A cura di Francesco Surfaro
Introduzione
In questa terza ed ultima parte dedicata alle opere eseguite tra il 1566 e il 1569 da Giorgio Vasari su commissione di papa Pio V per la chiesa di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo (AL) verranno approfondite le due tavole maggiori che ornavano il recto e il verso dello smembrato altare maggiore e si affronteranno le problematiche legate all’attribuzione degli scomparti minori.
Santa Croce a Bosco Marengo nelle opinioni del tempo
Agli occhi dei contemporanei del Vasari il fatto che l’artista avesse eseguito le pitture boschesi per l’altare maggiore di Santa Croce e Ognissanti “tutte in legniame, lavorate a olio” (Ricordanze, ed.1927-28) poteva apparire come una sorta di arcaismo. D’altra parte la scelta di un supporto ormai considerato antiquato e desueto, sempre meno utilizzato in favore della tela, era perfettamente in linea con la richiesta papale di una «macchina grandissima quasi a guisa d’arco trionfale» non troppo dissimile, sia per l’impostazione generale che per il programma iconografico impregnato di retorica tipologica, ad un polittico medievale. Queste peculiarità dall’intenso sapore revivalistico costituiscono un riflesso piuttosto nitido delle politiche intransigenti e rigidamente conservatrici adottate dal fanatico pontefice committente, Pio V Ghislieri, indefesso fidei defensor contro ogni possibile attacco all’ortodossia cattolica, protestante o turco che fosse.
In una lettera spedita da Roma il 14 marzo del 1567 all’amico Vincenzo Borghini Vasari ammetteva candidamente che, una volta tornato in patria, all’interno della propria bottega fiorentina avrebbe dato «da fare per tutti, massime per Francesco», riferendosi in maniera esplicita a Francesco Morandini, anche noto come “Il Poppi”, uno dei suoi allievi più talentuosi. Questa circostanza non stupisce affatto: l’Aretino all’epoca aveva raggiunto l’apice della notorietà e, in quello che sarebbe stato l’ultimo convulso decennio della propria lunga e gloriosa carriera (passò difatti a miglior vita nel 1574), era gravato da tutta una serie di incarichi estremamente onerosi, pertanto, mai avrebbe avuto modo di portare a compimento da solo un’impresa tanto ambiziosa[1].
Le ipotesi attributive delle tavole dell’altare maggiore di Santa Croce a Bosco Marengo
Motivati dall’ammissione dello stesso Vasari gli studiosi hanno elaborato, sulla base di evidenze stilistiche e tecniche, diverse ipotesi attributive per ciascuna delle tavole che, prima dello smantellamento settecentesco, ornavano la macchina d’altare di Bosco. La critica è concorde nel sostenere la piena autografia vasariana del Giudizio Universale (unico fra tutti i pannelli a riportare la firma dell’Aretino e la data del 1568), delle coppie di Santi Domenicani e dell’ovale con un Santo Vescovo di Tatton Park. La stessa cosa non si può certo asserire per il Martirio di San Pietro da Verona, ove è pressoché certo un contributo di Jacopo Zucchi. Vengono ricondotti allo stesso Zucchi, al già citato Morandini e a Giovanni Battista Naldini gli scomparti della predella e le quattro tavolette con scene di miracoli operati dai santi Domenico di Guzmán, Antonino da Firenze, Tommaso d’Aquino e Vincenzo Ferrer. Alla mano del Poppi si accostano le formelle del Sacrificio di Caino e Abele, della Pasqua Ebraica (dove pare si sia autoritratto nelle vesti di un personaggio che si volta verso l’osservatore) e dell’Ultima Cena (quest’ultima è praticamente sovrapponibile ad un olio su tavola del medesimo soggetto considerato autografo del Vasari che si custodisce presso il Convento della Santissima Annunziata a Figline Valdarno); a Zucchi vengono attribuite le tavolette raffiguranti l’Incontro tra Abramo e Melchisedec, la Caduta della Manna e San Domenico che resuscita Napoleone Orsini; al pennello di Naldini si riconducono invece il Sacrificio di Isacco, San Vincenzo che resuscita un morto, la Visione di San Tommaso e l’Elemosina di Sant’Antonino.
