A cura di Marco Bussoli
Venafro città di frontiera
La città di Venafro è tra le più importanti in Molise e questa sua importanza non è mai venuta meno nei secoli, soprattutto grazie alla posizione strategica che ricopre, sia osservandola come città di frontiera tra regioni ed aree diverse, sia per la sua posizione ai piedi del monte Santa Croce, che le permette di dominare la grande vallata che si sviluppa a confine tra Molise e Campania.
Le origini di questo centro si perdono nel tempo, lasciando una serie di segnali. Venafro fu sicuramente una città sannita, i cui resti archeologici sono numerosi, e venne conquistata da Roma nel 290 a.C. durante le guerre sannitiche. In epoca romana Venafrum vive un periodo particolarmente florido, testimoniato dalla presenza di numerose strutture, come l’Anfiteatro Verlascio. La città è inoltre più volte citata da importanti autori romani come Ovidio, che ne parla come di un luogo di villeggiatura, Plinio il Vecchio e Marziale, che decantano la bontà del suo olio.
Conquistata dai Longobardi e divenuta diocesi nel V sec., il centro diventa parte del Regno di Napoli, non smettendo mai di ricoprire il suo ruolo di città cardine né sotto la dominazione francese né sotto quella aragonese.
Castello Pandone di Venafro: un’architettura stratificata
Il nome di questo edificio, che domina il paese e la vallata dall’alto, resta quello della famiglia Pandone, sebbene esso sia stato di loro proprietà per meno di un secolo: il castello infatti passò più volte in mano a soggetti diversi, che ne modificarono la struttura.
Originariamente una torre, forse una struttura megalitica sannita, ancora visibile alla base, questa struttura fu modificata durante la dominazione longobarda, tramite un intervento di fortificazione effettuato nel corso del X secolo, e rovinosamente attaccata dalle truppe normanne di Ruggero d’Altavilla. A seguito del forte terremoto del 1349 gli Angiò decidono di costruire tre torri e poi di far scavare un fossato, per difendere ulteriormente il presidio.
Si arriva così al 1443, anno in cui, sotto gli Aragonesi, il castello passò nelle mani del conte Francesco Pandone, venendo quindi a configurarsi, in questo momento della sua evoluzione, sempre più come una costruzione a carattere castellare: venne ampliato il fossato e si decise inoltre di costruire anche una merlatura. Fu con il nipote del conte Francesco, Enrico Pandone, che l’edificio venne trasformato in dimora signorile, con la sistemazione della struttura esterna e con la costruzione di una loggia, internamente affrescata.
Dopo la cessione del Castello alla famiglia vicereale Lannoy (1528), e dopo le altre cessioni avvenute nei secoli, il castello non ha subito grandi modifiche strutturali, se non nell’apparato decorativo interno, più volte manomesso.
Enrico Pandone allevatore di cavalli
Ad inizio ‘500 la figura dell’uomo di potere stava cambiando radicalmente: da cavaliere, il signore si stava trasformando in gentiluomo, cortigiano, formato secondo una cultura umanistica completa. Certamente questo passaggio non fu immediato, ma se ne possono ravvisare alcuni elementi. Enrico Pandone, divenuto conte al compimento della maggiore età, essendo morto suo padre quando era bambino, avviò subito i lavori di ammodernamento del castello. Lavori conclusi nel 1521, anno in cui vennero intraprese le campagne di decorazione degli ambienti interni che avevano come scopo la trasformazione del castello in dimora signorile per ospitare dignitosamente potenti e persone di cultura.
Come molti nobili italiani in quel periodo, il conte possedeva molti cavalli, di una particolare razza sannita da lui attentamente selezionata, che vendeva e donava a illustri personalità provenienti da tutta Europa, tra le quali si ricordano Carlo V d’Aragona, re di Napoli e poi imperatore. Nel XVI sec. il cavallo sembrava essere riflesso diretto del suo cavaliere, espressione dello status symbol del nobile che lo possedeva e quindi segno della sua grandezza. Se il nome di Enrico Pandone non evoca nei più alcun ricordo, sicuramente questo non accade per il duca di Mantova Francesco II Gonzaga (1484-1519), che dall’allevamento dei cavalli ha costruito la fama della sua casata, seguendo la traccia lasciata da suo padre, garantendosi amicizie in tutti i grandi regni del suo tempo.
