sono le personificazioni delle quattro Virtù Cardinali con i rispettivi attributi iconografici: la Fortezza abbracciata ad una colonna, la Giustizia appoggiata ad una spada, la Prudenza che si guarda allo specchio e la Temperanza intenta a versare dell'acqua in un bacile.

Le soprafinestre e le sovrapporte (queste ultime sono presenti solo in copia fotografica dal momento che, nel tardo Ottocento, le originali furono installate al Quirinale), attribuibili a Corrado Giaquinto o alla sua scuola e databili attorno al 1735, raffigurano con rara grazia le vicende del pius Enea, rese celebri presso la corte torinese dal dramma di Pietro Metastasio intitolato "Didone Abbandonata", accolto con grande successo e replicato per ben quattro volte al Teatro Regio nel 1727. A ridosso della parete, dove ora è presente il ritratto giovanile di una pensosa regina Margherita di Savoia fasciata da un abito rosa, realizzato da Luigi Biagi nel 1879, era collocato, con ogni probabilità, il letto a baldacchino. La stanza presenta attualmente un rivestimento in taffetas chiné à la branche che differisce da quello descritto nell'inventario del 1755. L'originaria tappezzeria in seta bianca bordata di verde presentava dei paesaggi cinesi idealizzati con palmizi, sinuosi corsi d'acqua solcati da imbarcazioni in giunco e padiglioni popolati da personaggi indaffarati nelle proprie attività quotidiane.

GABINETTO DEL RE VERSO MEZZANOTTE E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto del Re verso Mezzanotte e Ponente – interno. Copyright: Beppe - vbs50.com

Tutti gli inventari settecenteschi non riportano alcuna informazione riguardante gli ornamenti parietali di questo splendido salottino privato. La prima menzione della boiserie, evidentemente non destinata in origine a tale ambiente, risale al 1812, anno in cui all'interno della villa venne fatta una ricognizione e stilato un catalogo dei vari complementi d'arredo mobile e fisso. Sia in questa data che nel 1845 furono qui censite tre consolles oggi mancanti, descritte come «finemente intagliate e dorate col piano superiore dipinto alla Chinese a colori diversi avente caduna di esse un piccolo tiratojo con serratura e chiave (...) e medaglioni al centro». Il rivestimento ligneo della parete, che porta le iniziali di Pietro Massa, è composto da otto pannelli a fondo giallo inseriti all'interno di montanti bianco avorio con ramages blu e da tre specchiere. Il tutto è impreziosito con delicate cornici dorate. I vari riquadri sono arricchiti da rilievi variopinti raffiguranti soggetti molto cari alla produzione artistica cinese, quali paesaggi idealizzati con abitazioni, alberi, animali esotici, uccelli e cortei di improbabili figure orientali dai fantasiosi abiti multicolore. Sullo zoccolo sono dipinte diverse specie di volatili acquatici e fiori esotici. I motivi della boiserie sono puntualmente riproposti negli stucchi sulla volta, riferiti negli inventari ottocenteschi ad un tale Pierre Wartz ed attualmente attribuiti al maestro luganese Giovanni Maria Andreoli.

In foto: particolare della boiserie di Pietro Massa e bottega. Copyright: Beppe - vbs50.com

IL GUARDAROBA

Il guardaroba del re è un ambiente di servizio dalle dimensioni piuttosto esigue attiguo al gabinetto cinese. Custodisce degli armadi in legno di noce impiallacciato con radica di olmo, destinati a contenere gli abiti del sovrano. A causa di infiltrazioni d'acqua gli affreschi a "grotteschi" che decoravano la volta sono completamente andati perduti.

ANTICAMERA VERSO PONENTE

Gli inventari stilati nel XVIII secolo attestano sulle pareti di questa anticamera, prima stanza a sinistra rispetto al Salone d’Onore, la presenza di oltre ottanta dipinti tra scene di genere, nature morte, ritratti, tele storiche e mitologiche, oggi quasi totalmente perduti. Fino al 1943 sulla volta, ornata da cornici in stucco bianco su fondo azzurro dell'atelier di Pietro Somasso, campeggiava una tela da plafond raffigurante Diana ed Endimione, andata distrutta nel corso dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale. Si ammirano tuttora in loco le sovrapporte di ambito del Giaquinto, apprezzabili per il modellato delle figure associato ad una ricca varietà di vibranti cromie; e la pregevole tappezzeria settecentesca in taffetas chiné à la branche di manifattura francese.

VILLA DELLA REGINA: L'APPARTAMENTO DELLA REGINA

Speculare a quello regio, l'appartamento di Sua Maestà la Regina è diviso in camere private affacciate su Torino e stanze rivolte verso la collina dedicate a momenti di intrattenimento e convivialità. Le sue sale, trasformate – come quelle dell'appartamento del re - nella seconda metà dell'Ottocento in aule scolastiche o in ambienti al servizio della direttrice dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, furono quelle che sortirono maggiormente i devastanti effetti dei bombardamenti aerei del Secondo Conflitto Mondiale.

In foto: Anticamera verso Ponente – interno. Copyright: Beppe - vbs50.com

L'assetto ornamentale dell'Anticamera verso Ponente fu realizzato in più fasi e per diversi committenti. Risalgono al primo ciclo di lavori voluti, tra 1694 e 1698, da Anna Maria di Borbone-Orléans le variopinte grottesche “alla Bérain” con inserti dorati del soffitto, riprese negli anni ’30 del Settecento da Minei o, più probabilmente, da Giovanni Francesco Fariano, e la tela centrale di Daniel Seiter, sulla quale è effigiato un tema allegorico molto caro ai sovrani assoluti d'Europa: “Il Tempo e la Fama”. Sono frutto dei progetti juvarriani per Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg la zoccolatura lignea, il copricamino, le specchiere con le cornici intagliate e dorate in stile rocaille e le sovrapporte ovali di Giovanni Domenico Gambone rappresentanti fantasiose rovine architettoniche. Infine, sono di epoca napoleonica le pitture parietali con «arabesques, et figures uniformes à la peinture de la voute y existante sur le gout d'Erculan, et chinois», eseguite a tempera sull'intonaco secco dal pittore genovese Carlo Pagani nell'agosto del 1811. Così come nell'omonima stanza dell'appartamento del re, anche in questa anticamera nel Settecento risultavano censiti alle pareti oltre ottanta dipinti di vario soggetto e formato, ora mancanti.

In foto: Daniel Seiter, “Il Tempo e la Fama”, ultimo quinquennio del secolo XVII secolo, olio su tela. Copyright: Beppe - vbs50.com

CAMERA DA LETTO

In foto: Camera da letto della regina – interni. Copyright: Beppe - vbs50.com

Nel corso del bombardamento alleato che funestò quest’area del piano nobile l'8 agosto del 1943, andò distrutta la quasi totalità degli arredi mobili e fissi posti all'interno della camera da letto della regina. Originariamente la volta era dominata da un grande affresco di Corrado Giaquinto, “il Trionfo degli dei”, dipinto tra 1736 e 1737; e alle pareti era posizionata una tappezzeria di manifattura francese in seta blu con ramages e motivi floreali. Buona parte dell'arredamento fisso progettato da Juvarra negli anni '30 del XVIII secolo è oggi riproposto da copie degli anni '50 del Novecento, che si distinguono dai complementi originali superstiti per l'assenza di dorature. Quando la villa ospitava la sezione umanistica per le alunne meritevoli dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, la stanza fu adibita ad aula di musica, come testimoniato dalla presenza del pianoforte verticale tardo-ottocentesco.

In foto: Camera da letto della regina – interni. A destra: pianoforte verticale della fine del XIX secolo. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

GABINETTO VERSO MEZZOGIORNO E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China” – interno con boiserie e specchiera.

Differente per il suo arredamento fisso dagli altri cabinet “alla China” presenti alla villa, il Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente presenta una bassa zoccolatura con scene di genere orientaleggianti e porte con medaglione centrale istoriato sul modello degli acquerelli cinesi, eseguite dall’atelier di Pietro Massa su progetto di Filippo Juvarra e Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano nel terzo decennio del Settecento. Agli angoli, tra le porte e nelle sovrapporte, sono inseriti, entro elaborate cornici lignee dorate a foglia con i monogrammi di Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, degli specchi di varie forme e dimensioni. Inquadrato da un fregio in stucco dorato a volute e ghirlande, il soffitto è caratterizzato da lacerti di pitture a fresco - risultanti perdute in gran parte già dagli anni '30 del XX secolo - con grottesche, ornati vegetali, uccelli, scimmie e figure maschili in foggia orientale, che rispondono allo stile di Filippo Minei. Del raffinato mobilio (tavolini, sgabelli e una consolle in stile rocaille) e delle preziose suppellettili (porcellane cinesi, argenteria e servizi da tè, caffè e cioccolata) storicamente documentati in questo salottino privato di gusto spiccatamente esotico, rimane soltanto un piccolo doppio corpo ligneo in “lacca povera”, ornato ad imitazione delle costose lacche orientali con una tecnica non dissimile dal découpage. Le bombe sganciate su quest’ala della villa nel 1942 non diedero alcuno scampo al rivestimento parietale settecentesco in taffetà, che rimase carbonizzato. Quest'ultimo è attualmente riproposto in copia.

IL GUARDAROBA

Gli inventari redatti nel Settecento documentano all'interno del guardaroba della regina due armadiate in radica di olmo con tarsie in noce, dietro le quali erano celati – fra le altre cose – una “cadrega di servizio” e un montavivande che consentiva di trasportare le pietanze dalle cucine al piano nobile. “Botti” in maiolica con decori blu e bianchi in armonia con i variopinti arabeschi sulla volta impreziositi da venature dorate fungevano da coronamento per i mobili. In un vano nascosto dietro le ante di un armadio sono ancora visibili le tracce dell'impianto idraulico realizzato per trasformare questo luogo nella toilette della direttrice dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari.

ANTICAMERA VERSO LEVANTE

In foto: Anticamera verso Levante – interni. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Ripetutamente danneggiata fino alla quasi totale distruzione durante le incursioni aeree avvenute tra l'8 e il 9 dicembre del 1942 e l'8 agosto del 1943, l’Anticamera verso Levante è – per come possiamo ammirarla oggi – quasi interamente frutto del ripristino architettonico del secondo dopoguerra posto in essere nel 1952. Anticamente, prima che nella seconda metà del XIX secolo fosse trasferita al Quirinale nel Salone d'Onore dell’Appartamento Imperiale, era possibile ammirare al centro del soffitto una tela di un anonimo pittore di scuola bolognese del Seicento raffigurante Re Salomone che riceve la Regina di Saba. Sia le pareti che le superfici concave della volta erano state completamente affrescate probabilmente da Filippo Minei in stile pompeiano con colori vivaci impreziositi da tocchi di foglia d'oro. Un documento datato luglio 1811 attesta che il pittore Giovanni Battista Pozzo fu pagato 1200 franchi dal governo francese per aver ridecorato «les murs [...] en figures, animaux, fleurs, et autres ornemens sur le gout de Raphael uniformes a la peinture de la Voute y existante». I dipinti novecenteschi che attualmente decorano la sala, compiuti imitando in maniera fedele gli originali, si devono a Francesco Chiapasco. La sovrapporta in carta dipinta a fiori e uccelli attribuita a Francesco Rebaudengo, unica superstite di una serie che fu oggetto di furto nel 1979, costituisce una preziosa testimonianza della fase tardo-settecentesca di Villa della Regina, quando era la dimora settembrina di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna. Le poltrone, le sedie e il divano in stile Impero furono realizzate appositamente per questo palazzo dall'ebanista Francesco Bolgi nel 1812. L'inventario del 1755 attesta in questa stanza la presenza di ben 43 ritratti di esponenti delle famiglie Savoia, Borbone-Francia, Asburgo-Lorena, Stuart e Assia-Rheinfels-Rotenburg.

GABINETTO VERSO LEVANTE DETTO "DELLE VENTAGLYNE"

In foto: Volta del Gabinetto delle Ventaglyne. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Passaggio obbligato fra l'Anticamera verso Levante affacciata sul giardino e il Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China”, il Gabinetto detto “delle Ventaglyne” deve il suo nome all'antica presenza di una ricca collezione di preziosi ventagli in carta dipinta montati sui tavolati della boiserie e inquadrati da cornici intagliate e dorate secondo un preciso progetto ornamentale, ancora intuibile grazie alle impronte dei riquadri rinvenute sulle pareti nel corso dei restauri. Alle sopracitate “ventaglyne”, si alternavano 26 piccole effigi di personalità di stirpe regale legate ai Savoia da vincoli di parentela. La volta, rifatta in gesso nella sua parte plastica e ridipinta ad olio nel 1952, riproduce fedelmente gli articolati partiti in stucco dorato e avorio nonché i fortunati motivi bianchi e blu “a graticcio” che circondano padiglioni abitati da figurine prese in prestito dai repertori della grottesca e della commedia dell'arte; presenti nell’originario progetto realizzato sotto la regia juvarriana. Mancante è il tondo centrale con “Amore che suona la cetra”.

In foto: Gabinetto delle Ventaglyne – interni. Fonte: rocaille.it

GABINETTO VERSO MEZZOGIORNO E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China” – interni.

