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A cura di Marika Sacchetti

 

Tom Hunter, nato nel 1965 a Bournemouth, è un fotografo britannico che, grazie alle sue doti artistiche affinate lungo il percorso di studi e alla successiva carriera cinematografica, fu il primo a ottenere il permesso di allestire una mostra personale alla National Gallery di Londra.

Caratterizzate da colori ricchi e forte simbolismo, le sue fotografie trattano questioni sociali locali e sensazionalistiche. Nei suoi lavori viene data voce principalmente a coloro che sono definiti “squatters”, ovvero uomini e donne risedenti abusivamente in stabili abbandonati. Questi non sono altro che persone comuni, congelate nella stasi e catturate in momenti apparentemente privati e che terminano di esserlo nel momento in cui vengono fermati dall’obiettivo. Queste “Persons unknown” – titolo dato ad uno dei suoi album – sono persone a noi stranamente familiari, contrariamente a quanto il titolo lascia intendere, in quanto enfatizzano la risonanza dell’esperienza universale di profondi sentimenti di isolazione, di insignificanza, di ansietà e desiderio.

Non essendo il primo fotografo contemporaneo a denunciare la società locale e a dare voce alla gente di quartiere – si ricordi ad esempio Diane Arbus e i suoi “Freaks” -, nel fare ciò il suo estro è stato di rivisitare, in chiave moderna e nel paesaggio urbano dell’East-London, dipinti celebri di maestri dell’età vittoriana (per citarne alcuni, Jan Vermeer, John Everett Millais, Alfred Wallis, Arthur Hughes).

“Volevo solo fare una foto che mostrasse la dignità della vita degli abusivi – un pezzo di propaganda per salvare il mio quartiere”. [1]

Toccando con mano i suoi ritratti, si pensi ad esempio alla rivisitazione di “Ophelia” di John Everett Millais (1851-1852) presente nel libro “The way home”. L’Ophelia shakespeariana viene minuziosamente raffigurata da Millais come appena caduta nel ruscello, distesa a pelo dell’acqua e con le mani aperte, ad indicarci che non sta opponendo resistenza alla corrente, bensì lasciandosi cullare per poi abbandonarsi a ciò che diventerà suo sepolcro. Il forte simbolismo espresso nel dipinto attraverso la flora – si pensi al papavero simbolo di sonno e di morte, il ramo del salice piangente inclinato sul volto simbolo dell’amore non ricambiato, le foglie di ortica che rappresentano il dolore, il nontiscordardime, le violette e così via – si viene lievemente a perdere con Tom Hunter. Il fotografo, attraverso un linguaggio crudo e realistico, trasforma il tragico personaggio shakespeariano in una ragazza che, di ritorno da una festa, cade e annega in un ruscello. A qualche metro da casa, il corpo soccombe nell’acqua avvolto dal verde brillante della vegetazione, quasi a diventare tutt’uno con essa, abbandonata al suo destino.

In questo caso, anche Tom Hunter evidenzia ogni singolo dettaglio attraverso una messa a fuoco nitida e omogenea.

Andando a ritroso è bene soffermarsi attorno alla metà del Seicento, con Jan Vermeer. Ciò che si sa del pittore non è molto, se non che nel 1632 venne battezzato a Delf, dove morì nel 1675, e che entrò in contatto con Rembrant dopo un viaggio ad Amsterdam. L’eredità artistica lasciata è ampia e di valore inestimabile.

Addentrandoci nella sua produzione, notiamo come gli ambienti prediletti dall’artista si rifanno ad abitazioni popolari o piccolo borghesi, caratterizzate da atmosfere rarefatte e una luce carezzevole ed evanescente, filtrata sempre da vetrate e tendaggi. I soggetti, per lo più donne, enfatizzano il senso di intimità domestica.

“La vita silenziosa delle cose appare riflessa entro uno specchio terso; dal diffondersi della luce negli interni attraverso le finestre socchiuse, dal gioco dei riflessi, dagli effetti di trasparenze, di penombra, di controluce”.[2]

È bene spendere due parole anche per quanto riguarda la tecnica pittorica: Vermeer era in grado di ottenere colori trasparenti applicando sulle tele il colore a piccoli punti ravvicinati. Questa tecnica è nota per il nome “Pointillé”, da non confondere con il “Pointillisme”.