Il cavallo quindi, divenuto animale nobile e nobilitante, divenne un importante mezzo sociale e politico spesso all’interno di trattative diplomatiche; infatti, se il possesso di un nobile destriero può accrescere il valore del suo cavaliere, questo si può anche riflettere sul nome dell’intera casata nobiliare, determinando dei meccanismi di potere non indifferenti. Questo animale permise dunque al conte di Venafro di stabilire dei forti legami con numerosi uomini della corte aragonese, sia donando cavalli al re e ad altri illustri personaggi della corte napoletana, sia vendendo cavalli a nobili quali il duca di Calabria.
I cavalli di Castello Pandone
Una volta compresa l’importanza del cavallo nel ‘500, risulta più semplice anche comprendere come tra la fine del XV ed il XVII sec. si fosse sviluppata una forte attenzione per questo ambito anche dal punto di vista artistico – letterario: a questo periodo risalgono infatti numerosi trattati sull’allevamento dei cavalli e sull’equitazione e l’animale diviene protagonista di molte raffigurazioni artistiche in cui è protagonista. In questa tradizione si inserisce ad esempio il Salone dei Cavalli di Palazzo Te a Mantova, voluto dal duca di Mantova Federico II, dipinto da Giulio Romano tra il 1525 e il 1527. Va a svilupparsi, così, un filone in cui i cavalli vengono ritratti in quanto tali, per quello che sono, non più come schizzi e bozzetti di carattere anatomico funzionali ad altre rappresentazioni.
Enrico Pandone immaginava di affrescare tutte le stanze del suo castello con un ritratto dei suoi cavalli, in tenuta da guerra per lo più, e lo fece pensando di realizzare una sorta di ciclo di “cavalli illustri”. Gli affreschi si sviluppano in tutte le stanze del piano nobile, ritraendo gli equini in quiete, come poggiati su una sorta di mensola. Tutto il ciclo pittorico è oggi molto rovinato e frammentato, in parte a causa dell’interruzione della sua realizzazione nel 1527, in parte a causa delle nuove decorazioni che i Lannoy vi sovrapposero una volta insediatisi nel castello. Ciò che però ci aiuta a comprendere la grandezza di questo programma è la presenza dei disegni preparatori e degli appunti delle maestranze lasciati sulle pareti, ancora visibili anche laddove non furono mai realizzati.
Il primo dei cavalli fu affrescato nel 1521, quando i lavori di sistemazione dell’edificio stavano per essere ultimati. Si conosce con esattezza la data di realizzazione di ognuno dei soggetti grazie al cartiglio che accompagna ogni ritratto, in cui vengono sempre indicati il nome e l’età del cavallo, “di quattro in cinque anni”, la data di realizzazione ed il compratore. Si prenda ad esempio il cartiglio per l’imperatore Carlo V:
LO LIARDO SAN GIORGE FAVORITO – CHE DE QUESTA TAGLIA RETRACTO DE NATURALE – DE QVATTRO IN CINQVE ANNI – ADI VII DE OCTOBRE MDXXI – MANDATO ALA MTA CESAREA MIO S DEL MESE DE OCTOBRE MDXXII
Non conoscendosi il nome del pittore che fu incaricato della realizzazione degli affreschi, alcuni elementi, come la minuzia nella realizzazione dei cavalli e delle bardature e la ricerca degli effetti prospettici, inducono a pensare che questi potesse essere un pittore napoletano di ambito spagnolo fiammingo, come Pedro de Aponte o Fernandez da Murcia. Di questi due artisti, operanti a Napoli nei primi due decenni del ‘500, il committente doveva sicuramente conoscere alcune opere, tra le tante almeno quelle presenti nella chiesa di San Domenico Maggiore, ove Galeazzo Pandone era sepolto.