Tra gli ambienti più raffinati e fastosi dell'appartamento della regina, se non addirittura dell'intera villa, questo gabinetto cinese è lo strepitoso risultato di un progetto unitario per la boiserie e la volta, disegnato probabilmente da Baroni di Tavigliano (anche se non si possono escludere degli accorgimenti apportati da Juvarra) ed eseguito materialmente da Pietro Massa e dai suoi collaboratori tra 1733 e 1736. All'interno di un'articolata struttura in legno di pioppo massello a fondo nero, ornata da decori policromi ad olio con vasi di fiori, fenici e figure in vesti esotiche, sono inserite delle tavolette a fondo rosso e arancio in materiali preziosi (argento, ottone, stagno, legno di melo) di varia natura e provenienza lavorati con tecniche differenti, che mostrano motivi floreali, paesaggi fluviali puntellati di casette e popolati da pescatori indaffarati in attività ittiche o in ozioso colloquio, uccelli, personaggi stanti o seduti comodamente su cuscini con ventagli e aquiloni. Fra queste numerose figurine all'orientale una, posizionata sulla parete sud, mostra una ventaglina ricamata con le iniziali “PM”, interpretabili come uno sfraghís di Pietro Massa. Arricchiscono ulteriormente la boiserie tre grandi specchiere. Agli angoli sono collocate, al di sopra di mensole, quattro figure femminili chiné con teste e mani separabili dal corpo rivestito con un lungo abito pieghettato, scolpite in scagliola da maestranze piemontesi del XVIII secolo e dipinte in modo tale da riprodurre perfettamente la lucentezza della porcellana cinese. L'effetto ottenuto è tanto credibile che nell'inventario del 1755, dove vengono definite «grosse pagode bianche con berretta negra in capo», le si considera realmente in porcellana. Sotto queste curiose statue trovano posto quattro piccole consolles angolari terminanti a zoccolo di capra. Il repertorio iconografico delle specchiature a fondo rosso sulle pareti è ripreso pari pari nelle variopinte pitture del soffitto. Il grave furto che si registrò alla villa nel 1979 fu la causa della perdita di alcune preziose tavolette rosse e nere.

IL GIARDINO VERSO LA COLLINA E IL TEATRO D'ACQUE

In foto: Il Teatro d'Acque. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

La creazione dello scenografico impianto del Teatro d'Acque comportò laboriose e costanti operazioni di sbancamento, rimodellazione e contenimento della bassa collina su cui sorge la villa, protrattesi per buona parte del Seicento e per tutto il Settecento. Sul retro del palazzo, uscendo dal Salone d'Onore, si estende un giardino ad anfiteatro impostato su tre livelli scanditi da filari di siepi di bosso e coronato dal Bosco dei Camillini. Il primo livello è costituito dal Cortile d'Onore in forma di esedra, caratterizzato al centro da una piccola vasca marmorea quadrilobata animata da piccolo gioco d'acqua e delimitato da due pareti concave segnate da una successione di 20 nicchie con piedistalli ora orfani, ora sovrastati da sculture. Per mezzo di una scalinata introdotta da due obelischi laterali, una volta superato il Giardino dei Fiori - collegato alla villa tramite terrazze con sottarchi - si raggiunge un’ulteriore vasca di dimensioni maggiori in confronto a quella precedentemente descritta, collocata in posizione frontale rispetto alla Grotta del Re Selvaggio.

Grotta del Re Selvaggio — particolare della nicchia centrale. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Questa finta spelonca - che deve la sua denominazione alla singolare scultura posta entro la nicchia centrale - altro non è che un parallelepipedo marmoreo tripartito, rivestito all'interno da specchiature e rilievi musivi in ciottoli di fiume, conchiglie e mursi. Salendo al livello successivo, tre terrazze emicicliche concentriche delineano il profilo del Giardino en forme de théâtre, cuore pulsante del Teatro d’Acque. In mezzo ad esso scorre la Cascatella della Naiade, una cascata a dodici gradoni paralleli in pietra dominata da un gruppo scultoreo in marmo raffigurante una naiade (ninfa d’acqua dolce) e un fauno distesi.

Cinta lateralmente da una scala a tenaglia che conduce al punto più alto della villa, la Vasca del Mascherone alimenta, grazie alle acque di una sorgente che sgorga dalla collina, tutte le fontane e i giochi d'acqua sottostanti con l'ausilio di un complesso sistema di canalizzazioni. Il Belvedere superiore juvarriano, quinta scenografica e culmine dell'intero complesso, presenta una facciata curvilinea definita da un'elegante bicromia giocata sul contrasto tra il grigio tenue della finitura degli intonaci e il colore naturale dei rustici bugnati in pietra calcarea. Nella fascia inferiore si aprono tre nicchie abitate da statue in marmo bianco dovute allo scalpello del regio scultore Giovanni Battista Bernero. All'estrema sinistra e all'estrema destra trovano posto aperture ovali foderate in murso nobilitate dalla presenza di mezzibusti. Sul fastigio, coronato da balaustre scandite da urne, troneggia lo stemma di Anna Maria di Borbone-Orléans.

IL PADIGLIONE DEI SOLINGHI

In asse con il corpo centrale della dimora, alla destra del giardino per chi guarda la collina e in posizione laterale rispetto al Teatro d'Acque sorge il Padiglione dei Solinghi, un edificio alto e stretto ripartito in due livelli architettonici, frutto dei disegni di Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano. Nella sezione inferiore è situata una terrazza semicircolare concava decorata da balaustre in marmo all'apice, specchiature in murso e una grande nicchia centrale contenente una scultura marmorea del dio Bacco attribuibile al Bernero. Percorrendo una scalinata laterale affiancata da un fondale leggermente curvo rivestito in pietra calcarea si raggiunge il secondo livello, un costruito a due piani i cui prospetti principale e laterali ripropongono il gioco cromatico a fasce orizzontali visibile nelle testate del Belvedere. Fungono da inusuali capitelli per le lesene laterali due mascheroni, ricostruiti nel 1836 ad opera di Giuseppe Corsaro. All'interno del padiglione – detto “dei Solinghi” in memoria dell'accademia di dotti fondata dal Cardinal Maurizio di Savoia, primo possessore del compendio, nel Seicento – il frammentario impianto idraulico, vittima delle pesanti manomissioni postume subite dal fabbricato, suggerisce la presenza di giochi d'acqua interni di cui, attualmente, rimane solo una conchiglia bivalve in stucco inserita nell'elaborato repertorio ornamentale musivo della nicchia centrale, articolato in tre ripartizioni separate da cornici ad ovuli, nastri intrecciati e lacunari con fiori molto aggettanti.

In foto: Il Padiglione dei Solinghi – esterno. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

LA ROTONDA

In foto: La Rotonda vista dal Cortile d'Onore in forma di esedra.

Agli antipodi del Padiglione dei Solinghi (di cui peraltro riprende le fattezze), la Rotonda è figlia di un progetto rimasto incompiuto difficile da ricondurre ad una piena autografia juvarriana. Questa terrazza offre un punto di vista privilegiato sulla città di Torino e sulle aree produttive dell'area DOC del Freisa di Chieri.

 

Bibliografia:
Paolo Coneglia, Andrea Merlotti, Costanza Roggero: Filippo Juvarra, architetto dei Savoia, architetto in Europa. Vol.1, Roma, Campisano Editore, 2014.
Cristina Mossetti: Villa della Regina, Torino, Allemandi, 2007.
Lucia Caterina, Villa della Regina: il riflesso dell'Oriente nel Piemonte del Settecento, Torino, Allemandi, 2005.
Cristina Mossetti, Paola Manchinu, Maria Carla Visconti: Juvarra a Villa della Regina, Roma, Campisano Editore, 2014.

Sitografia:
http://www.cultorweb.com/VR/VilladellaRegina.html
https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-grottesche-con-figure-uccelli-e-architetture-pozzo-giovanni-battista-notizie-dal-1811-01-00206489/316489
https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-ritratto-di-cristina-polissena-d-assia-rheinfels--01-00197787/316739
https://www.academia.edu/42720796/Juvarra_a_Villa_della_Regina
http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_28007
http://www.amicidivilladellaregina.com/la-villa/
http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_28008
http://palazzo.quirinale.it/luoghi/pdf/it/piffetti.pdf


VILLA DELLA REGINA A TORINO

A cura di Francesco Surfaro
Veduta dall'alto di Villa della Regina. Copyright fotografico: Stefano Geraci - Torino Storia.

Arroccata sulla collina torinese, alle spalle della Gran Madre di Dio, Villa della Regina è il degno fondale scenografico della città subalpina. Questa incantevole maison de plaisance fa parte della "Corona di delizie", un sistema di dimore extraurbane preposte al loisir della corte, fatte erigere dai Savoia attorno alla capitale secondo una peculiare disposizione "a raggiera". Dal 1997, assieme a tutte le altre Residenze Reali Sabaude, è Patrimonio dell'Umanità tutelato dall'UNESCO. Villa della Regina sarà oggetto di un doppio elaborato: nel seguente articolo, il primo dei due, si porrà l'attenzione sul contesto storico che ha visto l'edificazione della dimora e le trasformazioni che essa ha subito nel corso del tempo.

Il contesto storico: "principisti" e "madamisti"

Philibert Torret detto "Narciso", Ritratto di Maria Cristina di Borbone-Francia in abiti vedovili (particolare), 1638-1640, olio su tela. Collezione Intesa Sanpaolo.

In piena Guerra dei Trent'anni, mentre stava conducendo al fianco dei francesi una campagna militare contro la Lombardia spagnola, il duca Vittorio Amedeo I di Savoia morì inaspettatamente nell'ottobre del 1637, dopo soli sette anni di governo, stroncato forse da febbri malariche. Dietro di sé lasciava due eredi maschi ancora infanti, Francesco Giacinto di cinque anni e Carlo Emanuele di tre. A Torino, nei giorni immediatamente successivi al tragico evento, il Senato di Piemonte dichiarò la vedova Maria Cristina di Borbone-Francia tutrice legittima di Francesco Giacinto (prematuramente scomparso l'anno successivo) e reggente. L'assunzione della reggenza da parte della Madama Reale fu subito contestata dai due fratelli del duca estinto, il cardinale Maurizio e il Principe di Carignano Tommaso, ambedue filo-spagnoli e ostili alla cognata che, in quanto sorella del re Luigi XIII, era ovviamente filo.francese. Già messo a dura prova dalla Guerra di Monferrato e dalla violenta epidemia di peste del 1630-31, il Ducato di Savoia veniva ora travolto da una guerra civile dove si fronteggiavano da una parte i "principisti", avversi alla Francia e sostenitori dei due principi, e dall'altra i "madamisti", animati da un sentimento anti-spagnolo e leali nei confronti della duchessa madre. Alle lotte intestine si sommavano i sotterfugi del cardinale Richelieu che, approfittando del momento di grave instabilità politica, era intenzionato a ridurre le autonomie del Piemonte e della Savoia e a trasformarne i territori in province francesi. Appoggiati dal popolo e dall'élite piemontese, Maurizio e Tommaso registrarono un iniziale vantaggio grazie anche all'appoggio militare della Spagna. Se il primo sottomise Nizza e diverse località del Piemonte meridionale senza troppi sforzi, il secondo assediò la capitale il 27 agosto del 1639, costringendo alla fuga la Madama Reale e il piccolo Carlo Emanuele, portato in salvo presso il forte di Montmélian. Cristina si ritirò in Savoia, mentre Richelieu, dopo varie negoziazioni, riuscì a strappare al generale spagnolo don Diego Mexía Felipez de Guzmán, Governatore del Ducato di Milano, una tregua d'armi stipulata il 14 agosto 1639, rivelatasi in seguito fatale per i principi. A tregua finita l'esercito francese, mirabilmente guidato dal conte d'Harcourt, liberò Casale e Torino mettendo alle strette Tommaso, il quale si vide obbligato a ritirarsi ad Ivrea. Maurizio si barricò a Cuneo ma, dopo aver resistito strenuamente, fu costretto anch'egli alla resa. Ormai abbandonati al proprio destino dagli alleati spagnoli, i principi bon gré mal gré  (volenti o nolenti ) dovettero prendere parte alle trattative di pace col cardinale Mazzarino. Finalmente, il 14 giugno del 1642 venne siglato l'accordo definitivo, in base al quale Madama Cristina sarebbe stata riconfermata tutrice e reggente, a Tommaso sarebbe stata accordata la luogotenenza generale di Ivrea e Biella, mentre il quarantanovenne Maurizio, lasciata la porpora cardinalizia e ricevuto l'imprimatur da Urbano VIII per le nozze consanguinee, avrebbe sposato la nipote di tredici anni Ludovica, nonché ottenuto la luogotenenza di Nizza. Entrambi i fratelli avrebbero fatto parte del consiglio di reggenza.

Anonimo pittore di ambito piemontese, Ritratto del Principe-Cardinale Maurizio di Savoia, 1642-60, olio su tela. Torino, Villa della Regina. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Il matrimonio tra Maurizio e Ludovica fu celebrato per procura nell'agosto del 1642. Con esso potevano dirsi nullificata ogni pretesa sulla corona ducale, in quanto i diritti di successione si univano nei coniugi. Abbandonata definitivamente la politica, l'ormai ex cardinale si ritirò a vita privata presso la sontuosa villa che, in precedenza, si era fatto costruire sulla collina torinese. Lì trascorse i restanti anni della sua esistenza dedito all'otium letterario.