Il Giudizio Universale dell’altare maggiore di Santa Croce a Bosco Marengo
A seguito dello smembramento dell’altare maggiore, il Giudizio Universale – originariamente collocato sulla faccia anteriore della monumentale macchina liturgica – fu posizionato, tra la fine del primo e il principio del secondo decennio del XVIII secolo, nell’emiciclo absidale, al di sopra del pregiato coro ligneo dei frati domenicani eseguito nel triennio 1567-1569 da Giovanni Gargiolli e Giovanni Angelo Marini detto “il Siciliano”. In quell’occasione l’opera venne dotata di una sontuosa cornice tardobarocca in legno e stucco dorati a foglia percorsa da un elaborato intreccio di racemi acantacei, realizzata appositamente, fra il 1712 e il 1713, dai maestri intagliatori Pietro Girolamo Chiara e Giovanni Santo.
La descrizione
Per agevolare la lettura del dipinto è possibile frazionare idealmente l’affollata composizione in tre registri. In alto il Cristo Giudice, trasfigurato entro un alone luminoso giallognolo, siede su un trono di nubi plumbee circondato da una corona di Santi. Con un imperioso cenno della mano destra decreta la Fine dei Tempi e chiama al cospetto della sua Maestà divina i salvati, mentre, con uno sguardo colmo di ira accompagnato da un gesto di ripulsa della mano sinistra, ordina a Michele, Capo delle Milizie Celesti, di respingere i dannati nel Fuoco Eterno. Fiancheggiano il Giudice divino i Quattro Evangelisti, San Pietro e la Vergine Maria. Più in basso, al centro della fascia mediana, un’androgina figura angelica dal volto raffaellesco sorregge la Croce affiancata lateralmente da due simmetrici angeli tubicini, il primo dei quali ha già terminato di scandire le opere di bene e le malefatte compiute dai risorti elencate all’interno del Libro della Vita che, difatti, giace chiuso ai suoi piedi. L’altra creatura celeste, di contro, mostra un volume rilegato sulle pagine del quale si legge: “A.D. MDLXVIII/ PIVS V PONT./MAX. FIERI/ FECIT/ GEORGIVS/ VASARIVS/ ARETINVS/PINXIT”. All’estrema sinistra e all’estrema destra trovano posto due coppie di putti svolazzanti che ostentano i simboli della Passione di Cristo, ovvero la colonna della flagellazione, la lancia di Longino, una spugna issata all’estremità di una canna, la corona di spine, un flagello e i tre chiodi della crocifissione.
Nella parte inferiore dell’opera l’arcangelo Michele – che ricalca perfettamente nella torsione del busto e nella posizione delle braccia l’atteggiamento assunto dal Cristo nella fascia superiore della composizione – in veste di esecutore della Giustizia Divina sguaina la spada per separare gli eletti dai reprobi. Se i primi vengono calorosamente accolti dagli angeli con abbracci e baci e guidati verso il Paradiso, ove ascendono in volo privi del peso dei peccati, i secondi, nudi, atterriti nell’animo e deformati nelle fattezze, vengono torturati e trascinati da orrendi demoni palesemente presi in prestito dai repertori figurativi medievali, i quali, afferrandoli di peso, li scaraventano presso la porta dell’Inferno, rappresentata – secondo un’iconografia molto cara agli artisti dell’Età di Mezzo – come le grosse fauci di un essere mostruoso dalle zanne sporgenti, aguzze e ricurve. Alle spalle dell’arcangelo si scorge fra la schiera degli eletti l’austero profilo di Pio V, riconoscibile per la tonsura, il naso aquilino, la lunga barba canuta e l’ermellino papale. Né nello studio preparatorio conservato al Cabinet des Dessins del Louvre né nella bozza della Fondazione Ratjen di Vaduz è possibile rintracciare il ritratto del pontefice, da ciò si evince che questo omaggio al committente – effigiato non a caso accanto al santo di cui, in religione, portava il nome – sia stato aggiunto dall’artista soltanto in corso d’opera per ovvie motivazioni encomiastiche.