La particolarità delle figure sta nella tecnica esecutiva scelta: l’affresco è infatti in rilievo, come in uno stiacciato, la tecnica per eseguire bassorilievi che permette di percepire forti profondità grazie a minime variazioni del rilievo. Lo strato di intonaco dipinto sporge in modo apprezzabile verso l’esterno, conferendo ulteriore tridimensionalità ai cavalli. Un riferimento che si può cogliere, soprattutto in relazione al tipo di tecnica utilizzata, è quello dei ritratti equestri, in bassorilievo, sulle porte napoletane del Carmine e Nolana.
Altro elemento fondamentale in questo ciclo di “equini illustri” è la disposizione scelta: sebbene il percorso che oggi è possibile fare sia diverso, originariamente il primo cavallo che si incontrava era quello più importante, quello dell’imperatore, per poi passare a quelli donati alle personalità vicine al sovrano e così via. Questa scelta ha fatto sì che questo cavallo non fosse affrescato nel salone principale del castello, ma in una sala minore, detta Sala dei Cavalli da guerra per gli equipaggiamenti di questi, che una volta era il punto di accesso al piano nobile del castello.
La fine di Enrico Pandone
Nel 1838 R. K. Craven, viaggiatore inglese, visitò il palazzo del quale riportò un’ampia descrizione nel suo libro Excursions in the Abruzzi and Northern Provinces of Naples (Viaggio negli Abruzzi e nelle province a nord del Regno di Napoli); grazie a questo testo sappiamo infatti che ad inizio ‘800 i cavalli affrescati nel castello, tutti descritti, erano più di quelli oggi visibili, e che furono quindi le trasformazioni successive a farci perdere le loro tracce. Si deve inoltre considerare che le trasformazioni successive del castello, seppur non estremamente invasive, hanno finito per mutilare molte delle figure dipinte.
Un aspetto curioso del resoconto di Richard Craven è l’attribuzione alla famiglia Caracciolo degli affreschi, quindi dei cavalli, ritenendo probabilmente che il castello fosse sempre stato di proprietà di questa famiglia. La storia di Enrico Pandone, invece, termina pochi anni dopo l’inizio della sistemazione del castello, nel 1528, quando il conte venne processato e condannato a morte dal re, dallo stesso Carlo V cui apparteneva il suo più valido stallone.
La rappresentazione degli equini nel castello lascia intuire un fortissimo legame con la corte napoletana, che difficilmente spiega il cambio di posizione del conte e la sua fine. Nell’aprile del 1527 l’ultimo cavallo veniva dipinto e poco dopo il conte e sua madre Ippolita esiliati per breve tempo in Francia; nella primavera del 1528, però, il conte affiancava le truppe del visconte di Lautrec in marcia contro Napoli, sancendo così la sua definitiva condanna, che venne scontata, al patibolo, il primo dicembre dello stesso anno.
Il Castello oggi
Oggi sede del Museo Nazionale di Castello Pandone, uno dei presidi del Polo Museale del Molise, il Castello di Venafro è diviso in due parti: il piano nobile, in cui è possibile ammirare le decorazioni affrescate di Enrico Pandone, ed il piano superiore, che ospita opere d’arte di vario genere, molisane e non: la Galleria ruota attorno al binomio centro-periferia, mettendo in luce, grazie alle opere in prestito dai depositi di altri musei, come il Museo di Capodimonte e la Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma, il rapporto tra l’arte sviluppatasi in Molise ed i suoi rapporti con l’arte dei grandi centri più vicini, come Roma e Napoli.
Bibliografia
Fratarcangeli (a cura di), dal cavallo alle scuderie – visioni iconografiche e architettoniche, atti del convegno internazionale di studi, 12 aprile 2013, Frascati – Museo Tuscolano Scuderie Aldobrandini, Roma, Campisano editore, 2014;
G. Morra, F. Valente, Il Castello di Venafro. Storia, Arte, Architettura, Campobasso, 2000
Sitografia
http://www.castellopandone.beniculturali.it/ (prima consultazione 20-08-2021)
https://www.musei.molise.beniculturali.it/musei?mid=214&nome=museo-nazionale-di-castello-pandone (prima consultazione 20-08-2021)
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