Da Vigna del Cardinale a Villa della Regina

Nel 1615 Maurizio di Savoia commissionò all'architetto orvietano Ascanio Vitozzi la trasformazione di una preesistente vigna, sita sulla bassa collina poco oltre il Po, in una dimora signorile dotata di un giardino all'italiana, un teatro d'acque, peschiere, orti, vigneti e persino di un bosco. A seguito dell'improvvisa morte del Vitozzi, avvenuta nello stesso anno della commissione, furono posti a capo del cantiere Carlo e Amedeo Cognengo di Castellamonte, padre e figlio, già impegnati in altre importanti fabbriche per la corte ducale. Lo stretto legame della committenza con gli ambienti romani e la corte pontificia influenzò notevolmente le scelte per l'assetto architettonico e quello paesaggistico, dove si possono ravvisare diverse analogie con le ville suburbane laziali, specie con Villa d'Este a Tivoli e Villa Aldobrandini a Frascati. Il cuore pulsante della struttura era un grande loggiato centrale che divideva due appartamenti con sale affacciate verso la città e verso la collina. Il palazzo, immerso nel verde lussureggiante degli attigui giardini a parterre ed "en forme de théâtre", venne scelto dal porporato come degna sede dell'Accademia dei Solinghi o dei Desiosi, da lui fondata. In questa istituzione culturale confluivano vari artisti e intellettuali che, nel corso dei loro raduni, alternavano alla recita di drammi teatrali, sonetti e madrigali, discussioni di natura scientifica, filosofica, politica e persino esercitazioni militari o battute di caccia. Il fatto che i membri di tale consesso di dotti amassero radunarsi in questo locus amoenus appartato valse loro il soprannome di "solinghi", ovvero "solitari". Fra queste menti eccelse rifulgeva più di tutte quella di Emanuele Tesauro, letterato, retore, storico e drammaturgo, che godette di grande prestigio non soltanto presso la corte sabauda, dove fu attivo per oltre quattro decenni, ma anche a livello europeo.

Charles Dauphin, Ritratto di Emanuele Tesauro, 1670, olio su tela. Torino, Galleria Sabauda. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Alla morte di Maurizio, avvenuta nel 1657, la villa - nota ai più come "Vigna del Cardinale"- venne ereditata, assieme ad una ricchissima collezione di opere d'arte, dalla sua giovane vedova, la principessa Ludovica. Sotto la nuova proprietaria l'edificio, ormai rinominato Villa Ludovica, fu ampliato con l'edificazione di quattro padiglioni angolari, e ridecorato nelle sale del piano nobile e del secondo piano con l'aggiunta di soffitti cassettonati e grandi fregi con soggetti storici, mitologici e venatori. Morta senza eredi nel 1692, la principessa lasciò per disposizione testamentaria la sua dimora di delizie alla moglie dell'allora duca Vittorio Amedeo II, Anna Maria di Borbone-Orléans.

Louis-Ferdinand Elle, Ritratto di Anna Maria di Borbone-Orléans, 1684, olio su tela. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Con la firma dei Trattati di Utrecht nel 1713, Vittorio Amedeo II otteneva il tanto ambito titolo regio e il Ducato di Savoia si trasformava in Regno di Sicilia (permutato col Regno di Sardegna nel 1718). Fu proprio in onore di Anna d'Orléans, prima regina della dinastia sabauda, che la splendida delitia collinare venne ribattezzata "Villa della Regina".

La sovrana, tra 1694 e 1698, affidò alla direzione di Carlo Emanuele Lanfranchi alcuni cospicui interventi di manutenzione e rimaneggiamento sia degli interni del fabbricato, dove vennero ribassati gli alti soffitti seicenteschi, sia dei giardini. I contratti di pagamento riportano che, nel 1695, l'appartamento dell'ala meridionale, scelto per sé da Anna, fu decorato con partiti in stucco a tema perlopiù floreale dall'éntourage del luganese Pietro Somasso e con dipinti su tela del pittore viennese Daniel Seiter. All'esterno, dove - già all'epoca - risulta attestata  la presenza di un belvedere superiore e due "piate forme" laterali quali fulcri di un emiciclo terrazzato; vennero sostituite le balaustre in cotto dipinte di bianco poste lungo tutti i percorsi terrazzati e le scalinate con delle altre marmoree. Furono inoltre oggetto di reintegrazione gli ornamenti musivi costituiti da ciottoli di fiume, conchiglie e mursi, i quali ricoprivano interamente le superfici dello scalone centrale, dell'emiciclo e della gradinata che conduceva alla fontana di Apollo (l'attuale Grotta del Re Selvaggio), all'epoca decorata con statue di animali, festoni floreali e delle non meglio specificate "altre fatture".

Con l'arrivo del Settecento la regina maturò la decisione di aggiornare la propria "Vigna" secondo le nuove tendenze e di adeguare gli ambienti aulici alle varie esigenze del consorte e dei figli, creando ambienti intimi preposti a momenti di svago e convivialità. Documentata era pure l'intenzione di attuare una radicale trasformazione dei giardini su disegno del Primo Architetto di Luigi XIV, Jules Hardouin-Mansart, progetto non andato mai oltre la carta e la china.

Juvarra e Baroni di Tavigliano

Filippo Juvarra: Pensiero per il Salone d'Onore di Villa della Regina, 1733 circa. Montréal, Centre Canadienne d'Architecture. Fonte: cultorweb.com.

Arrivato a Torino nel 1714, fu il messinese Filippo Juvarra, affiancato dal suo allievo Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano, a porre in essere una serie di importanti lavori alla Villa della Regina su richiesta prima di Anna Maria e poi di sua nuora Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg, seconda moglie di Carlo Emanuele III, durante i quali furono ripensati, secondo la moda settecentesca, gli spazi e i rapporti col paesaggio esterno nonché i preziosi arredi e le decorazioni di gusto esotico degli interni.

Maria Giovanna Clementi, Ritratto di Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg, 1728-30, olio su tela. Stupinigi, Palazzina di Caccia di Stupinigi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Il Primo Architetto di Sua Maestà chiuse i loggiati disposti nei cantieri seicenteschi riconvertendoli in vestiboli illuminati da finestroni, e ricavò lo spazio utile per la creazione del grande Salone d'Onore a doppia altezza, il quale funge da punto di raccordo tra l'Appartamento del Re nell'ala settentrionale e l'Appartamento della Regina nell'ala meridionale. Inoltre collegò il secondo piano del palazzo al giardino superiore edificando due terrazze. Per la realizzazione dell'aggiornato apparato ornamentale delle sale l'architetto coordinò alcuni dei migliori pittori (Claudio Francesco Beaumont, Giovanni Battista Crosato, Corrado Giaquinto, Giuseppe Dallamano, Giuseppe Valeriani, Filippo Minei e Michele Antonio Milocco), scultori, stuccatori e artigiani (Pietro Massa, Pietro Piffetti e Giuseppe Maria Bonzanigo) attivi nei cantieri regi e le loro rispettive botteghe. All'esterno Juvarra e Baroni di Tavigliano scelsero di non travisare l'essenza dell'impianto originario dei giardini, quanto piuttosto di sostituire le arzigogolature di matrice tipicamente barocca con scomparti geometrici regolari e bicromi in murso. Il Belvedere superiore fu riplasmato e alle preesistenti architetture decorative vennero aggiunti il Padiglione dei Solinghi e la Rotonda, mai portata a compimento. Quando il messinese, chiamato dal re di Spagna Filippo V, dovette recarsi alla volta di Madrid nel 1735 per progettare il Palazzo Reale, i cantieri di Villa della Regina furono affidati a Baroni di Tavigliano il quale, a partire dal 1750, fu a servizio della duchessa (regina dal 1773) Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna, consorte del principe ereditario Vittorio Amedeo III.

Jacopo Amigoni, Ritratto di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna, 1750 circa, olio su tela. Madrid, Museo Nacional del Prado. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Tra gli anni 1760-80 furono innalzati il Corpo di Guardia, le Scuderie e il Palazzo Chiablese, quest'ultimo edificato per ospitare il Duca del Chiablese.

La Villa della Regina nell'Ottocento

Durante l'occupazione napoleonica di Torino (1798) e con l'insediamento del Governo Provvisorio nominato dal generale Grouchy, Villa della Regina fu iscritta nel Patrimonio Imperiale, e, nel 1805, Napoleone in persona vi soggiornò per un breve periodo. Tornata in mani sabaude dopo la Restaurazione e persa l'originaria funzione a causa del trasferimento della corte dei Savoia a Palazzo Pitti (la capitale del Regno d'Italia era stata spostata da Torino a Firenze nel 1865 e la situazione rimase tale fino al 1871), per volere di Vittorio Emanuele II fu destinata, nel 1868, come sede dell'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari, ente che si prodigava per fornire assistenza ed educazione alle fanciulle orfane dei caduti delle Guerre d'Indipendenza. Tra 1876 e 1888 la residenza venne spogliata di alcuni mobili, preziosi complementi d'arredo fisso (tra i quali la sfarzosissima Biblioteca del Piffetti e le boiseries del Gabinetto della libreria verso Mezzanotte) come pure di un cospicuo numero di sovrapporte, soprafinestre e tele da plafond. Il tutto, dopo una breve permanenza nei depositi di Palazzo Reale e del Castello di Moncalieri, fu inviato a Roma per ornare gli ambienti del Palazzo del Quirinale, sede del Re nella nuova e definitiva capitale italiana.

Grand Rondeau con le allieve dell'Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari Italiani. Fotografia di J. David, 1895-1896. © Archivio di Stato di Torino. Fonte: MuseoTorino.

Dal Novecento ai giorni nostri

Il XX secolo fu, in assoluto, il periodo di maggiore decadenza di tutta la storia della villa. Nel corso del Secondo Conflitto Mondiale i bombardamenti aerei degli anni 1942 e 1943 causarono danni ingentissimi all'ala destra dell'edificio e rasero al suolo Palazzo Chiablese. Dopo impropri e maldestri interventi postbellici di ricostruzione, con la soppressione dell'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari l'ex residenza sabauda fu abbandonata al degrado più totale, facile preda di furti e razzie. Nel 1994, quando la provincia di Torino la cedette alla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte, le condizioni in cui versavano la struttura e i giardini erano drammatiche a tal segno da far temere imminenti collassi. Lunghe e complesse operazioni di restauro, finanziate con fondi stanziati dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, dalla Regione Piemonte, dalla Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione CRT e dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, hanno restituito - per quanto possibile - all'ex dimora preferita di principesse, duchesse e regine l'originario splendore, consentendo la sua prima riapertura al pubblico nel 2006. Mentre si procedeva col ripristino architettonico di interni ed esterni del complesso, il vigneto storico è stato ripiantato per circa metà della propria originaria estensione. Preso in affido dall'Azienda Balbiano, è tornato produttivo nel 2008. In Italia si tratta dell'unica vigna localizzata all'interno di una grande città, in Europa è invece accompagnata da altri due esemplari: il Vigneto di Montmartre a Parigi e a quello di Grinzing a Vienna. Dal 2011, la Vigna della Regina rientra all’interno dell’area DOC del vino Freisa di Chieri. Nel 2016 i giardini della villa si sono posizionati nella top ten dei parchi e giardini più belli d'Italia.

Il Giardino verso la città e la facciata

Il Grand Rondeau. Copyright fotografico: sguardisutorino.blogspot.com.

Risalendo un viale costeggiato da filari di olmi e platani si accede, attraverso una cancellata, al Grand Rondeau (o, secondo la forma italianizzata, Gran Rondò), un grande piazzale di forma circolare con una vasca centrale di 20 metri di diametro, scandita lungo tutta la bordatura da dodici sculture in gran parte acefale raffiguranti divinità fluviali. Al centro della fontana si erge la statua del dio Nettuno che, seduto su uno scoglio, sembra sfidare frontalmente a colpi di gettiti d'acqua un putto sul dorso di un delfino. Per mezzo di uno scalone semicircolare a duplice rampa si sale su una terrazza rettangolare, attraversando la quale ci si ritrova difronte alla Fontana della Sirena. Di minori dimensioni rispetto alla precedente, deve il suo nome alla statua marmorea di una sirena posizionata all'interno di una vasca ellittica a ridosso della facciata. Trattandosi di una peschiera, era un tempo popolata da un piccolo allevamento di trote e carpe. Grazie ad essa sulla tavola della corte regale - soprattutto nei mesi di magra - veniva sempre garantito del pesce fresco.

Fontana della Sirena. Copyright fotografico: Associazione Amici di Villa della Regina.

Il fronte settecentesco, attribuito a Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano, è costituito da un corpo centrale avanzato verso Torino segnato da ampio ordine di finestre e coronato da una balaustra sormontata da quattro sculture allegoriche in marmo bianco. Da questo si diramano simmetricamente due maniche laterali, ciascuna delle quali è affiancata da un torrione. Speculare alla facciata verso la città, quella rivolta verso la collina si differenzia dalla prima per il tetto a falde ribassate.

Facciata verso la collina. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

Gli interni - il Salone d'Onore

Il Salone d'Onore. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

Fulcro del piano nobile di Villa della Regina, il Salone d'Onore a doppia altezza raccorda l'appartamento del re a settentrione con quello della regina a meridione. Questo ampio spazio viene illuminato diffusamente da un gran numero di finestroni. La luce che filtra da queste aperture esalta, al pari di un riflettore, le strepitose tonalità impiegate dal pittore modenese Giuseppe Dallamano nelle quadrature dipinte a fresco sulla quasi totalità della superficie muraria, databili al 1733. Architettura dipinta e architettura reale si confondono in un insieme armonico contrastando, attraverso la dinamica alternanza di sporgenze e rientranze che le caratterizza, il rigido disegno geometrico delle piastrelle bianche e nere del pavimento. Sono scampati ai bombardamenti del 1942 i due riquadri della parete nord e sud, opera di Corrado Giaquinto, raffiguranti rispettivamente "Apollo e Dafne" e "Venere che scopre il corpo senza vita di Adone", ambedue datati 1733. Purtroppo non si può dire lo stesso per "Il Carro di Aurora", l'affresco di Giuseppe Valeriani che decorava la parte centrale della volta il quale, invece, è andato completamente distrutto. Ai lati, i vestiboli verso la città e verso la collina sono ornati con le Allegorie delle Quattro Stagioni dipinte da Giovanni Battista Crosato, in cui dei vivaci puttini sono colti in atteggiamenti goliardici e dispettosi. In un piccolo spazio adiacente, oggi adibito a tribuna, si trovava la cappella di corte, successivamente abbandonata in favore di un'altra più grande nel vicino Palazzo Chiablese. Sulla volta di questo ambiente si conserva un affresco di Michele Antonio Milocco, "la Trinità con angeli" (verso il 1730).