In generale, tutti i dipinti di Vermeer sono caratterizzati da una precisione “fotografica” e fisiognomica, grazie all’utilizzo della camera oscura. Questo strumento giustifica l’assenza di disegni preparatori precedenti ai dipinti, ma spiega soprattutto alcuni effetti di luce dei suoi quadri e, in particolare, gli effetti “fuori fuoco”, per i quali alcuni particolari sono “a fuoco” ed altri no, esattamente come in fotografia.

Prendendo ad esempio il dipinto “Donna che legge una lettera davanti alla finestra”, datato 1657 e oggigiorno conservato a Dresda, notiamo quanto finora detto: in una stanza illuminata da sinistra una donna sta leggendo una lettera in piedi. La stanza è per lo più nascosta da un tendaggio verde, che funge quasi da sipario. Gli effetti della luce ricreano la consistenza dei vari materiali, oltre a far riflettere il volto della giovane sulla vetrata. La donna è al centro dell’attenzione dell’osservatore, grazie all’illuminazione esterna che ne fa risaltare la figura e le emozioni. La donna sembra infatti accennare un sorriso impercettibile, conferendo una maggiore intimità all’atmosfera già sospesa e silenziosa.

Tre secoli dopo, Tom Hunter reinterpreterà il medesimo dipinto. In “Woman reading a possession order” il fotografo rende la donna e la luce le vere protagoniste della fotografia. Questa volta però nessun sorriso increspa le labbra della giovane, la quale conserva una visibile e nobile calma di fronte alla richiesta di sfratto. I soggetti della serie di fotografie sotto il titolo “Persons unknown” e, come precedentemente detto, sono “squatters”, ovvero uomini e donne che risiedono abusivamente in stabili abbandonati e che nel 1997 ricevono l’ordine di sfratto. Su tutta la serie spira il tentativo di stabilire un nesso tra pittura e fotografia che inneschi una denuncia agli “ultimi giorni”, alla fine di un’epoca di una comunità, per lasciare il passo ad un progetto urbanistico. Viene dunque approfondita la vocazione documentale sulle vite umane, sulle loro aspirazioni, sogni, sconfitte e disillusioni.

In quanto simbolismo dell’opera il fotografo non è da meno. L’elemento centrale sul quale vuol far riflettere è la finestra, in quanto nel linguaggio artistico rappresenta un’entrata/chiusura verso la vastità del cosmo. È ciò attraverso cui si può scorgere il “sublime”: la doppia, strana e simultanea sensazione di insignificanza quando si riconosce la vastità della natura unita alla consapevolezza di essere noi stessi ancora parte dell’universo. Questi suoi soggetti prendono parte solo in termini “ufficiali” a questo mondo, il quale chiede insistentemente il rispetto di determinate regole, come un ordine di sfratto.

È ciò che caratterizza anche l’inevitabile parallelismo tra “Il geografo” di Vermeer (1668-1669) conservato a Francoforte, e “The anthropologist” (1997) di Hunter. Per quanto concerne la prima opera, ciò che ha colpito particolarmente gli studiosi è l’insolita figura maschile come soggetto, contrariamente alla preferenza femminile del pittore. Infatti, le uniche figure maschili che si incontrano nelle sue produzioni, quando presenti, sono sempre figure di contorno: musicisti, pretendenti, pittori. La luce è nuovamente la protagonista del quadro, la quale incornicia lo sguardo concentrato e le carte di studio.

Dal suo canto, Tom Hunter ha riproposto la scena, adattandola all’uomo moderno che, grazie all’uso di computer e dei social network, entra in contatto con altri uomini, alienandosi così in un profilo virtuale. È con sottile ironia allora che Hunter intitola la fotografia “l’antropologo”, lasciando però che il soggetto spinga lo sguardo oltre la finestra, che ancora una volta si impone come sottile confine tra uomo e natura, oltre a render consapevole l’antropologo – simbolo dell’uomo moderno – della presenza reale, e non solo virtuale, degli uomini.

 

 

Note

[1] La miglior fotografia del fotografo Tom Hunter, The Guardian, 4 nov. 2009.

[2] Le Garzantine, Arte, ed.2002, p.1270.

 

 

 

MARIKA SACCHETTI

Sono una studentessa del corso di laurea magistrale in Psychology, Neuroscience and Human Sciences presso Università di Pavia. Sono inoltre una studentessa dell’Almo Collegio Borromeo e Istituto di Studi Superiore di Pavia. Ho conseguito la laurea triennale in Psicologia nello stesso ateneo pavese. Amante dell’arte e della cultura, per sempre innamorata del mio lungomare riminese.

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