Analisi dell’opera
Dovendo affrontare un tema come quello del Giudizio Finale Vasari non poteva sottrarsi dal confronto con tutta la sterminata tradizione iconografica di origine medievale ormai divenuta canonica, così come non poteva evitare di volgere il proprio sguardo all’illustre precedente michelangiolesco della Sistina. Osservando in maniera analitica questa complessa composizione pittorica è possibile rintracciare i modelli e le suggestioni che dovettero ispirare l’Aretino nel realizzarla.
Nella drammatica postura del Cristo con lo sguardo abbassato, il volto quasi di profilo, il braccio destro alzato in un potente gesto d’imperio e l’atletico torace vulnerabile lasciato scoperto da una sottile veste si riconosce un palese debito nei confronti dell’apollineo Cristo Giudice effigiato da Michelangelo nella Cappella Sistina. Anche il contrapposto che caratterizza la posa della Vergine alla destra del Figlio (quindi alla sinistra di chi guarda) ricorda molto da vicino quello della più dimessa Madonna del Giudizio michelangiolesco. È poi interessante notare come l’Evangelista collocato all’estrema destra del registro superiore sia una libera riproposizione in pittura del Mosè di San Pietro in Vincoli visto dal fianco destro. La figura muliebre di spalle in primo piano a sinistra è un’evidente citazione raffaellesca tratta dalla Trasfigurazione dei Musei Vaticani. Accanto al profilo di Pio V l’ovale ruotato di tre quarti di una mantellata (terziaria domenicana) con lo sguardo assorto verso l’alto sembra riprendere i volti della Santa Caterina d’Alessandria, oggi alla National Gallery di Londra, e della Galatea di Villa Farnesina, dipinte da Raffaello rispettivamente intorno al 1507 e nel 1512. Notevoli sono inoltre i punti di contatto ravvisabili fra il Giudizio Universale di Bosco e il pannello centrale del Trittico del Giudizio Finale, opera di Beato Angelico, conservato attualmente presso la Gemäldegalerie di Berlino[2].
Sia il Giudizio Finale dell’Angelico che quello del Vasari possono essere idealmente suddivisi in tre fasce:
- la prima col Cristo Giudice affiancato dalla Vergine, da San Pietro, dagli Evangelisti e da alcuni membri della corte celeste;
- la seconda con l’angelo crocifero al centro e gli angeli tubicini ai lati;
- la terza con l’arcangelo Michele che suddivide i defunti appena resuscitati fra eletti e reprobi.
Nelle due tavole le gestualità del Cristo Giudice sono praticamente le stesse, così come identico è pure l’ordine in cui sono disposti i personaggi attorno al Redentore. In entrambe le opere i giusti vengono abbracciati con letizia dagli angeli e condotti verso il Paradiso, mentre i dannati, visibilmente disperati, vengono trascinati a suon di arpionate da orride creature demoniache nella “bocca” dell’Inferno. Non mancano inoltre scene truculente in cui i risorti, una volta appreso d’esser stati destinati alla dannazione eterna, si abbandonano ad atti di autolesionismo.
Il Martirio di San Pietro da Verona
Ubicata anticamente sul verso della Macchina Vasariana, ossia la parte rivolta verso il coro dove i frati si riunivano in momenti di raccoglimento e di preghiera, la tavola raffigurante il Martirio di San Pietro da Verona, dopo lo smembramento dell’altare per cui fu concepita, venne posizionata al di sotto del finestrone che illumina il braccio destro del transetto, accanto al cenotafio di Pio V. Nell’ottobre del 2011, con l’allestimento del Museo Vasariano di Bosco Marengo nei locali della Sacrestia e della Sala Capitolare del convento attiguo alla chiesa di Santa Croce e Ognissanti, l’opera è stata inserita all’interno di un percorso espositivo accanto agli scomparti minori superstiti del perduto polittico. Fra tutte le componenti sopravvissute della “macchina grandissima” è l’unica a conservare l’originale cornice dorata intagliata dal Gargiolli sulla quale si imposta una sagoma lignea dipinta a marmorino, che costituisce il solo frammento esistente della parte architettonica dell’altare disegnato da Vasari. Perfettamente speculare a quella del Giudizio Universale, la composizione del Martirio di San Pietro è divisibile in due sezioni