Soffitto del Salone d'Onore. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

FINE PRIMA PARTE

 

Bibliografia 

Paolo Conaglia, Andrea Merlotti, Costanza Roggero: Filippo Juvarra 1678-36, architetto dei Savoia, architetto in Europa. vol.1, Roma, Campisano Editore, 2014.

Cristina Mossetti: La Villa della Regina, Torino, Allemandi, 2007.

 

Sitografia: 

https://www.academia.edu/42720796/Juvarra_a_Villa_della_Regina

http://www.treccani.it/enciclopedia/savoia-maurizio-di-cardinale_%28Enciclopedia- I taliana%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/maurizio-di-savoia_%28Dizionario-Biografico% 2 9/

http://www.treccani.it/enciclopedia/savoia-maurizio-di-cardinale_%28Enciclopedia- I taliana%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/cristina-di-francia-duchessa-di-savoia_% 2 8Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/piemonte_%28Enciclopedia-Italiana%29/

http://www.museotorino.it/view/s/d0adc316715f4559bc770cbb479dfb1b

http://www.museotorino.it/view/s/cfeb446a3a4a4cc9a2082099d6644659

http://www.museotorino.it/view/s/7b675269506e4015b01fe92556e94943

http://www.museotorino.it/view/s/e162639ab29941bc9e441393c638720f

https://books.google.it/books?id=Gigp17tBCm4C&pg=PA23&lpg=PA23&dq=accademia+dei+solinghi&source=bl&ots=o9YRftjFz1&sig=ACfU3U265Gj0h3tWP-c 30iTgZoIY5xs6vQ&hl=it&sa=X&ved=2 ahUKEwjOqsLP_JPqAhWb6aYKHSmNDT04HhDoATAJegQICBAB#v=onepage&q=accademia%20dei%20solinghi&f=false

https://books.google.it/books?id=SWq3GDdhl8cC&pg=PA25&lpg=PA25&dq=villa+della+regina+torino&source=bl&ots=DwO5LcQmJB&sig=ACfU3U11n4Xs-4agY-GIc7rBxugJ6otxDA&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwjJz_emtInqAhUM8KYKHQijBDc4ggEQ6AEwB3oECAkQAQ#v=onepage&q=villa%20della%20regina%20torino&f=true

https://webthesis.biblio.polito.it/1932/

http://www.residenzereali.it/index.php/it/residenze-reali-del-piemonte/villa-della-regina

http://polomusealepiemonte.beniculturali.it/index.php/musei-e-luoghi-della-cultura/villa-della-regina/

http://www.amicidivilladellaregina.com/la-villa/


LA CAPPELLA DELLA SACRA SINDONE

A cura di Francesco Surfaro
Cappella della Sacra Sindone. Copyright fotografico: Daniele Bottallo.

Sublime parto dell'estro anticonvenzionale di Guarino Guarini, la Cappella della Sacra Sindone è un unicum all'interno del panorama architettonico europeo. Dopo il disastroso incendio che, nel 1997, ha rischiato di distruggerla per sempre, è rinata dalle proprie ceneri grazie ad una lunga e complessa opera di restauro.

La storia

Tra 1576 e 1577 una violenta epidemia di peste imperversava a Milano e in diversi altri centri dell'Italia settentrionale e della Sicilia. Al fine di impetrare la liberazione della città dal terribile morbo, il cardinale-arcivescovo metropolita del capoluogo lombardo, Carlo Borromeo, pronunziò solennemente il voto di compiere un pellegrinaggio penitenziale a piedi fino alla Sainte-Chapelle di Chambéry, per venerare la Sacra Sindone ivi custodita. Secondo la tradizione cattolica, tale reliquia - un lenzuolo di lino intriso del sangue di un uomo flagellato e crocifisso - sarebbe il sudario entro il quale, dopo la morte e la deposizione dalla croce, venne avvolto il corpo di Cristo prima di essere sepolto. Il sacro cimelio era di proprietà dei Savoia sin dal 1453, data in cui la nobile francese Marguerite de Charny lo cedette a Ludovico di Savoia. Venuto a conoscenza del voto di Borromeo, Emanuele Filiberto di Savoia detto il "Testa di Ferro", abile diplomatico e scaltro stratega, incaricò il canonico Neyton di traslare definitivamente il Santissimo Sudario dall'ex capitale transalpina del ducato sabaudo alla nuova capitale, Torino. In questo modo il duca intendeva ingraziarsi l'illustre porporato milanese (uno dei principali fautori della Controriforma), che così facendo si sarebbe risparmiato diversi chilometri, e portare più vicino a sé quello che era considerato come una sorta di palladio dinastico. Nel 1578, al termine della pestilenza, la Sindone venne trasferita ed accolta in pompa magna alle porte di Torino con un solenne corteo processionale, che la scortò fino al Palazzo Ducale. Il viaggio verso la capitale fu tutt'altro che facile: era infatti divenuto indispensabile percorrere sentieri meno diretti che fossero fuori dal raggio d'azione degli ugonotti, i quali, appresa la notizia della traslazione, avevano manifestato la volontà di impadronirsi della Sindone per distruggerla. L'undici ottobre dello stesso anno, nella cornice del coro della Cattedrale di San Giovanni Battista, si tenne l'evento epocale dell'ostensione della sacra reliquia alla presenza del cardinale Borromeo che, il giorno precedente, appena arrivato in città, aveva sciolto in forma privata il proprio voto presso la chiesa romanica di Sancta Maria ad Praesepe (la futura Real Chiesa di San Lorenzo).

Giovanni Francesco Testa - Prima solenne ostensione della Sacra Sindone a Torino alla presenza di Carlo Borromeo (al centro), 1578, acquaforte e bulino su carta. Racconigi, Castello di Racconigi. Copyright fotografico: Vatican News.

 

Interni della Sainte- Chapelle a Chambéry. Copyright fotografico: Christian Pourre - www.hautesavoiephotos.com.

Morto nel 1580, Emanuele Filiberto ordinò per disposizione testamentaria che fosse edificato un luogo di culto in cui il sacro lino potesse "con degna pompa venerarsi" e lì voleva che fosse preparata la propria sepoltura. Lasciò inoltre scritto che la costruzione dell'edificio doveva essere finanziata interamente con le elemosine raccolte nel corso dei suoi funerali. In attesa dell'inizio dei lavori, la Sindone rimase all'interno del duomo presso la cappella dei santi Stefano e Caterina, nella navata sinistra. Due a questo punto erano le soluzioni possibili che si prospettavano per la custodia del sacro vestigio: innalzare un grande spazio liturgico indipendente dalla cattedrale e con un convento annesso per la cura dei sacri uffizi, che fosse collocato in una posizione eminente all'interno della città, oppure erigere un altare sotto la crociera della cattedrale, la cui imponenza doveva essere direttamente proporzionale all'importanza della reliquia. Per ovviare alla questione venne interpellato l'architetto e pittore Pellegrino Tibaldi detto Pellegrino de' Pellegrini, personaggio chiave per l'arte lombarda post-tridentina molto vicino a Carlo Borromeo. Tibaldi, incaricato dall'Eccellenza milanese di fare pressioni sul nuovo duca Carlo Emanuele I, affinché non custodisse il sacro telo all'interno di una cappella palatina accessibile a pochi, ma in un luogo dove potesse essere oggetto di venerazione da parte di tutti i fedeli, progettò un altare provvisorio da collocarsi nel presbiterio del duomo, in attesa dell'avvio del cantiere per la costruzione di una grande chiesa in Piazza Castello. Tuttavia, nel 1584, con la dipartita di Borromeo, il Pellegrini, sentendosi sollevato dai propri oneri nei confronti del duca, non diede più notizie di sé a Torino. Fu così che il Santissimo Sudario venne posto all'apice di un apparato effimero collocato un poco innanzi all'altare maestro della cattedrale, descritto dalle fonti come un'edicola sorretta da quattro colonne in legno tinte d'azzurro ed ornata con angeli dorati che sostenevano un baldacchino. Quella che doveva costituire una soluzione provvisoria, a ragione delle continue lotte intestine scatenate dal forte accentramento dei poteri voluto da Emanuele Filiberto prima, e proseguito dal figlio poi, divenne stabile per i successivi ottantatré anni. Si rese perciò necessario sostituire la scenografia lignea con un imponente altare aulico caratterizzato da un basamento lapideo, quattro mastodontiche colonne in marmo nero di Frabosa (poi riutilizzate per ornare uno dei due portali d'accesso all'attuale cappella) ed un'elaborata struttura lignea apicale.

La Cappella della Sacra Sindone: l'Ellissoide di Vitozzi e Castellamonte padre

Ascanio Vitozzi e Carlo di Castellamonte - Pianta del progetto per la Cappella della Sacra Sindone, 1611 circa. Dall'Album Valperga.

Risoluto a rispettare le ultime volontà paterne, Carlo Emanuele I si rivolse all'ingegnere ducale Ascanio Vitozzi (o Vittozzi) e al suo collaboratore, Carlo Cognengo di Castellamonte, i quali, accantonati i progetti del loro predecessore, tra il 1610 e il 1611 iniziarono a valutare la realizzazione di una cappella a pianta ellittica incastonata tra il Palazzo Ducale e il duomo, accessibile tramite un vano di collegamento ricavato nel coro. Con chiare implicazioni simboliche, l'ambiente fu pensato perfettamente in asse con la dimora di rappresentanza del reggente e rialzato rispetto a San Giovanni. Questo espediente architettonico rimarcava anzitutto la dicotomia tra le due sedi del potere spirituale e temporale, ribadiva il fatto che si era difronte ad una committenza squisitamente ducale e non religiosa e, non in ultimo, costituiva una forte dichiarazione propagandistica atta a dimostrare che la casata aveva la piena approvazione divina in quanto custode della (presunta) prova tangibile della risurrezione di Cristo. Il progetto doveva essere grandioso, non soltanto nell'apparato ornamentale interno, previsto in pregiatissimo marmo nero e bronzo dorato, ma anche nella struttura, che doveva sconfinare di molto nello spazio destinato al cortile palatino. La facciata dell'oratorio sarebbe stata ricavata nell'abside tramite l'abbattimento dell'esedra semicircolare. Nel 1624 erano state soltanto gettate le fondamenta quando i lavori subirono un arresto e non progredirono né nel corso della breve amministrazione di Vittorio Amedeo I, né durante i turbolenti anni di reggenza della sua vedova, la Madama Reale Maria Cristina di Borbone-Francia.

Un nuovo progetto: Quadri e Castellamonte figlio

Si dovette attendere la piena assunzione del potere da parte del loro erede, Carlo Emanuele II, per lo sblocco del cantiere, avvenuto nel 1657 dopo le varie pressioni dello zio, il cardinale Maurizio, il quale, memore del terribile incendio scoppiato il 4 dicembre del 1532 all'interno della Sainte-Chapelle di Chambéry, che causò danni irreparabili alla reliquia, aveva espresso il proprio legittimo timore di continuare a custodirla sopra un altare incessantemente illuminato da lanterne che, nella sua parte apicale - dove era collocato lo scrigno del sacro lino - era interamente in legno. La direzione della fabbrica venne affidata al ticinese Bernardino Quadri, più abile come scultore e stuccatore che come architetto, e perciò sottoposto alla supervisione dell'ingegnere ducale Amedeo Cognengo di Castellamonte, figlio del già citato Carlo di Castellamonte. Ritenendo ormai superata la pianta ellissoidale, i due optarono per un'aula liturgica a pianta circolare rialzata di parecchi metri (è bene ricordare che nel precedente progetto si parlava di una sopraelevazione di 1 o 2 metri, qui si trattava invece di ben 6-7 metri) rispetto al piano di calpestio di San Giovanni, che fosse contenuta all'interno di uno spazio quadrato nella manica ovest del Palazzo Ducale. Il notevole innalzamento della cappella rispetto al duomo avrebbe permesso una vista privilegiata sull'altare-reliquiario anche dall'interno della basilica al piano inferiore, grazie ad un monumentale finestrone ricavato nel coro con l'abbattimento dell'abside. I fedeli potevano avere accesso all'oratorio tramite due scaloni introdotti da enormi portali in marmo nero posti in fondo alle navate minori, uno per salire e l'altro per scendere, perfetti per evitare resse e assembramenti in caso di grandi afflussi di pellegrini; i Savoia, invece, potevano accedere all'ambiente sacro per mezzo di un portale posizionato al primo piano del loro palazzo. In ossequio alle richieste di Carlo Emanuele II, i progettisti pensarono ad una cupola che per altezza, imponenza e bellezza doveva superare quella più spartana della cattedrale rinascimentale. Dopo la demolizione delle fondamenta dell'ellissoide, i lavori di edificazione procedettero spediti nei nove anni successivi fin quando, arrivati alla trabeazione del primo livello, ci si rese conto che la struttura aveva delle forti criticità statiche. Non essendo in grado di porre rimedio a queste, Quadri fu sollevato dall'incarico nel 1666. Proprio in quest'anno le ricevute di pagamento documentano l'ultima retribuzione dovuta all'autore del progetto fallimentare. A lui subentrò, nel 1668, il padre teatino modenese Guarino Guarini, giunto a Torino due anni prima, su invito del suo ordine, per portare a termine la Real Chiesa di San Lorenzo.

