A cura di Anna Storniello
La decorazione scultorea dell’Arca di San Domenico: Niccolò dell’Arca
A seguito della campagna decorativa della bottega del Pisano sull’Arca di San Domenico, presentata nella parte seconda di questa serie di articoli, il senato bolognese decise di realizzare una cappella all’altezza dello sfarzo dell’Arca e nel 1377 il padre generale dell’Ordine, frate Elia di Tolosa, pose la prima pietra dando inizio ai lavori. Tuttavia, l’Arca vi fu collocata soltanto nel 1411. Diversamente, la testa del santo fu destinata a un preziosissimo reliquiario appositamente realizzato da Jacopo Roseto nel 1383 (Fig. 1, 1a). Composto da 3000 pezzi di argento cesellato e in parte smaltato, il reliquiario costituisce un autentico e raro esemplare di oreficeria bolognese del XIV secolo, oggi collocato in una nicchia sul retro del monumento.
Con la costruzione della nuova cappella però, ci si rese conto che la tomba ne risultava sminuita, e pertanto, nel 1469, venne ingaggiato Niccolò da Bari (1435 c. – 1494), detto appunto Niccolò dell’Arca per il suo contributo a quest’opera, per realizzare un coronamento compatibile con il monumento e con l’ambiente. L’artista fu in grado di creare una cimasa ambiziosa e di grande verticalità che allo stesso tempo non sminuisse il sarcofago duecentesco (Fig. 2).
Iniziando la lettura dall’alto, si trova il Padre Eterno che si erge sul mondo mentre ne stringe uno più piccolo in mano, quindi raffigurato come signore e creatore dell’universo (Fig. 3). Più in basso, ai lati di una sorta di grande vaso all’antica, due putti sorreggono festoni di frutta che scendono fino a toccare una coppia di delfini, accompagnati da altri due più in basso (Fig. 4). Non si tratta di elementi puramente decorativi, bensì di una rappresentazione simbolica della Creazione, nella quale i putti equivalgono al cielo, i festoni alla terra e i delfini al mare. Sul più alto cornicione della cimasa, alle spalle di una lastra tombale, è collocato un Cristo Morto affiancato dall’angelo della Passione a sinistra e da quello dell’Annunciazione a destra. Un piccolo gruppo scultoreo che sintetizza gli eventi salienti della vita di Cristo (Fig. 5).
Ai quattro angoli della trabeazione, sulle volute a decorazione vegetale, si stagliano i quattro Evangelisti, messaggeri della Redenzione già rappresentata dal Cristo Morto (Fig. 6).
Sul secondo cornicione, quello che delimita il coperchio della tomba, svettano le statue dei santi protettori di Bologna, appoggiati su cartigli che si arrotolano mollemente come se non fossero scolpiti nel marmo, di cui soltanto cinque sono opera di Niccolò dell’Arca. A lui si devono, sul lato frontale, a partire da sinistra, un riflessivo San Francesco, un San Domenico reso con lo stesso spiccato realismo che l’artista infonderà anche nel più tardo busto in terracotta, un San Floriano che indossa copricapo e mantello bordati di pelliccia, mentre sul retro, un San Vitale con stivali resi piega per piega con grande maestria e un Sant’Agricola abbigliato alla moda del gotico internazionale (Figg. 7 – 11). Infine, sempre attribuito a Niccolò, collocato a sinistra della predella del monumento, in corrispondenza dell’altare, si trova lo splendido angelo ceroforo di sinistra, che attesta il virtuosismo assoluto dell’artista nella resa delicata e morbida delle forme, modellate come se si trattasse di terracotta e non di duro marmo (Fig. 12).
Ciò appare tanto più inspiegabile quanto il fatto che a Niccolò dell’Arca si attribuiscono pochissime opere e di queste solo un ristrettissimo gruppo è realizzato in marmo. Tuttora gli storici dell’arte si interrogano su come abbia potuto un artista rinomato per opere in terracotta raggiungere tali livelli di eccellenza nella lavorazione del marmo senza aver lasciato dietro di sé un più consistente numero di opere in questo materiale.
Della produzione di Niccolò dell’Arca si conosce ancora troppo poco e ancora meno della sua formazione, cosicché la sua rimane una figura enigmatica e allo stesso tempo affascinante. È appurato invece che l’espressività e l’eleganza delle sue sculture abbiano fortemente influenzato la pittura bolognese contemporanea, in particolare quella di Ercole de Roberti e di Francesco del Cossa.
L’intervento di Michelangelo
A pochi mesi dalla morte di Niccolò dell’Arca, che nel 1494 non aveva ancora portato a termine tutte le statue della cimasa, giunse a Bologna un giovanissimo Michelangelo che fuggiva dalla Firenze del Savonarola e che fu coinvolto, grazie all’intercessione del patrizio bolognese Gianfrancesco Aldrovandi, nel prestigioso cantiere. Per il completamento della cimasa Michelangelo realizzò due dei santi protettori, il solenne San Petronio che sorregge la città di Bologna e il San Procolo, la cui audacia nella posa e nello sguardo presagisce lo spirito del David (Fig 13 e 14). Infine, il secondo angelo ceroforo, quello di destra, una figura forte e tornita, potentemente classica, che ben si distingue da quella longilinea ed elegante di Niccolò dell’Arca (Fig. 15).
Tuttavia, la permanenza di Michelangelo nella città rossa fu breve e nel 1495, con la fine del governo savonaroliano, fece ritorno a Firenze.