principali inframmezzate da una fascia centrale. Nella parte superiore, su una spessa coltre di nubi, è rappresentato san Domenico di Guzmán inginocchiato difronte alla Madonna col Bambino in gloria, ammantata d’azzurro e scortata da tre puttini. In basso, proiettata su un paesaggio boschivo di ascendenza nordica, si svolge la concitata scena dell’aggressione al frate domenicano Pietro da Verona (particolarmente somigliante ad una tavola del medesimo soggetto dipinta sempre dal Vasari oggi custodita al Kunsthistorisches Museum di Vienna), il quale soccombe sotto i colpi mortiferi sferrati dal carnefice cataro. Poco prima di spirare il santo fa in tempo a scrivere per terra con il sangue che stilla abbondantemente dal suo cranio divelto le prime tre parole del Credo Niceno-Costantinopolitano: “CREDO IN UNUM DEUM”. Al centro della pala la presenza dei tre putti in volo recanti fra le mani corone e palme del martirio suggerisce in maniera sottile un parallelismo tra il sacrificio salvifico di Cristo sulla Croce e l’assassinio di San Pietro, barbaramente ucciso perché aveva contrastato con forza l’eresia dualista svolgendo la carica di inquisitore, conferitagli da papa Gregorio XII nel 1251. I santi Domenico e Pietro, degni exempla di strenui difensori delle verità di fede contro ogni eterodossia, incarnavano appieno lo spirito del nuovo Cattolicesimo post-tridentino; proprio per questo motivo Ghislieri, committente e ideatore del piano iconografico della Macchina Vasariana nonché membro dell’Ordine dei Frati Predicatori, volle riservare alle loro figure un ruolo centrale. Il Martirio di San Pietro di Verona si configura dunque come una sorta di manifesto politico della Chiesa nell’Età della Controriforma, in cui i Domenicani, responsabili della Santa Inquisizione, vengono individuati come uno strumento efficace per arginare la minaccia protestante.
Note
[1] A Firenze, per Cosimo I de’ Medici, stava affrescando, con la preziosa collaborazione del proprio éntourage, il ciclo pittorico del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. Al contempo, in veste di architetto, stava concretizzando il grandioso progetto ducale di renovatio urbis comprendente l’adattamento della Basilica di Santa Maria Novella e di altri grandi luoghi di culto fiorentini alle nuove esigenze liturgiche stabilite dal Concilio di Trento e la Fabbrica degli Uffizi. Mentre ancora cercava di districarsi fra le commissioni cosimiane e pontificie Vasari stava curando l’edizione giuntina de “Le Vite de’ più Eccellenti Pittori, Scultori et Architettori. Da Cimabue insino a’ giorni nostri.”, data alle stampe nel 1568. Merita inoltre di essere ricordato il ruolo diplomatico non certo secondario svolto dall’Aretino tra Firenze e Roma negli anni 1566-1569 per estorcere a papa Ghislieri la nomina a Granduca di Toscana di Cosimo I, suo principale protettore. Fu proprio dalle mani di Pio V che, il 4 marzo del 1569, de’ Medici ricevette, grazie anche al contributo vasariano, la corona granducale nel corso di una solennissima cerimonia tenutasi all’interno della prestigiosa cornice della Cappella Sistina, ai piedi degli affreschi partoriti dal «divinissimo ingegno» di Michelangelo Buonarroti.
[2] Dipinto tra il 1435 e il 1436 forse per il cardinale Juan de Casanova, il trittico, documentato per la prima volta nel 1572 nell’inventario delle collezioni di papa Pio V Ghislieri, era originariamente un’unica tavola di forma rettangolare che fu poi smembrata in una non meglio conosciuta epoca successiva.
Bibliografia
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GIORGIO ETTORE CAREDDU: Vasari a Bosco Marengo. Indagini diagnostiche e problematiche di restauro, tratto da: Giorgio Vasari tra parola e immagine, Aracne Editrice, 2013
FULVIO CERVINI, CARLENRICA SPANTIGATI: Santa Croce di Bosco Marengo, Cassa di Risparmio di Alessandria, 2002
CLAUDIA CONFORTI: Giorgio Vasari al servizio di Pio V: affermazione artistica o ostaggio diplomatico?
https://www.academia.edu/40350887/Due_lavori_del_Vasari_nel_complesso_monumentale_di_Santa_Croce_in_Bosco_Marengo
Sitografia
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