All'improvviso, il genio

In foto: Ritratto di Guarino Guarini dal frontespizio dell'Architettura Civile, pubblicazione postuma del 1737. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Visto lo stato estremamente avanzato in cui versavano i lavori, Guarini non poté fare altro che mantenere l'assetto planimetrico del fabbricato, di cui però stravolse completamente il linguaggio. Prima di tutto si occupò di rafforzare e reintegrare la fragile struttura ideata dal predecessore, e riplasmò radicalmente lo scalone di destra, che risultava già ultimato. Per le lesene di ispirazione corinzia, questi pensò ad una nuova interpretazione simbolico figurativa legata alla Passione di Cristo del tradizionale capitello ornato con foglie d'acanto e volute, inserendo al loro posto elementi dalla forte carica allusiva, quali i rami d'ulivo (che rimandano all'agonia di Cristo nell'Orto del Getsemani), una corona di spine e un fiore di passiflora da cui emergono tre chiodi e il Titulus Crucis (il cartiglio con la motivazione della condanna di Cristo, appeso all'altezza del suo capo durante la crocifissione). Riprendendo i pennacchi della croce greca prevista dal progetto di Quadri, li ridusse da quattro a tre, inscrivendo all'interno della pianta circolare un triangolo, nei vertici del quale collocò dei vestiboli circolari, uno in corrispondenza dell'ingresso da Palazzo Ducale e gli altri due a conclusione degli scaloni monumentali. In luogo dei piedritti che avrebbero dovuto sostenere la basica cupola emisferica voluta da Castellamonte, andò a posizionare dei grandi fastigi ornamentali, sui quali svettano delle valve di conchiglia. Oltre il primo ordine, l'architetto dimostrò immediatamente di volersi distaccare, nella maniera più netta possibile, dai progetti a lui antecedenti, impostando una vertiginosa struttura a torre che andasse ad evocare nell'osservatore l'idea di un'ascesa vorticosa verso l'Infinito. Nel bacino tronco, al fine di snellire il più possibile il peso del costruito, aggiunse tre poderosi arconi, mentre nei pennacchi e nelle lunette aprì sei finestroni circolari, dai quali i raggi solari filtrano attenuati da apposite camere di luce, create per assolvere al duplice compito di direzionare i fasci luminosi in modo indiretto e soffuso sulle superfici lapidee interne, e di celare alla vista i contrafforti e i tiranti di rinfianco. L'adozione di questa serie di accorgimenti gli permise di ridurre di 1/4 l'ampiezza del diametro di imposta del tamburo, e gli consentì di dare piena soddisfazione alla richiesta ducale dell'edificazione di una cupola che fosse maggiore in altezza di quella del duomo. Abbondanti sono gli elementi simbolici, frutto di una mente erudita e raffinata: nelle ghiere dei tre grandi archi, i chiodi alternati a foglie d'ulivo stilizzate alludono alle sofferenze fisiche e spirituali di Gesù Cristo; nei tre pennacchi le croci greche e ierosolimitane rimandano al mistero dell'Umana Redenzione e allo stemma di Casa Savoia; nei lunettoni, infine, gli esagoni e le stelle a sei punte simboleggiano la Creazione e l'Empireo, il più alto dei nove cieli. Salendo nel tamburo, al livello successivo, Guarini alleggerì ulteriormente la struttura introducendo un camminamento anulare interno e sei enormi finestroni ad arco, dai quali la luce penetra in quantità evocando suggestivi effetti teatrali. Lo spazio tra un finestrone e l'altro venne ricolmato dal posizionamento di sei nicchie a tabernacolo. Nei pennacchi della cupola, la presenza della figura geometrica del pentagono assume ancora una volta una valenza simbolica: rievoca infatti le cinque piaghe, ovvero le ferite delle mani, dei piedi e del costato inferte al Nazareno durante il supplizio della crocifissione.

Una cupola per la  Cappella della Sacra Sindone

Cappella della Sacra Sindone. L'intradosso della cupola guariniana.

Perfetto connubio tra razionalismo e misticismo matematico, la cupola, o meglio, la pseudocupola della Cappella della Sacra Sindone si configura come una delle architetture più ardite e complesse dell'intera stagione barocca europea. Grazie allo studio sulle tecniche costruttive del gotico francese e delle strabilianti architetture stereotomiche del mondo islamico, Guarini pose in essere una struttura a scheletro, portante e ornamentale al tempo stesso, formata da una fitta rete di "cellule spaziali indipendenti" (Gianfranco Gritella - "Il Contributo italiano alla storia del Pensiero" - Tecnica, 2013) che si intersecano e ruotano attorno ad un unico fulcro che ha per base un poligono regolare, l'esagono, simbolo biblico della Creazione (svoltasi, secondo la Genesi, in sei giorni). In questo progetto trova la sua piena esemplificazione la concezione guariniana - mutuata in parte dal Borromini - di architettura, vista come un organismo vivo e pulsante, in perenne movimento, generato dall'incontro di spazi indipendenti e di forme pure che, concatenandosi, si influenzano reciprocamente dando vita alla struttura. Quella dimensione unificata ed armoniosa dei vari elementi architettonici autonomi che caratterizza le creazioni di Borromini è totalmente assente in Guarini, che anzi, provava gusto nel proporre soluzioni eterogenee e bruschi mutamenti di forma privi di qualsiasi elemento di transizione.

Cappella della Sacra Sindone, il cestello della pseudocupola. Fonte: ilfattoquotidiano.it

Per realizzare il cestello della pseudocupola diafana, l'architetto giustappose sei livelli di sei piccoli archi a sesto ribassato digradanti verso l'alto, che in pianta corrispondono ad altrettanti sei ordini di esagoni che via via si restringono posando gli angoli degli uni sui lati degli altri. Questo moto continuo trova il suo apice nella stella-sole a dodici punte minori e dodici raggi maggiori, posta a conclusione del climax ascendente dei multipli di tre che si snoda lungo tutto l'impianto della cappella. Al centro del cupolino-lanterna, che appare inondato di luce grazie a dodici finestrelle ovoidali molto ravvicinate fra loro, si libra in volo la colomba dello Spirito Santo pendente da una complessa raggiera a base cilindrica, costituita da 240 bacchette in legno d'abete dorato a foglia di diverse dimensioni, poste in gruppi da 7 o da 12 su tre piani sovrapposti e con inclinazioni differenti. Fa da sfondo a questa geniale macchina scenografica un cielo tempestoso, grigio, quasi monocromatico, popolato da sei coppie di cherubini, che fu affrescato nel 1680 da Carlo Giuseppe Cortella.

Cappella della Sacra Sindone, pseudocupola. Fonte: torino.repubblica.it

Benché dall'esterno la cupola non appaia particolarmente alta, dall'interno il visitatore avrà l'impressione che questa sia molto più estesa di quello che effettivamente è. Questo avviene perché Guarini studiò accuratamente un gioco prospettico al fine di donare un'altezza fallace alla propria creatura, e per fare ciò tenne conto di tre importanti fattori:

  • la geometria: diminuendo l'ampiezza degli archetti depressi al crescere dell'altezza l'architetto mise a punto una struttura "a cannocchiale";
  • la luce: più la fonte luminosa è intensa meno l'occhio umano avrà la capacità di distinguere i contorni dell'oggetto illuminato, il quale verrà percepito più lontano. Proprio per questo Guarini fece in modo che la luce filtrasse abbondantemente dalle svariate aperture del tamburo e della cupola e che divenisse sempre più rarefatta scendendo verso il basso. Con lo scopo di catturare più luce possibile, i marmi dell'intradosso non vennero rifiniti con la lucidatura ma soltanto levigati;
  • il colore: in piena adesione ai canoni della prospettiva aerea di leonardesca memoria, secondo cui un colore appare più scuro quando è vicino mentre diviene più chiaro man mano che ci si allontana, nelle due scalinate e alla base dell'aula cultuale fu impiegato largamente il marmo nero di Frabosa, dal bacino tronco in poi si adoperò il marmo bigio.

In assenza della calotta emisferica, tradizionale simbolo della dimensione celeste dove la divinità ha la propria sede, sono gli stessi raggi del sole che trafiggono in ogni dove la cupola a simboleggiare la manifestazione del divino. Questo era molto più evidente in origine, quando il fedele veniva invitato a percorrere una delle due scalinate ripide e anguste, incupite dal marmo nero e formate da trentatré gradini ciascuna (uno per ogni anno della vita terrena di Gesù Cristo), al termine delle quali era ubicato un vestibolo circolare, aggiunto allo scopo di incutere un senso di inquietudine e vago mistero. Più avanti, la penombra, accentuata ulteriormente dal materiale lapideo scurissimo che riveste tutto il primo ordine della cappella, risultava gradualmente attenuata da una luce sempre meno fioca, fino a che lo sguardo non veniva inaspettatamente rapito dalla sbalorditiva visione estatica della cupola. Questo percorso ascensionale era densissimo di significato: tutti coloro che intendevano accostarsi a venerare la Sacra Sindone, difatti, dovevano prima ripercorrere il cammino tortuoso della Via Dolorosa per mezzo della gradinata scoscesa, attraversare le tenebre della morte e del peccato simboleggiate dal nero dei marmi, ed infine rigenerarsi nella teatralissima visione della luce filtrante dal cestello guariniano. In breve, entrare nella Cappella della Sacra Sindone significava rivivere spiritualmente i misteri pasquali della Passione, morte e resurrezione del Redentore attraverso un articolato sistema di simbologie.

Il bizzarro estradosso della cupola si palesa con una foggia piuttosto orientaleggiante, tanto da assomigliare più ad una pagoda che alla copertura di una chiesa. Le sei serliane del tamburo in laterizio donano alla struttura un caratteristico profilo sinusoidale. I candidi capitelli delle lesene di ispirazione corinzia presentano un motivo ornamentale formato da petali di iris. Nel livello successivo i dodici costoloni sono coronati da urne. In alto, il pinnacolo, ispirato alla lanterna del Sant'Ivo alla Sapienza borrominiano, è puntellato da numerose finestrelle ovoidali vere alla base e fittizie sopra, che si diradano in numero e in ampiezza man mano che si avvicinano all'apice. Sulla sommità svetta un globo dorato sovrastato da una croce, tre chiodi, una corona di spine e uno stendardo con lo stemma sabaudo, forgiato nel 1683 dal serragliere Pietro Tarino.

L'altare-reliquiario

Il 15 maggio del 1680 i lavori non erano del tutto terminati quando, con una Messa solenne officiata su un altare ligneo provvisorio, Guarini stesso (divenuto nel frattempo predicatore e teologo del Principe di Carignano) consacrava al culto divino la Cappella della Sacra Sindone, e da questo si evince che all'epoca fosse già agibile. Tre anni dopo, un 6 di marzo, il padre teatino si spegneva, lasciando incompiuti i pavimenti, una scalinata e, soprattutto, l'altare-reliquiario che avrebbe dovuto custodire il Santo Sudario. Come suo successore alla direzione dei cantieri fu nominato, nel 1685, il grande matematico livornese Donato Rossetti (che in passato si era platealmente scontrato con un fraterno amico di Guarini, Montanari, riservando critiche asperrime anche nei confronti dei progetti dell'architetto) giunto a Torino nel 1674 e prescelto, appena un anno dopo, come professore di Scienze Matematiche presso l'Accademia di Piemonte, nonché come precettore del futuro re di Sicilia Vittorio Amedeo II. L'esperienza di Rossetti all'interno del cantiere fu brevissima, passò infatti a miglior vita nel 1686. Lo sostituì un suo allievo degli anni piemontesi, il muzzanese Antonio Bertola (illustre predecessore di Filippo Juvarra e primo in assoluto ad essere fregiato con il titolo di "Primo Architetto di S. A. S."), che si occupò di portare a compimento le parti lacunose e di realizzare il disegno della scintillante custodia della Sindone.

La Cappella della Sacra Sindone. Copyright fotografico: Daniele Bottallo.

Tenendo conto della forma circolare dell'aula, Bertola realizzò al centro geometrico della stessa un altare bifronte a due mense - una rivolta verso la Cattedrale di San Giovanni Battista l'altra verso Palazzo Ducale - che risultava rialzato dal piano di calpestio per mezzo di sei scalini. La sua centralità era sottolineata dal complesso disegno del pavimento realizzato ad intarsio, composto da cerchi concentrici tempestati da una miriade di stelle in ottone dorato posizionate a loro volta entro croci greche in marmo bigio, che convergendo verso il centro, si restringevano sempre di più. Il corpo dell'altare fu realizzato in marmo nero ed arricchito da inserti, ornamenti e sculture in legno o metallo dorato, affinché questo, illuminato dalle quattro lanterne pendenti dal fastigio, risplendesse nella penombra del primo livello della cappella. Nella parte centrale, in una teca di cristallo, oltre una grata in ferro dorato, era custodito il prezioso scrigno cinquecentesco in argento e pietre dure contenente la Sindone. Sopra la balaustra erano posizionati otto putti lignei in atteggiamento orante o con espressione affranta, alcuni dei quali recanti i chiodi della crocifissione; ai lati della teca, invece, si trovavano quattro angeli con i simboli della Passione, tutti scolpiti tra 1692 e 1694 dai mastri intagliatori Cesare Neurone e Francesco Borello, cui vanno ascritti anche i simmetrici puttini reggi- lanterna e la splendida raggiera con cherubini e angeli adoranti sul fastigio. Nel 1694, finalmente, si poté mettere la parola fine sull'ormai centenario cantiere della Cappella della Sacra Sindone con la collocazione della reliquia all'interno del suo fulgido altare.