Infine, l’ultima statua degli otto santi protettori, il San Giovanni Battista, si deve all’isolato intervento di Girolamo Cortellini.
La predella del Lombardi
Il cantiere dell’Arca, però, non si concluse col prestigioso apporto del Buonarroti. Nel 1532, infatti, il consiglio cittadino commissionò ad Alfonso Lombardi (1497 c. – 1537) e ai suoi collaboratori lo scabellum marmoreum, la predella del monumento, ossia la stele decorativa che funge da base del sarcofago. In questa campagna il Lombardi era all’apice della propria maturità artistica e la padronanza eccellente del marmo gli permise di infondere ai rilievi una tale leggerezza da dare l’impressione che fossero stati plasmati nella creta.
La scena principale, al centro, è l’Adorazione dei Magi (Figura 16), scelta insolita in una narrazione dedicata a San Domenico e probabilmente giustificabile con un’affermazione del santo riportata da Giordano di Sassonia nel suo libello[1]: «I Magi, questi devoti re, entrando nella casa, trovarono il Bambino con la Madre, e prostratisi lo adorarono. Ora, anche noi abbiamo trovato l’Uomo Dio con Maria, sua ancella». San Domenico esortava così i suoi frati affinché adottassero i re Magi come modelli di ardore nella contemplazione e, soprattutto, nella predicazione del Vangelo. La composizione estremamente dinamica e affollata che caratterizza la scena sembra suggerire che il Lombardi conoscesse un disegno di Baldassarre Peruzzi con il medesimo soggetto (Figura 17), che gli era stato commissionato dal conte bolognese Giovanni Battista Bentivoglio nel 1522, e che ne abbia tratto ispirazione per questo rilievo.
Curiosa la presenza, a sinistra dello sfondo, di un elefante, un animale esotico ed estraneo all’episodio evangelico, oltre che all’imaginario dell’epoca, di cui, però, il duca Alfonso d’Este possedeva un esemplare e che forse l’artista ebbe occasione di ammirare.
Il rilievo di sinistra presenta tre episodi dell’infanzia del santo, di cui il primo rievoca la Nascita di S. Domenico, che appena dopo il parto viene lavato dalla nutrice. Quello centrale raffigura Domenico fanciullo che si sdraia sul pavimento, che, spinto dal desiderio di sobrietà, preferiva dormire sul freddo pavimento che nel proprio letto. La presenza di un cane che stringe tra i denti una torcia, si rifà alle fonti agiografiche sulla vita di San Domenico. Esse riportano che la madre del santo lo sognò come premonizione della fervida predicazione operata da Domenico che avrebbe avvampato nel mondo.
La terza piccola scena è quella che vede il santo impegnato nella Vendita dei libri, i beni più costosi che possedeva, di cui tuttavia si volle privare per sfamare dei mendicanti.
Infine, l’ultimo rilievo allude alla Morte di San Domenico (Fig. 19) secondo la visione che ne ebbe il priore domenicano di Brescia, Fra Guala. In uno spicchio nel cielo San Domenico, subito dopo aver spirato, si trova seduto dinanzi a una scala che conduce al paradiso, affiancato da Cristo e dalla Madonna, insieme a uno stuolo di putti, mentre assistono alla scena domenicani sconvolti e laici in contemplazione.
L’ultima fase decorativa dell’Arca di San Domenico
L’ultima fase decorativa dell’Arca è quella portava avanti da Jean-Baptiste Boudard (1710 – 1768) che nel 1768 realizzò per l’altare la Morte di San Domenico, privilegiando stavolta il momento del seppellimento.
L’intero monumento, risultato della stratificazione di ben cinque fasi decorative lungo altrettanti secoli, rappresenta un compendio sia dell’eccellenza scultorea italiana che della concezione teologica dell’ordine che si dipana a partire dagli episodi della vita di San Domenico nel sarcofago dei Pisano e nella predella del Lombardi, fino a concludersi nella gerarchia celeste della cimasa, con Dio Padre all’apice, il creato Sua emanazione, seguito dal Mistero della Redenzione, dagli evangelisti in quanto suoi messaggeri e infine dai santi protettori, gli intermediari fra l’ordine celeste e l’ordine domenicano.
Fotografie da 2 a 14 prese dal testo di B. Borghi, San Domenico. Un patrimonio secolare di arte, fede e cultura.
Note
[1] Beato Giordano di Sassonia, Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum, 1234.
Bibliografia
D. DODSWORTH, The Arca di San Domenico, P. Lang, New York 1995.
BORGHI, San Domenico: un patrimonio secolare di arte, fede e cultura – A millenary heritage of art, faith and culture, Minerva, Argelato 2012.
BOTTARI, L’arca di s. Domenico in Bologna, L’arte in Emilia; 1, Patron, Bologna 1964.
CAMPANINI, D. SINIGALLIESI (a cura di), Alfonso Lombardi. Lo scultore a Bologna, Compositori, Bologna 2007.
SETTIS, T. MONTANARI, Arte. Una Storia Naturale e civile. Vol. 3 Dal Quattrocento alla Controriforma, Einaudi Scuola, Città di Castello 2019.
DE VECCHI, E. CERCHIARI, Arte nel tempo. Dal Gotico Internazionale alla Maniera Moderna. Tomo I, Rizzoli Libri, Città di Castello 2018.
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