Altri interventi

Nel 1825 il re Carlo Felice, ultimo esponente del ramo principale dei Savoia, diede l'incarico al Regio Primo Architetto Carlo Randoni di realizzare in corrispondenza della monumentale balconata ad arco sghembo di affaccio sul duomo il Grande Chiassilone, un finestrone vetrato in legno di noce e ferro d'Aosta alto circa 12 metri, avente la funzione di isolare la cappella dal freddo, dalle correnti d'aria e dai rumori provenienti dalla Cattedrale al piano inferiore. Il successore di Carlo Felice, Carlo Alberto, primo re appartenente al ramo collaterale dei Savoia-Carignano, volle trasformare la Cappella della sacra Sindone in una sorta di mausoleo della propria dinastia, commissionando quattro monumenti funebri marmorei in stile neoclassico dedicati ad alcuni dei più illustri esponenti della casata, i cui resti furono riesumati per essere tumulati all'interno delle nuove sepolture.

Il carrarese Benedetto Cacciatori eseguì il sepolcro di Amedeo VIII, primo duca di Savoia, promulgatore degli Statuta Sabaudiae (1430) e papa scismatico sotto il nome di Felice V; Innocenzo Fraccaroli scolpì invece il monumento a Carlo Emanuele II, colui che aveva riaperto i cantieri della cappella affidando l'incarico della direzione di questi prima a Bernardino Quadri e poi a Guarino Guarini; il genovese Giuseppe Gaggini si occupò del gruppo dedicato al Principe Tommaso, capostipite del ramo cadetto dei Savoia-Carignano; ed infine, il lombardo Pompeo Marchesi lavorò al monumento sepolcrale di Emanuele Filiberto il "Testa di Ferro", valoroso e caparbio condottiero che spostò la capitale del ducato sabaudo da Chambéry a Torino (1563), fece traslare la Sindone nella nuova capitale (1578) e fu il primo a volere l'edificazione di un luogo di culto adatto a custodire in maniera più che decorosa la sacra reliquia.

Sempre nel corso degli interventi ottocenteschi, alle estremità della balaustra dell'altare furono aggiunti a quelli barocchi altri due angeli oranti in marmo bianco.

L'incendio e il restauro

Cappella della Sacra Sindone, fotogramma del drammatico incendio del 1997. Fonte: mole24.it

Il 4 maggio del 1990, proprio nel giorno che il calendario liturgico dedica alla festa del Santissimo Sudario, delle infiltrazioni d'acqua portarono al distacco di un frammento marmoreo dal cornicione della cupola, che cadde rovinosamente sulla pavimentazione danneggiandola. Fortunatamente non ci furono vittime o feriti. L'accesso ai fedeli venne interdetto tempestivamente e tre anni dopo partirono i lavori di restauro. Proprio quando quegli interventi di conservazione si stavano avviando verso la conclusione, nella notte fra l'11 e il 12 aprile del 1997, a causa di un cortocircuito presero fuoco le tavole di legno dei ponteggi in fase di smontaggio e, in poco tempo, all'interno della struttura divampò un terribile incendio che creò cedimenti strutturali e crolli. Gli ingenti danni generati dalla furia devastatrice delle fiamme furono paradossalmente corroborati dalle operazioni di spegnimento: i potenti getti d'acqua gelida, riversandosi sui marmi incandescenti, diedero origine ad uno shock termico che fu cagione di alcune gravi alterazioni dei materiali lapidei. Si registrarono difatti fratturazioni, rigonfiamenti, esfoliazioni e distacchi. Alla sola leggera pressione della mano i marmi si disgregavano. Per scongiurare il collasso, l'edificio venne immediatamente messo in sicurezza con il posizionamento di cerchiature e catene metalliche provvisorie. Si aprì un lungo e complesso "cantiere della conoscenza" per approfondire le tecniche costruttive impiegate da Guarini (mai indagate prima di allora), indispensabile vista l'assenza dei disegni originali dell'architetto e la lacunosità dei documenti d'archivio.

Al termine dei dovuti studi preliminari, nei primi anni 2000, dopo la rimozione dei detriti, la constatazione dei danni (l'80% delle superfici in pietra era da ripristinare) e il monitoraggio della stabilità, si entrava nel vivo del ripristino architettonico, atto a restituire al monumento la stabilità e la propria immagine. Si è scelto di perseguire una linea di approccio al restauro rigidamente conservatrice, pertanto, al fine di mantenere quanta più materia lapidea originaria possibile, gli elementi marmorei sono stati sostituiti solo se irreversibilmente compromessi. Per reperire il marmo funzionale alle reintegrazioni, nel 2007 sono state riaperte le cave - quasi del tutto esaurite già nel Seicento - di marmo nero e bigio di Frabosa Soprana, nel cuneese. Le quantità materiche (27 blocchi in tutto) ricavate da queste si sono rivelate insufficienti per coprire l'intero fabbisogno del cantiere, perciò è stato necessario optare per l'utilizzo anche di altre varietà esteticamente simili a quelle impiegate in antico: un marmo nero proveniente dalle Alpi Orobie e uno grigio dalle Alpi Apuane. Dove non è stato possibile ricomporre ed assemblare i frammenti originali, con l'ausilio della modellazione 3D sono state ricostruite le porzioni mancanti. Per consolidarla strutturalmente e ridonare alla pietra di cui è costituita valore portante, la cupola è stata sottoposta ad una delicata operazione di smontaggio e rimontaggio integrale, sospendendo la struttura temporaneamente al di sopra di impalcati per sostituire gli elementi danneggiati. Sono stati inoltre rifatti i tetti e le coperture in piombo, cambiate le catene e le cerchiature metalliche, posizionati nuovi serramenti. Si è poi provveduto al risanamento della lesione formatasi all'altezza del tamburo. Gli interventi di pulitura del cupolino hanno restituito nuova luce alle pitture del Cortella, la cui lettura risultava negata da una scialbatura postuma color ocra. Infine, il Chiassilone e la raggiera con la colomba dello Spirito Santo, andati distrutti durante l'incendio, sono stati ricostruiti in maniera filologica.

Dopo 28 anni di chiusura al pubblico e a 21 anni dall'incendio, la Cappella della Sacra Sindone è stata restituita alla città di Torino e alla collettività il 28 settembre 2018. Persa la propria originaria funzione di custodire il Santissimo Sudario (ora conservato in condizioni particolari all'interno di una teca collocata sotto la Tribuna Reale del duomo, presso il transetto sinistro) è stata inserita all'interno del percorso dei Musei Reali. Con la musealizzazione l'accesso dalla cattedrale è stato interdetto.

Il restauro, uno dei più complicati che siano mai stati realizzati, è risultato tra i vincitori degli European Heritage Awards 2019 per la categoria Conservazione. Il suo costo, ammontato a circa 30 milioni di euro, è stato finanziato grazie al contributo di diversi enti:

- Ministero dei beni, delle attività culturali e del turismo: 28 milioni;

- Compagnia di San Paolo: 2,7 milioni;

- Fondazione Specchio dei Tempi di "La Stampa": 645.000 euro;

- Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali: 150.000 euro;

- Iren – Performance in Lighiting: 125.000 euro.

 

Bibliografia

Maurizio Momo, Il Duomo di Torino, trasformazioni e restauri, Ed. Celid, Torino 1997;

Giuseppe Dardanello, Guarino Guarini, Allemandi, Torino 2006;

Carlotta Venegoni, Il Duomo di Torino: Fede, arte e storia. La Santa Sindone, Effatà Editrice, Torino 2015;

Luca Caneparo, Fabbricazione digitale dell'architettura. Il divenire della cultura tecnologica

del progettare e del costruire, Francoangeli s.r.l., Milano 2012;

Gian Maria Zacconi, La Sindone, una storia nella storia, Effatà Editrice, Torino 2015;

 

Sitografia

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https://www.studioarchitetturamomo.com/copia-di-pra-d-mill-monastero

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IL CASTELLO DEL VALENTINO A TORINO

Antica e prestigiosa dimora ubicata sulla riva sinistra del Po, il Castello del Valentino, situato nell'omonimo Parco del Valentino, è un edificio storico di grande pregio.

Il Castello del Valentino: storia

Dopo aver trionfato nella Battaglia di San Quintino (10 agosto 1557) alla testa dell’esercito asburgico con la firma della Pace di Cateau-Cambrésis (1559), il duca Emanuele Filiberto di Savoia (il "Testa di ferro") riottenne dalla Francia i territori della Savoia e del Piemonte, che erano stati occupati militarmente dai francesi nel 1536. Nel 1563 il duca decise di trasferire la capitale del proprio ducato dalla storica sede di Chambéry a Torino, avviando un’opera di riorganizzazione territoriale che aveva il fine di celebrare e, al contempo, riaffermare il prestigio e il potere assoluto dell'antica casata. Questo programma venne poi portato a compimento dai suoi successori tra i secoli XVII e XVIII, i quali organizzarono nel centro nevralgico di Torino la  cosiddetta “Zona di Comando” con edifici preposti all'agire politico, e, attorno alla capitale crearono, secondo una singolare disposizione a raggiera, un sistema di residenze extraurbane dedicate al loisir detto "Corona di Delizie"; ristrutturando dimore già esistenti o facendosi edificare ex novo delle altre. Si parla in tutto di 22 edifici, 11 dei quali sono situati intra moenia. Tra le maisons de plaisance facenti parte della "Corona di Delizie" vi è sicuramente il Castello del Valentino.

La storia di questa dimora collocata sul lato sinistro del Po (più precisamente nella zona anticamente denominata "Vallantinum" a causa della propria conformazione geomorfologica resa irregolare da un corso d'acqua che oggi scorre interrato) iniziò nel 1564, quando il duca Testa di Ferro la acquistò, su suggerimento di Andrea Palladio, dal cardinale di origini lombarde René de Birague, colui che durante l'occupazione francese del Piemonte aveva svolto la mansione di Presidente del Parlamento di Torino. Doveva trattarsi di una villa non particolarmente grande con il prospetto principale rivolto verso il Po, strutturata a manica semplice ed articolata su quattro piani, ciascuno dei quali parallelo al fiume; delimitata a sud da una torre con scalinata interna, e a nord da un volume sporgente. Tra 1576 e 1578 si svolsero dei lavori di abbellimento che interessarono i soli interni. Non ci sono pervenuti dati sufficientemente certi sull'apparato decorativo realizzato in quegli anni, ma dai documenti relativi ai pagamenti sappiamo che a lavorare in quei cantieri vi era il pittore faentino Alessandro Ardenti detto "l'Ardente". Di quegli interventi si sono conservati soltanto alcuni frammenti di affreschi con grottesche ed un'iscrizione riportante la data del 1578, rinvenuti presso la Sala delle Colonne nel corso dei restauri novecenteschi.

Nel 1619, in occasione delle nozze tra il figlio trentunenne Vittorio Amedeo e la quattordicenne Maria Cristina di Borbone-Francia, Carlo Amedeo I donò alla nuora la dimora fluviale. Fu proprio Maria Cristina, figlia del sovrano francese Enrico IV, sorella di Luigi XIII e, alla morte del marito, prima Madama Reale, a decidere importanti lavori di ampliamento su progetto dell'architetto Carlo Cognengo conte di Castellamonte e del figlio di quest'ultimo, Amedeo, suo collaboratore e poi successore nella direzione del cantiere. La giovanissima duchessa era avvezza ai fasti della corte francese e volle ricrearli in quella che scelse come propria sede di rappresentanza, non soltanto nello stile architettonico ma anche nelle sontuose feste che in essa organizzava. Carlo di Castellamonte, sul modello transalpino del pavillion-système, raddoppiò la preesistente struttura cinquecentesca realizzando, tra 1620 e 1621, il corpo parallelo al fiume, delimitato ai lati da due torri con una caratteristica copertura a falde fortemente inclinate. A partire dal 1645, Amedeo di Castellamonte fece edificare due padiglioni più bassi rivolti verso la città, collegati alla manica principale tramite due gallerie porticate a forma di esedra semicircolare che andavano a formare un cortile d'onore detto "en forme de théâtre". Ai lati era prevista la presenza di giardini, uno nell'ala sinistra, l'attuale orto botanico dell'Università degli Studi di Torino, l'altro nell'ala destra, mai portato a compimento. Fungeva da prospetto principale la facciata che guardava al fiume Po, un tempo navigabile e suggestiva cornice di scenografici ricevimenti a bordo di bucintori veneziani. Questa tra le due facciate è quella che ha mantenuto praticamente intatto l'originale assetto castellamontiano, ispirato, seppur in maniera estremamente semplificata, a quello dello Château-Neuf a Saint-Germain-en-Laye, voluto da Enrico IV di Borbone-Francia ed oggi quasi totalmente scomparso.  Mentre procedevano i lavori di ampliamento e ridefinizione architettonica sotto la supervisione degli ingegneri ducali, la reggente dispose l'allestimento di due appartamenti perfettamente simmetrici (5 stanze ed un cabinet ciascuno), uno per sé e l'altro per il figlio Carlo Emanuele II, e li fece decorare, dal 1633 al 1646, in maniera particolarmente elaborata secondo un preciso progetto iconografico ideato dal grande retore di corte Emanuele Tesauro e dal conte Filippo di San Martino d'Agliè, raffinato uomo di lettere e favorito di Maria Cristina. L'appartamento meridionale che guarda verso Moncalieri, appartenuto alla duchessa madre, venne affrescato dal pittore Isidoro Bianchi da Campione d'Italia con temi floreali e scene mitologiche tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, ed impreziosito da sontuose cornici in stucco dorato dai due figli di Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi. Sul lato opposto, l'appartamento destinato al futuro duca venne ornato con pitture a fresco dei fratelli Giovanni Antonio e Giovanni Paolo Recchi, incorniciate dai candidi stucchi di Alessandro Casella e del suo éntourage familiare. Qui per gli affreschi vennero pensate tematiche tradizionalmente ritenute virili, come la caccia o la guerra. Fino alla morte della Madama Reale, avvenuta nel 1663, la delitia fluviale del Valentino, all'epoca immersa nel verde lussureggiante della campagna torinese, fu spazio scenografico per la vita di corte.

Fig. 6 -Charles Dauphin: "Ritratto equestre di Maria Cristina di Borbone-Francia in veste dI Minerva, 1663 circa, olio su tela. Racconigi, Castello di Racconigi. Copyright fotografico: iltorinese.it.

Seppur ormai soppiantato da altre residenze più alla moda, nel XVIII secolo il castello mantenne ancora intatto il suo status di maison de plaisance. Negli anni dell'Occupazione Napoleonica di Torino venne dichiarato "Casa Nazionale" e adibito a sede della Scuola di Veterinaria. Dopo la Restaurazione, tornato in mano alla Corona e persa definitivamente l'originaria funzione divenne, nel 1824, il quartier generale del Corpo Reale di Artiglieria fino alla cessione demaniale, avvenuta nel 1850. Con il progetto di espansione della città verso sud e la creazione del Parco pubblico del Valentino l'ormai ex residenza sabauda venne inurbata. In occasione della VI Esposizione Nazionale dei prodotti dell'industria, voluta da Camillo Benso conte di Cavour, fra 1857 e 1858 la struttura subì dei significativi interventi di restauro ed ampliamento su progetto di Domenico Ferri e Luigi Tonta, i quali stravolsero completamente la primitiva organizzazione compositiva, prevedendo non più l'affaccio verso il fiume, ma verso la città. Demoliti i portici terrazzati castellamontiani, vennero innalzate due gallerie laterali che, nella scansione delle aperture, riprendevano l'apparato decorativo della facciata seicentesca. Nel 1859, con la Legge Casati, veniva istituita la Regia Scuola di Applicazione degli Ingegneri con sede proprio presso il castello. Una nuova serie di importanti lavori, tra 1866 e 1899, comportarono l'abbattimento dell'emiciclo che costituiva il cortile "en forme de théâtre", e, in luogo di questo, l'edificazione di due basse maniche terrazzate unite da una cancellata. Vennero in seguito aggiunti l'Edificio degli esperimenti idraulici (manica sud) e le maniche a pettine ad ovest. Nel 1906 nacque dall'unione fra la Regia Scuola di Applicazione degli Ingegneri e il Regio Museo Industriale il Politecnico di Torino. Tutt'ora l'edificio ospita i dipartimenti di Architettura e Design di quest'ultima istituzione universitaria. Dal 1997, assieme a tutte le altre residenze della Real Casa di Savoia, è patrimonio dell'Umanità tutelato dall'Unesco.

Il Castello del Valentino. Gli interni - Il piano terra

Fig. 7 - Interno della Sala delle Colonne. Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Al pian terreno, il primo ambiente in cui si imbatte il visitatore è la Sala delle Colonne.  Si tratta dell'atrio di collegamento tra la facciata verso il fiume e il cortile d'onore rivolto verso Torino. Al centro, sei robuste colonne doriche in breccia del tipo "vecchia macchia svizzera", del tutto simili a quelle del portico esterno, sostengono volte a crociera. Nella parte alta delle pareti, entro nicchie ovali incorniciate da stucchi del Corbellino, sono collocati busti di imperatori romani, già appartenuti alle collezioni sabaude di scultura antica.

Fig. 8 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Nel corso di un restauro decennale curato dalla Fondazione Crt e dal Politecnico di Torino, è stata riscoperta una cappella dotata di sacrestia, aperta al pubblico nel febbraio del 2018. Localizzata presso il padiglione nord-ovest, era stata murata all'inizio del XX secolo e se ne erano perse completamente le tracce. Il piccolo spazio sacro, costruito negli anni '40 del Seicento da Amedeo di Castellamonte, si presenta riccamente ornato da pregevoli stucchi bianchi, riferibili non agli anni in cui il Castello del Valentino era dimora di Maria Cristina, ma quando lo era di sua nuora, la Madama Reale Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, come dimostrato dalla presenza dei monogrammi di quest'ultima iscritti fra gli elementi decorativi.

Fig. 9 - Volta della cappella castellamontiana. Copyright: Corriere.it.

Il Piano Nobile

Tramite lo scalone monumentale a doppia rampa si accede al primo piano, ove sono collocati gli ambienti aulici. Fulcro del piano nobile è il Salone d'Onore, che serve da nodo di congiunzione tra l'appartamento della reggente e quello del futuro duca.

Il Salone d'Onore

Fig. 10 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il Salone d'Onore o Gran Sala offre un punto di vista privilegiato sulla collina prospiciente il Castello del Valentino, sulla riva opposta del Po, ove Madama Cristina aveva fatto trasformare un modesto villino collocato al centro di una vigna in un vero e proprio palazzo a pianta centrale, all'esterno del quale si estendeva un giardino dotato di peschiere, viali alberati e pergolati, l'attuale Villa Abegg. La complessa decorazione pittorica del salone, più estesa e ardita rispetto a quella delle altre stanze, venne realizzata da Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi nella prima metà degli anni '40 del Seicento per poi essere ritoccata, circa trent'anni dopo, da Giovan Battista Cortella e dai fratelli Recchi, i quali intervennero probabilmente sulle quadrature. Negli affreschi a trompe-l'oeil delle colossali colonne salomoniche sorrette da telamoni di michelangiolesca memoria, sostengono a loro volta una sontuosa balconata aperta verso il cielo, popolata da sculture in bronzo dorato e ornata da balaustre simili a quelle dello scalone d'onore. Tra le quadrature, scene di battaglia corredate di targhe esplicative in versi celebrano le virtù e il valore militare dei duchi di Savoia, ponendo fortemente l'accento sui buoni rapporti intrattenuti in passato con la Francia, in chiaro omaggio alla duchessa. Sul registro inferiore della decorazione due iscrizioni disegnate da Ludovico Pogliaghi e realizzate da Gerolamo Poloni, aggiunte negli anni '20 del Novecento, commemorano tutti gli studenti del Regio Politecnico caduti nel corso della Grande Guerra. Al centro del soffitto, in origine completamente affrescato con una visione da sottinsù che risultava in parte perduta già nel XIX secolo, campeggia un lampadario a bracci in vetro di Murano, alto ben 5 metri, realizzato da Ettore Stampini nell'Ottocento.

L'appartamento della duchessa

La Stanza verde

Fig. 13 - Copyright fotografico: MuseoTorino.it.

Tra tutte le sale del piano nobile, la Stanza verde è l'unica ad essere titolata, già negli inventari seicenteschi, per il colore della propria tapisserie anziché per il tema portante degli affreschi. Il verde sulla volta non svolge soltanto la mera funzione di "corame" per gli stucchi dorati, ma si carica di valenza simbolica ricorrendo, in diverse nuances, nelle vesti dei personaggi che popolano gli affreschi dei vari riquadri: dove è più cupo allude alla morte dell'eroe, deve è invece più brillante indica la speranza di rinascita. In esso si legge un riferimento alla dipartita di Vittorio Amedeo I, avvenuta nel 1637, quando ancora il legittimo erede Francesco Giacinto (morto nel 1638) aveva solo 5 anni. L'evento scatenò una lotta per la contesa della reggenza tra i due fratelli dell'estinto - il cardinale Maurizio e il principe Tommaso - e la vedova Maria Cristina. Agli scontri intestini si univano le mire espansionistiche verso il Piemonte del cardinale Richelieu. La guerra civile si concluse quando la duchessa, tutrice del futuro duca Carlo Emanuele II, venne dichiarata reggente, divenendo così la prima Madama Reale di Casa Savoia. Le pretese dei cognati erano tutt'altro che dissolte, e i dissapori terminarono una volta per tutte soltanto quando, contro le aspettative di tutti, Maria Cristina dichiarò maggiorenne il figlio a soli quattordici anni facendogli assumere, almeno dal punto di vista formale, il comando. Nell'affresco posto al centro della volta, la Madama Reale viene ritratta in atteggiamento mesto nelle vesti di Flora, con indosso abiti che riprendono i colori dinastici franco-sabaudi. Ai piedi della dea, alla quale delle ancelle stanno per offrire un toro in olocausto, si trovano vasi semivuoti con fiori appassiti. Il toro simboleggia Vittorio Amedeo, nato proprio sotto il segno zodiacale omonimo, che morendo viene accolto dalla divinità per rinascere a nuova vita. In alto a sinistra, infatti, è raffigurata l'apoteosi dell'animale. Il tema della morte e della rinascita viene affrontato, tramite un raffinato gioco di ambivalenze e rimandi, anche nelle scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio disposte sulle estremità della ricca cornice e nella fascia di raccordo tra il soffitto e le pareti.

La Stanza delle rose

Fig. 17 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il nome di questo ambiente deriva dal motivo ornamentale della rosa, ripetuto quasi ossessivamente negli stucchi e nelle pitture. La regina dei fiori era l'emblema araldico legato al titolo, puramente onorifico, di Re di Cipro e Gerusalemme con cui Vittorio Amedeo I venne fregiato, tramite l'imposizione del collare, nel dicembre del 1632. La volta a calotta, strutturata in più fasce decorative, poggia su un tamburo circolare scandito da putti reggifestoni su mensole. Agli angoli svolgono la funzione di pennacchi coppie di putti che, librandosi in volo, sorreggono gli stemmi della Madama Reale. Sulla fascia che raccorda la volta alle pareti si alternano, ancora una volta, gruppi di putti dipinti su fondo dorato, ora con mazzolini di rose, ora col collare della Rosa Sabauda di Cipro e Gerusalemme. Poiché l'affresco originale di Isidoro Bianchi che rappresentava "Venere e Marte" era estremamente degradato, nel corso dei lavori ottocenteschi si decise di posizionare al centro della calotta una tela raffigurante "La Fama che regge lo stemma della Madama Reale", opera di un allievo di Gaetano Ferri. Sempre durante quegli interventi, le originali porte del Casella vennero sostituite con delle altre, ornate da stucchi realizzati su disegno di Domenico Ferri dallo scultore Pietro Isella, cui vanno riferiti anche i busti di Emanuele Filiberto collocato sulla porta sud, quello di Margherita di Valois sulla porta nord e quello di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours sulla porta ovest. Proprio in questa stanza era documentata la presenza dei quattro tondi dell'Albani, oggi alla Galleria Sabauda.

La Stanza dei Pianeti o dello Zodiaco

Fig. 20 - Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Prima stanza dell'appartamento meridionale rivolta verso il fiume, la Sala dei Pianeti o dello Zodiaco, presenta anch'essa ornamenti dell'éntourage dei Bianchi. Nel riquadro centrale della volta è presente una personificazione dell'Eridano (antico nome del Po) incoronata alla presenza del Tempo dal Giorno e dalla Notte. Anche stavolta l'ispirazione è fornita dalle Metamorfosi ovidiane. Tutt'intorno, entro pregevoli cornici polilobate collocate perfettamente nei punti cardinali, si trovano affrescate le allegorie dell'Aurora, del Sole, dell'Iride e della Notte. Più in basso, all'interno di cornici cuoriformi, sono raffigurate simbolicamente le quattro stagioni. Il fregio di raccordo, riplasmato da Gaetano Ferri nell'Ottocento, mostra nei riquadri i ritratti a mezza figura delle coppie ducali legate alla storia del palazzo (Emanuele Filiberto e Margherita di Valois, Maria Cristina di Francia e Vittorio Amedeo I, Carlo Emanuele II e Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours), che vengono alternati a stucchi con i segni zodiacali. Sempre nel corso del secolo XIX vennero modificate le originali cromie degli stucchi, prima su campo azzurro con stelle d'oro e figure bianche.

La Stanza della Nascita dei Fiori o del "Vallantino"

Fig. 23 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Prima delle stanze ad essere decorata dai Bianchi, la Stanza della Nascita dei Fiori racchiude nella cornice in stucco del soffitto tutti gli elementi decorativi presenti nelle sale sopra descritte (girali di foglie d'acanto, teste di putto che sostengono festoni, meandri, rose sabaude di Cipro e Gerusalemme, gigli di Francia, mensole scandite da ghirlande, protomi leonine e putti reggimensola con terminazione giraliforme). L'unico affresco centrale celebra, tramite una complessa scena allegorica, l'inizio di un'età d'oro con il matrimonio tra Maria Cristina e Vittorio Amedeo. Al centro geometrico della composizione la duchessa, figurata nei panni di Flora, raccoglie e distribuisce a dei putti fiori variopinti di diverse specie, contenuti all'interno di vasi e canestri posizionati ai suoi piedi. Alle sue spalle si trova il centauro Chirone, il precettore di Achille, nel cui volto si riconoscono le fattezze di Carlo Emanuele I, padre di Vittorio Amedeo. Egli infatti aveva come proprio simbolo araldico il centauro, ed in vita fu protettore delle Lettere e delle Arti (probabilmente per questo viene indicato da Apollo, divinità che nella mitologia classica è preposta, oltre che al traino del carro del Sole e alla profezia, anche alla custodia di tutte le Arti). Chirone viene inoltre scelto come espressione dell'ineludibile necessità di formare il giovane principe ereditario, affinché possa un giorno governare con rettitudine. In secondo piano, a sinistra del dipinto, sono collocate le nove Muse, ciascuna con il proprio attributo iconografico. Sullo sfondo si staglia il Castello del Valentino così come era stato concepito nei progetti dei Castellamonte e, in particolare, si notano degli elementi mai realizzati: i giardini verso il fiume e le due ali laterali (quella di sinistra non venne mai edificata e quella di destra fu solo parzialmente completata durante i lavori di rimaneggiamento di Ferri e Tonta). Il fregio collocato nella sezione apicale della parete sembra mostrare l'atto successivo della scena descritta sul soffitto: i putti, infatti, dopo aver preso i fiori raccolti da Cristina e dalle sue ancelle, li stanno utilizzando per distillare essenze profumate.

La Stanza dei gigli

Fig. 26 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

L'assetto attuale della Stanza dei gigli è quasi totalmente frutto dei restauri del 1858 e di quelli che seguirono i bombardamenti del Secondo Conflitto Mondiale. Degli affreschi seicenteschi realizzati dai maestri campionesi rimane solo il fregio che intercorre lungo tutta la parte alta delle pareti, nel quale si scorge una serie ininterrotta di puttini intenti a giocare con degli steli di giglio, simbolo araldico della committente, e con dei cartigli recanti motti in italiano e francese. Tramite i disegni tardo-settecenteschi di Leonardo Marini, architetto e decoratore dei Regi Palazzi, conosciamo l'originale conformazione degli stucchi della volta. Purtroppo non abbiamo avuto la stessa fortuna con l'affresco centrale, che gli inventari antichi descrivono in maniera estremamente sommaria. La tappezzeria dipinta su carta risale al 1924 ed è opera di Giovanni Vacchetta.

Fig. 27 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Gabinetto dei Fiori indorato

Fig. 28 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il Gabinetto dei Fiori indorato era in origine un boudoir dedicato alla toeletta della Madama Reale, come testimoniato dalla presenza di "otto specchi inseriti nella muraglia" incorniciati da nastri e girali d'acanto in stucco. Questi erano già documentati negli inventari del 1644 e sono stati ricollocati durante i restauri degli ultimi anni del Novecento. Lo studiolo, privo di affreschi, presenta stucchi dal raffinato disegno unitario, composto da elaborati intrecci vegetali, rose e gigli di Francia, che nullificano la separazione tra il soffitto e le pareti. Poiché il piccolo ambiente dava verso l'esterno e collegava il padiglione lato Po a quello lato Torino, sulla porzione inferiore delle pareti est ed ovest venne dipinta a trompe-l'oeil una porzione di pavimento in prospettiva, che riproduceva quello a riquadri in cotto presente in tutto il piano nobile, allo scopo di dilatare gli spazi e dare una sensazione di continuità.

Fig. 29 - Copyright fotografico: www.Camper.it.

L'appartamento del principe ereditario

La Stanza della Guerra

Fig. 30 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza della Guerra è il primo dei cinque ambienti che compongono l'appartamento destinato al futuro duca Carlo Emanuele II, nonché l'ultimo ad essere decorato dall'éntourage dei Bianchi, cui subentrarono i pittori e stuccatori Giovanni Paolo e Giovanni Antonio Recchi. Come in tutte le sale di questo appartamento, contraddistinto dalla presenza di stucchi bianchi, anche qui il tema selezionato per l'apparato ornamentale ha un preciso intento paideutico nei confronti del giovane principe. Gli affreschi celebrano infatti l'arte di fare guerra, all'epoca fondamentale per accrescere e\o proteggere i confini di uno Stato. Come exemplum di questa virtù viene proposto il defunto Vittorio Amedeo I, le cui gesta militari vengono esaltate non soltanto negli affreschi dei riquadri secondari del fregio e del soffitto, opera dei Recchi, ma anche nell'ottagono centrale; dove l'allegoria della Vittoria viene incoronata dalla Fama alla presenza della Guerra, mentre il Genio della Storia scrive su un clipeo le imprese compiute dal duca estinto. A coronamento della composizione si trova un cartiglio svolazzante sul quale è scritta la frase latina: "VICTORIS VICTORI VICTORIA", paronomasia che allude con ogni evidenza a Vittorio Amedeo, qui decantato in maniera elegiaca come 'vincitore'. All'apice delle due porte in stucco di Alessandro Casella, il restauro degli ultimi decenni del Novecento ha restituito i ritratti a mezzo busto dei genitori del principe, affrescati entro degli ovali.

Fig. 31 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza del Negozio

Fig. 32 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Nella Stanza del Negozio le pitture indirizzano all'arte della diplomazia, essenziale per il mantenimento degli equilibri fra Stati. In mezzo al soffitto, un'allegoria esalta la Pace quale portatrice di fertilità, abbondanza ed armonia, nonché come conditio sine qua non per la felicità dei cittadini, fine ultimo di ogni Stato. La presenza in alto del motto "CAELESTIS (A)EMULA MOTUS" e del simbolo araldico dell'uccello del Paradiso, appartenuti a Vittorio Amedeo I, si leggono come un'esortazione rivolta al futuro reggente ad emulare le virtù diplomatiche paterne. Scene di negoziazioni e stipulazioni di alleanze fra legati sabaudi ed illustri sovrani europei ed orientali sono incorniciate da un intricato motivo ornamentale fatto di telamoni, putti e angeli a coda fitomorfa. Nella scelta figurativa degli episodi si legge l'intento di magnificare un ducato che, pur non essendo particolarmente esteso, fu capace di imporsi nella scena politica europea contribuendo a definirne le sorti.

Fig. 33 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza della Magnificenza

Fig. 34 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

All'interno della Stanza della Magnificenza viene ribadita l'importanza per un regnante di far realizzare grandi opere pubbliche e private. Nel centrovolta la Potestà sovrana, seduta su un trono di nuvole con scettro e corona, viene magnificata dalle committenze di fabbriche regie. Le pitture dei riquadri, attribuite ai Recchi, si presentano come una vera e propria raccolta enciclopedica delle architetture ducali legate alla committenza di Carlo Emanuele I, Vittorio Amedeo I e Maria Cristina, tra le quali si riconoscono il Palazzo Ducale (già Palazzo Arcivescovile ed attuale Palazzo Reale), Santa Maria al Monte dei Cappuccini, Contrada di Po prima della costruzione dei portici, Porta Nuova e la Residenza di Mirafiori. La fascia di raccordo è risolta con una serie di paesaggi non ancora identificati in maniera certa ed unanime. Il tutto è incorniciato dagli ornamenti in stucco, caratterizzati da coppie di putti che sostengono cariatidi con terminazioni fitomorfe e da mascheroni da cui si dipartono festoni di primizie. Tra le più eleganti dell'appartamento, le porte sono sorrette da colonnine ritorte e coronate da un fastigio che presenta mensole e putti laterali reggispecchio.

La Stanza della Caccia

Fig. 37 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

L'affresco con Diana e le Ninfe dopo una battuta di caccia che domina la volta rivela il tema iconografico di questa nuova stanza: la caccia. La dichiarazione "BELLICA FACTA PARANT" che si legge iscritta al di sopra di un nastro, ricorda come l'ars venatoria in età moderna fosse fondamentale nella vita di corte in tempi di pace, poiché veniva ritenuta alla stregua di una forma di allenamento per gli eventi bellici. Veri protagonisti della volta sono però gli stucchi, che mostrano un corteo di animali selvatici scanditi da putti reggifestoni. Sulla fascia che corre lungo la parte alta delle pareti, dipinta dai fratelli Recchi, putti con selvaggina e cani (che richiamano i putti profumieri della Stanza della Nascita dei fiori, perfettamente simmetrica a questa) si alternano a scene di caccia al cerbiatto, all'orso, al cinghiale e al cervo.

La Stanza delle Feste e dei Fasti

Fig.41 - Giovanni Paolo Recchi: "La Magnificenza sovrana riceve la fama eterna dalle Arti e dalle Scienze", 1665, affresco. Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Dal momento che sono leggibili soltanto due affreschi, anche in questa stanza la raffinata decorazione in candido stucco di Alessandro Casella domina scevra da ogni vincolo architettonico. Sul soffitto campeggia il grande ovale di Giovanni Paolo Recchi, raffigurante l'esaltazione della Magnificenza sovrana a cui Arti e Scienze donano fama eterna. Della stessa mano è l'unico riquadro superstite del nastro di raccordo, dove si può vedere una scena con festeggiamenti pubblici in Piazza Castello, più precisamente nello spazio da parata fatto ricavare appositamente nell'area prospiciente Palazzo Madama.

Gabinetto d'Ercole

Fig. 42 - Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Corrispondente in maniera simmetrica al Gabinetto dei Fiori indorato, questo piccolo studiolo completamente rivestito di stucchi, deve il suo nome alle rappresentazioni di quattro delle dodici fatiche di Ercole, poste all'interno di una fitta rete di riquadrature geometriche presenti sulla volta. Lo spazio, punto di raccordo originario tra l'appartamento e la terrazza che si affacciava sulla corte d'onore e sull'area settentrionale del castello - poi adibita ad orto botanico nel Settecento - subì alcune modifiche alla struttura muraria che comportarono anche la chiusura di una porta.

Bibliografia:

Il Castello del Valentino, a cura di Costanza Roggero e Annalisa Dameri. Torino, Allemandi, 2007.

 

Sitografia:

https://castellodelvalentino.polito.it/

https://www.unesco.beniculturali.it/projects/residenze-sabaude/

http://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-filiberto-duca-di-savoia_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/cristina-di-francia-duchessa-di-savoia_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/isidoro-bianchi_res-1292b8c2-87e8-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-di-castellamonte_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/amedeo-di-castellamonte_(Dizionario-Biografico)/

https://torino.repubblica.it/cronaca/2018/02/07/news/castello_del_valentino_scoperta_una_stupenda_cappella_seicentesca_del_castellamonte-188288469/

http://www.torinotoday.it/eventi/cultura/cappella-castellamonte-valentino.html

http://www.museotorino.it/view/s/f987e76510294fa9852817e2e715da5a


REMBRANDT A PALAZZO ARNONE A COSENZA

Recensione di Francesco Surfaro

La mostra "Rembrandt: i cicli grafici, le sue più belle incisioni"

Si è conclusa lo scorso 24 marzo a Cosenza la mostra monografica, unica in tutto il Meridione d'Italia, ospitata a Palazzo Arnone, dedicata al grande maestro dell'Età d'oro olandese Rembrandt Harmenszoon Van Rijn a 350 anni dalla morte. All'interno del percorso espositivo di "Rembrandt: i cicli grafici, le sue più belle incisioni", erano esposte 32 rare e importanti stampe realizzate dall'artista, fra le quali "L'Erudito nello studio", "l'Autoritatto con Saskia" e la preziosissima e famigerata "Stampa dei cento fiorini" (che deve il suo nome alla cifra, all'epoca esorbitante, per cui fu venduta). Ammirandole è stato possibile comprendere la maestria dell'artista nel coniugare le tecniche dell'acquaforte, della puntasecca e del bulino, realizzando straordinari effetti di plasticità e del diradamento dei mezzi toni, con cui l'incisione sembra sfidare, vincitrice, la pittura. Straordinaria inoltre la capacità del Van Rijn di riuscire a dare dignità ai soggetti di vita quotidiana, ai personaggi umili quanto ai ricchi (fortemente caratterizzati dal punto di vista psicologico), alle scene di genere, ai corpi raffigurati con brutale realismo.

Al visitatore era data la disponibilità di osservare i particolari delle opere mediante una lente di ingrandimento, per poterne meglio apprezzare i dettagli (dal momento che alcune di queste erano pressapoco delle dimensioni di un francobollo o poco più). La prima sezione esponeva ritratti e autoritratti, la seconda era dedicata ai cicli biblici tanto cari al Maestro di Leida, ed infine l'ultima ai mendicanti, un percorso ideale della formazione e della vita dell'artista, dalla gloria al declino.

Tra le incisioni a mio avviso più interessanti, vi è sicuramente "Il girello", che mostra dietro a due nudi maschili una scena dalla sorprendente umanità: una madre che tende le braccia al figlioletto, mentre quest'ultimo muove i suoi primi passi attraverso un girello.

Sempre all'interno dello spazio espositivo era collocata una fedele riproduzione dello studio di Rembrandt nel 1663, quando ormai era ridotto in miseria. In una camera attigua, appositamente oscurata, era possibile ammirare 6 grandi riproduzioni digitali retroilluminate di alcuni celebri dipinti di Rembrandt, concesse dalla Rembrandthuis di Amsterdam, fra cui spiccavano fra tutte "La Lezione di Anatomia del Dottor Tulp", e "La fidanzata ebrea". Il biglietto d'ingresso era di €5, non erano previste audio-guide, sostituite da ben fornite didascalie poste al lato delle varie incisioni. Il catalogo ufficiale della mostra era disponibile al prezzo di €10.